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martedì 19 febbraio 2019

L'Avversario - Lo Specchio

#PER CHI AMA: Electro-pop
Un disco palindromo, uno specchio che riflette se stesso, un uroboro musicale che si ritorce su se stesso. 'Lo Specchio' è un disco contorsionista, l’idea non è facile da rendere, tantomeno da concepire, tuttavia, seppur molto efficace nella comunicazione, questa sua caratteristica “a specchio” non è quella che salta alle orecchie come la principale particolarità della musica de L'Avversario. I testi e l’intenzione electro-pop, vicina quasi al trip hop, mi coinvolgono più del mirroring; ci sono canzoni struggenti, emozioni intense e scorci di quotidianità pregni di emozioni. Un esempio è il brano "20 Anni", che nel suo robotico incedere, descrive com’è la sensazione di guardarsi indietro, del sentire lo scandire del tempo che avanza inesorabile ma anche del riconoscere la bellezza pura e immortale di una nonna che si prende cura della sua famiglia. Il pezzo è contrapposto alla psichedelia di "Canzone Celiaca", con i suoi immaginari impossibili di meduse impazzite e radiazioni solari. Se si ascoltano una dietro l’altra, le due canzoni hanno un che di familiare, ovviamente se non lo sapessi non riuscirei a notare la natura palindroma delle due, seppur l’ascolto delle due mi lasci una strana sensazione di vertigine non meglio definita. Il pezzo di raccordo de 'Lo Specchio' è "Bucarest": qui la voce di Andrea sembra cercare la sua umanità perduta attraverso un abbraccio o la vicinanza di qualcuno. A metà del brano il disco si rigira su se stesso, non si nota subito ma verso i tre minuti si capisce che si sta ascoltando qualcosa di altamente inusuale, per via di un incantesimo maligno che sembra pervadere il brano, un incantesimo che rimane in testa e non se ne va. L’ascolto de 'Lo Specchio' è un’esperienza mistica, qualcosa che va al di là dei soliti ascolti; nonostante la sua natura palindroma non sia così evidente, al contrario invece della sua spiccata originalità a livello di songwriting e poetica, l’esperimento si può considerare pienamente riuscito. Attendo con curiosità la prossima prova de L’Avversario, chissà cosa s'inventerà la prossima volta il buon Andrea Manenti, mente di questo progetto? Un disco senza consonanti? Un disco con formule matematiche al posto delle parole? Un disco normale ma registrato ed eseguito a testa in giù? Staremo a vedere, nel frattempo godiamoci 'Lo Specchio'. (Matteo Baldi)

giovedì 24 gennaio 2019

Borghesia - Proti Kapitulaciji

#PER CHI AMA: Electro/Post-Industrial/Darkwave
Risulta molto difficile catalogare i Borghesia, band di Lubiana che opera in ambito sperimentale ed elettronico fin dal 1982. Industrial, darkwave, trance-dance s'incrociano con un ambient cinematografico (cosa che il gruppo conosce bene visto la loro forte dedizione verso le colonne sonore), la rumoristica ed il post punk elettronico degli anni novanta e duemila. Un'ottima produzione poi dà il giusto appeal ad un lavoro sicuramente intrigante ed intellettuale, di non facile approccio, peraltro cantato in lingua madre, sui versi del giovane poeta Srečko Kosovel, morto di meningite all'età di soli 22 anni. La militanza antifascista, parte del lato artistico della band a cui si aggiunge una visione cupa relativa al declino in cui riversa il mondo di oggi, è sempre padrona della scena. Una scena musicale che è un meltin pot variegato, tra Disciplinatha, Falco, Skynny Puppy, Kraftwerk, Palais Shaumburg, Kirlian Camera, Malaria, un certo art rock/pop/dance, riproposto alla maniera storta dei Chumbawamba, con l'attitudine tipica di una post punk band rumorista, giunta direttamente da Berlino (vedi le analogie di produzione con il recente 'Lament' degli Einstürzende Neubauten). Canti nostalgici , sperimentazione, folk ed elettro-rock vanno a braccetto per tutto il tempo del disco, rilasciando, nel proseguo dell'album sentimenti di tristezza e amarezza, profondità ed introspettiva che prevalgono sull'impatto sonoro in "Europa Umira" e "Razočaranja I", che emergono per ingegno compositivo e delicate atmosfere. L'intento sonoro è comunque di unire ritmiche attraenti, melodie incalzanti e l'uso del cervello, per pensare a cosa ci riserverà il futuro. Anche la techno (quella intelligente) è spesso citata nel sound della band, come in "Moj črni Tintnik", brano che si pone il compito di unire il lato dance dei nostri ad echi in sintonia con la famosa colonna sonora di 007 e con la song tanto discussa ed icona di un'estate di tanto tempo fa, dal titolo, "Da Da Da" della pop wave band Trio. Nello srotolarsi dei brani, alla fine ci si immerge spesso in carrellate di word music e ambient trip hop dal taglio etnico ovviamente dell'est Europa, campane come intro su "Radovnik" e spazio al classicismo per le arie della conclusiva "Blizu Polnoči". Un album 'Proti Kapitulaciji', che ha bisogno di essere assimilato lentamente (perchè quindi non sfruttare il download gratuito su bandcamp?), un lavoro complicato e studiato nei particolari con gusto e dedizione, un lavoro che cerca di emancipare la cultura sonora elettro-industriale di venti/trent'anni fa senza renderla retrograda o insignificante, ridonandole lustro e significato. Disco che non è per tutti, ma che mostra molte potenzialità espressive. (Bob Stoner)

