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mercoledì 9 giugno 2021

Turris Eburnea - S/t

#PER CHI AMA: Techno Death
Torre d'Avorio, che nome evocativo. Ecco il significato di Turris Eburnea, progetto italo americano che vede la collaborazione tra Gabriele Gramaglia (The Clearing Path, Summit) e Nicholas McMaster (Krallice tra gli altri). Due personaggi di un certo calibro da cui mi aspettavo un progetto assai particolare, e l'EP self titled lo dimostra immediatamente con un massacro sonoro all'insegna di un furente techno death avanguardistico. Lo dimostra subito la nevrotica "Unfied Fields", che potrebbe evocare un connubio tra Gorguts e Deathspell Omega, offrendo un marasma sonoro dissonante, cervellotico e funambolico con un sound sparato a mille, tra black, math, death e jazz e quanto di più ostico da digerire. I due musicisti alla fine ci investono con il loro malvagio costrutto sonoro che ci annichilisce non poco con quell'approccio nichilista ma comunque pregno di significato. Il tutto è confermato anche dalla successiva "Cotard Delusion", una song tecnica e sperimentale nelle sue pause ma feroce nelle sue impervie accelerazioni, complice una voce non proprio accessibilissima e pure una certa carenza in fatto di melodia. I nostri provano ad ammorbidirsi nella terza "Syncretism Incarnate", un pezzo strumentale che sottolinea la preparazione tecnica dei due musicisti e anche il loro intrinseco desiderio di disseminare il caos su questa Terra. La conclusione è affidata invece a "Malachite Mountains", l'ultimo irriverente atto di questo primo capitolo targato Turris Eburnea, gli ultimi cinque isterici minuti di una musica insana, ingovernabile ed imprevedibile, che lascia intravedere ottimi spiragli futuri. (Francesco Scarci)

(Everlasting Spew Records - 2021)
Voto: 69

https://turriseburnea.bandcamp.com/album/turris-eburnea

lunedì 17 maggio 2021

Turangalila - Cargo Cult

#PER CHI AMA: Noise/Post Rock/Math
Continuo a pensare che ci sia del sadomasochismo a dare certi nomi alle band. Avere un moniker complicato, per quanto attinga all'omonima sinfonia di Oliver Messiaen, di sicuro non mi aiuterà a ricordare questi Turangalila, quartetto barese che rientra appunto in un sempre più nutrito numero di ensemble davvero difficili da memorizzare. 'Cargo Cult' è poi un album di per sè ostico a cui approcciarsi per le sonorità in esso contenute: sette pezzi semistrumentali che si aprono col passo irrequieto di "Omicidio e Fuga", e quel suo riffing roboante (all'insegna del math rock) su cui si stagliano slanci apocalittici di un basso costantemente fuori dagli schemi, arzigogolii di chitarra che si incuneano nel cervello e fanno uscire pazzi e poi ecco, un break, che apre a splendide e psichedeliche partiture post rock. Deliziosi, non c'è da aggiungere altro, soprattutto quando il violino emerge dal sottofondo. E l'ipnotismo lisergico della band pugliese esplode ancor più forte in "Don't Mess With Me, Renato", una song in cui la carezzevole voce di Costantino Temerario mostra il proprio volto, mentre in background le chitarre si confondono con gli sperimentalismi creati dai synth, generando atmosfere surreali che mi hanno ricordato i vicentini Eterea Post Bong Band. Un arpeggio stroboscopico apre invece "Tone le Rec", un brano da utilizzare con grande cautela, il rischio di andare fuori di testa è davvero elevato, complice la ridondanza delle sue chitarre prima che un indemoniato basso a braccetto con synth e una chitarra delirante, prendano la testa del brano e come cavalli imbizzarriti, si lancino in un fuga ad alto tasso di pericolosità. Ci ho sentito un che dei Primus in queste note, ma anche l'inquietudine degli Swans, unita alla melmosità dei Neurosis. I Turangalila (non ricorderò mai questo nome) proseguono sulle suadenti note di "Liquidi e Spigoli", un post rock malinconico che dilagherà presto in fughe math rock con la voce che torna a sgomitare accanto alla schizofrenica ritmica dei quattro italici musicisti. Ma i nostri proseguono il loro trip all'insegna di sonorità sbilenche nell'atipica title track che evidenzia una certa perizia tecnica all'interno del collettivo, una ricerca costante di esplorare il proprio intimo con suoni cerebrali, a tratti anche eterei che mi hanno evocato un altro nome che adoro, ossia gli *Shels, per quella ricerca costante di saliscendi ritmici in seno alla band. Si fanno invece più cupi in "Cargo Cult Coda" che con una splendida sezione d'archi, mette una sorta di punto e accapo al precedente pezzo. In chiusura, ancora dieci minuti di entropia sonora creata nell'amalgama noise rock di "Die Anderen", l'ultimo atto dove trovano il modo di confluire suoni post metal, alternative e d'avanguardia sempre più interessanti che mi obbligano a suggerirvi di avvicinarvi al più presto ma con grande cautela a questi Turangalila. Maledetto nome, non mi ricorderò mai di te. (Francesco Scarci)

(Private Room Records - 2021)
Voto: 77

https://turangalila.bandcamp.com/

lunedì 12 aprile 2021

Kaschalot - Zenith

#PER CHI AMA: Math/Post Rock Strumentale
Quello degli estoni Kaschalot è un mini di quattro pezzi, che mi permette di saperne un po' di più del quartetto di Tallin, in giro dal 2014 e con un paio di EP (incluso il presente) ed un full length all'attivo. 'Zenith' ci dà modo di tastare il polso di questi giovani che propongono un math/post rock strumentale. Le sonorità pregne in dinamismo e melodia, si possono già apprezzare dall'apertura affidata a "Supernova" che irrompe con la sua carica esplosiva che va via via affievolendosi nel corso dell'ascolto, prima di ripartire con più slancio a metà brano e poi ritornare sui propri passi con sonorità più intimistiche che evidenziano alla fine un buon lavoro compositivo. Poi di nuovo, è tutto in discesa con ottime linee melodiche ed un finale a dir poco devastante. Di ben altra pasta invece la successiva "Mothership", ben più calibrata nel suo incedere math rock che palesa l'ottimo lavoro dietro alle pelli del batterista, gli squisiti, jazzati ed irregolari cambi di tempo che sottolineano una preparazione tecnica di una band davvero invidiabile, a cui manca però una sola cosa, una voce al microfono. Si davvero, sono convinto che avrebbe aiutato ad elevare ulteriormente le qualità di un platter multiforme, ben costruito e dotato di una certa vena creativa. Come il funk-rockeggiare iniziale del basso in "Beacons", che prima si prende la ribalta assoluta dei riflettori e poi li condivide con chitarra e batteria. Infine, largo ad una ritmica bella compatta, distorta quanto basta e dal finale alquanto serrato. "Distant Light" chiude in modo apparentemente più pacato l'EP, dico apparentemente perchè a fronte di un incipit controllato, i nostri si lanciano al solito in spirali musicali di grande intensità, interrotte da break più equilibrati, da cui ripartire con più irruenza. Alla fine quello dei Kaschalot è un buon dischetto, forse di scarsa durata (20 minuti) ma che permette comunque di godere appieno delle qualità di questi quattro fantastici musicisti. (Francesco Scarci)

