Cerca nel blog

Visualizzazione post con etichetta Aesthetic Death. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Aesthetic Death. Mostra tutti i post

venerdì 16 febbraio 2024

Esoteric - Epistemological Despondency

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Funeral Doom
Sono passati 30 anni, ben tre decadi dall'uscita di questo memorabile lavoro che risponde al nome di 'Epistemological Despondency', atto primo dei britannici Esoteric. Era peraltro sempre la Aesthetic Death a far uscire una release che torna oggi in digipack, edizione limitata e rimasterizzata, un evento che celebra la storica uscita di un doppio cd che probabilmente ha fatto la storia in ambito funeral doom e, al contempo, inaugura la Vynil Series dell'etichetta inglese. E allora che dire di nuovo di un disco che già il fatto che duri ben 88 minuti per sei brani, rappresenta già il manifesto programmatico della band originaria di Birmingham. Ah Birmingham, quante ne hai viste, dai Judas Priest ai Napalm Death, passando per i Black Sabbath, fino ad arrivare agli Esoteric appunto. Esoteric che con questo lavoro pongono una pietra miliare di un genere, cosi come avevano fatto i loro illustri concittadini. E allora, se ancora non conoscete questo ambizioso e mastodontico album, non potete far altro che lasciarvi avvinghiare dalla morsa mortifera dell'allora sestetto (dotato di tre chitarristi) guidato da Greg Chandler. Vi accompagnerà già dall'introduttiva "Bereft" (20 minuti!!) in un viaggio nel profondo della vostra psiche, tra chitarre ultra ribassate, atmosfere super psichedeliche condite da voci che rimbalzano come l'eco contro le pareti, mentre le chitarre producono caleidoscopici e camaleontici riff. La musica vi entrerà cosi dentro, arrivando a toccarvi direttamente le budella, estraniandovi dal mondo che vi circonda. Vi renderete presto conto che questo sarà uno dei tanti effetti psicotropi in grado di generare questo disco, visto che la successiva "Only Hate (Baresark)" potrebbe sembrarvi semmai un tributo ai Napalm Death di 'Scum', visti i soli due minuti e 40 a disposizione, affidati a ritmiche incendiarie grind e vocalizzi animaleschi. Esperimento stravagante che serve forse a spezzare la monoliticità dell'opener prima di affidarvi ai 19 asfissianti minuti di "The Noise of Depression", una song che si affida nuovamente ad atmosfere iper dilatate, almeno per i primi cinque minuti, per poi sfociare in territori che potrebbero evocare un altro (capo)lavoro uscito un anno prima, 'Transcendence into the Peripheral' dei Disembowelment per poi sprofondare nuovamente in lugubri e pachidermiche atmosfere funeral. "Lamented Despondency" apre il secondo terzetto di brani con suoni peculiari in sottofondo, ma quando attaccano le cavernose vocals di Greg, vi renderete ben presto conto di essere stati catapultati in un altro incubo a occhi aperti. "Eradification (of Thorns)" suona più ruvida, forse perchè sembra mostrare un retaggio ancorato al death doom dei My Dying Bride degli esordi, con qualche ammiccatina anche ai Cathedral di 'Forest of Equilibrium', anche se le demoniache vocals del frontman sembrano distanziarci un po' dai due colossi inglesi. Chiusura affidata ai 26 minuti (si avete letto bene) di "Awaiting My Death", una maratona vera e propria, una song che da sola avrebbe potuto costituire un disco a sé stante, una traccia ancor più liquida delle precedenti tra partiture arpeggiate, un'effettistica ricercata, echi e riverberi ancor più forti, derivanti dalla psichedelia dei famigerati anni '70, che fanno forse ricadere la band nel funeral forse solo per le growling vocals. Non temete perchè l'ossessività del doom farà breccia nelle vostre anime ormai straziate anche nel resto della song, che vanta peraltro un fantastico assolo che chiude un super pezzone per un disco quasi unico nel suo genere, che merita di stare nella collezione di tutti gli appassionati di queste sonorità. (Francesco Scarci) 
 

domenica 11 febbraio 2024

Suffer Yourself - Axis of Tortures

#PER CHI AMA: Funeral/Doom
Quel che si suol dire un facile album da recensire... Si perchè qhuello degli svedesi (ma in realtà originari di Kiev) Suffer YourSelf, è un'angosciante proposta di un'ora tonda tonda di funeral death doom. 'Axis of Torture', quarta opera del quartetto, è un disco di quattro pezzi più intro e outro, quindi potrete immaginare come quella da affrontare sia in realtà una staffetta di quasi 15 minuti per ognuno dei pezzi inclusi, fatta di suoni soffocanti, annichilenti la mente e l'anima grazie a sonorità che, già dall'iniziale "Axis Insanity", ci stritolano nella morsa di un plumbeo funeral doom che vede alternarsi a violente schitarrate death, mentre la voce cavernosa del frontman, affronta altrettanto leggere tematiche legate alla sofferenza, al dolore e alla disperazione. Lo ribadisco, un disco facile facile, anche nell'ascolto. Ovviamente, continuo a essere ironico, però i Suffer Yourself (un nome, un programma) ci mostrano come oggi sia ancora possibile proporre funeral doom, senza scadere nel problema del "già ascoltato". Questo perchè i nostri sono abili costruttori di ossessive partiture al limite della tensione emotiva, a cui accostare quelle accelerazioni death che strizzano l'occhiolino indistintamente a Incantation o Disembowelment, mentre tutto il disco potrebbe rievocare i fasti funerei dei primissimi My Dying Bride. La differenza con questi ultimi sta però in una maggiore classe dei nostri che si declina in più raffinate partiture atmosferiche e in una maggiore cura dei suoni. La prima traccia (anzi la seconda per diritto di cronaca) quindi supera di sicuro la prova, lasciando il campo poi ai 17 minuti di "Axis Despair", che risulta essere ancor più asfissiante nel suo monolitico incedere che si dipana attraverso un incipit che sembra stringerci al collo, generando pensieri negativi e mortiferi, con quelle stridule chitarre in sottofondo, raddoppiate da un altro strato di suoni che non possono far altro che produrre incubi a livello subconscio. E pian piano, i nostri aumentano i giri del motore, mentre le voci si fanno più demoniache, il suono ancor più mastodontico tra un rifferama compatto e profondo, e una serie di assoli alla sei corde, a rendere il tutto più convincente e accattivante. Ma i Suffer Yourself non sono certo dei pivelli e la loro esperienza maturata attraverso 13 anni di vita e quattro album, nonchè il mastering di Greg Chandler (Esoteric, Lychgate), li consacra a essere una valida alternativa ai mostri sacri del genere, e penso a Evoken o My Shameful. E arriviamo ai dieci minuti e mezzo di "Axis Pain", che sembrano quasi una passeggiata rispetto alle due precedenti mostruose tracce, complice anche una maggior ricercatezza sonora, almeno nelle linee iniziali della song, prima di perdersi nei labirinti psicotici di un death metal poco affabile, direi sghembo e malato, che si saprà alternare a porzioni atmosferiche e melodiche per un risultato di sicuro valore. "Axis Time" si apre con il cantico del soprano Kateryna Osmuk che, non solo è responsabile delle backing vocals growl del disco e della batteria, ma ci delizia per alcuni secondi con la sua magnifica e raffinata ugola. Poi il canovaccio non muta poi di molto nel resto della traccia, se non per proporre qualche parte di tastiera più spettrale, cosi come stralunate linee di chitarra o eleganti arpeggi che confermano l'ottimo lavoro dei nostri. Ora spetta a voi armarvi di santa pazienza e affrontare questa indolente discesa verso gli abissi dei Suffer Yourself. (Francesco Scarci)

