Cerca nel blog

Visualizzazione post con etichetta Depressive Black. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Depressive Black. Mostra tutti i post

sabato 29 agosto 2020

Black Hate - Altalith

#PER CHI AMA: Black Sperimentale, Deathspell Omega, Melechesh
Son passati ben otto anni da quando scrissi dei messicani Black Hate. Era il 2012 e il lavoro in questione 'Los Tres Mundos'. In mezzo, prima di questo 'Altalith', 'Through the Darkness', nel 2016, sempre per Dusktone. Il nuovo lavoro del quartetto di Città del Messico, ci conduce ancora una volta nei meandri di un sound oscuro e malato che da sempre contraddistingue i nostri. L'incipit, affidato alle percussioni di "The Gathering", sembra uno spaventoso rituale di morte azteco. Poco più di 90 secondi di suoni inquietanti che ci introducono alla follia sbilenca di "Hur/nin\ki-sag", caratterizzata da chitarre disarmoniche, ritmiche che rasentano il delirio e voci graffianti, il tutto deprivato però di una componente melodica. La song vede la partecipazione in veste di guest vocalist di Antithesis Ignis, compagno di merende negli Andramelech del frontman dei Black Hate B.G. Ikanunna; e nella song compare anche Antimo Buonanno (Hacavitz, Profanator tra gli altri) che dà il suo contributo a voci e cori. Un brevissimo intermezzo ambient e tocca a "Ir./Kalla", che ci conduce nell'antico e sotteraneo mondo mesopotamico con un sound finalmente ispirato, ove fa la sua apparizione il terzo ospite del disco, Paulina Suastegui, alla voce. La musica qui sembra ispirarsi ad un altro filone, quello mediorientale, con Melechesh e Arallu in testa, grazie all'utilizzo di quelle melodie orientaleggianti (corredate anche dalla soave voce femminile di Paulina) che caratterizzano il sound delle due band israeliane, senza comunque rinunciare alle tipiche sfuriate black. Un altro intermezzo e la strada verso la purificazione, secondo la tradizione sumera descritta in questo 'Altalith', fa tappa con "Nin\ ki /en-mhah", un brano stralunato, evocativo e cerimoniale, che miscela ancora una volta un black vorticoso con lontane contaminazioni progressive. L'ennesimo intermezzo tribale e si arriva a "Altalith-jamediu", un pezzo non semplicissimo da digerire che si muove su un mid-tempo schizzato che sembra chiamare in causa gli ultimi Deathspell Omega, soprattutto nella seconda parte dove il ritmo s'infervora notevolmente, muovendosi tra furiose accelerazioni e rallentamenti da incubo, per il più classico degli stop'n go. In chiusura “Bleed 17-09”, che vede alla voce il featuring di Kim Carlsson degli Hypothermia, sembra consegnarci una band completamente diversa da quanto ascoltato sin qui grazie ad un sound inizialmente più atmosferico, ma comunque slegato da quegli influssi mediorientali apprezzati in buona parte del disco. La lunga traccia nei suoi 10 minuti e più, vede un'alternanza di momenti più nervosi e votati al depressive black di Lifelover o Burzum, con altri decisamente più delicati e sofisticati che la eleggono comunque a mia song preferita del disco. In definitiva, 'Altalith' è un disco complesso, di difficile assimilazione che necessita di molteplici ascolti per essere goduto per quel che realmente è. Ci vuole pazienza e perseveranza ma alla fine verrete premiati da una prova dotata di una certa maturità artistica. (Francesco Scarci)
 
(Dusktone Records - 2020)
Voto: 70

lunedì 1 giugno 2020

Vast Souls - Voice of the Burned

#PER CHI AMA: Atmospheric Epic Black, Windir, Agalloch
Lo scorso 2019 usciva autoprodotto il debut album della one-man-band canadese Vast Souls, in questo 2020 ripreso dall'etichetta russa Narcoleptica Productions. 'Voice of the Burned' rappresenta il primo vagito di Echo, polistrumentista originario di Vancouver. Sei i pezzi a disposizione per il mastermind di quest'ogg per affrontare un viaggio introspettivo attraverso la natura umana, tra la morte e la rinascita, affrontando l'orrore e le bellezze del cosmo, il tutto attraverso un black atmosferico dalle forti tinte autunnali. L'odissea per l'autore inizia dall'incantesimo iniziale di "Zenith", una splendida traccia di black intrisa di una potente aura malinconica che si esplica attraverso desolanti break ambient, ove lo screaming affranto di Echo è accompagnato dai soli tocchi di un'impalpabile tastiera. "The Felling of the Sacred Tree" è il secondo capitolo del lungo viaggio pianificato da Echo, attraverso un percorso che va ben oltre i 13 minuti di durata, grazie ad un black lento e venato di quel mood depressive tipico di act quali gli Shining (quelli svedesi). Ampio spazio quindi per i momenti atmosferici dove dar modo al frontman di esibire vocalmente tutte i suoi oscuri pensieri ma anche da cui ripartire con galoppate post-black o epici riff di windiriana memoria che segnano l'ascolto di questo davvero interessante lavoro. Un altro lungo pezzo questa volta che si assesta oltre il muro dei 12 minuti, ecco "Runes Beneath the Bark", un altro piccolo segmento di tristi emozioni elaborate attraverso una lunga parte iniziale affidata alla voce del factotum canadese e della sua magica tastiera. Poi ancora spazio alle riverberate ed epiche linee di chitarra, ai desolati intrecci melodici e a tutta la magia di un suono che non finisce di stupire, richiamando per certi versi qui gli Agalloch più ispirati, anche se per raggiungere le vette dei maestri, servono ancora degli aggiustamenti nel marasma sonora in cui Echo tende talvolta a incunearsi. Ma niente paura, i margini di miglioramento sembrano abbastanza importanti, soprattutto quando arriva il turno di "The Great Sentinel"e per il mio cuore è un altro tuffo nel passato dei Windir, forse qui meno epico, ma di sicuro impatto emozionale, laddove più ampio spazio viene lasciato all'afflato strumentale del musicista nord americano. Quando invece Echo concede spazio alle sue harsh vocals, diciamo che l'effetto emotivo tende ad assottigliarsi. Nulla di grave per carità, ma in una prossima release lavorerei di più su una preponderanza strumentale piuttosto che a dar più voce alle corde vocali. "Stream of Aeons" parte già rutilante nel suo tappeto ritmico, con le chitarre scarnificate al massimo nella loro essenza (al pari dello screaming), di contro, la batteria vanta momenti in cui emerge forte il tamburo quasi a scandire il trascorrere del tempo. La sensazione è che questa song sia stata scritta in un periodo anteriore rispetto alle altre, forse perchè mostra un mood leggermente più old school, pur mantenendo comunque integri gli ingredienti che caratterizzano il sound dei Vast Souls. L'intermezzo atmosferico non manca nemmeno qui, seppur in versione più minimalista, ma è proprio da qui che si riparte con un'altra splendida galoppata di black epico e struggente in un climax ascendente, a tratti davvero da brividi. "Ether" è l'ultimo pezzo di questo gioiellino: inizio acustico, solo caldi colori autunnali quelli che si configurano nella mente mentre ascolto le note appaganti dell'incipit che obnubilano i sensi prima che irrompa il cantato di Echo ed una ritmica che si mantiene comunque in territori black mid-tempo compassati che chiudono con un ultimo arpeggio, un disco dotato di molte luci e qualche ombra che andrà sicuramente diradandosi in una delle prossime release. (Francesco Scarci)