(Atypeek Music/Stargazed Records - 2021)
Voto: 72

https://kaschalot.bandcamp.com/album/zenith

Mur - Truth

#PER CHI AMA: Post Black/Post Hardcore/Experimental
Recensiti proprio dal sottoscritto un paio d'anni fa in occasione del debut 'Brutalism', i parigini Mur tornano con un EP nuovo di zecca intitolato 'Truth'. Cinque brani, di cui una cover dei Talk Talk, per una mezz'ora abbondante di suoni che combinano post-black con il post-hardcore, ma non solo. L'eccelso stato di forma del sestetto francese è confermato dal roboante pezzo d'apertura, "Inner Hole", che ci stritola con suoni davvero corrosivi, che hanno il pregio di sfoderare un break elettronico che rompe quella furia primigenia, comunque pregna di melodia, che contraddistingue il brano. Un pezzo pervaso da un senso di impotenza e forte malinconia tipici del post-hardcore, proposti con l'irruenza di un black dai tratti sperimentali, ormai marchio di fabbrica delle produzioni Les Acteur de l'Ombre Productions. Il finale è a dir poco devastante, miscelando suoni estremi dai più svariati ambiti musicali, a confermare le ottime doti dei sei musicisti. Che i suoni non siano troppo scontati ce lo conferma anche la successiva "Suicide Summer" con la sua ritmica psicotica e irrefrenabile, un rullo compressore impazzito in grado di asfaltare ogni cosa si ponga sulla sua strada. Il black schizoide dei Mur trova la sua massina espressioni in balzani synth che coniugano estremismi black con il mathcore, scatenati suoni elettronici, screaming efferati, cavalcate poderose, break inaspettati e deflagrazioni caotiche altrettanto imprevedibili, quasi geniali. Al pari quasi dell'inizio di "Epiphany", che sfodera chitarre assai strambe, percussioni tribali, harsh vocals, suoni contaminati da un'alternative rock e altre sonorità più o meno stravaganti per una proposta di questo tipo, che comunque ha un suo filo logico che ci conduce alla cover "Such a Shame", un brano che francamente amo. Ecco, la riproposizione della song dei Talk Talk è quasi irriconoscibile, fatto salvo nel coro dove compare chiara l'ndimenticata melodia del brano. Altrove regna il caos sovrano, un caos calmo, un caos controllato, ma comunque un caos nell'accezione figurata della sua definizione, disordine o disorientamento tumultuoso, una confusione senza uguali, soprattutto laddove credo ci sia una sorta di assolo conclusivo controverso e delirante. In chiusura di 'Truth', ecco gli ultimi dieci minuti strumentali della title track. Intro affidato ad un lungo giro di synth che ci porta direttamente al krautrock teutonico degli anni '70. Break ambient di 90 secondi tra il terzo e il quarto minuto e poi una seconda parte assurda di sonorità synthwave, prog, sperimentali, che ci confermano quanto i Mur siano davvero pazzi, stralunati ma tremendamente fighi. (Francesco Scarci)

(LADLO Productions - 2021)
Voto: 80

https://ladlo.bandcamp.com/album/truth

mercoledì 17 marzo 2021

Iqonde - Kibeho

#PER CHI AMA: Math Rock/Post Metal strumentale
“Ma tu perché non ridi, non ti contorci dalle risate? Fammi vedere che sei felice!” Me lo chiedo anch’io perché non ci si possa perdere nel ridere ad oltranza, non ci si possa immergere nella tinozza del morso che scompone il viso ed ubriaca di quelle risate. Rivisito questa intro parlata per dare a “Ma’nene” una sonorità in parole altrettanto traboccante di ritmo, bassi, batteria, corpo e rettilinei svirgolati dal rock senza padroni. Iniziamo in questo modo 'Kibeho', album di debutto dei bolognesi Iqonde. Una song ribelle. E la ribellione continua con “Marabù”. Uno scettro di potere fa vibrare il metallo degli sgabelli di un bar di provincia, una sonorità propria di chi ammansisce il basso e manda in etere le corde dell’elettrica su ritmiche frenetiche. Esercizi di stile, di dita sulla tastiera. Volteggi tra i sensi. Corpi sospesi d’anima in un bondage di emozioni post e math rock. Circolare come un’ossessione l’epilogo del pezzo. Va poi on air “Edith Piaf”. Sono blindata nell’ascolto in un concerto privato. Immaginate una nicchia scavata nella roccia, la band in penombra. Ed ascoltate i suoni ridondare come un eco tra le pietre. Li si mescolano il sound, l’atmosfera, la musicalità tribale di questa traccia al contesto. Epilogo sotteso quasi silenzioso lo strisciare succinto delle dita sulle corde ferrose. Cambiamo vestito e contesto. È il turno di “Lebanshò”. Lentamente la musica sale in un tripudio strumentale che trova il suo apice al terzo minuto. Ferma la musica. Resto in attesa. Il silenzio traccia la sua strada della solitudine per tornare tra noi in una danza tribale rivestita da uno sfondo ricco di groove. Assai accattivante direi, ideale per le anime in dissidio tra il silenzio strumentale e la musica che fa muovere mente e carne. Passiamo a “Gross Ventre”. Avete mai sentito sulla pelle il brivido ed il fuoco contemporaneamente? Qualsiasi sia la vostra esperienza vibrante vi invito a farvi un giro su questa violentissima song. Terminiamo l’ascolto di questo album con “22:22”. Dissacrante in apparenza col suo prologo triviale estratto da 'Salò o le 120 giornate di sodoma', film del 1975 di Pasolini. Da me molto gradito! Le parole in musica che si propagano dalla cassa, dalle chitarre, dai silenzi intercalati sono pura convulsione sonora, ribellione ancora eppure accarezzano l’anima con un post metal impulsivo, il math rock e insana tribalità. La mia anima, gli Iqonde, l’hanno toccata e dipinta sicuramente. (Silvia Comencini)