martedì 20 giugno 2023

Megalith Levitation - Obscure Fire

#PER CHI AMA: Stoner/Doom
Li avevo già recensiti un paio di volte e non mi avevano mai convinto. Chissà se questo nuovo ‘Obscure Fire’, nuova fatica dei russi Megalith Levitation, saprà questa volta colpirmi in positivo. Detto che il precedente split in compagnia dei Dekonstruktor non mi aveva fatto impazzire, questo nuovo lavoro, che consta di cinque tracce, prosegue su quella linea sottile tra stoner e doom, caratterizzato da un rifferama pesante, da atmosfere oscure e da una combinazione di voci litaniche e melodie dotate di una certa intensità. Quel liturgico cerimoniale che appariva nei precedenti album, si palesa anche nell’introduttiva title track, una lunga traccia surreale, psichedelica, sulla scia di mostri sacri quali Sleep e primi Cathedral. Il tutto giocato ovviamente su dilatazioni soniche, delay chitarristici, tonnellate di fuzz e la riproduzione fedele degli insegnamenti dei maestri Black Sabbath, questa volta con un esito più che convincente. Chiaro, la band non sta inventando nulla di nuovo, considerato poi che il disco è permeato da dettami che coprono cinquant’anni di musica e più. Le distorsive aperture di chitarra, la solidità della ritmica e il salmodiante cantato del frontman, iniziano a rappresentare il vero marchio di fabbrica dell’ensemble originario dei monti Urali, che mi colpisce favorevolmente con la seconda “Of Silence”, un pezzo che per quanto, ribadisco, non sia manifesto di originalità, mostra quel carisma che forse era mancato in precedenza ai nostri, attraverso oltre dieci minuti di suoni che scomodano anche paragoni con i My Dying Bride in più di una linea di chitarra, tanto da rendermi dubbioso sul fatto che se la band non decolla, forse il problema debba essere ricercato in una componente vocale forse fin troppo monolitica. Perchè poi per il resto, il terzetto sembra migliorare ulteriormente con il successivo trittico di pezzi che, dall’interlocutoria e funerea “Descending”, sino alla conclusiva, claustrofobica e quasi estenuante (per la sua ridondanza di fondo) “Of Eternal Doom”, passando dalle incursioni stoner-space rock di “Into the Dephts”, riescono in un sol boccone, a sciogliere i miei ultimi residui dubbi. Il terzetto russo è tornato e questa volta con un album più convincente che mai, pronto a sublimare in un multistratificato approccio psichedel-catartico. (Francesco Scarci)

martedì 23 maggio 2023

Mesmur - Chthonic

#PER CHI AMA: Funeral Doom
Il funeral è già un genere piuttosto complicato da digerire. Se a suoni catacombali e voci cavernose aggiungiamo poi delle dissonanze abbastanza allucinate, potrete immaginare come l'approccio a simili sonorità possa risultare alquanto ostico. È il caso del nuovo album dei Mesmur, una realtà internazionale (U.S., Italia e Australia) che conosciamo assai bene qui sulle pagine del Pozzo, che torna con il quarto capitolo della loro discografia, 'Chthonic'. Il lavoro dura 48 minuti e consta di sole cinque tracce. Se considerate che il preludio e la coda fanno sette minuti, sarà facile intuire quanto possano durare le altre tre, circa 41 minuti di suoni estenuanti, di cui la sola "Passage", ne occupa 19. Quello che subito balza all'orecchio, è una proposta che si conferma abbastanza ancorata al passato, con un death doom che ammicca palesemente agli esordi dei My Dying Bride e dei primissimi Anathema, ma anche ai mostri sacri del funeral, quali Esoteric e Skepticism. Quello che mi spiace tuttavia constatare è una certa staticità a livello di suoni, che non preludono a nulla fuori dall'ordinario almeno nelle due tracce "Refraction" e "Petroglyph", forse eccessivamente ortodosse nel loro approcco al genere; e per questo intendo le classiche chitarre abissali, le atmosfere lente, lugubri, asfissianti e claustrofobiche, con i tipici vocalizzi growl di Chris G a condire il tutto. Quello che regala un tocco di fascino all'album rimangono però le partiture tastieristiche a cura di Jeremy L che, insieme a qualche breve galoppata black, ne movimentano l'ascolto, conferendo quel pizzico di dinamicità ad un disco che forse alla lunga rischierebbe di annoiare. E la già citata "Passage", con la sua durata davvero al limite dello sfibrante, giunge in supporto regalandoci fraseggi atmosferici che alterano il ritmo fin troppo cadenzato di 'Chthonic'. Per il resto, vorrei dirvi di andarvi a leggere le mie precedenti recensioni alla, il canovaccio musicale infatti di quest'album lo troverete piuttosto simile ai vecchi lavori, inclusa la presenza di viola e violoncello, qui a cura di Brianne Vieira, senza dimenticare poi gli organoni sublimi di Kostas Panagiotou (Pantheist, Landskap). Per il futuro mi aspetto però qualcosa di più, che sappia catalizzare maggiormente la mia attenzione. (Francesco Scarci)

(Aesthetic Death - 2023)
Voto: 70

https://mesmur.bandcamp.com/album/chthonic

giovedì 16 marzo 2023

Grava - Weight of a God

#PER CHI AMA: Sludge/Post Metal
Torna l’Aesthetic Death con un’altra delle sue uscite ad effetto. Questa volta l’etichetta britannica è andata a scovare i Grava in Danimarca, un terzetto originario di Copenaghen formatosi nell’anno del lockdown da Covid. Complice verosimilmente quello stato di angoscia generato dall’essere chiusi nelle proprie abitazioni, deve aver portato i tre musicisti a partorire questo angosciante esempio di blackened sludge/post-metal sperimentale di stampo americano (Neurosis docet). Sette i pezzi che sciorinano i nostri per cercare di convincerci della bontà della loro proposta. Si inizia con le fluttuanti melodie di "Waves" che mettono in mostra le peculiarità della band ossia un ipnotico rifferama sludge, vocals che si dimenano tra l'urlato e il growl e un'aura malinconica di scuola Amenra/Cult of Luna che aleggia per questo e i successivi pezzi. Dopo appena tre minuti è il tempo di "Bender" e le atmosfere si fanno ancor più cupe con un muro di chitarre e voci caustiche davvero da incubo, spezzate da frangenti di chitarra più melodici sul finale di un brano che supera di poco i tre minuti e mezzo. Strana la scelta di avere pezzi cosi brevi per un genere spesso contraddistinto invece da lunghe durate. Ma anche le successive "Crusher", "Alight", "Cauldron" e "Appian Way" (quest'ultima stralunata song si colloca addirittura sotto i tre minuti) continuano con questo trend, non solo legato al minutaggio ma anche ad una proposta musicale che si mantiene fedele ai dettami di uno stile che trova qui delle scappatoie in cambi vocali, per la presenza di brevi assoli che accompagnano le dissonanti linee di chitarra. Solo la conclusiva "The Pyre" si discosta non solo in termini di durata dal lotto delle restanti, con oltre otto minuti che condensano quanto ascoltato sin qui ma musicalmente perpetrano, con più break atmosferici, un sound più tormentato per molti più giri d'orologio. Insomma, quello dei Grava è un album complesso e non cosi facile da avvicinare, però potrebbe comunque regalarvi spunti interessanti in un ambito che inizia a scarseggiare per freschezza di idee. (Francesco Scarci)