(Narcoleptica Productions - 2020)
Voto: 78

https://vastsouls.bandcamp.com/

sabato 18 aprile 2020

Hangatyr - Kalt

#PER CHI AMA: Black, Shining
Hangatyr è uno dei molteplici nomi utilizzati per identificare Odino, la principale divinità norrena. Per tributare la sua figura, il quartetto della Turingia ha adottato questo stesso moniker, rilasciando dal 2006 a oggi tre album. Detto che la prolificità non deve essere proprio il punto forte della band teutonica, accingiamoci oggi ad ascoltare il nuovo arrivato 'Kalt', lavoro autoprodotto da poco rilasciato dai nostri. L'album include otto song che irrompono con la furia glaciale di "Niedergang", un pezzo che gela immediatamente il sangue nelle vene, per quella sua bestialità ritmica e vocale (uno screaming efferato in lingua germanica), giusto un breve accenno ad un black atmosferico ma poi, quello che si configura nelle mie orecchie, è quanto dipinto nella cover dell'album, ossia quell'uomo che cammina sotto una fitta tempesta di ghiaccio. Lo stesso ghiaccio che imperversa nelle note della successiva "Entferntes Ich", un brano più mid-tempo oriented, ma comunque contraddistinto dagli aberranti vocalizzi di Silvio e Ira, e da una componente atmosferica che rimane sempre relegata in secondissimo piano. La bufera prosegue con le melodie agghiaccianti di "Firnheim" e una prestazione a livello vocale che mi ricorda quello del buon Niklas Kvarforth nei suoi Shining, mentre il drumming risuona invasato ed insano, soprattutto nella seguente "Blick aus Eis", quando la velocità del drumming si fa ancor più sostenuta e le chitarre ancor più taglienti. "Kalter Grund" è un pezzo decisamente più controllato, con le sue melodie che ricordano da vicino le release del periodo di mezzo dei Blut Aus Nord, cosi sinistre e malefiche, e per questo eletto anche come mio pezzo preferito, soprattutto per la sua capacità di non eccedere in facili estremismi sonori e per la più preponderante valenza melodica ed una certa ricercatezza sonora. Un malinconico intermezzo strumentale, "...Kalt", e si arriva agli ultimi due brani del cd, "Mittwinter" e "Verweht", quindici minuti affidati ad una tormenta sonora che come il vento sferza i nostri volti con soffi d'aria gelidi, l'act tedesco, con le sue plumbee chitarre, genera atmosfere rarefatte ma comunque dotate di una certa intensità epico-emotiva. 'Kalt', per concludere, è un album complicato, non certo facile da digerire di primo acchito, ma che richiede semmai più ascolti per essere apprezzato nella sua veste cosi distante e glaciale. (Francesco Scarci)

sabato 11 aprile 2020

The Ruins of Beverast/Mourning Beloveth - Don't Walk On The Mass Graves

#PER CHI AMA: Black/Doom
In attesa di ingannare il tempo affinchè i rispettivi nuovi lavori vedano la luce, ecco che i The Ruins of Beverast e i Mourning Beloveth, si ritrovano in uno split EP rilasciato in formato 10" per regalarci venti minuti in compagnia di due realtà davvero interessanti dell'etichetta tedesca Vàn Records. Ad aprire le danze di questo 'Don't Walk On The Mass Graves', ci pensa la chitarra acustica degli irlandesi Mourning Beloveth con "I Saw a Dying Child in Your Arms", quasi dieci minuti di sonorità evocative che chiamano immediatamente ed inequivocabilmente in causa i Candlemass con quel cantato dominante e pulito del frontman Frank Brennan, che offre la sua splendida voce ad un delicato supporto ritmico in quella che sembra a tutti gli effetti una ballad. Il tremolo picking a metà brano, oltre a donare una forte componente malinconica, sembra quasi prepararci ad un cambio di registro nella seconda metà del pezzo. La song sembra crescere in intensità ed elettricità, non fosse altro che fa la sua comparsa anche il growling di Darren Moore nonostante la componente emotiva si mantenga comunque in quell'ambito di malessere e depressione tanto caro al quintetto di Athy. A seguire ecco i teutonici The Ruins of Beverast con il pezzo "Silhouettes Of Death's Grace" e la loro consueta amalgama di suoni spettrali che da sempre contraddistinguono la one-man-band capitanata da Alexander Von Meilenwald. La song è lenta e avvolta da un'insana ed angosciante atmosfera (forte anche di sovraincisioni di voci e dialoghi), acuita poi dallo screaming malefico del mastermind, e che vede cambiare registro solamente a 3/4 di brano, in una discordanza sonora che riuscirà a prendere il sopravvento prima dell'epilogo affidato ad una disturbante melodia che evoca un che dei Blut Aus Nord più ispirati, il tutto perennemente in combinazione con il suicidal black doom degli svedesi Shining. Insomma, che ne dite della proposta delle due band? A me piace parecchio. (Francesco Scarci)

mercoledì 11 dicembre 2019

Lesath - Like the Wind

#PER CHI AMA: Depressive Black
Quanto mi affascinano le band il cui moniker si rifà al nome di stelle: Lesath è infatti una stella azzurra della costellazione dello Scorpione che ha da poco intrapreso il percorso per diventare una supergigante. Non so quali siano le ragioni che hanno portato alla scelta di tale nome, fatto sta che la one-man-band di oggi ci propone un EP di due tracce (banalmente "I" e "II") intitolato 'Like the Wind'. La prima song si manifesta sottoforma di un black depressive che vive del contrasto tra chitarra acustica ed una ritmica mid-tempo su cui si affaccia la voce sussurrata del mastermind di questo progetto. Niente di stravolgente, se non l'emozionalità dirompente che scaturisce dalle tiepide note di questi primi minuti. Interessante proposta, che necessiterebbe di qualcosa di più stimolante per decollare. Eccomi accontentato visto che "II" è una devastante traccia black con tanto di chitarre e screaming ringhianti, che vanta tuttavia ottime melodie e avvincenti cambi di tempo. Rimango curioso di ascoltare un disco completo di questi Lesath per capire esattamente dove vogliano andare a parare con la loro musica, vista la discrepanza contenutistica di codesto 'Like the Wind', che non mi aiuta di certo a valutare in toto la proposta musicale del polistrumentista misterioso che si cela dietro a questo moniker stellare. (Francesco Scarci)