giovedì 14 gennaio 2021

La Città Dolente - Sales People

#PER CHI AMA: Mathcore/Sludge/Hardcore, Converge
Esordio in pompa magna per La Città Dolente, che si presenta con un full length dinamitardo, dopo il primo EP del 2018 dal titolo 'Opportunist'. La band, d'istanza a Milano, composta da quattro elementi di cui tre che provenienti da altre realtà come Pescara, Londra e Roma, si espone con un sound ben calibrato, potente e dai toni naturali. Un combo assai affiatato che, al cospetto dell'universo mathcore, ci propone una manciata di brani ben assemblati e di sicuro impatto. Si gioca in casa di band storiche tra Botch, Converge e Coalesce anche se qualche ruvida sfumatura old school alla 'End of Days' dei Discharge, li fa sembrare più originali e meno omologati. Mi piace la loro ricetta sonora, perchè non è né troppo patinata, né troppo tecnica o troppo diretta, perfettamente sobria, equa, ruvida e riflessiva al tempo stesso, snodandosi in una commistione sonora in equilibrio tra i vari maestri del genere, senza pendere direttamente dalle loro note, evitando cosi il facile rischio di plagio. I nostri con 'Sales People' riescono cosi a ritagliarsi una dinamica personale che dopo pochi ascolti risulta di buon gradimento e di grande effetto, accompagnata da un'ugola potente e qualificata, che ne esalta la forza d'urto e ne caratterizza le composizioni, suonate in modo più che eccellente, calde, emozionali, che difficilmente soffrono di una ripetizione creativa. Quello che sta dentro alle canzoni, l'alienazione urbana descritta nei testi è un punto in più, anche se mi sarebbe piaciuto sentirle cantate in lingua madre (apprezzabile infatti il moniker della band), scelta che avrebbe ampliato la comprensione dei concetti al popolo italico amante della musica estrema. Comunque, brani come "Corrupt" e "Profiteering", risalgono la corrente e si posizionano ai vertici della mia personale classifica di gradimento, senza nulla togliere all'intero cofanetto, che è prodotto e confezionato egregiamente, compreso il bel lavoro svolto per l'artwork di copertina. Un bel disco dal sapore internazionale che ha i numeri per farsi notare anche extra confini nazionali, teso, rumoroso, carico di risentimenti e che sapientemente usa innesti sludge e metalcore, per creare chiaroscuri e ritmiche più contorte, interessanti e variegate. Mi è piaciuto anche scoprire, leggendo un'intervista rilasciata sul web, che la band ha come fonte d'ispirazione formazioni interessanti come Infall e Anna Sage, provenienti dall'underground tricolore e francese (dove la scena transalpina ha peraltro band interessanti), tenendo un profilo basso senza sparare nomi esaltanti e troppo costruiti. Questo modo di porsi, a mio avviso, rende La Città Dolente ancora più vicina alla realtà di una scena italiana che ha bisogno di essere riportata ai fasti e all'originalità genuina di un tempo. In conclusione 'Sales People' è un album da prendere seriamente in considerazione, un disco interessante, di qualità, che non deluderà gli ascoltatori, nemmeno quelli più esigenti. (Bob Stoner)

(Toten Schwan Records/Fresh Outbreak Records/Hidden Beauty Records/Mother Ship/Shove Records/Violence in the Veins - 2020)
Voto: 75

https://totenschwan.bandcamp.com/album/tsr-120-sales-people

sabato 2 gennaio 2021

Le Grand Sbam - Furvent

#PER CHI AMA: Avantgarde/Progressive/Jazz
Il nuovo album dei Le Grand Sbam è uno di quei prodotti che fanno meravigliare gli appassionati e i ricercatori di musica d'avanguardia con la A maiuscola. Un lavoro indefinibile, imprevedibile, variegato e variopinto di mille colori e umori, costellato di pura e ricercata follia compositiva. L'ottetto francese scolpisce liberamente, attorno agli scritti, l'orda del controvento e dal simbolismo dello Yi King (I Ching), del neurologo/saggista portoghese Antonio Damasio, un lungo e articolato concept musicale dalle contorte intuizioni musicali, ai confini della realtà. Basta dare uno sguardo ai video live proposti dalla band sul canale youtube per capire di che pasta è fatto l'ensemble transalpino, che unisce la teatralità intellettuale dei The Residents alla follia iconoclasta Zappiana, passando per il jazz, il prog e persino spunti di rumorismo e punk, tutto rigorosamente d'avanguardia. Il primo brano, "La Trace", è una suite di oltre 18 minuti che stende l'ascoltatore per la semplicità con cui il collettivo di Lione, riesce a cambiare volto alle musiche, chiaroscuri e altalene armoniche, tenute insieme da una continua ricerca vocale polifonica sbalorditiva, schizofrenica ed ipnotica, sana pazzia, che s'intrecciano e sovrastano per creare qualcosa che esaspera le teorie musicali dei Magma di 'Mekanïk Destruktïw Kommandöh' (1973), mentre la seguente "Nephèsh", si muove a suo agio sulle tracce delle intricate e geniali, fantasie vocali di Joan La Barbara e Meredith Monk. Proseguendo con l'ascolto, ci aspetta una sfilata di brani decisamente più corti, dal taglio jazzistico, inteso alla maniera dei Naked City (stile 'Grand Guignol') ma più dolce ed armonioso, con i giochi vocali messi in particolare evidenza. Ci si muove tra sussulti punk alla Nina Hagen ed esperimenti alla Shub Niggurath, ma il suono si espande per lirismo e profondità, tra Eskaton, e riferimenti alti, di scuola Edgar Varese ed il must Zappiano, 'The Yellow Shark', senza dimenticare che musicalmente il suono di questo collettivo rimane sempre teso, intricato, schizoide e raffinato al tempo stesso, quasi fosse un album dei Psyopus, suonato con marimba, xilofono, percussioni, batteria elettroacustica, mellotron, basso, moog, rhodes, cimbalom e quant'altro serva per creare un'isola felice, oserei dire felicissima, di suoni cari al rock in opposition. La musica contenuta in 'Furvent' è incredibilmente teatrale, avvolgente e liberatoria, rivolta ovviamente ad un pubblico preparato e amante dell'avanguardia radicale di ogni epoca, che si aspetta sempre qualcosa di sbalorditivo, per qualità ed esplosività della proposta musicale. "La Trace" alla fine è il mio brano preferito dell'esteso lotto sonoro, ma anche "Yi Yin I Ken (La Montagne)", con il suo potentissimo, inaspettato finale ritmico, è da pelle d'oca, come del resto tutto l'album, che poteva giungere al grande pubblico solo tramite i canali della specialissima e unica label Dur et Doux, autentico caleidoscopio di musica jazz d'avanguardia. Un disco senza tempo, un contesto sonoro indecifrabile, un album splendido per una delle migliori uscite del 2020. Un collettivo di musicisti fantastici per un disco adorabile! (Bob Stoner)