(Aesthetic Death – 2022)
Voto: 70

https://gravadanois.bandcamp.com/album/weight-of-a-god

giovedì 9 marzo 2023

Cave Dweller - Invocations

#PER CHI AMA: Noise/Ambient/Dark
Il nuovo album di Cave Dweller, ovvero Adam R. Bryant, ex membro della band post black metal americana Pando, è stato concepito come una lunga colonna sonora, con l'idea stessa di emanare una visione simbolica del rapporto che lega l'uomo alla spiritualità della natura. Un concetto profondamente radicato tra le note della musica di questo uomo delle caverne, che si fa notare fin dal significato del moniker scelto dall'autore stesso. Le danze si aprono con una voce che recita sopra una rarefatta base, acustico ambientale ("An Invitation"), morbida ed eterea per proseguire nella oscura parvenza di "To Accept the Shadow", che ricorda le trame delle musiche più cerebrali dei Virgin Prunes (vedi la splendida raccolta 'Over the Rainbow'), con un piano nostalgico e amaro a condurre le musica, per poi finire a deragliare su di un finale dark/ambient, con la presenza ritmica di una percussione metallica, che sonda i terreni dei lavori, tutti da scoprire, del progetto mistico/ambient russo, Enoia. Da qui, si viene traghettati in modo naturale, verso la splendida "Bird Song". Questo brano era già presente nel precedente ottimo EP, 'Between Worlds', ed è una traccia che vanta un cantato fragile, drammatico ed epico, con una chitarra solitaria dall'animo grigio e un'evoluzione in stile folk black, che fa riscoprire tutta la forza artistica di questo atipico menestrello del Massachusetts. L'arte di Cave Dweller è sotterranea, rurale fino al midollo, criptica, sperimentale e la si apprezza solo se si colgono i dettagli di registrazioni fatte con smartphone, rumori, fruscii e suoni non convenzionali, particolari sparsi un po' ovunque con genialità e la consapevolezza di creare qualcosa di profondamente evocativo. Un'opera di 44 minuti che evolve le sperimentazioni dell'autore in vari ambiti, folk apocalittico, ambient, alternative country, neofolk, senza prendere a prestito niente da nessuno, per un viaggio personale e originale. Suoni d'ambiente, uccelli in sottofondo, gabbiani, noise, oppure una tiepida batteria di matrice jazz, per rendere più accessibile la ballata noir, minimalista, "Entelechy". Un sound tribale e oscuro, con conseguente esplosione black industriale, nello stile della sua precedente band, dona con vigore, una facciata ipnotica e cosmica al lungo brano intitolato "Mirror". Ma la differenza in chiave di bellezza estrema, la troviamo nella canzone conclusiva intitolata "Solastalgia", dove il solo campione di voce simil lirica/sciamanica, che persiste in sottofondo di tutta la traccia, fa onore all'arte di questo musicista unico e impareggiabile nella sua esplicita arte sonora isolazionista, fredda, rumorista e lo-fi, contornata da psichedelia cosmica ed un cristallino folk, con uno spirito etnico proveniente da qualche sistema solare sconosciuto, che rievoca un vero e proprio risveglio interiore. Un album in veste concettuale, che rispecchia un po' la forma del gioiello sonoro quale fu, 'The Inspiration of William Blake' di Jah Wobble, ovviamente da accostare solo come intuizione compositiva, non come stile musicale, visto che i due artisti sono agli antipodi stilistici, ma convergono entrambi per una libertà d'espressione molto proficua. 'Invocations' è stato creato e mixato dallo stesso Bryant in un arco di tempo piuttosto lungo, tra il 2018 e il 2021, e si presenta come un resoconto del suo percorso sonoro, quindi da considerarsi come una specie di diario di bordo delle sperimentazioni che hanno dato vita al primo splendido album del 2019 (sotto il titolo 'Walter Goodman – or the Empty Cabin in the Woods') e l'EP sopracitato del 2021. Una musica intimista tutta da scoprire ed apprezzare, per cui consiglio di ascoltare prima questa raccolta introduttiva, per poi passare in ordine temporale, alle altre due ottime opere di questo valido autore. (Bob Stoner)

mercoledì 7 dicembre 2022

Estrangement - Disfigurementality

#PER CHI AMA: Experimental Death Doom
Ci hanno messo ben otto anni gli australiani Estrangement a far uscire il loro album di debutto su lunga distanza dopo un demo e uno split album usciti rispettivamente nel 2013 e 2014. Lo stravagante quartetto di Sydney capitanato da JS, esce quindi con questo 'Disfigurementality', un concentrato di stralunato death doom che esordisce con "Destitution Stench", una breve intro che ci prepara all'originale forma musicale espressa dalla successiva "Detritivore". Citavo il death doom, ma potremmo aggiungere anche il funeral in alcune linee pesantissime di chitarra (e nelle durate estenuanti dei brani) o ancora nelle profondissime growling vocals, ma quello che colpisce nella proposta dei nostri è l'inserimento di alcune partiture neoclassiche, ma anche jazzy o addirittura scorribande black come accade nella seconda parte del brano. Tutto questo oltre a regalare una grande dinamicità al disco, prospetta grandi speranze per un genere che ultimamente avevo avvertito come spento o con ben poco da dire. E invece la band australiana si gioca molteplici carte di improvvisazione che rendono anche le successive tracce molto più palatabili. Passando da un breve intermezzo acustico, si arriva a "The Light Unshown", una song che sembra votata a quel mood struggente di My Dying Bride o dei primissimi Paradise Lost e non posso far altro che applaudire, per quanto il sound possa risultare obsoleto. Ma l'uso di contrabbasso, flauto e violino, che già avevo apprezzato in "Detritivore", cosi come un favoloso break acustico dal sapore spagnoleggiante, corredato poi da una cascata di note di chitarra e atmosfere epiche e struggenti, regalano una proposta che in termini di freschezza, sembra non aver uguali. Dopo un iniziale cerimoniale esoterico, prende piede "Fire Voice", con una sorta di assolo di flauto a cui fa seguito un'altra chitarra flamencata a testimoniare, se ancora ce ne fosse bisogno, l'originalità dei nostri. "Clusters" è puro caos sonoro che trova comunque il suo perchè in un lavoro unico e complicato come questo. " Womb of Worlds" è un altro tassello di follia di questi quattro musicisti tra sonorità doomish catacombali e altre derive psicotiche, con un violino nel finale a rimembrare i fantastici esordi dei My Dying Bride. "Asleep in the Vineyard" è un altro interludio atmosferico che ci conduce a quello che è il brano più lungo del lotto, i tredici soffocanti minuti della schizoide "Doppelganger", la summa di tutto il male, la genialità, la malinconia e la follia di questi Estrangement. Bel debutto, complimenti! (Francesco Scarci)

martedì 28 giugno 2022

Epitaphe - II

#PER CHI AMA: Death/Doom
Li avevo recensiti nel 2019 in occasione del loro primo atto. Tornano oggi i francesi Epitaphe con il secondo capitolo della loro discografia, intitolato semplicemente 'II', ed altri cinque pezzi che coniugano quel death doom corrosivo degli esordi con divagazioni funeral e aperture decisamente più melodiche. Si parte dall'introspettiva e strumentale intro "Sycomore" e si capisce che già qualcosa è cambiato in seno al quartetto di Claix. E infatti quando irrompono le ritmiche dissonanti della seconda "Celestial" e quell'intrigante ricerca sonora, ecco che capisco di avere fra le mani un piccolo gioiellino. Si perchè i 19 minuti del brano si muovono tra partiture death, altre decisamente più brutali e ampi frangenti acustici, il tutto corredato peraltro da voci sia in formato growl che pulito (forse la novità più ecclatante di questa seconda release). Poi la song, in tutta la sua infinita durata, vive di sussulti death devastanti (citavo i Morbid Angel nella precedente recensione e non posso che confermare) di nuovo interrotti da rallentamenti più claustrofobici, escalation black e nuove bordate death, prima del più tranquillo finale arpeggiato. "Melancholia" e altri 19 minuti davanti, introdotti da una furibonda ritmica techno death che trovo davvero spiazzante. L'avevo appreso già da 'I' che i nostri non sono davvero quello che sembrano, lo confermo in questo nuovo lavoro, che si palesa nuovamente ostico da esser digerito ma si arricchisce per lo meno di arrangiamenti death progressive e break acustici che in più di un'occasione mi hanno evocato gli Opeth dei primi album. Colpiscono le eteree clean vocals, i momenti più ambient, le derive post rock e per questo non possono che esserci grandi applausi. Ora, poi dopo tutto questo ben di dio, essere preso a cinghiate da altre raffiche death, si potrebbe rivelare esperienza sempre più destabilizzante e per questo stimolante. "Insignificant" apre con un arpeggio di opethiana memoria, con tanto di crescendo incluso che per oltre tre minuti (dei quasi 19 complessivi), ci prepareranno all'incombente sassaiola death che mi aspetto da lì a poco. In realtà, i giri del motore rimangono per un po' a basso regime, ma le emozioni non mancano, non temete. La band ha infatti modo di esibire un bridge melodico, un intercalare doomish, per poi lentamente spingere sull'acceleratore con una natura percussiva alquanto originale che prenderà il sopravvento nella seconda parte del brano e che troverà ancora modo di proporre qualche rallentamente decisamente più bilanciato prima di un finale davvero significativo. Altro pezzo strumentale a chiusura del disco che mostra le progressioni musicali dei quattro francesi e tutte le potenzialità che la band potrà sviluppare nelle prossime uscite. Se potessi migliorare qualcosa, smusserei del tutto gli isterismi estremi del sound dei nostri per una ricerca più progressiva del suono perfetto. Per ora bene cosi, ma ho aspettative parecchio elevate per il futuro degli Epitaphe. (Francesco Scarci)