giovedì 21 novembre 2019

Asphodèle - Jours Pâles

#PER CHI AMA: Post Punk/Depressive Black/Shoegaze
Gli Asphodèle si sono formati nel 2019, ma non pensate che siano dei pivelli. La band francese che consta di cinque membri, include infatti batterista e chitarrista degli Au Champ des Morts, una band che ho particolarmente apprezzato nel 2017 con l'album 'Dans la Joie', la ex vocalist degli Amesoeurs, il cantante dei Aorlhac (che abbiamo già incontrato su queste pagine) e il bassista degli svedesi Gloson. Insomma, potrebbe risultare fuori luogo parlare di super gruppo però, se rapportato ai circuiti underground, non mi vergognerei affatto ad affermarlo. Che attenderci quindi da questo quintetto inedito? Vi risponderei semplicemente che tutti e cinque i musicisti hanno portato le loro pregresse esperienze in questo 'Jours Pâles', cercando di conglobarle con quelle degli altri. Pertanto, dopo l'intro strumentale di "Candide", ecco palesarsi in "De Brèves Étreintes Nocturnes" la voce di Audrey Sylvain, a portarmi con la sua timbrica, indietro di una decina di anni quando la brava cantante si dilettava con i vari Neige e Fursy T. nel loro inequivocabile concentrato di post-punk, shoegaze e depressive rock. Ad inasprire il sound però con echi post-black, ecco la chitarra sbilenca di Stéphane Bayle, uno che da 25 anni suona anche (e soprattutto) negli Anorexia Nervosa e ha pertanto una vaga idea di come fare male, a fronte anche di una nuova esperienza nei blacksters Au Champ des Morts. La musica degli Asphodèle si muove quindi in ambiti estremi anche se l'utilizzo massivo delle female vocals, smorzano la vena feroce della band, sebbene le ritmiche si confermino taglienti anche nella title track e il growling/screaming di Spellbound, cerchi di fungere da classico contraltare della soave performance della gentil donzella. Il sound dei nostri si arricchisce comunque di molteplici sfaccettature, dai break acustici della già citata title track, alle asprezze più black oriented di "Gueules Crasses", song dotata di una epica e gelida aura, grazie alle chitarre di scuola scandinava, mitigate dalle melodie vocali della particolare Audrey. Il disco scivola velocemente verso la fine attraverso altri pezzi, alcuni decisamente malinconici ("Nitide") ma comunque molto vari, altri che strizzano l'occhiolino più pesantemente allo shoegaze ("Réminiscences") song che trovo quasi fuori posto in questo contesto sebbene Spellbound cerchi di mantenere con la sua timbrica una certa connessione col depressive black. A chiudere invece "Décembre", un pezzo in stile Shining (quelli svedesi) che sancisce un disco interessante che sembra però mostrare qualche intoppo a livello di songwriting o comunque non avere una fluidità musicale ancora acclarata. 'Jours Pâles' è un lavoro discreto suonato da ottimi musicisti che paiono ancora non particolarmente amalgamati tra loro. (Francesco Scarci)

(LADLO Productions - 2019)
Voto: 68

https://ladlo.bandcamp.com/album/jours-p-les

sabato 24 agosto 2019

Violet Cold - kOsmik

#PER CHI AMA: Blackgaze, Ghost Bath, Show me a Dinosaur
In un'estate in cui mi sono trovato improvvisamente apatico nei confronti del mio genere preferito, il metal, c'è ancora qualcosa che riesce a stuzzicare i miei sensi e a farmi amare questa musica. Ci ha pensato il buon Emin Guliyev, mente creativa dei Violet Cold, che torna con un nuovo lavoro, l'ottavo full length in quattro anni, intitolato 'kOsmik', uscito peraltro per la nostrana Avantgarde Music. Il cd del mastermind azero riprende dalle note post rock della precedente trilogia 'Sommermorgen', le unisce con le note esotiche del magnifico 'Anomie', infarcendo poi il tutto con stilose trovate post black e shoegaze dal forte impatto melodico. E quindi spettacolare in tal senso "Black Sun", song dal piglio feroce, ma altamente atmosferica e malinconica, caratterizzata dal dualismo vocale tra lo screaming di Emin e quello di una gentil donzella, con le melodie in sottofondo che si riempiono anche di influenze etniche e soprattutto classiche che esaltano la buona riuscita del brano. E io godo. Si perchè il flusso dinamico-musicale costruito dal factotum di Baku lo trovo estremamente piacevole e di buon gusto, in un momento in cui il post-black mi ha francamente frantumato i cosiddetti. E invece i Violet Cold continuano a produrre pezzi coinvolgenti, mai banali che mi fanno dire che c'è ancora spazio per la sperimentazione (la già citata "Black Sun"), per i suoni originali (fantastica l'ultra riverberata "Mamihlapinatapai"), per le emozioni oscure ("Space Funeral" e "Ultraviolet"), per gli echi di windiriana memoria (la title track) o i fortissimi richiami alla musica classica ("Ai(R)" evidente tributo a Johann Sebastian Bach e alla bellissima "Aria sulla Quarta Corda"). Che dire di più, se non invogliarvi ad avvicinarvi a questo brillante artista se ancora non lo conoscete ed ascoltare le sue splendide uscite su lunga distanza, tralasciando invece i fin troppo sperimentali EP. Ben fatto Emin! (Francesco Scarci)

(Avantgarde Music - 2019)
Voto: 78

https://avantgardemusic.bandcamp.com/album/kosmik

venerdì 23 agosto 2019

Mahr - Soulmare I

#PER CHI AMA: Black Depressive, Darkspace
Originari della terra di nessuno e formati da un numero indeterminato di membri, gli enigmatici Mahr tornano a distanza di un anno dal debut 'Antelux' con un doppio EP, 'Soulmare I' e 'Soulmare II'. Detto che per oggi mi limiterò all'analisi del primo capitolo, vorrei ricordare come la band si fosse già messa in mostra con il primo album grazie ad un sound gelido e atmosferico che chiamava inequivocabilmente in causa i Darkspace. Avevo amato l'esordio dei nostri, e per questo l'attesa di una nuova release montava alte aspettative. Ed ecco 'Soulmare I', un dischetto che contiene una sola traccia, omonima, della durata di 21 minuti che sembra inasprire quella componente black desolante dell'ensemble, la cui origine permane sconosciuta (verosimilmente la Russia). I primi tre minuti includono una sorta di intro ambientale, poi ecco il classico black metal freddo, lento (molto doomeggiante), a tratti evocativo (non male il cantato quasi liturgico), ma per lo più lugubre grazie a quella voce arcigna e malefica che s'innalza dal sottofondo in quel mood altamente riverberato fatto di voci lontane, chitarre lisergiche e melodie stranianti, quasi si trattasse di un messaggio alieno proveniente da un'altra galassia. Un lavoro sicuramente affascinante ma di certo non alla portata di tutti. Dannatamente claustrofobici e malati. (Francesco Scarci)