mercoledì 30 dicembre 2020

Grufus - Sabor Latino

#PER CHI AMA: Instrumental Alternative/Stoner, Tool
Niente tacos o fajitas ad attenderci in 'Sabor Latino', anche se il titolo poteva farci ben sperare. In realtà dalle prime battute veniamo investiti in pieno dalle schitarrate di “Trapanus”, che potrebbe tranquillamente sembrare un sequel di 'Fear Inoculum' dei Tool. Suono bello tagliente, groove serrati, tribali, coinvolgenti. Le sei-corde stendono riff titanici, fino ai limiti del noise. Gli episodi di pura violenza si evolvono in strutture mai banali, l’elemento sorpresa si scopre gioco-forza in questo disco. Dallo stoner vediamo addirittura approdare a ritmiche centro-americane in “Mezcal”. Connubio indubbiamente originale. Le idee sono tante, la full-immersion al Vacuum Studio di Bologna, è servita ai Grufus per metabolizzare al meglio i diversi background di provenienza. Si attinge un po’ ovunque: grunge, alternative fino ai ricorrenti respiri psych, come attimi di pausa fra una galoppata e l’altra, e che ritroviamo anche in chiusura dell’album. Sorprende notare come la mancanza di schemi non vada per niente ad inficiare l’ottima coesione che ritroviamo in questi 40 minuti strumentali. Nonostante gli spunti siano innumerevoli, il disco si ascolta tutto d’un fiato. Le abbondanti soluzioni ritmiche, ben congegnate e in costante evoluzione, insieme a qualche mirabolante acrobazia, non fanno per nulla rimpiangere la mancanza di una linea vocale. Al contrario, si ha la possibilità di cogliere maggiori dettagli, che altrimenti sfuggirebbero in secondo piano, mascherati per esempio dalle martellate di “Oipolloi”. Una menzione d’onore va fatta sicuramente per “Le Vacanze di Pippo”. Titolo strappalacrime, ma le sue progressioni strepitose, i pregevoli arrangiamenti e una linea di basso magistrale, vanno a confezionare un pezzone tritasassi. Non troveremo certamente novità particolari nelle sonorità di questa prima fatica in studio, pubblicata per la Grandine Records. Ma il gran senso delle dinamiche della formazione emiliana, unito alla disinvoltura con la quale propongono un caleidoscopio di cambi di tempo, lo rendono indubbiamente un esordio con gli attributi. 'Sabor Latino' diverte, non stanca e invita a riascoltare i Grufus più e più volte. (Emanuele 'Norum' Marchesoni)

domenica 27 settembre 2020

Solkyri - Mount Pleasant

#PER CHI AMA: Post Rock/Math
Quando si parla di Bird's Robe Records è inevitabile pensare immediatamente a qualche realtà australiana dedita ad una qualsiasi forma di post strumentale. Non mi sbaglio quando infilo il cd dei Solkyri nello stereo e mi ritrovo una band originaria di Sydney (ma questo l'avevo già letto nel flyer informativo) che propone appunto un post qualcosa senza avere un vocalist. Questo è quanto lascia trasparire la song in apertura di 'Mount Pleasant': "Holding Pattern" è infatti una miscela irrequieta di post e math rock, che lascia spazio a ritmiche sghembe nella prima parte e si concentra in suoni più intimisti nella seconda. "Potemkin" inizia graffiante tra ritmiche infingarde e stop'n go, in un rutilante incedere non proprio cosi armonioso e melodico come mi aspettavo. Sono alquanto ostici questi quattro ragazzi della East Coast, sebbene abbia l'impressione che loro si rendano conto di poter tirare fino ad un certo punto la propria proposta ma poi essere costretti a dover mollare, dando più spazio ad un sound melodico e pulito che qui si mantiene però criptico e nervoso. "Pendock & Progress" sembra più shoegaze oriented (solo nella prima metà però), un tema quello della malinconia, che tornerà anche nelle successive "Meet Me in the Meadow" e "Time Away". La musica dei nostri è sicuramente piacevole e chi apprezza questo genere di sonorità non dovrà certo lasciarsi scappare questo lavoro che per lo meno mostra meno prevedibilità rispetto a tanti altri dischi analoghi. Quello che lamento ovviamente io, Don Chisciotte del 2020 che lotta contro i mulini a vento, è forse che un elemento fondamentale come la voce non dovrebbe mai mancare, in quanto caratterizzante la proposta di una band, in male o in bene sia chiaro, ma a volte bisogna prendersi certi rischi. Però, che volete che vi dica, io mi infilo le cuffie, inizio ad ascoltare, ma dopo un po' mi subentra comunque una grande noia, per cui devo interrompere e pensare di riascoltare in un altro momento. Mi è capitato anche qui lo devo ammettere, sebbene i buoni pezzi non manchino. Penso alla già citata "Meet Me in the Meadow", emblema proprio shoegasiano, o ancora alla spettacolare "Summer Sun", il mio pezzo preferito: inizio tiepido quasi si trattasse di una melodia da tramonto di fine estate. Poi la traccia evolve, acquisisce dinamicità, potenza, verve forte di quei riverberi spettacolari di chitarra e pulsioni tooliane che la rendono decisamente diversa dalle altre e anche più abbordabile ed interessante. In chiusura, un altro pezzo degno di nota, "Gueules Cassées", una cavalcata roboante di poco più di sette minuti che avrebbe certamente meritato un vocalist a piazzarci quattro urlacci in mezzo per avvalorarne ulteriormente la qualità. Insomma, della serie chi si accontenta gode. (Francesco Scarci)

(Bird’s Robe Records/Dunk!records/A Thousand Arms - 2020 )
Voto: 72

https://solkyri.bandcamp.com/album/mount-pleasant

sabato 27 giugno 2020

Seims - 3 + 3.1

#PER CHI AMA: Math/Post Rock/Avantgarde
Quello dei Seims è il tipico lavoro di casa Bird's Robe Records, un'etichetta che seguiamo ed apprezziamo da anni qui nel Pozzo dei Dannati. E cosi, un po' come tutte le band della label australiana, anche la compagine di Sydney propone un sound (semi)strumentale, all'insegna di un ibrido sperimentale tra post rock e math. Peraltro, come il titolo suggerisce, '3 + 3.1' include l'album '3' uscito nel 2017 e l'appendice successiva, '3.1' appunto, rilasciata lo scorso anno, qui ora raccolte in un'unica release. Sette pezzi quindi da ascoltare, cominciando dall'opener "Cyan", una song che inizia a fare chiarezza sul concept relativo ai colori e alla scelta ora più sensata dell'artwork di copertina. Una traccia che parte come avvolta in un nero velo che sembra lentamente in grado di dischiudere colori via via più brillanti, muovendosi da un post rock chiuso e riflessivo verso lidi western (splendide le trombe e gli archi a tal proposito) e poi sul finale, follemente più math rock oriented, con un risultato piacevole e originale, che non manca di robustezza e divagazioni electro jazz avanguardiste. Il secondo colore è "Magenta", e sfavillante quanto la sua tonalità, anche il brano sembra lanciarsi in sonorità dirompenti, che tuttavia non raggiungono la medesima qualità emozionale dell'opener, ma palesano piuttosto una difficoltà nella costruzione di un'architettura sonora altrettanto convincente. "Yellow", il giallo, è la terza tappa nel mondo dei colori dei Seims, e anche qui la proposta del quartetto capitanato da Simeon Bartholomew (supportato da una marea di ospiti) sembra trovare qualche difficoltà in termini di fluidità sonora, sebbene i nostri vaghino in stralunati ed asfissianti mondi noise, math, prog, psichedelicamente ondivaghi come il suono delle chitarre qui contenute. Il pezzo dura oltre 12 minuti e vi garantisco che non è cosi semplice da affrontare senza rischiare la follia mentale (soprattutto nella seconda parte), complice anche l'utilizzo di vocalizzi che sembrano provenire da un gruppo di amici completamente ubriachi ed un finale affidato ad un ambient etereo che stravolge completamente quanto ascoltato fino ad ora. L'unione dei primi tre colori genera il nero imperfetto che dà il nome alla quarta "Imperfect Black", ove ad evidenziarsi è la voce femminile di Louise Nutting su di una linea melodica completamente dissonante che ci conduce ad "Absolute Black", primo pezzo di '3.1' che mostra nuovamente quella verve splendente che avevo apprezzato nella traccia d'apertura e che anche qui risuona in un'ingovernabile struttura matematica davvero imprevedibile soprattutto quando imbeccata da viola, violoncello, tromba e trombone che rendono il tutto decisamente più godibile. Fiati ed archi non mancano nemmeno in "Translucence" (che dovrebbe essere la trasparenza), un pezzo che fatica un pochino a decollare ma che nella sua seconda metà mette in mostra comunque qualche ulteriore buona cosa dell'act australiano. A chiudere il disco ci pensa la roboante e melodica "Clarity", il brano probabilmente più immediato del cd e più semplice se si vuole avvicinarsi alla band. La melodia è davvero coinvolgente e funge da colonna sonora al video estratto dal disco, una sorta di mini documentario sull'esperienza della band in tour in Giappone che ci racconta qualcosina in più di questi meritevoli Seims. (Francesco Scarci)