(Aesthetic Death - 2022)
Voto: 76

https://epitaphe.bandcamp.com/album/ii

lunedì 6 giugno 2022

The Slumbering - Looking for Sorrow Within Ones Fear

#PER CHI AMA: Noise/Experimental
Quello degli statunitensi The Slumbering è un lavoro originariamente uscito in digitale a febbraio 2021 e riproposto in versione fisica nel 2022 dalla Aesthetic Death. L'etichetta inglese prosegue la sua opera di folle ricerca musicale, proponendo questo 'Looking for Sorrow Within Ones Fear', un disco per cui mi chiedo realmente se ne valesse la pena di essere stampato in cd. Credo che nell'underground musicale ci siano infatti un milione di band molto più sensate e interessanti dei nostri, forse la stessa band in cui cantavo penosamente nel 1996, sarebbe stata ben più gradevole. Fatto sta, che le sette tracce contenute in questo album sono semplice e puro rumore di sottofondo peraltro in bassa qualità (a dir poco fastidiosa l'opener "Daddy Doesn't Love You Right?"), accompagnato da vocalizzi distorti, indecifrabili e a dir poco insensati. Non parliamo poi di "Journey to the Cyclops Cantia" o della burrascosa "You Can't Make it Better...", forse nemmeno il nostro Bob Stoner riuscirebbe ad ascoltare questo impervio noise che ha il solo effetto di disgregare quei pochi neuroni che vi rimarranno nel cervello al termine dell'ascolto di questo disco, davvero complicato da avvicinare. Non so se l'obiettivo della band (e dell'etichetta stessa) fosse il medesimo di Oscar Wilde nel suo 'Dorian Gray', ossia "Non importa che se ne parli bene o male, l’importante è che se ne parli", c'è da dire che il disco rimane un lavoro per pochissimissimi che non hanno paura di mettersi in gioco. Io francamente preferisco fare dell'altro piuttosto che ascoltare una proposta simile. (Francesco Scarci)

lunedì 16 maggio 2022

Vaina - ✥ FUTUE TE IPSUM ✥ Angel With Many Faces

#PER CHI AMA: Black Sperimentale
Il buon Stu Gregg, mastermind della Aesthetic Death, prosegue con la ricerca di band "particolari" da inserire nel proprio roster. Dopo Goatpsalm e Horthodox recensiti dal sottoscritto, non del tutto felicemente qualche mese addietro, ecco un'altra stramba (giusto per non cadere in aggettivi più disdicevoli) creatura per l'etichetta inglese. Si tratta dei finlandesi Vaina, una band che fa del "non sense" musicale (giusto per citare anche il titolo di un loro vecchio brano) la propria filosofia musicale. Dopo 'Purity' del 2019, un EP ('Futue Te Ipsus' incluso in questo stesso disco) ecco la nuova proposta della one-man band guidata dallo stralunato Santhir the Archmage, uno che a quanto pare, si è svalvolato il cervello durante il suo primo e unico concerto live, decidendo fondamentalmente di non dare più alcun riferimento stilistico alla propria proposta. Pertanto '✥ FUTUE TE IPSUM ✥ Angel With Many Faces' segue queste regole, decidendo di partire con "Oppenheimer Moment", una song tra l'ambient e il drone, su cui possiamo tranquillamente sorvolare. Con "I1" le cose si fanno più strane ma al contempo interessanti: si tratta infatti di un pezzo black acido, originale, ritualistico, con una base melodica affidata ai synth davvero evocativa, sommersa poi da vocals urlate ed altre declamate. La pseudo normalità dura però solo tre minuti degli otto abbondanti complessivi della song, visto che poi l'artista finnico imbocca una strada tra l'esoterico, il dungeon synth, l'ambient e per finire una bella dose da cavallo di sperimentazione sonora (con suoni sghembi di scuola Blut Aus Nord) che sembra nascere da un'improvvisazione estemporanea. "HCN" ha le sembianze dell'intermezzo orrorifico, consegnata quasi esclusivamente a synth e tastiere. La tappa successiva è affidata a "Yksikuisuus", un pezzo che cresce musicalmente su basi tastieristiche oggettivamente suonate male, ma comunque dotate di un'aura cosi mistica che sembra addirittura coinvolgermi. Non vorrei cascarci come l'ultimo dei pivelli, ma l'egocentrico musicista finlandese suona quel diavolo che gli pare, passando da delicati momenti di depressive rock/dark/post punk contrappuntato da una rutilante (quanto imbarazzante) drum machine che, inserita in questo contesto, trova comunque il suo filo logico, soprattutto in un epico e maestoso finale symph black. Questo per dire alla fine che Santhir the Archmage è davvero penoso a suonare, eppure tutto quell'entropico marasma sonoro che prova a coniugare in queste tracce, trova stranamente il mio consenso. Se dovessi trovare un termine di paragone con una band, citerei i nostrani Hanormale, con la sola differenza che quest'ultimi hanno fior fiore di musicisti. Il delirio musicale prosegue attraverso l'EBM di "About:Blank" (ecco la classica buccia di banana su cui scivolare) e il black avanguardistico di "Raping Yer Liliith" (assai meglio). "πυραμίς" ha un incipit stile 'Blade Runner' che perdura per qualche minuto prima di lasciare il posto ad una proposta indefinibile tra derive ambient burzumiane, deliri alla Abruptum e rimandi agli esordi malati dei Velvet Cacoon, ecco non propriamente una passeggiata da affrontare visti anche i quasi undici minuti di durata del brano. Esoterismo rap per "--. .-. . . -.", un'altra song davvero particolare che forse era meglio omettere per non toccare la sensibilità degli adepti dei Vaina. "Todestrieb" è un altro intermezzo noise che ci introduce alla conclusiva "Minä + Se", gli ultimi undici deliranti minuti di questo estenuante lavoro (un'ora secca). La song saprà inglobarvi ancora nel mondo disturbato e visionario di Santhir con suoni tra elettronica, black, drone, ambient, liturgico, sperimentale, horror, dark e tanta tanta follia suonata alla cazzo di cane ma sancita da un bell'urlaccio finale volto a Satana. Non ho ben capito se Santhir ci faccia o ci sia, fatto sta che questo lavoro meriterà altri ascolti attenti da parte del sottoscritto. (Francesco Scarci)