(Amor Fati Productions - 2019)
Voto: 72

https://mahr-pk.bandcamp.com/album/soulmare-i

sabato 27 luglio 2019

Brouillard - S/t

#PER CHI AMA: Depressive Black, Darkspace
Il factotum Brouillard l'avevamo menzionato in occasione dell'uscita di 'Loin Des Hommes' dei J'ai si Froid..., una transitoria distrazione dalla sua band principale. L'artista transalpino torna con un nuovo lavoro intitolato semplicemente come i precedenti tre, ossia 'Brouillard' (il cui significato sta per nebbia). Quattro pezzi intitolati banalmente "Brouillard", giusto per non creare eccessiva confusione anche con tutti i brani precedentemente prodotti e non lasciare il povero ascoltatore in preda ad eventuali dubbi sul ricordare un titolo o un altro della discografia della one-man-band francese, tutto semplice, tutto estremamente spersonalizzato, o forse eccessivamente personalizzato? Mah, ai posteri... Fatto sta che mi lancio all'ascolto del quarto disco dell'eccentrico musicista d'oltralpe e quello che mi trovo tra le mani è fondamentalmente un'altra visione depressive del misterioso mastermind di quest'oggi che rimanda in modo inequivocabile alle precedenti release dello stesso, cosi come pure al suo side-project. E allora le domandi sono molteplici: perchè avere due progetti distinti se poi i generi proposti confluiscono verso un comune depressive black? Ebbene, una risposta certa non so darvela, posso solo dire che gli oltre cinquanta minuti qui contenuti, contengono melodie e ritmiche che sono accostabili a quelle dei J'ai si Froid... o forse è vero il contrario, non lo so. Aspettatevi pertanto quel black fumoso, a tratti atmosferico già descritto nella precedente recensione, con suoni che variano dal marziale al depressive melancolico, scrutando infiniti desolanti, sorretti da piacevoli parti arpeggiate che placano l'irruenza malefica generata dai diabolici vocalizzi del frontman. A differenza del side project però, posso dire che mi sembra di captare una miglior produzione alla consolle, cosi come pure una minor sporcizia in fatto di lavoro alla batteria. Per il resto, gli ingredienti che trovai nel progetto parallelo di Mr. Brouillard, li ritrovo tutti anche in questo nuovo enigmatico capitolo della saga 'Brouillard' sebbene qui meglio curati: e allora adagiatevi su lunghissimi brani (dagli 8.45 dell'opener ai 17 minuti della song di chiusura), dilatate fughe strumentali in tremolo picking, break acustici, assalti black, arcigne grim vocals, parti di derivazione burzumiana (penso al terzo ed oscuro capitolo), epiche e bombastiche percussioni folkloriche (a metà della seconda traccia, la mia preferita), ammiccamenti vari ai Darkspace in quelle partiture cosmiche dai tratti minimalistico-glaciali che in tutta franchezza, mi sono ritrovato alla fine ad amare. E cosi, da un album che avevo ingiustamente etichettato come mero clone di se stesso, mi rendo conto che Brouillard in questo lavoro riesce ad esprimere molto di più di se stesso, delle sue inquietudini, della sua solitudine, delle sue paure, convogliando il tutto in questi fottutissimi 53 minuti di incubi spettrali. (Francesco Scarci)

venerdì 24 maggio 2019

J'ai Si Froid - Loin des Hommes

#PER CHI AMA: Depressive Black Metal, Burzum, Paysage D’Hiver
Da non confondere con l'omonimo film con Viggo Mortensen, 'Loin des Hommes' rappresenta la terza fatica della one-man-band francese J'ai Si Froid. L'act, guidato dal factotum Brouillard, e forte della collaborazione con la Transcendance, ha da offrirci sette tracce (che includono duo pezzi strumentali) di emozionale e atmosferico black metal. Questo probabilmente si evince anche dalla suggestiva cover cd che lascia presagire da quelle montagne all'orizzonte, il senso di solitudine che vivremo durante l'ascolto del disco. Un album, che dopo l'arpeggiata intro, irrompe con "La Débâcle" ed una proposta di depressive black metal, con tanto di strazianti melodie costruite da compassate e ronzanti chitarre ritmiche su cui poggiano i vagiti disperati del mastermind transalpino in un viaggio di 12 minuti, in cui vi ritroverete anche voi come accaduto al sottoscritto, a pensare a qualunque cosa, contemplando il grigiore del cielo. Non solo suoni emozionali però nei lunghi minuti di questa song, ma anche furiose accelerazioni black, in cui ad essere penalizzata è la componente strumentale legata alla batteria, troppo secca e artificiale nel suo asettico programming sintetico. A ciò dobbiamo aggiungere una registrazione globale non proprio al top, forse legata agli stilemi imposti dal genere. Se i dodici minuti iniziali mi sembravano un po' eccessivi, i 13 prima di "Endurer pour Éprouver la Candeur" e i 16 di "Valse Mélancolique" poi, rappresentano uno sforzo notevole da affrontare, visto che a fronte di un approccio di "burzumiana" memoria, l'artista francese ha poco di nuovo e vario da offrire all'audience, se non un notevolissimo break melodico nella seconda parte della prima traccia, dai forti richiami classicheggianti. Poi un nuovo roboante attacco black che questa volta mi ha ricordato i Windir. Se l'incipit di "Valse Mélancolique" sembra più una suoneria del cellulare, la sua evoluzione invece è un black tiratissimo, saltuariamente epico e assai melodico, in cui però accade che si perdano i contorni degli strumenti, offuscati da quella marcescente registrazione low-fi che citavo poc'anzi. Un intermezzo acustico e arriviamo a "L'Espoir est le Dernier à Crever" il penultimo glaciale atto di 'Loin des Hommes', che riflette esattamente lo spirito distaccato, intimista, a tratti misantropico, del polistrumentista francese. "Le Rappel des Plaines" chiude il lavoro con poche variazioni al tema, concludendo proprio come si era aperto questo viaggio spirituale, ossia con un oscuro e malinconico black metal. Un lavoro più che sufficiente, che necessita di una ripulita generale per potersi aprire a platee più ampie, partendo da una pulizia dei suoni, una maggior umanità nelle linee di batteria, e meno derive musicali ampiamente già sentite sino ad oggi. (Francesco Scarci)