(Bird's Robe Records - 2020)
Voto: 74

https://store.seims.net/album/3-31

sabato 30 maggio 2020

Quietus - Chaos is Order Yet Undeciphered

#PER CHI AMA: Post-hardcore/Math-rock/Screamo
La Francia è ormai la vera fucina della musica estrema europea, con buona pace degli antichi pregiudizi: oltre alle certezze rappresentate da Blut Aus Nord, Celeste, Gojira, Deathspell Omega e Alcest, la scena d’Oltralpe continua ad offrire al pubblico novità interessanti come le stravaganze sonore di Ni e Igorrr. Anche il comparto hardcore transalpino non manca mai di confermare la sua vitalità, ed è proprio in questo filone che dal 2017 sguazzano i Quietus, gruppo in realtà molto attento a non fornire punti di riferimento ben precisi e votato alla contaminazione di stili. In 'Chaos is Order Yet Undeciphered' possiamo apprezzare il concentrato di screamo, mathcore e sonorità post-un po’ di tutto di questi quattro ragazzi di Charleville-Mézières, un miscuglio che a parole potrebbe far sorgere qualche perplessità, tuttavia il titolo scelto per l’opera ben rappresenta il suo contenuto. “Modern Rome” ci presenta un tripudio di ritmiche nervose, tempi storti e distorsioni ombrose a cavallo tra i primi Celeste e i Botch, il tutto però ben bilanciato da quegli intermezzi malinconici che è possibile riscontrare in band come i Touché Amoré. Ciò che propongono i Quietus è infatti un caos organizzato, dove ogni destrutturazione e ogni brusco cambio di tempo o dinamica contribuisce a dipingere un quadro dalle tinte estremamente fosche che fa da sfondo ai testi incentrati sulla critica dei costumi moderni e la decadenza morale. Le trame convulse di pezzi come “Jonny Crevé” e “Intrication Quantique” non a caso evocano immagini di claustrofobici paesaggi urbani e un senso di alienazione, con le sezioni più melodiche ed introspettive strategicamente posizionate in modo da offrire una via di fuga dall’incubo e spunti di riflessione sui nostri stili di vita asfissianti. 'Chaos is Order Yet Undeciphered' risulta tagliente e diretto come solo un album screamo può esserlo, e, malgrado si avverta una certa ripetitività di soluzioni, scorre fluido dall’inizio alla fine coinvolgendo l’ascoltatore nei suoi labirinti sonori. Stiamo parlando di un disco di esordio e le potenzialità per emergere in patria e all’estero ci sono tutte. Quietus, avanti così. (Shadowsofthesun)

(Urgence Disk/Wrong Hole Records/La Plaque Tournante/Itawak/I Dischi Del Minollo/Sleepy Dog Records - 2020)
Voto: 72

https://quietus.bandcamp.com/

domenica 17 maggio 2020

Jake Howsam Lowe - Oh Earth

#PER CHI AMA: Math/Djent strumentale
Dura ahimè solo una quindicina di minuti l'EP dell'australiano Jake Howsam Lowe, chitarrista dei The Helix Nebula e live-session dei Plini. Il musicista di Sydney è un funambolo della chitarra e la title track di questo 'Oh Earth', posta in apertura, me lo conferma, soprattutto perchè per una volta tanto riesco a concentrarmi molto di più sulla musica che sull'assenza di un vocalist. E quindi mi lascio trasportare dai giochi matematici diretti dalla magica chitarra di Jake che si lancia anche in furiose ritmiche che guardiano sia a Between the Buried and Me che ai Fallujah. Il gioco prosegue anche nella seconda brevissima "Breath", in cui il mastermind incanala tutta la sua energia in un caleidoscopico e ubriacante lavoro ritmico, lanciato davvero a tutta velocità, non una velocità fine a se stessa, nemmeno uno sterile esercizio di stile, ma con un tentativo volto a trasmettere delle emozioni attraverso un flusso quasi isterico di note che trova pace nella quiete solitaria del basso fluttuante (opera del jazzista australiano Callum Eggins) di "Another World". Una pausa per tornare più roboanti e isterici che mai in "Caverns", dove fa la sua comparsa un altro ospite alla chitarra, Stephen Taranto dei The Helix Nebula. E allora immaginate quanto ascoltato sinora sia sdoppiato in un duplice gioco di chitarre, una sorta di guardia e ladri tra due eroi dell'ascia, tra salite e ripide discese che sfociano nell'ultima "Refuge". Qui la terza e la quarta ospitata, carramba, con I Built The Sky
 responsabile del primo assolo e Jake Willson del secondo inebriante solo che chiude con eleganza un lavoro che funge da invitante antipasto per una release più lunga e strutturata. (Francesco Scarci)