mercoledì 31 ottobre 2018

Ljungblut - Villa Carlotta 5959

#PER CHI AMA: Melancholic Rock, Klimt 1918
Chi è nato nella seconda metà degli anni ottanta, ha probabilmente solo un vago ricordo di come fosse la vita prima del definitivo affermarsi della tecnologia digitale: la memoria di quell’epoca per me è legata ai fruscii del giradischi di mio padre e alle foto scattate con una macchina fotografica analogica. Ascoltando 'Villa Carlotta 5959', ultima fatica dei norvegesi Ljungblut, progetto avviato dal bassista di Seigmen e Zeromancer Kim Ljung, è impossibile non pensare ad immagini ingiallite dal tempo impresse sulla pellicola di una Hasselblad, le costosissime fotocamere utilizzate durante la missione Apollo 15, poi abbandonate sulla Luna, a cui è dedicata la prima traccia dell’opera ("Hasselblad" appunto). Il sound marcatamente darkwave dell’introduzione ci presenta un album concepito in contrapposizione con il presente non solo per stili musicali e tematiche: malgrado l’attitudine prevalentemente pop delle canzoni, molte scelte di produzione, come ad esempio la registrazione in presa diretta, l’essenzialità dell’artwork e l’utilizzo del norvegese nel cantato, appaiono volutamente lontane dalle dinamiche mainstream. I pezzi successivi si assestano su un rock atmosferico dal sapore retrò, in cui tappeti di synth e gli arpeggi di chitarra ci trasportano attraverso atmosfere autunnali ("Oktober", senza dubbio il pezzo più intenso) ed evocano malinconici paesaggi ("Superga", probabilmente dedicata alla collina torinese). È incredibile come durante l’ascolto permanga l’impressione di sfogliare un album di vecchie fotografie, segno che l’obiettivo della band è pienamente raggiunto, andando a toccare alcune corde della memoria e stimolando la sensazione di nostalgia. 'Villa Carlotta 5959' è un lavoro molto solido, passionale e dalla forte identità, tuttavia monodirezionale, in quanto guarda esclusivamente al passato e procede su sentieri sonori già ampiamente esplorati. (Shadowsofthesun)

martedì 21 agosto 2018

Giancarlo Onorato - Quantum

#PER CHI AMA: Rock cantautorale
Un songwriting palpitante e fervido di chiaroscuri sovente collocati in cinematica sospensione tra aspirazioni eteree e tentazioni carnali, apparentemente istintivo eppure, si sospetta, fattivamente cesellato canzone per canzone, nota dopo nota. Nei suoni, la distanza dal wave/post-wave italiano (Diaframma e Litfiba) degli Underground Life si assottiglia come linea di pensiero fino a compiersi, infinita e immaginifica. Fatta eccezione per "In Grazia", s'intende. La produzione, dilagante e caratterizzante eppure sapientemente misurata, fa venire in mente un po' il Daniel Lanois che si spende per Peter Gabriel ("La Norma dell'Attesa") e, un po' di più, il Gianni Maroccolo che si azzuffa con Giorgio Canali nei CSI (soprattutto "Scintillatori", ma anche altro). C'è tanto Nick Cave, nel pianoforte epico e dolente alla Bad Seeds early-90s, quelli di "Let Love In", in "Le Belle Cose", per esempio, o nel coro anodinico della successiva "Il Barocco del tuo Ventre", da confrontare con la maestà tragica di "Hallelujah". In Italia, Battiato (per motivi diversi: "Senza gravità" e "Primavera di Praga"), Claudio Rocchi e il secondo Battisti. Ehi, a proposito, capita anche a voi di canticchiare "I Giardini di Marzo" mentre ascoltate "Scintillatori"? No? Dite sul serio? (Alberto Calorosi)