lunedì 20 maggio 2019

Time Lurker/Cepheide - Lucide

#PER CHI AMA: Post Black, Au Dessus
Time Lurker e Cepheide, due band che qui all'interno del Pozzo dei Dannati conosciamo assai bene. Uno split, 'Lucide', che consta di sole tre tracce per oltre trenta minuti di musica. Partono i Time Lurker con un paio di pezzi ("No One is Real" e "Unstable Night") che confermano quanto di buono avevamo già sentito nel debut della one-man-band di Strasburgo, capitanata dal buon Mick (qui peraltro accompagnato da un secondo vocalist, Thibo dei Paramnesia), ossia un post black atmosferico dalle forti tinte apocalittiche, con tanto di cavalcate infuocate, spezzate da ombrosi rallentamenti doom e grida disperate (e soffocate) in sottofondo. Questo è quanto si sente nell'opener track, ancora peggio (o forse meglio) con la seconda impetuosa "Unstable Night", un fiume in piena di abrasive quanto mefistofeliche melodie che sembrano prepararci al nostro incontro con il Signore delle Mosche e a quello che sentiremo da li a poco, con la lunghissima traccia (quasi venti minuti) dei Cepheide. Il duo parigino ci propina proprio la title track dell'album, che per genere, potrei ammettere di essere assimilabile a quello del collega che ha aperto il disco, con la sola differenza nell'uso di vocalizzi più strazianti (di matrice suicidal black metal). La musica poi è per certi versi affine ad "Unstable Night", deviata, diabolica, malvagia e melodica quanto basta per disturbare i sensi e il nostro sonno notturno. Un lungo incubo da quale sarà difficile destarsi, anche nella parte più ambient della traccia, alla fine quella che differenzia le proposte dei due gruppi transalpini. Un succoso split album che sa di riempitivo in attesa delle nuove fatiche delle due compagini, un breve malatissimo viaggio nelle perverse menti di Time Lurker e Cepheide, che conferma, ancora ce ne fosse bisogno, l'eccellente stato di forma della scena estrema francese. (Francesco Scarci)

(Les Acteurs de l’Ombre Productions - 2019)
Voto: 72

https://cepheide.bandcamp.com/album/split-with-timelurker

sabato 30 marzo 2019

Aethyrick - Praxis

#PER CHI AMA: Black atmosferico, primi Katatonia
Mentre sto qui a scrivervi di 'Praxis', sappiate che è già uscita una compilation a raccontarci qualcosa di più degli Aethyrick e dei due demo che ne hanno aperto la carriera. A parte questo, del combo finlandese si sa ben poco, se non che si tratti di un duo le cui facce, nelle foto ufficiali, rimangono celate. Largo spazio allora all'ispirata proposta dei nostri e a quello che sembra un black metal dalle forti tinte malinconico-atmosferico, come già si evince dall'opener "Protectress", che sfoggia notevoli melodie e un sound che mi ha evocato un qualcosa dell'esordio dei Thy Serpent di 'Forests of Witchery'. Sensazione confermata anche dalla seconda e arrembante "Reverence", che ci martella e non poco, con quella sua ritmica scarna e le sue grim vocals, il tutto corredato da una buona dose di melodie che ne stemperano la durezza e l'aggressività di fondo. La proposta del duo formato da Gall ed Exile, sembra abbracciare un black ancor più atmosferico, a tratti sognante, con "Pilgrimage" dove a parte i synth, sembra farsi largo un bel basso tonante e un tifone sonoro a livello di batteria. La song però ha modo di rallentare negli ultimi due minuti e concedere largo spazio ad un riffing in tremolo picking, atto ad incrementare l'impatto emotivo del disco. Non pensate però che 'Praxis' sia un disco per mollaccioni, sebbene "Quietude" vada alquanto a rilento con il suo black mid-tempo strumentale, è solo un modo per farci rifiatare e ripartire con "Wayfarer". La quinta traccia riparte là dove ci eravamo lasciati con la terza song e quindi una proposta di black sempre controllato, abbastanza melodico, che concede forse qualcosina a livello di originalità, ma che comunque sa il fatto suo su come catturare l'attenzione di chi infila le cuffie per la prima volta e tasta il polso alla proposta degli Aethyrick. Un po' più storta nel suo incedere "Adytum", lenta e sulfurea nel suo proporre un suono che qui sembra essere più evocativa, pur non inventandosi nulla di che, anzi ammiccando non poco ai Katatonia di 'Brave Murder Day'. Il finale è affidato a "Totems": chitarra zanzarosa, ritmica lenta e sinuosa, piglio depressive, buon comparto chitarristico, discreta dose di melodie autunnali a sancire la conclusione dell'atto primo dei finlandesi Aethyrick. Nulla di nuovo sotto al sole, ma quello messo in scena mostra per ora un promettente futuro. (Francesco Scarci)