domenica 3 maggio 2020

Yaldabaoth - That Which Whets the Saccharine Palate

#PER CHI AMA: Grind/Experimental Black, Anaal Nathrakh
Quanto meno originale l'idea di far uscire il debut album di questa fantomatica band originaria dell'Alaska, il 29 febbraio 2020. Che gli Yaldabaoth siano peculiari, lo si deduce anche dal titolo culinario del lavoro, 'That Which Whets the Saccharine Palate', che nasconde in realtà un sound estremo e malato. Sei le tracce a disposizione dei nostri (anche se in realtà parrebbe trattarsi di una one-man-band) che irrompono con la delicata furia distruttiva di "Fecund Godhead Deconstruction". Mi rendo conto si tratti di un ossimoro, ma l'incipit cosi melodico viene spazzato via da un sound insano che va lentamente crescendo in schizofrenia e malvagità con linee di chitarra tracciate oltre la velocità del suono in modo dissonante, in quella che sembra essere una grandinata di suoni che annunciano la fine del mondo, in una tripudio di grind, black, noise e mathcore fuori di testa. Spero non vi spaventino queste mie parole, io l'ho trovato uno sprono ad andare avanti nell'ascolto curioso di questo lavoro, per capire come potrebbe evolversi in futuro l'approcio cosi violento dell'act di Anchorage. Influenzati dalla veemenza degli Anaal Nathrakh, dalle deliranti visioni degli Aevangelist e dalla dissonanza sonica dei Deathspell Omega, mi rendo subito conto che l'unica cosa da fare è stare fermi e lasciarsi trapassare dalle frenetiche vibrazioni impartite da questi terroristi sonori. Nel vorticoso arrembaggio sonico della lunga "Megas Archon 365", ci sento anche un che degli sperimentalismi spericolati dei Blut Aus Nord, giusto per darvi qualche altro riferimento e per cercare di inquadrare al meglio la pericolosa proposta degli Yaldabaoth e del caos sonoro da loro perpetrato, che quasi mi intimorisce nel muovermi anche ai successivi pezzi. Ma sono un tipo scafato, il pelo sullo stomaco non mi manca, mi attrezzo di corazza ed elmetto e mi lancio all'ascolto di "Gomorrahan Grave of the Sodomite". L'inizio è come al solito ingannevole, tra spettrali melodie di chitarra acustica e voci malefiche sussurrate, poi come lecito aspettarsi, è sufficiente uno spostamento di una lettera e da acustica ci si ritrova a caustica, anche se la band qui cerca quanto meno di smorzare i toni accesissimi con qualche rallentamento d'effetto e di grande atmosfera e per di più, qualche partitura jazzata, ove sottolineerei l'eccellente lavoro al basso. Non ho mai parlato di melodia per questo lavoro, in mezzo a questo macello non è proprio semplicissimo trovarne, eppure esiste un filo melodico e invisibile che collega le tracce lungo l'intera release, rendendola per questo ancor più interessante e digeribile. La title track è forse il pezzo più complicato da affrontare, cosi infarcito di riff destrutturati che mi scombinano le sinapsi dei miei pochi neuroni rimasti. Ciò non solo dimostra una vena creativa ma anche una preparazione tecnica di tutto rispetto. A degna conclusione di quest'incubo ad occhi spalancati, ecco la sgroppata finale di "Mock Divine Fury", un otre di ritmiche sincopate, riff ipercinetici, vocals maledette e qualche buona atmosfera angosciante, che vanno a sancire la validità di un lavoro che certamente rimarrà destinato a pochi fortunati adepti al male. (Francesco Scarci)

(Lycaean Triune/Aesthetic Death - 2020)
Voto: 76

https://yldbth.bandcamp.com/album/that-which-whets-the-saccharine-palate

lunedì 24 febbraio 2020

The Glad Husbands - Safe Places

#PER CHI AMA: Math/Post Hardcore, Botch
Se l’abito non fa il monaco, il nome di un gruppo può trarre in inganno. Potevano essere i cugini italiani di qualche gruppo indie-folk del Midwest americano, invece i The Glad Husbands si rivelano l’ennesimo prodotto della rumorosissima fucina cuneense, già culla di tanti nomi importanti che imperversano nella scena noise, stoner e hardcore nostrana.

Il loro ultimo disco, 'Safe Places', non si discosta molto dalla proposta dei loro “vicini di casa” Cani Sciorri, Treehorn e Ruggine (tanto per citarne alcuni), se non per una maggior vocazione nel mischiare punk e math-rock a scapito della produzione in massa di riff pachidermici, come testimonia il sound meno ingolfato di basse frequenze, il risalto dato al cantato urlato di Alberto Cornero e le strutture complesse di questi nove tiratissimi pezzi.

“Out of the Storm” traccia subito la rotta: intrecci turbinosi di basso e chitarra si susseguono aggrappandosi al tempo imposto dalla batteria, andando a comporre una sorta di marcia per plotoni di soldati in preda ad un attacco isterico. Isterico come gli sviluppi di “Where Do Flies Go When They Die?” e “Spare Parts”, brani in chiave mathcore che potrebbero essere stati partoriti con l’intercessione spirituale dei Botch, e dove, pressati dai riff convulsi e le ritmiche serratissime, iniziamo a chiederci quali possano essere i “posti sicuri” citati nel titolo dell’album. Forse in “Things That Made Sense” e “The Jar”, pezzi la cui struttura più varia ci concede qualche attimo di decompressione prima di rituffarci nei vortici sonori.

Finita qui? Macché: “Midas” scompagina tutto con la sua anima agrodolce, fatta di strofe nervose in procinto di esplodere, ma l’irruenza di “Cowards in a Row” e la travolgente “Meant to Prevail”, dove si possono cogliere riferimenti ai primi Mastodon, ci riportano nell’occhio del ciclone. La nostra corsa forsennata si conclude con “Like Animals”, dopo circa quaranta minuti di sconvolgimenti strumentali, ritmici ed emotivi.

I The Glad Husbands ci regalano una prova decisamente convincente e di personalità, riuscendo a risaltare in un mercato già bombardato di proposte e a farmi sperare di vederli al più presto trasmettere in sede live la carica mostrata su disco. Non male per il presunto gruppetto indie-folk del Midwest. (Shadowsofthesun)


(Antena Krzyku/Entes Anomicos/Longrail Records/Vollmer Industries/Atypeek Music/Tadca Records/Whosbrain Records/Scatti Vorticosi Records - 2019)
Voto: 75