domenica 15 maggio 2022

Barús - Fanges

#PER CHI AMA: Prog Death/Sludge
Ricordo di aver positivamente recensito i Barús in occasione del loro EP omonimo nel 2016, bollandoli come una versione più violenta dei Meshuggah. La band che ritrovo oggi mostra un rinnovato spirito che probabilmente è passato attraverso il claustrofobico esordio su lunga distanza rappresentato da 'Drowned' e che arriva oggi a questo nuovo e particolare EP di due pezzi intitolato 'Fanges', che mi restituisce, come dicevo, una band assai diversa rispetto al passato. Si perchè la title track che apre il disco, nei suoi 19 minuti, mostra un piglio decisamente compassato (in alcuni frangenti addirittura ambient) per quasi nove giri d'orologio, con un incedere ipnotico che trova sfogo in un post death metal a tratti sghembo e questo rappresenta un po' il punto di forza del quartetto originario di Grenoble. Le vocals si muovono poi tra equilibrismi death e altri più puliti, mentre le melodie oscillano tra ammiccamenti ai The Oceans e ingarbugliamenti catramosi che evocano Ulcerate e gli stessi Meshuggah d'inizio recensione. Il brano si arresta un paio di minuti prima dell'epilogo, lasciando spazio ad una parte acustica di cui francamente non ho ben capito la funzione, ma andiamo avanti e facciamoci investire da "Châssis De Chair", un pezzo decisamente più old style, essendosi affidato a sonorità più death oriented. Ma i nostri oggi amano contaminare il proprio sound con suoni più atmosferici, sludgy, riflessivi, storti e distorti, senza tralasciare il fattore imprevedibilità, tutte caratteristiche che eruttano nel corso del quarto d'ora affidato alla seconda song. I riffoni, di scuola polifonica, rimbombano nelle nostre casse con un'intensità ed una violenza davvero poco rassicuranti. I riff si confermano, anche nei momenti più ragionati, tortuosi dall'inizio alla fine della bagarre e vanno ad accompagnare le oscure growling vocals di Mr K. Insomma tanta carne al fuoco per sole due song a disposizione credo possa essere presagio di grandi cambiamenti in casa Barús. Staremo a sentire cosa ci riserva il futuro con maggiore curiosità. (Francesco Scarci)

(Aesthetic Death - 2021)
Voto: 75

https://barus.bandcamp.com/album/fanges-ep

sabato 12 febbraio 2022

Megalith Levitation - Void Psalms

#PER CHI AMA: Psych/Stoner/Doom
Dall'oblask russo di Chelyabinsk ecco tornare il trio dei Megalith Levitation, band che avevo recensito su queste pagine nel 2020, in occasione del loro split in compagnia dei Dekonstruktor. Il trio formato da KKV, PAN e SAA propone un nuovo lavoro all'insegna di uno stoner doom psichedelico che già poco mi aveva fatto impazzire in occasione dello split album e che ho l'impressione non mi entusiasmerà più di tanto anche in questo caso. 'Void Psalms' contiene quattro lunghe tracce che ammiccano nuovamente ai Black Sabbath o ai primissimi Cathedral, cosi come pure ai nostrani Ufomammut e agli Sleep, certo con una minor dose di classe. Il disco si apre con "Phantasmagoric Journey" ed un sound che fa della pesantezza e della litanica componente vocale i suoi punti cardine. Metteteci poi anche una durata smisurata dei pezzi ("Temple of Silence/Pillars of Creation" dura poco meno di 20 minuti), che portano inevitabilmente alla noia, e capirete il perchè della mia freddezza nei confronti di questo lavoro. Non trovo infatti spunti di grande originalità nel cd, anche se sicuramente è da registrare un passo in avanti rispetto allo split che avevo trovato ben più monolitico del qui presente. Ci provano con qualche variazione al tema per evitare di farmi sbadigliare eccessivamente di fronte alla lentezza, a tratti snervante, della loro proposta. Anche "Datura Revelations/Lysergic Phantoms" si muove su questi stessi binari con un riff che rimarrà tale per tutti i suoi quasi 13 minuti, mentre l'aura che avvolge il brano, è quella sulfurea dei gironi più profondi dell'Inferno. La voce, pur palesandosi nelle sue due componenti, salmodiante e scream, non raggiunge picchi di eccellenza, seppur possa fungere come classico timoniere nel nostro viaggio infernale. Il pezzo suona comunque abbastanza scontato fino a quando un break di basso e chitarra finiscono con l'ipnotizzare l'ascoltatore e una nuova voce, ben più ammalliante, sembra collocarsi in sottofondo. Forse sta qui l'apice del disco perchè la già citata maratona musicale di "Temple of Silence/Pillars of Creation", metterà a dura prova il nostro ascolto con quel suo doom di sleepiana memoria, asfissiante e per lunghi tratti troppo simile a se stesso, almeno fino a quando, arrivati al dodicesimo minuto, i nostri si divertono ancora a giocare con quel duetto di basso magnetico e chitarra solista che sembrano far finalmente svoltare il pezzo, però prima che fatica. In chiusura "Last Vision", non fosse per la brillante performance al sax del guest Anton Maximov, sarebbe un pezzo davvero ostico da digerire, complice una ritmica mostruosamente lenta e ossessiva che metterà a dura prova i vostri sensi ancora una volta. Il ritorno dei Megalith Levitation è alla fine un lavoro per certi versi interessante, sebbene si dilunghi in estenuanti giri ritmici di cui avrei fatto volentieri a meno. (Francesco Scarci)

domenica 6 febbraio 2022

Goatpsalm/Horthodox - Ash

#PER CHI AMA: Ambient/Noise
Che simpatica accoppiata quella formata dai russi Horthodox e Goatpsalm, due realtà underground riunite in una specie (in realtà suonano insieme su tutti i pezzi anzichè dividersi il disco) di split album intitolato 'Ash' e registrato tra il 2019 e il 2021 in molteplici luoghi. Complice il Covid, infatti i nostri si sono adeguati a registrare in momenti e località differenti. Ne escono questi sette brani che si aprono con "The Last Days", un'accozzaglia di rumori sinistri da castello infestato. Sembrano infatti i classici suoni di catene quelli che si sentono in sottofondo, cosi come quello delle assi di legno in assestamento quelli che li accompagnano. Il tutto prosegue incomprensibilmente per otto minuti quando finalmente affiora una chitarra acustica a farmi capire che forse riuscirò a scrivere anche di musica in questa recensione, ma in realtà sarà solo ambient/noise quello che scorgeremo da qui in avanti. Dopo i primi 13 snervanti minuti, ce ne attendono altri 10.30 con l'acustica irrequieta di "Fragile Walls of Salvation", inquietante quanto basta per rappresentare l'ideale colonna sonora da film thriller. Quel che a quanto pare è più interessante sottolineare di questo disco sperimentale è la tematica che dovrebbe affrontare, almeno visivamente (non essendoci traccia di voci), ossia lo scisma della Chiesa russa risalente al XVII secolo quando si separò in Chiesa ortodossa ufficiale e movimento dei Vecchi Credenti. Detto della mia perplessità di fronte ad un progetto di questo tipo, data la sua scarsa musicalità e fruibilità, vi segnalerei "When God Went Silent" per la sua dronica vena folk e "A House With No Windows" dove vedo ancora un barlume di speranza nel sentire musica strumentale attraverso le casse del mio stereo. Poi gran spazio ancora a rumori ("Night over Onega"), porzioni dark ambient ("Horned Shades of His Servants") ed inquietudini varie ("Ash") per un disco raccomandato solo ad una striminzita frangia di ascoltatori (che potrebbe includere anche il nostro Bob Stoner). Gli altri se ne tengano ben a distanza. (Francesco Scarci)