(The Sinister Flame - 2018)
Voto: 74

https://aethyrick.bandcamp.com/album/praxis

sabato 8 dicembre 2018

Absent/Minded - Raum

#PER CHI AMA: Death/Doom/Sludge/Depressive
È il terzo album dei teutonici Absent/Minded che recensisco, mi sono perso solo il debut 'Pulsar', semplicemente perché non li conoscevo ancora. Da 'Earthone' in poi, è stata una progressione nel mio indice di gradimento, che mi ha portato ad apprezzare sempre con grande entusiasmo, le proposte dell'ensemble bavarese. Ora, ecco arrivare la loro nuova release, 'Raum', per capire se le mie attese saranno nuovamente confermate. Sei i pezzi per i nostri, che aprono le danze con le vocals sussurrate di "Deep Roots Aren't Reached by the Frost", accompagnate dal classico rifferama ultra distorto della band e quel growling corpulento che da sempre, caratterizza i quattro musicisti di Bamberg. Come già detto per il predecessore 'Alight', in riferimento all'album precedente, non scorgo sostanziali differenze in fatto di genere proposto, vedo semmai la conferma di una qualità che si assesta sempre a livelli standard assai elevati. C'è chi potrebbe storcere il naso e parlare di immobilismo artistico da parte della band, francamente me ne fotto, preferisco rilassarmi e assaporarmi il suono delle poderose chitarre di Uwe che ama creare ambientazioni death doom per poi piazzarci dentro dei riferimenti legati al mondo sludge/post metal. Ancora meglio la seconda traccia, "Treasure", lenta, disarmante, a tratti spoglia, ma non con quella valenza negativa che può avere il termine. Penso semmai alla desolante propagazione sonica dei Cult of Luna o alla malinconica disperazione degli svedesi Shining, che forse in questo pezzo, hanno più di un punto di contatto con i nostri. E forse proprio in questo risiede la vera novità degli Absent/Minded targati 2018, ossia una maggiore vicinanza al black depressivo. Insomma, mica male mi viene da dire, soprattutto perchè tutto l'album si assesta su livelli medio-alti e perchè i pezzi migliori sembrano concentrarsi poi nella parte centrale del cd, quindi la qualità va aumentando man mano che si avanza con l'ascolto. "Fore-ever" parte assai lentamente, la voce bisbigliata di Stevie sembra quasi cullarci nelle sue struggenti e delicate note, almeno fino a quando il riffing deflagra nella sua pienezza e contestualmente s'accresce sinuosamente anche il ritmo. Con "Shore" si parte invece già belli carichi con una ritmica potente per poi fare il percorso inverso, rallentare in interessanti parti atmosferiche e riprendere con la stessa ferocia di inizio brano. Ci sono le onde del mare a darmi un senso di rilassamento in "Yrtm", dove una sorta di guida spirituale declama i versi della poesia "Funeral Blues" di W.H. Auden. L'ultima song è la lunga "Alpha", nostalgica nei suoi giri di chitarra acustica, ma sempre roboante nelle growling vocals e nel suo mastodontico riffing. Gli Absent/Minded sono tornati e non posso che esserne lieto, perchè la prova è sempre di pregevole qualità. Mi sarei aspettato qualche ulteriore variazione al tema classico (ed è per questo che non li premierò più del dovuto) perchè questi ragazzi hanno il dovere di dare e osare di più. (Francesco Scarci)

(Self - 2018)
Voto: 75

https://aminded.bandcamp.com/

sabato 1 dicembre 2018

Istina - Revelation of Unknown

#PER CHI AMA: Depressive Black, Burzum, Xasthur
Nel 2014, mi ero preso carico di recensire il debut album dei russi Istina, un disco quel 'Познание тьмой', che conteneva un black furioso frammisto a parti atmosferiche. Ebbene, a distanza di quattro anni da quel lavoro, mi ritrovo fra le mani il nuovo cd del gruppo di Krasnoyarsk, 'Revelation of Unknown', cosi come tradotto dal cirillico in inglese dalla band stessa. Ben dodici pezzi per 70 minuti di musica fatta di sonorità mortifere che proseguono quanto iniziato con il loro debut. Tutto è molto palese sin dall'introduttiva "At the Peak of Madness", una scheggia di tre minuti e mezzo di black ferale che scarica parte della sua nera energia distruttiva in un breve atmosferico break centrale. E quando parte "Decayed Threads", il registro non sembra mutare troppo: il treno ritmico riprende alla grande tra blast-beat e ritmiche ribassate, ma dopo un minuto ecco lo stop a smorzare gli animi per almeno 30 sec di reminiscenze burzumiane. Poi la veemenza dei nostri riparte verso sconosciute mete lontane, ove fare sporadicamente pause, emananti forti sensori tastieristici cari al buon vecchio Conte Grishnackh. Il black degli Istina, come già scritto in passato, paga un grosso dazio alle prime release di Burzum, palesando anche qualche ulteriore influenza di scuola Xasthur. Inevitabile che un lavoro di questo tipo non possa aprirsi a grandi palcoscenici, il sound è troppo oscuro e parecchio incazzato, lo screaming ferale di N., uno dei due musicisti dell'ensemble russo - l'altro è M., non agevola l'ascolto ai profani del genere, quindi il mio consiglio è indirizzato a chi simili sonorità, le mastica già da tempo. E se "Alien One" è un litanico e doomeggiante pezzo, ipnotico quanto basta per indurci a paranoici pensieri, con la brevissima e drammatica "Awakening", la band prova ad introdurci ad ancor più insalubri anfratti della psiche umana. "Solitude" è un pezzo lento, su cui s'inseriscono le vocals ululanti del cantante, e in cui il depressive black si mostra in tutta la sua stentorea decadenza, tra ammiccamenti a Shining (quelli svedesi, mi raccomando) e ambientazioni da incubo. Non è un lavoro semplice da digerire, lo scrivevo quattro anni fa, lo confermo oggi. Gli Istina sono portatori di tenebrose ed orrorifiche ambientazioni (le strumentali "Contemplation of Mysteries" e "Perfect Shining of Darkness" nesono un esempio), ma anche di violente scariche che sembrano addirittura provenire dal punk, come quanto si sente nell'arrembante title track, una song che sembra però risentire di un certo caotico sound primordiale nelle sue linee di chitarra, il che la rende assai più ostica da assimilare. Ancor più spaventosa in fatto di violenza emanata, "Losing Control", dove i nostri sembrano davvero perdere il controllo della loro diabolica proposta, con sonorità glaciali, a tratti al limite del brutal death. Turbato emotivamente da simili sonorità, mi avvio all'ascolto delle ultime tracce: "Stopping Time" mette il freno alla violenza sin qui dissipata dall'act russo, con una proposta più controllata, all'insegna di un black doom ritmato e angosciante. Gli oltre dieci minuti di "The Return" e i lugubri minuti rimanenti affidati a "Ruins of Innermost", condensano un po' tutto quanto sentito sin qui in questo 'Revelation of Unknown', un lavoro fottutamente malvagio, riservato solo a pochi intimi fruitori di sonorità dannate. (Francesco Scarci)

venerdì 2 novembre 2018

Garhelenth - About Pessimistic Elements & Rebirth Of Tragedy

#PER CHI AMA: Depressive Black, Gorgoroth
Non è la prima volta che ci imbattiamo in una band originaria dell'Iran (anche se ora si è trasferita in Armenia - sarei curioso di conoscerne le ragioni): era successo con gli Ekove Efrits ed i Silent Path, riaccade oggi con questi Garhelenth, duo black metal. La band ci propina un concentrato di sonorità nere che chiamano in causa (anche a livello di artwork) alcune band del nord Europa (chi dice Gorgoroth?), miscelandone la loro efferatezza con influenze dal lontano sentore folklorico. Lo si percepisce in "Destruction of the Will", una song di sicuro malvagia contraddistinta da chitarre ahimé fin troppo lineari su cui si stagliano grim vocals e poco più in là in sottofondo, ove compare un rallentamento guidato da spoken words pulite, percepisco un qualcosa di etnico. Una suggestione forse. Con "Foolish Conscience" si torna a fare sul serio con un black metal old school che non ha troppo da raccontare di nuovo, se non un uso della voce sul finale un po' fuori dagli schemi. Sonorità marziali capeggiano in "Self-Humiliation", un brano che sfoggia un profondo rallentamento doomish che fortunatamente mette una pezza ad un cd che già mi stava stancando dopo soli tre pezzi. L'attenzione me l'hanno richiamata, ma la soluzione vincente non la riescono proprio a trovare. Forse qualcosina emerge in "To Impersonal Mankind", troppo poco però per farmi gridare al miracolo. 'About Pessimistic Elements & Rebirth Of Tragedy' pur proponendo un depressive black metal risulterà, anche con i successivi pezzi, troppo scolastico e ripetitivo nella sua proposizione di un black che sembra ormai sul viale del tramonto. Alla fine, l'unica cosa che sembra davvero interessante sono i testi, che trattano tematiche legate alla filosofia e all'emozioni più viscerali dell'uomo. Poca roba però per salvare il disco dalla falce del recensore cattivo. (Francesco Scarci)
 