(Lilium - 2017)
Voto: 80

http://www.giancarloonorato.it/

venerdì 16 febbraio 2018

Visionoir - The Waving Flame Of Oblivion

#PER CHI AMA: Dark Wave/Progressive
Diciannove anni fa compravo la cassetta di 'Through the Inner Gate', demotape di debutto di Alessandro Sicur, allora accompagnato da Mattia Pascolini, in questo progetto denominato Visionoir. Quasi cinque lustri di silenzio, e poi dall'oggi al domani, ecco arrivarmi a casa il cd d'esordio della band friulana, 'The Waving Flame Of Oblivion', uscito autoprodotto lo scorso ottobre. Ebbene, quando si dice che di acqua sotto i ponti ne è passata parecchia, immagino che sia soprattutto applicabile al buon Alessandro che è scomparso dai radar per diverso tempo per dedicarsi ad altri progetti. La proposta musicale del mastermind di Udine prosegue laddove aveva iniziato in quell'esordio del '98, affinando però tecnica e suoni, ma continuando comunque a proporre un rock dark avanguardistico sorretto da pesanti inserti elettronici che si palesano sin dall'opener "Distant Karma", esotica suite strumentale che si muove tra lunghi trip psichedelici, fughe di chitarra e splendide melodie space rock. In "The Hollow Men" esordiscono anche dei samples vocali che ritroveremo lungo tutto il disco ma che in realtà non sono altro che le voci registrate di alcuni grandi poeti del '900 (in questo caso T.S. Eliot), mentre le chitarre in simbiosi con i synth, orchestrano elaborati intrecci di musica progressiva volta ad intrattenere con eleganza gli ascoltatori, grazie a giochi ritmici in chiaroscuro, saliscendi chitarristici e una bella dose di cambi d'atmosfera. L'unica cosa che alla fine mi fa storcere il naso è proprio l'utilizzo di quella voce robotica un po' troppo asettica per i miei gusti. Niente di cosi grave, visto che l'inizio di "7ven" mi esalta non poco, evocandomi i primi Depeche Mode, anche se poi le melodie mediorientali griffate dai riff di Alessandro, regalano momenti di totale distacco dalla realtà, collocandoci in una qualche kasbah marocchina. "The Discouraging Doctrine of Chances" è narrata dal poeta americano Ezra Pound, e mostra una ritmica più aggressiva, anche se i giochi di luce delle chitarre, in uno stile vicino agli Orphaned Land, vengono smorzati dai gentili tocchi di tastiere. Il disco è intrigante, inutile girarci intorno e "Shadowplay" dimostra ancora la sapienza e l'originalità con cui il polistrumentista friulano, si (e ci) diletta con una miscela di rock progressive settantiano e suoni decisamente cosmici che ci introdurranno alla terza song "cantata", questa volta da Antonin Artaud, in una traccia più compassata, seppur mostri una certa liquidità nella sua effettistica e un'aura comunque più intimista rispetto alle precedenti. Un pizzico in più di malinconica invece la ritroviamo in "Coldwaves", che perde gli ultimi residui metallici dei Visionoir a favore di sonorità a cavallo tra shoegaze e post rock che diventeranno più palesi nella sorprendente "A Few More Steps", declamata questa volta dal buon vecchio Dylan Thomas in un incedere dapprima nostalgico, quasi drammatico e che alla fine tramuterà in sonorità più ansiogene. Il nono e ultimo pezzo è affidato alla bonus "Godspeed Radio Galaxy" che condensa in oltre 11 minuti tutto il repertorio electro-rock dei Visionoir, tra derive prog, larghi spazi d'atmosfera, partiture heavy e una bella dose di personalità che pensavo fosse andata perduta in questi ultimi vent'anni. Ben tornato Alessandro. (Francesco Scarci)