mercoledì 2 febbraio 2022

Haiku Funeral - Drown Their Moons in Blood

#PER CHI AMA: Black/Industrial
Sul nostro sito è sempre piacevole poter contare su vecchie conferme, ascoltarne le nuove idee e poterne apprezzare le loro progressioni. Tornano a farci visita i marsigliesi (ma solo di stanza) Haiku Funeral con il loro terzo disco (su sette) recensito su queste stesse pagine e peraltro da tre persone differenti. Interessante quindi notare come il buon Bob Stoner ne apprezzasse la miscela tra black d'avanguardia ed elettronica, mentre Shadowsofthesun sottolineasse la loro proposta come un'orgia ritualistica marziale e meccanica. Ora, trovarmeli di fronte con questo nuovo 'Drown Their Moons in Blood' e queste premesse, non mi mette proprio a mio agio, facendomi capire quanto di oscuro e imperscrutabile possa realmente aver tra le mani. E cosi mi metto ad ascoltare l'iniziale "The Universe Murders Itself" e capisco di aver a che fare con un sound all'insegna di un industrial dai forti connotati sciamanici. Ritmica si marziale, scevra di ogni forma empatica musicale, pura percussione dronico-cibernetica, perfetta per un contesto metaversico verso il quale la nostra società si sta pericolosamente proiettando. Vedo solo tanta oscurità in queste note e senso di impotenza verso un futuro dai tratti apocalittici. Le campane simil tibetane della successiva "The Head of the Innocent One", con il corredo ritualistico simil indiano che si porta dietro, provano però a smorzare quei toni da fine del mondo che avevo maggiormente percepito nell'opener e anzi mi danno maggior speranza, grazie ad un'andatura psichedelica che mi lascia piacevolmente colpito al termine del brano, in cui vorrei sottolineare anche la prova vocale del frontman, cosi efficace in quel suo cantato tra il demoniaco e il celestiale in un sancta sanctorum riservato esclusivamente a pochi eletti. E la porzione sciamanica dei nostri prosegue nella ricerca spirituale affidata alla seducente "Cherny Shamani/Черни Шамани", una sorta di trip lisergico dove semplicemente abbandonare i propri sensi. Le derive droniche continuano nelle trame distopiche e visionarie di "The Earth Burns and Burns", mentre "Split the Swollen Dark" è puro ambient sorretto da atmosfere glaciali e dilatate ed una voce lugubre quanto basta in primo piano. In chiusura ancora due pezzi: "To Illuminate a World" prosegue con quegli ambientalismi sottovuoto che fatico a digerire, in coda la title track, un'ultima danza al bagliore di una specie di sitar che suggella egregiamente le atmosfere create da una splendida componente percussiva. Il brano è in realtà assai lungo e sembra rappresentare la summa di quanto ascoltato nel corso di questo impegnativo ed ipnotico viaggio spirituale (quasi un'ora) percorso sin qui insieme. Alla fine posso finalmente dire che gli Haiku Funeral sono decisamente affascinanti (Francesco Scarci)

sabato 9 ottobre 2021

Funeral Chasm - Omniversal Existence

#PER CHI AMA: Epic Funeral Doom
L'etichetta inglese Aesthetic Death continua a scrutare nel sottobosco death doom per trovare nuove band da inserire nel proprio rooster. Quest'oggi si fa tappa in Danimarca per fare conoscenza di questi "neofiti" Funeral Chasm al loro primo album, 'Omniversal Existence', sebbene esista anche un EP uscito lo scorso anno. La musica proposta, come anticipato, si muove nella sfera di quel death doom emozionale che fa di Swallow the Sun o Ahab, alcune delle migliori band in circolazione. L'incipit, affidato a "Embellishment of Inception", mette in mostra la capacità del duo danese di muoversi tra un death doom, sottolineato dal growl possente di Danny Woe (uno che abbiamo apprezzato anche nei Woebegone Obscured e milita pure in parecchie altre band) e da chitarre più o meno pesanti, e parti più ariose, dal taglio epico, a tratti sinfonico, con tanto di voci pulite. Le cose si fanno tuttavia più cupe con la successiva "The Truth That Never Was" che nei primi 120 secondi ci conduce verso le viscere dell'Inferno, da cui presto sembra sia possibile risalire con un'inversione di marcia e decadentismo. Le cose però spesso non sono quello che sembrano, e si ripiomba in un vertiginoso e malato sound a cavallo tra funeral e depressive, con alcune porzioni più malinconiche (con tanto di clean vocals annesse) a smorzare quel senso di negatività che pervade la song. "Mesmerising Clarity" ha un incedere musicale alquanto lisergico, a quanto pare giustificato dai musicisti dall'assunzione di funghi allucinogeni per alleviare i sintomi di insonnia e depressione descritti nelle precedenti song. E quel senso di temporaneo annebbiamento lo si ritrova nelle note di questa song, una sorta di trip mentale che va puntualmente a sfociare nei meandri del death doom più intransigente, laddove il growl si fonde con il cantato pulito e l'atmosfera si fa nebulosa e difficile da mettere a fuoco. Forse risiede in questo il punto di forza dei due artisti nordici, che pur non proponendo chissà quale originalità nella propria proposta, in realtà combinando funeral con partiture eteree, finiscono per essere fin troppo convincenti con un flusso musicale vario, melodico, accattivante, senza tralasciare le brutture scatenate da quei suoni d'oltretomba. Come quelli che irrompono in "Extracting the Flesh from the Gods", forse il pezzo più intransigente del lotto perchè esclusivamente radicato nel funeral doom. Con "Sunrise Vertigo" infatti le cose tornano a viaggiare sul doppio binario funeral/psych con richiami evidenti qui alla darkwave grazie all'uso di synth dal sapore ottantiano e vocals che ancora una volta mutano dal growl più ostico a voci ed atmosfere più rasserenate che edulcorano non poco l'ascolto, anche se francamente gli acuti in chiusura di brano vanno rivisti. Ci sono ancora un paio di pezzi a cui prestare attenzione: "The Skeleton Secret" che per la prima volta parte da quella porzione più riflessiva del sound dei nostri, quella più epica per poi inabissarsi nel death doom e poi perdersi in un groviglio di suoni più astratti, quasi surreali, con la voce pulita qui davvero convincente. Ed un ultimo atto affidato ad "Astral Reality" che chiude questa mia prima positiva esperienza in compagnia dei Funeral Chasm, una band sicuramente da tenere d'occhio in proiezione futura. (Francesco Scarci)

lunedì 4 ottobre 2021

Suffer Yourself - Rip Tide

#PER CHI AMA: Funeral Doom
Nati originariamente come la one-man band di Stanislav Govorukha, i polacchi Suffer Yourself sono diventati una band a tutti gli effetti, con una line-up stabile e ben delineata in questa nuova terza release, intitolata 'Rip Tide'. Un trittico di brani che partono dalla monumentale "Spit in the Chasm" (20 minuti e mezzo) e proseguono attraverso "Désir de Trépas Maritime (Au Bord de la Mer Je Veux Mourir)" e la strumentale "Ugasanie - Submerging" per 33 minuti di suoni pesanti, asfissianti e plumbei, insomma adatti all'incombente stagione autunnale. Funeral doom per chi non l'avesse ancora capito che ci investe come al solito in questo genere, con pezzi di una lunghezza quasi estenuante, voci cavernose, ma anche delle spettacolari melodie che rendono l'ascolto dell'opener ancor più entusiasmante, soprattutto laddove vi si possano trovare forti richiami a 'Gothic' dei Paradise Lost (grosso modo tra il minuto 5.30 e 6, giusto per darvi una indicazione di massima) per poi lanciarsi in accelerazioni più devastanti e death oriented. Il risultato è sicuramente apprezzabile, alla luce dei molteplici cambi di umore e di tempo della lunga song d'apertura, che ha ancora modo di deliziarci con aperture acustiche di scuola Mournful Congregation, regalate da quello che credo sia un violoncello che verso l'undicesimo minuto, ha il pregio di procurarmi brividi di emozione. Il brano ha comunque ancora molto da regalare, tra accelerazioni death (manco fossero i Morbid Angel), funerei rallentamenti alla Evoken, dove il gorgoglio del vocalist non suona proprio cosi rassicurante. Poi ancora da scorgere c'è qualche riferimento ai My Dying Bride verso il diciottesimo minuto e direi che la song ha coperto un po' tutto lo spettro dello scibile funeral death doom conosciuto. Il secondo pezzo ha un'apertura più sommessa, con ancora strumenti ad arco a solleticare i sensi, ad emozionare, a scandire il tempo che ci sottrae dalla morte con una melodia estremamente malinconica e soffusa che trova una variazione al tema verso il terzo minuto con uno squarcio ritmico nefasto, sbilenco, lugubre. Una manifestazione di tremebondo decadimento con echi che ci conducono nuovamente al gotico incedere degli esordi di Nick Holmes e compagni. Una voce non proprio delle più limpide si issa poi con un declamato in francese mentre la ridondante porzione ritmica prosegue nel suo ipnotico incedere verso un finale dal taglio cinematico sperimentale (quasi scuola ulveriana). Gli ultimi tre minuti e 40 ci regalano suoni ambient noise di cui avrei fatto francamente a meno, prediligendo semmai un'altra composizione che desse ulteriori indicazioni di questo collettivo internazionale che include membri da Ucraina e Svezia. (Francesco Scarci)