(Satanath Records/The Eastern Front - 2017)
Voto: 55
 

martedì 2 ottobre 2018

Dymna Lotva - Палын

#PER CHI AMA: Black Doom/Depressive
Il disastro di Černobyl' ebbe luogo il 26 aprile 1986 alle ore 1.23 circa, presso la centrale nucleare V.I. Lenin, in Ucraina, ad una manciata di km dalla città di Pripyat e a pochi km dal confine con la Bielorussia. Quell'evento catastrofico sconvolse il mondo, visto che una nube radioattiva invase dapprima la vicina Bielorussia e poi centro-nord Europa e Nord America. Proprio di quella catastrofe rimasta impressa nella storia, ci narrano i ragazzi di Minsk nel loro 'Палын', album uscito sul finire del 2017 e arrivato da pochi giorni sulla mia scrivania. Solo trenta minuti a disposizione per il quartetto bielorusso per trasmetterci tutte le loro strazianti emozioni, iniziando da "Самотны чалавечы голас", dove una voce sembra voler raccontare i fatti legati a quell'esplosione, in un flusso di malinconico depressive doom. Il sound ha subito presa sui miei sensi, mi avvolge in tutta la sua drammaticità e mi conduce in quei luoghi, a oltre trent'anni da quel funesto episodio. Pripyat è una cittadina fantasma che prima del disastro contava 50.000 anime, oggi zero. E tutta quella sua desolazione si percepisce nelle note decadenti di piano di 'Прыпяць', il nome in cirillico della città. Case, edifici pubblici, scuole sono oramai in balia del tempo, nulla è rimasto come testimoniato da "Пакідаючы родныя дамы" (tradotto in "lasciando le case native"), una song che richiama gli svedesi Shining in una versione più edulcorata, ma in grado di evocare ambientazioni spettrali. E cosa meglio di un violino a suggestionarci, un violino dotato di un'aura sinistra che irrompe nella funerea e splendida title track, un piccolo gioiellino di black atmosferico che ci prepara all'angosciante interludio "Чарнобыль. Ненароджаны", un breve intermezzo noise dove tra un pianto di un nascituro mai nato e il suono di carillon, l'effetto è quello di generare un devastante nodo in gola. Il disco prosegue con "Одинокий человеческий голос" e le laceranti vocals del cantante, solitarie nel declamare, attraverso il convincente depressive black, alcuni passaggi del libro di Svetlana Alexievich, 'Preghiera per Černobyl'. Cronaca del futuro'. Il cd si chiude con "P.S. Пахаванне зямлі" e il funerale per questa terra celebrato da una voce femminile che duetta con lo screaming di Nokt in una song interessante ed estremamente melodica che chiude con somma rilevanza lo scorrere deprimente di 'Палын', album consigliatissimo ai più, non solo per la musica in esso racchiusa ma per i contenuti storici trascritti. (Francesco Scarci)

(Der Neue Weg Productions - 2017)
Voto: 80

https://dymnalotva.bandcamp.com/album/wormwood

domenica 23 settembre 2018

Taiga - Cosmos

#PER CHI AMA: Depressive Black/Doom, Austere
La Russia da sempre è sinonimo di affidabilità in fatto di sonorità black doom atmosferiche. Poi quando hai un moniker che si rifà alla foresta boreale, la taiga appunto, non si può sbagliare assolutamente. Questa l'introduzione di 'Cosmos', quarto album del duo di Tomsk, che all'attivo ha anche quattro EP. Il genere espresso dai nostri siberiani è un depressive black dalle tinte atmosferiche che include ovviamente chiari riferimenti doom (visibili nell'opener "Стыд"), verosimilmente un retaggio dell'altra band di Nikolaj Seredov, i funeral doomsters Funeral Tears. Curioso poi il fatto, che il secondo membro dei Taiga sia Alexey Korolev, il proprietario dell'etichetta Symbol of Domination, che produce questo disco. Fatte le dovute presentazioni, introdotto anche il primo brano, citerei immediatamente la seconda traccia "Жить" per quel suo sound intenso, melodico, straziante (soprattutto a livello vocale) e malinconico che mi ha fin da subito conquistato. Certo ci sono ancora tante imperfezioni da limare e correggere, ma il dirompente attacco che dà il via alla song, è da brividi: una sorta di post black dal forte sapore nostalgico, in cui l'unica cosa a non solleticarmi i sensi è lo screaming efferato di Nikolaj, da rivedere sicuramente. Per il resto, il cd scivola via piacevolmente tra decadenti melodie, ariose parti di synth e rallentamenti depressive, come accade nella prima metà della title track, prima che le tastiere s'impossessino della scena e regalino attimi di grande pathos, e le chitarre abbandonino il classico ronzio black per avvicinarsi maggiormente all'heavy classico. Mi piacciono questi Taiga, hanno grinta, buon gusto per le melodie, la capacità di alternare momenti vivaci e dinamici con altri più oscuri ("Ты"), in cui le sgraziate urla del frontman, lontane in sottofondo, s'incastrano su un drammatico impianto ritmico. E cosi, evocando i primi Burzum o i più criptici Austere, i due loschi figuri continuano a ricamare pezzi più che dignitosi, in cui black, eteree atmosfere, sfuriate al limite del death ("Слова потеряют значение") e deprimenti melodie, se ne vanno a braccetto per celebrare questo quarto capitolo targato Taiga. (Francesco Scarci)