https://the-glad-husbands.bandcamp.com/album/safe-places

lunedì 23 settembre 2019

Kora Winter - Bitter

#PER CHI AMA: Post-Hardcore/Math, Between the Buried and Me
Un paio d'anni fa, proprio in questo periodo, mi apprestavo a recensire 'Welk', secondo EP dei berlinesi Kora Winter. La band teutonica torna oggi con un lavoro nuovo di zecca, 'Bitter', il vero debutto su lunga distanza per i nostri cinque musicisti. Forti dell'esperienza maturata in tour con gente del calibro di Rolo Tomassi o The Hirsch Effeckt, la band ci offre otto isterici pezzi che proseguono con la proposta già ascoltata in passato, ossia all'insegna di un imprevedibile math/post-hardcore/screamo. "Stiche II" mette in mostra immediatamente tutto l'armamentario in mano ai nostri, con una dolce melodia su cui s'incagliano i vocalizzi psicotici (in lingua tedesca) del frontman; a dire il vero, il brano sembra più una intro che un pezzo vero e proprio, visto che è con "Deine Freunde (Kommen Alle in Die Hölle)" che emerge più forte la struttura canzone e con essa tutto il delirante approccio post-hardcore nelle partiture più ritmate e melodiche, che fanno da contraltare alla più ruvida e acida componente estrema della band, che sembra coniugare in poche ma efficaci accelerazioni post black, anche metalcore e mathcore, in un impasto sonoro davvero pericoloso quanto furente (ed efficace). I brani si susseguono in un altalenante mix di generi: con "Eifer" si parte in quinta, ma poi un chorus ed una linea di chitarra alquanto dissonante, ci conducono in territori stravaganti, quando, fermi tutti, la proposta dei Kora Winter, si sporca di influenze alternative, con tanto di voci pulite in una sorta di emo un po' ostico da digerire, almeno per il sottoscritto, che da li a pochi secondi, avranno comunque il tempo di abbracciare altri suoni che dire cattivi è dir poco. Ma niente paura, si cambia ancora registro con la spettrale title-track, che al suo interno sfodera sverniciate di violenza estrema, rallentamenti furiosi, aperture al limite dell'avanguardismo e di nuovo montagne di riff e rullanti infuocati, in un'altalena musicale ed emozionale spaventosa (che vede addirittura l'utilizzo di vocals evocative in stile Cradle of Filth). C'è di tutto qui dentro e se non si è abbastanza flessibili di testa, il rischio di switchare al nuovo album dei Tool, potrebbe rivelarsi assai elevato. Ancora suoni stravaganti con l'incipit di "Coriolis", in cui batteria e chitarra (e poi anche voci, in tutte le forme possibili) s'inseguono come in un gioco di guardia e ladri, in oltre otto minuti di frastagliatissime e funamboliche ritmiche che portano i nostri ad ammiccare un po' a destra e un po' a manca, e relegando alla seconda parte del brano, eleganti momenti post metal sulla scia dei connazionali e concittadini The Ocean. Prova convincente non c'è che dire, confermata anche dalla folle proposta di "Wasserbett", un pezzo che col metal, fatta eccezione per le pesanti chitarre, sembra aver poco a che fare. Scendono colate di malinconia, almeno a tratti, per la corrosiva "Das Was Dich Nicht Frisst", tra le song più tecniche dell'album, per questo ancor più complicata e sperimentale, soprattutto nella sua parte vocale. A chiudere quest'intrepida opera prima dei Kora Winter, ecco arrivare "Hagel", un'altra piccola perla che, se non avesse avuto il cantato in tedesco (per me il vero limite della band ad oggi), sarebbe stata ancor più convincente, visti i richiami anche ai Cynic e pure uno spettacolare assolo conclusivo. Per il momento accontentiamoci dell'incredibile portento sonoro offerto dai nostri, in attesa di altri sconvolgimenti futuri. (Francesco Scarci)

(Auf Ewig Winter - 2019)
Voto: 76

https://korawinter.bandcamp.com/album/bitter

domenica 15 settembre 2019

Vile Nothing - Pessimist

#PER CHI AMA: Crust/Hardcore
Un po' di insano punk-crust-hardcore proveniente dalla Svezia è quanto proposto oggi dai Vile Nothing e dal loro 'Pessimist'. Si tratta di un EP di quattro pezzi che irrompono con la ferocia molestia di "In Disgrace, With Fortune", un brano breve ma incisivo, costituito da chitarre sparate ai 200 km/h e da una batteria al limite del grind, per poi rallentare paurosamente sul finale con una tirata di freno a mano da cappottamento garantito. "Erased" prosegue con un'altra ritmica al fulmicotone su cui s'installano le vocals sbraitanti del frontman; da notare che come sul finire della traccia in apertura, cosi anche in questa seconda song, sono presente i classici bombastici tonfi del deathcore a contaminare ulteriormente la proposta dell'act di Stoccolma che con il proprio sound non fa altro che darci un sacco di schiaffoni. Vi basti ascoltare la ficcante proposta della terza "Dåren Är i Lådan" un pezzo di 67 secondi devoti ad un tremebondo mathcore. Il finale apocalittico è dispensato dalle note furenti di "Abhorrence", l'ultimo straripante ed iconoclasta inseguimento dei Vile Nothing. Paurosi. (Francesco Scarci)

mercoledì 21 agosto 2019

Atomic Witch - Void Curse

#PER CHI AMA: Hardcore/Math/Death
Dagli States è in arrivo una colata di hardcore schizoide con gli Atomic Witch e il loro EP di debutto, il qui presente 'Void Curse'. Il quintetto di Cleveland ci spara in faccia una manciata di pezzi (quattro per l'esattezza) dal mood alquanto incendiario. Si parte con la sbilenca "Severed Communion", in cui a farla da padrona sono le vocals urlate di Gorg, per poi passare alla più oscura title track, dove accanto a melodie alquanto dissonanti, la voce del frontman di dimena tra uno screaming arcigno e urlacci in stile power metal, in un'assurda cavalcata mathcore, fatta di ritmiche lanciate a tutta velocità su cui si stagliano i vocalizzi del buon Gorg, in un calderone che alla fine sembra inglobare anche thrash, black e death metal. Si continua con "Rude" con la medesima vena assassina, fatta di ritmiche secche e nevrotiche, qualche assolo old style e botte da orbi che ricordano un certo thrash metal di fine anni '80 evocante un che dei Sepultura di 'Schizophrenia'. Si chiude con le furenti mazzate di "Funeral Rust" ed un chorus che sembra avvicinarsi ad una versione più isterica dei primi Testament. 'Void Curse' è un lavoro particolare a cui forse dare una chance. (Francesco Scarci)

lunedì 1 luglio 2019

Tense Up! - S/t

#PER CHI AMA: Math Rock, Fantomas
Premesso che ho quasi sfasciato il cd per estrarlo dalla custodia (e questo anche il motivo perchè cui ci abbia impiegato un bel po' a recensire il dischetto), vi racconto un po' dell'EP omonimo dei Tense Up! Dall'area di Reggio Emilia, ecco arrivare un duo con le idee chiare e brillanti, che ha catturato le attenzioni della Dischi Bervisti cosi come pure la mia. Vincenzo e Luca s'incontrano, o forse meglio dire, collidono, dando alla luce questo lavoro di soli sei pezzi dove s'incrociano math rock, psych, punk e surf rock & roll, il tutto a creare una cavalcata tirata, dall'inizio alla fine, da "Mr: Memory" a "Private Traps", in un roboante e arrogante incedere di chitarre grezze, su cui si installano come uniche voci, estratti di film noir anni '60, spoken words, urla e addirittura versi di animali. Poi è un flusso di suoni angoscianti e tormentanti che si muovono su ritmiche inusuali, schizoidi ("Carrusel") e alternative, suonando a tratti davvero dissonante, e per questo, davvero avvincente. E allora, sebbene non mi ritenga un fan del genere, devo ammettere di essere rimasto ammaliato non poco dalla proposta dei due folli musicisti emiliani, la cui creatività risiedeva già nel proporre un artwork di copertina con la protagonista de 'La Donna che Visse Due Volte', ossia quella Madeleine, scelta da Hitchcock e interpretata da Kim Novak. E allora non vi rimane altro che farvi investire dai dialoghi (in inglese ma anche in italiano) inclusi nell'album che raccontano un po' di più della stravagante proposta di questi amanti del cinema, ma anche di una musica che nella sua riverberante e aberrante stravaganza, ho trovato davvero originale. Se siete degli amanti dell'imprevedibilità di casa Mike Patton, e cercate qualcosa che per una ventina di minuti sia in grado di catalizzare la vostra attenzione, beh i Tense Up! faranno sicuramente al caso vostro. (Francesco Scarci)