domenica 30 maggio 2021

Pando - Rites

#PER CHI AMA: Ambient/Experimental Black
Gli americani Pando sono una delle realtà musicali più astratte ed affascinanti che abbia mai ascoltato. Il loro sound è avveniristico, è rumore, musica per emozioni e sentimenti sinistri, devastazione, sconcerto, nera espressività, dadaismo black, arte non convenzionale, accostabili per inquieta ed inusuale attitudine oscura al capolavoro 'Royaume Des Ombres' dei Borgne, unito all'intimismo dei Cave Dweller, ovvero il progetto solista di Adam R. Bryant, una delle due menti che compongono i Pando. La band a stelle e strisce tocca le corde sensibili dell'emotività mistica, come ipotetici seguaci di Sharron Kraus (epoca 'Night Mare'), ma loro sono bardi moderni, estremi ed introversi, folli ed originali in tutto quello che compongono, anche nel modo di fare ambient. Possiamo considerarli black metal, ma non lo sono nel senso stretto del termine, farli rientrare nell'ambient noise, ma non sono solo questo, definendoli sperimentali non rischiamo di cadere in errore, ma la loro musica non disdice i legami con la cultura metal più estrema, quindi, sono semplicemente ed estremamente, trasversali ai generi citati. Questo nuovo 'Rites', distribuito dalla Aesthetic Death, non fa eccezione nella loro ricca ed interessantissima discografia, è un tipico prodotto, come da anni ci hanno abituato, solo che stavolta sono riusciti a condensare le loro idee soniche dirigendole verso un apice compositivo che tocca risultati egregi sotto tutti i punti di vista, paragonabili solo alla genialità di Liturgy e Qualm. Il duo del Massachusetts non fa prigionieri, paralizzando l'ascoltatore con brani contrastanti tra loro, tra feedback e registrazioni d'ambiente, voci radiofoniche, cori eclesiastici, noise minimale e basi agghiaccianti, gelido black dal suono cruento ed altamente realistico, come nella splendida, fulminea "Dadaism", che ipnotizza al pari di un brano dei Sunn O))) ma che ci spinge in nuovi territori di black estremo, visti con una mentalità pionieristica, dove il suono è tanto glaciale quanto presente, tanto vicino che lo si può toccare con mano, e rappresenta una fotografia violentissima di quello che possono rappresentare i Pando oggi in musica. Ci sono voci, sibili, ronzii, rumori d'ambiente e nevrosi, per interi minuti, racchiusi in una tensione latente, soffocante. "Total Station Theodolite" è un macigno dal suono grezzo molto vicino a certe sonorità in uso nella psichedelia più grezza, ma i canoni compositivi sono del black più catacombale e il risultato alla fine è strabiliante, perchè il pezzo è un vero incubo, con un riff killer e voci altamente inquietanti che non passano certo inosservate. "The Molds of Men" mostra una vena classic metal sguaiata e putrida ma giunge al cuore come un proiettile, forse per un suono da cantina che fa dell'underground una causa per cui lottare e vivere. Screaming ad effetto, riff apocalittici e decadenza, è il volto dei Pando nella veste più metal, ma non solo, rivestono la loro musica con innumerevoli interferenze, discorsi rubati, rumori industriali e la presentano in una nuovo formato, togliendo quel riverbero infernale tipico del genere, per rendere il suono diabolicamente caldo, umanamente demoniaco. Innovativi, come fu in ambito cinematografico l'uscita del film, "The Blair Witch Project", ti ossessionano in "Excarnation" con un violino gitano e una ritmica dal taglio martial industrial, concludendo gli oltre dodici minuti strumentali di questo brano, in un tripudio minimalista di piano e tappeti noise compressi in un'infinita malinconia. Immancabile la coda in stile depressive in chiusura del suddetto brano, di gotica e decadente illuminata melodia. "The Octagon Room" è sperimentazione ai confini dell'avanguardia black più totale, con un finale splendido in stile noir jazz, stonato e rovinato da polvere e usura, semplicemente spiazzante. C'è spazio per una chitarra pulita dal delizioso sapore spagnolo, immersa in un'amalgama di fruscii e parole rubate da radio, tv e ...gabbiani, per una malata malinconia piena di vita. I Pando hanno fatto il salto di qualità, hanno creato un mostro sonoro che affonda gli artigli nell'anima di chi l'ascolterà, senza lasciare scampo. Un disco emotivamente devastante, l'arte di essere malignamente d'avanguardia. Incredibilmente geniali! (Bob Stoner)

martedì 18 maggio 2021

Hallowed Butchery - Deathsongs From The Hymnal Of The Church Of The Final Pilgrimage

#PER CHI AMA: Death/Doom Sperimentale
Gli Hallowed Butchery sono la temibile creatura sonora di Ryan Scott Fairfield, factotum originario del Maine, che torna a distanza di 11 anni dal debut album (che conservo gelosamente nella mia collezione) con questo secondo lavoro dallo stravagante titolo 'Deathsongs from the Hymnal of the Church of the Final Pilgrimage'. La proposta del mastermind statunitense è all'insegna di un death doom sperimentale che si srotola attraverso sei psichedeliche tracce. Psych death quindi: basti ascoltare l'opener "Ever Gloom" per capire che l'artista di oggi, a quanto pare votato al culto della morte, sia un personaggio davvero originale. Come la musica da lui proposta d'altro canto, catacombale a tratti, ammiccante a gothic dei Fields of the Nephilim in altri frangenti, con il death metal a fungere da collante. E la proposta inevitabilmente finisce per essere intrigante per quanto cupa o apocalittica. Si perchè l'immagine che mi si para davanti alla fine dell'ascolto della traccia d'apertura, è proprio quella della fine del mondo. Per poi proseguire in territori claustrofobici con la successiva "The Altruist", un altro pezzo all'insegna di un death doom asfissiante che tuttavia vede l'inserto di stralunati inserti sintetici, dove accanto al growling da orco cattivo di Ryan si affianca anche l'eterea voce di una presunta gentil donzella, in un piano sonoro comunque sintetico e paranoico. Con "Flesh Borer" si riparte dalle elucubrazioni doom dell'artista nord americano, avvolte questa volta in un contesto dronico, grazie ad atmosfere minimaliste e a voci filtrate che sembrano provenire da un mondo parallelo, ultraterreno. Ma la song ha ancora modo da regalarci tra rarefatte ambientazioni neofolk nella seconda parte, voci pulite, parti acustiche e visioni distorte. E "Death to All" continua sulla falsariga della precedente traccia, rimbalzando tra drone, noise, un death deflagrante in fatto di pesantezza, atmosfere sinistre e mortifere, vocals ruggenti ed altre litaniche, in un contesto comunque costantemente da brividi. "Internment" è un altro pezzo malato, folle, psicotico, disperato, che può spingere solo verso niente di buono. Provare per credere ma non dite che non vi avevo avvisato. "On the Altar" infine, si slega da tutto quanto ascoltato sino ad ora e con fare folklorico, chiude malinconicamente questo graditissimo comeback discografico degli Hallowed Butchery. (Francesco Scarci)