(Final Gate Records/Symbol of Domination - 2017)
Voto: 70

https://symbolofdomination.bandcamp.com/album/sodp103-taiga-cosmos-2017

martedì 17 luglio 2018

Pa Vesh En - A Ghost

#PER CHI AMA: Raw Black
Della serie one-man-band crescono, ecco arrivare dalla Biellorussia il nuovo EP del misterioso Pa Vesh En: due tracce per una quindicina di minuti scarsi dediti ad un black ambient minimalista. Si parte con la spettrale e rumoristica "Haunting and Mourning" per arrivare alla più doomish "Gruesome Exhumation". I suoni dell'opener sono impastati e di pessima qualità con la proposta del musicista biellorusso che si alterna tra il raw black, un suicidal black mid-tempo (grazie anche a delle scream vocals disperate) e rari intermezzi ambient. Il problema sta tuttavia nell'ascoltare una simile accozzaglia di suoni che probabilmente, se registrati come dio comanda, avrebbero potuto suscitare un minimo interesse. Qui invece è tutto caotico, nemmeno fosse il più scarso dei demotape. La storia si conferma anche con la seconda traccia, più orientata ad un sound abissale anche se qui non mancano delle velenose scorribande black. Capisco l'underground, non comprendo invece l'Iron Bonehead Productions che rilascia una simile release. Mah, scelta quanto meno discutibile. (Francesco Scarci)

venerdì 13 luglio 2018

Unreqvited - Stars Wept to the Sea

#FOR FANS OF: Atmospheric Black Metal
Unreqvited is a Canadian solo project formed back in 2016. The debut album entitled 'Disquiet' gained some recognition among the blackgaze, post rock and atmospheric black metal fans. It was indeed a quite interesting debut, which mixed those styles, always putting a great effort on creating an intense atmosphere with undoubtedly beautiful melodies. That album had quite long instrumental sections and extensive ambient and quiet parts that, though being nice, had a negative effect after some listens. The album sounded at times a little bit unfocused. In my opinion, the debut lacked more metal infused sections which could have helped to achieve a stronger final result.

Now, only two years after their debut, Unreqvited makes a comeback with a sophomore album entitled 'Stars Wept to the Sea'. The question for me was, will the new album have exactly the same sound, including the strengths and weaknesses? Well, after some listens, the answer could be yes. The overall sound and style remains the same. Unreqvited plays a blend of atmospheric post-rock/metal with a strong blackgaze and ambient influence. It’s pretty clear that Unreqvited has a masterful talent to create delicate and beautiful melodies with a hypnotic atmosphere, as it is clearly the heart in the long opening track “Sora”. But the band sounds even better when it mixes its softer side and beauty with some black metal, like it happens with the second song, “Anhedonia”. When both worlds are fused, the band achieves its greatest level, and the music itself becomes more interesting. The problem, at least for me, is that the rest of the album has a little portion of metal and very few vocals; I personally miss his shrieks which give a special and intense boost to the album. Songs like “Kurai”, “Empirean” or “White Lotus”, have little or no metal and an almost inexistent intensity. Yes, they contain some beautiful melodies, but the album can be considered neither a metal album nor an ambient work which, in this case, can be confusing. I personally love both styles and prior to this album, I have enjoyed albums which combine both worlds. But with Unreqvited, I have the feeling that I am missing something, the quality and beauty are there, but I honestly think that it should have contained more tracks like the aforementioned “Anhedonia” or the excellent closer, “Soulscape”. This is probably the best track of 'Stars Wept to the Sea', not only because it has some metal or at least a blackgaze touch, but because it has some tweaks and variety, which make the already mentioned excellent taste for the melodies bright more than ever.

In conclusion, with this sophomore album, Unreqvited follows the same path of the debut, repeating the good and bad aspects of that work. I personally think that this band could be greater if the tracks would include much more black metal, and obviously more vocals. Merging both worlds with a more balanced mix, could make the band´s music more focused. This also would help to create more enriching compositions with more tweaks and surprises. (Alain González Artola)

giovedì 5 luglio 2018

Apathy Noir - Black Soil

#PER CHI AMA: Black/Death Progressive Doom, Opeth, primi Katatonia
Da Norrköping, ecco arrivare un duo la cui formazione risale addirittura al 2003. Trattasi degli Apathy Noir, conosciuti fino al 2016 semplicemente come Apathy, ma che poi a causa delle consuete rogne legali, ha dovuto modificare il proprio nome. E sotto questo nuovo moniker, ecco arrivare 'Black Soil', un disco che oltre avermi intrigato inizialmente per una cover album decisamente minimalista, ha poi saputo lentamente conquistarmi con un sound decisamente malinconico, ideale per questa stagione invece all'insegna di sole e mare. Ecco perchè "The Glass Delusion" potrebbe essere la perfetta colonna sonora di un autunno uggioso e drammatico, che si snoda attraverso un pezzo di oltre sei minuti dediti ad un black/death doom decadente, quasi disperato, perfettamente in linea con le liriche dei due musicisti scandinavi. Ottime le melodie, cosi tremendamente nostalgiche che in alcuni frangenti mi hanno rievocato i primi Katatonia. La seconda "Samsara" è un po' più folk oriented (un'occhiolino agli Amorphis i nostri lo strizzano), con le vocals che si dimenano tra un gracchiante growl (a mio avviso un qualcosa da rivedere) e una linea vocale pulita, più piacevole che si palesa nei momenti più compassati, mentre la chitarra è abile nel districarsi tra trame death doom progressive influenzate da October Tide e dai primi Opeth, e altre più votate al black svedese in stile Dissection. Il risultato alla fine è davvero buono. La title track conferma un sound che nuovamente prende come fonte di ispirazione i Katatonia dei primi due lavori (ma anche i primi Rapture e gli Swallow the Sun), arricchendo poi la propria proposta con azzeccati arrangiamenti inglobati in sempre più cupe e funeree atmosfere che hanno il pregio di sfruttare diversi cambi di tempo. "The Void Which Binds" propone una lunga introduzione che ci conduce ad un cantato pulito e a delle melodie nostalgiche, per virare successivamente ad harsh vocals e ad una ritmica più feroce che comunque vive di chiaroscuri, intermezzi acustici e ripartenze votate ad un oscuro death progressive. Il disco come spesso capita con questo genere, non è proprio di facile assimilazione. In "Bloodsong" mi vengono in mente Daylight Dies e Opeth come impianto ritmico, con la song che si muove tra luci ma soprattutto ombre e non intendo momenti negativi, bensì faccio riferimento ad un suono che si fa via via più lento ed tetro che nel finale ha modo di regalare anche un intenso assolo. Ultima menzione dell'album per la conclusiva "Time and Tide", aggressiva quanto basta per spezzare quell'aura angosciante che si era instaurata con la precedente "Towers of Silence". Bordate ritmiche, frangenti acustici e growling vocals completano quest'ultima traccia che evoca a più riprese il periodo più brillante degli Opeth (per il sottoscritto quello di mezzo) chiudendo in bellezza la quarta fatica dei due polistrumentisti svedesi. Che altro dire, se non ben fatto! (Francesco Scarci)