(Dischi Bervisti - 2019)
Voto: 74

https://www.facebook.com/tenseupband/

giovedì 23 maggio 2019

Malclango - S/t

#PER CHI AMA: Math Rock strumentale, Primus
“Due bassi e una batteria per denudare il math-rock fino a lasciarlo in mutande”. Questo il manifesto dell’anonimo trio strumentale romano (dal vivo, i Malclango indossano scimmie da gorilla e, a quanto sembra, nessuno sa davvero i loro nomi), che sforna un disco essenziale nei suoni ma molto intelligente dal punto di vista compositivo. Essenziale, ma non minimale: scordatevi la forma-canzone, scordatevi ritornelli da fischiettare o melodie catchy. I due bassi si muovono eclettici tra distorsioni e pulizia, tra accordi e soli, note e riff; imponente anche il lavoro ritmico, sempre preciso e mai troppo autoreferenziale. A colorare il risultato finale, campionature assortite tra versi di scimmie, battimano, vento che soffia, spezzoni di notiziario. Si passa senza indugio dalla velocità dispari di “Nimbus” alle ritmiche tribali di “Petricore”, dalle dissonanze di “Ostro” alla malinconia deviata di “Anatomia di un battibecco”, dalla rabbiosa “GranBurrasca” alla saltellante “Sant’Elmo”. Ci vuole un attimo a trasformare tanta varietà e libertà compositiva in un prodotto freddo e studiato a tavolino. Ma non è il caso dei Malclango che, anzi, confezionano un vero disco rock: di un rock essenziale e primitivo (le tre scimmie nella tempesta, in copertina, la dicono lunga), che rompe le convenzioni e fluisce — non a caso: il tema dell’acqua e della pioggia è un leit-motiv trasversale a tutti i pezzi —, libero da strutture o ritmiche pari, libero da etichette di genere. È un lavoro che pesca contemporaneamente da Primus e Sonic Youth, Fluxus e jazz, primi Soul Coughing e dalla musica folk, destrutturando e ricomponendo tutto senza paura ma con molta, molta ironia.(Stefano Torregrossa)

(SubSound Records - 2017)
Voto: 74

mercoledì 15 maggio 2019

From Another Mother - ATATOA

#PER CHI AMA: Math Rock/Punk
Al giorno d’oggi l’offerta musicale è talmente ampia e ramificata che si fatica a tenere il passo delle nuove proposte: inutile dire che le produzioni di formazioni affermate provenienti da scene “storiche” catalizzano l’attenzione di pubblico e critica, forti della maggior visibilità guadagnata nel corso degli anni. Tutto questo ha un prezzo: molto promettente materiale di realtà dell’underground non riceve la meritata attenzione, così come il lavoro di artisti provenienti da scene ancora lontane dalla luce dei riflettori. Ho pensato a questo quando mi sono imbattuto in 'ATATOA', seconda fatica dei croati From Another Mother, eclettico terzetto in azione dal 2013 che promuove una sorta di fusione tra math rock cerebrale alla Dillinger Escape Plane, sfuriate punk-rock e passaggi più orecchiabili: una gran bella miscela che richiede non poca abilità per essere concepita e amalgamata. La ricetta concentrata in queste nove tracce è ricca di sfumature e sicuramente interessante (per quanto un po’ acerba), tuttavia le informazioni presenti in rete sulla band sono davvero scarse e risulta quindi difficile farsi un’idea su ciò che ha portato alla genesi dell’opera: lasciamo dunque parlare la loro musica. La prima traccia “May” ci fornisce subito una chiara indicazione di come si svilupperà l’album: partenza leggera e accattivante, caratterizzata dal cantato scanzonato e dalla chitarra pulita, che dopo meno di un minuto lascia bruscamente spazio ad un esplosivo ritmo serrato a supporto di un travolgente assolo di chitarra e voci urlate. Il repentino alternarsi di parti melodiche e riff furiosi sembra essere il marchio di fabbrica del gruppo e viene ripreso anche in “First Things First” e “Song Number 9”, dove possiamo apprezzare l’abilità dei tre musicisti nel destreggiarsi tra i cambi di tempo e le irrequiete dinamiche che costituiscono l’ossatura di 'ATATOA'. Decisamente più atmosferiche e sognanti sono invece “Supernova” e “Walnut”, brani che risaltano grazie alle forti influenze post-rock e che richiamano i britannici And So I Watch You From Afar, ma nemmeno in questi i From Another Mother lesinano nello spingere sull’acceleratore, lanciandosi in tumultuosi crescendo rumoristici quasi shoegaze. “I Will Atone” e Slightly Wrong” si distinguono invece per le divagazioni jazzy e gli elaborati giri di basso, mentre in coda troviamo “Keep Your Head” e “Baited”, i brani più diretti e pesanti del mazzo, i quali meglio esprimono l’anima “heavy” della band senza per questo cadere nel banale. 'ATATOA' è un album che incanala l’entusiasmo del gruppo e trasmette per tutta la sua durata emozioni estremamente positive, riuscendo a coinvolgere l’ascoltatore e rendendo l’ascolto piacevole e leggero, malgrado i repentini cambi di tempo e le nervose strutture delle canzoni. Se da un lato la tecnica nell’esecuzione e la ricercatezza degli arrangiamenti non sono in discussione, va detto però che i pezzi, per quanto validi, si sviluppano in modo troppo eterogeneo, suscitando spesso la sensazione di ascoltare la registrazione di una divertente jam session. Nel complesso il lavoro sembra mancare di un’idea di insieme e fatica a trasmettere un concetto unitario, disperdendo molte ottime idee in un’impetuosa ricerca di varietà stilistica. I From Another Mother giocano tutte le loro carte sulla creatività sregolata, dando liberamente sfogo ad ogni idea e confezionando un disco energico e diretto; la band, invece di puntare con decisione verso percorsi più ambiziosi per valorizzare il proprio notevole bagaglio tecnico, sembra volersi accostare più ai rassicuranti filoni punk e alternative rock, ma per una giovane realtà dell’est europeo, ancora alla ricerca di un posto al sole, probabilmente va bene così. (Shadowofthesun)

(Kapitan Platte - 2019)