lunedì 26 aprile 2021

Mourning Dawn - Dead End Euphoria

#PER CHI AMA: Death/Doom
Avevo bisogno di sonorità un po' mortifere in questo periodo cosi allegro delle nostre vite. Giungono in mio aiuto in tal senso i francesi Mourning Dawn, con la loro quinta fatica, 'Dead End Euphoria', nella loro classica commistione di death e doom con frangenti black e funeral. Mi lascio cosi inglobare dalle sonorità decadenti dell'opener "Dawn of Doom", un nome un programma, per una traccia che mostra la classica veste death mid-tempo, da sempre DNA del terzetto parigino, tra le cui pieghe si infilano rare e destabilizzanti strutture black, con quel piglio disarmonico dei Deathspell Omega e qualche vocalizzo urlato. Ecco sfornato quindi il tipico prodotto dei Mourning Dawn. La matrice è infatti quella di sempre, anche nella successiva "Never to Old to Die", un pezzo che richiama nelle sue sconfortanti melodie, le prime cose dei Katatonia nei loro costrutti malinconico disperati, a metà strada tra 'Dance of December Souls' e 'Brave Murder Day'. E la lunghezza drammaticamente lunga dei brani, che troverà la sua massima espressione nei 26 minuti di "The Five Stepts to Death", contribuiscono a creare quel senso di inappropriatezza nell'anima, già di per sè inquieta, di chi ascolterà il disco. Un lavoro sicuramente assai solido ma che forse percepisco in alcuni frangenti eccessivamente monolitico, sebbene i transalpini cerchino qualche variazione al tema, in certi cambi di tempo, a dire il vero, un po' telefonati, o nella ridondanza di certi passaggi ritmici, che magari avrebbero dato maggiore dinamicità ai brani. La title track in questo mi colpisce molto per quel suo forte struggimento nella linea delle chitarre, ma anche dei chorus, che la rendono forse il brano più accessibile dei sei, anche perchè il più breve ("solo" sei minuti). A seguire infatti arriva "Conclusion" che per un attimo mi aveva illuso di essere già giunti alla fine di 'Dead End Euphoria', ma in realtà non siamo nemmeno a metà, vista la lunghezza estenuante del disco. E il quarto pezzo prosegue non aggiungendo granchè al sound dei nostri, qui decisamente più votato a scorribande black e ad un cantato quasi salmodiante, per lo meno una variazione alla graffiante ugola di Laurent "Pokemonslaughter". Il brano tuttavia ha ancora modo di stupire con un'effettistica alla sei corde alquanto stralunata, che si dipana tra accelerazioni da verbo nero e rallentamenti che rasentano il funeral, quasi a prepararci alla montagna prossima da scalare. Siamo arrivati infatti ai 26 minuti di "The Five Stepts to Death" e l'inizio non può essere più impervio. La parete da affrontare è infatti più scoscesa che mai con quelle sue trame funerarie, lente, ossessive, angoscianti, a tratti sfiancanti (26 giri di orologio sono lunghi da affrontare), soprattutto quando la band spegne la luce, va in letargo e prova poi a ridestarci con lunghi intermezzi acustici di scuola Opeth, prima di capovolgimenti di fronte che ci spingono a sfuriate post black. Non è una passeggiata, lo ribadisco, serve essere davvero dei grandi fan del genere per spingersi ad ascoltare un disco a tratti cosi catartico (e al tempo stesso efferato) nei suoi contenuti. In chiusura, gli oltre dieci minuti (di cui solo la metà suonati, il resto silenzio) di "Adieu", il colpo di grazia che serviva, costruito su un muro di chitarre suonate su un'unica nota, corroborate da una percussione lenta e psichedelica e dal vociare disperato di Laurent. Abbiamo atteso quattro anni per ascoltare la nuova release (nata in realtà sotto i non migliori auspici) e francamente, mi aspettavo qualcosa di più alto livello che un lavoro di onesto ma poco intellettuale death/black doom. (Francesco Scarci)

martedì 30 marzo 2021

Dark Awake – Hekateion

#PER CHI AMA: Dark/Ambient/Neofolk
A cominciare dalla sua immagine di copertina, 'Hekateion', full length del 2020 dei Dark Awake, è un'opera che richiede decisamente un ascolto impegnato. Si propone sin da subito come un lavoro molto interessante, per veri appassionati, che mi porterà alla scoperta delle strade esoteriche narrate nelle note di questo penultimo disco della band greca (da poco è infatti uscito uno split album con i Kleistophobia). Devo riconoscere una certa forma di iperattività artistica che dal lontano 2008 non ha mai abbandonato il progetto ellenico, che ha sfornato numerose creazioni in ambito dark neoclassico, martial e neofolk ambient, fino ad oggi, con una continuità davvero invidiabile. Questo lavoro è un concept incentrato sulla figura di Ecate, antica divinità di origine pre-indoeuropea, venerata da greci e romani, un'opera da intendere come un accompagnamento ritual-esoterico atto alla scoperta della realtà oscura di cui la dea ne era la potente regina dell'oscurità. Il brano di apertura, la title track, è trafitto tutto il tempo da rumori e suoni spettrali, per una lunghezza assai impegnativa che supera i 23 minuti, tra estratti di rumoristica minimale, fruscii, echi e sussurri carichi di oscuro presagio. Il pezzo ha una trama molto noir e si rianima solamente nel finale, trasformandosi in una scarna e affascinante danza tribale, acustica e ancestrale, dal sapore etnico e sciamanico, come se il tutto fosse svolto in una foresta incantata, governata da forze sovrannaturali. La cosa che più colpisce però è il canto, una splendida interpretazione, drammatica ed ipnotica al tempo stesso, per una voce stregata che si destreggia, salmodiando, nel ricordo di Hagalaz' Runedance, Eva O e Diamanda Galas, nel nome delle regine del folk pagano e del goth rock più oscuro. Si avanza con un secondo brano ("Erebenne Arkuia Nekui"), figlio dell'amore per il drone e il dark ambient apocalittico espresso nei primi album dei Dead Can Dance, potente ed evocatore, mentre, "Triformis Dadouchos Soteira", il terzo brano che porta un titolo particolarmente suggestivo, si snoda anch'esso tra rumoristica d'ambiente, dark e nuovamente drone, contraddistinto da una pesante attitudine lugubre, travagliata ed inquietante, un vortice oscuro che paralizza e destabilizza l'ascoltatore. In chiusura "Damnomeneia", che parte con suoni industriali stridenti per entrare in un comparto etnico che ricorda certe escursioni nel mondo devozionale tibetano ma la sua indole cosmica, primordiale e oscura, lo rende alla fine poco propenso alla meditazione. Il suo tetro avanzare, scandito da lente percussioni, una minimale partecipazione dell'elettronica e la sua forte propensione cinematografica, lo propone come perfetta chiusura di un disco che farà la felicità degli amanti del genere. Cosi come in passato, anche qui i Dark Awake dimostrano le loro qualità, una qualificata capacità di rinverdire e far progredire un'idea sonora spesso sottovalutata dalla critica musicale. Un buon esempio di ambient dai potenti tratti dark, uno splendido e sinistro manifesto sonoro, un disco che nel suo genere può essere letto come variegato ed intenso, sicuramente interessante e ben strutturato. Il mondo oscuro e affascinante di una divinità, madre delle arti magiche e della stregoneria, messo in musica in maniera esemplare. (Bob Stoner)

(Aesthetic Death - 2020)
Voto: 75

https://darkawake.bandcamp.com/album/hekateion