domenica 21 gennaio 2018

Monolithe - Nebula Septem

#PER CHI AMA: Death Doom Psichedelico, primi My Dying Bride, Samael
Abbastanza peculiare, ma c'era da aspettarselo, la scelta dei francesci Monolithe di affidare al numero sette, la conduzione del loro nuovo capitolo, 'Nebula Septem': settimo album, sette canzoni della durata spaccata di sette minuti l'una, e le prime sette lettere dell'alfabeto come iniziali dei titoli dei brani contenuti. Sette d'altro canto è un numero speciale, che ha una valenza particolare tra gli altri, anche nelle religioni: sette infatti sono le virtù ma pure i peccati capitali. Sono sette le divinità mitologiche identificate dalla Cabala ebraica, mentre secondo il Corano sette sono i cieli creati da Dio, sette le terre, sette i mari, sette gli abissi dell'inferno e sette le sue porte. Vi garantisco che potrei proseguire all'infinito. E allora concentriamoci su questo lavoro dedito ad un death doom moderno che ha ormai dimenticato i (ne)fasti funeral degli esordi. Il sestetto parigino (peccato non abbiano assoldato un settimo membro almeno per questo disco) attacca con "Anechoic Aberration", song plumbea che continuerà a piacere anche ai più estremisti fan della band, quelli rimasti ancorati al funeral degli esordi. La scorza dei nostri rimane infatti bella spessa, edulcorata se cosi si può dire, da psichedeliche linee di tastiera e da chitarre più ariose che in passato, con le convincenti growling vocals del provvisorio Sébastien Pierre, minacciose e feroci quanto basta. "Burst in the Event Horizon" si mostra ancor più persuasiva dell'opening track, di sicuro suona più pomposa a livello di arrangiamenti, evocando per certi versi il fantasma dei My Dying Bride più ancestrali, e lanciandosi in un lisergico e paranoico giro di chitarra che ci accompagnerà fino alla terza "Coil Shaped Volutions"; originali devo ammettere anche i titoli dei brani che in un qualche modo ci riportano alle visioni interstellari dei primi lavori. Torniamo a focalizzarci sulla song ma soprattutto sui giri di chitarra che si prendono la scena nei primi due minuti della traccia, viaggiando poi a braccetto con le keys e le roboanti vocals del frontman. La melodia non manca, cosi come non mancano i repentini cambi di ritmo e gli assoli da incorniciare tra le migliori cose fatte in ambito doom negli ultimi anni. Certo, l'effetto che questi suoni hanno sul mio cervello, appare molto simile a quello di una paurosa sbornia e il successivo e terribile hangover che da essa ne deriva. Il sound prosegue nel suo incedere pomposo anche in "Delta Scuti" (forse la traccia più rilevante del disco insieme alla deliziosa stravaganza darkwave/electro-pop della strumentale "Gravity Flood"), complice forse un cambio a livello vocale (compaiono qui infatti delle appena percettibili clean vocals) e per una maggior enfasi attribuita alla componente chitarristica, ineccepibile peraltro lungo tutto il lavoro. A colpire qui è soprattutto una componente elettronica più marcata che esalta ulteriormente la riuscita di un brano che ha ancora da offrire un'epica progressione che ci prenderà per mano per condurci attraverso differenti umori e sensazioni, fino alla stralunata "Engineering the Rip". La proposta dei Monolithe si fa ancora più sperimentale e spumeggiante, con la compagine francese a voler emulare i Samael, prima di rientrare nei canonici binari dell'oscura espressione doomeggiante dei nostri; l'assolo finale però è da applausi. C'è ancora tempo di godere della musicalità spiazzante dei Monolithe con "Fathom the Deep", una canzone che a livello ritmico e di atmosfere, sembra essere più distante dagli altri pezzi ascoltati sino ad ora, affidando il suo incedere a spettrali tastiere e a raffinate e sensuali chitarre. Per coerenza con il simbolismo del disco, dovrei attenermi e dare un sette come voto conclusivo, ma credo che andrò oltre, interrompendo qui la concatenazione del numero magico sette e avviandomi invece verso il futuro incombente del numero otto, universalmente riconosciuto come il numero dell'equilibrio cosmico. Sono certo che ci sarà da divertirsi, non vedo l'ora. (Francesco Scarci)

(Les Acteurs de l'Ombre Productions - 2018)
Voto: 80

https://ladlo.bandcamp.com/album/nebula-septem

giovedì 24 novembre 2016

Dperd - V

#PER CHI AMA: Dark Wave
Siamo alla quarta prova in studio per i Dperd, duo dark wave siciliano dall’impronta eighties, attivo ormai dal 2008. L’opera si chiama 'V', un titolo criptico e ancestrale, forse a richiamare l’armonica convergenza tra i valenti animi artistici di Valeria e Claudio: lei sensibile autrice e cantante, lui raffinato musicista e compositore. I due musicisti sono maturi e preparati avendo alle spalle una lunga carriera musicale. Hanno infatti già dato alla luce il progetto Fear of the Storm, a cui sarà dedicata 'Madness Splinters 1991-1996', prossima uscita autunnale edita dalla label My Kingdom Music in una splendida versione deluxe contente la discografia completa di entrambe le band oltre a vario merchandise, dalle t-shirt alla shopping bag. Ma concentriamoci ora su 'V', partendo stavolta direttamente dal mio pezzo preferito, “I Believe In You Song”. Si tratta di una ballata eterea e fiabesca che incarna una di quelle storie oscure e visionarie così suggestive e ipnotiche da poter potenzialmente portare l’ascoltatore in uno stato di trascendenza onirica. Per di più, la canzone sembra essere la prima parte di una trilogia nascosta, costituita dalla appena citata “I Believe In You Song”, “But I Love You Song” e “They Do Know Song”, che chiude l’opera. Oltre ad un tocco originale nell’architettura della tracklist, si tratta anche di un concept musicale dotato di un inizio, uno sviluppo ed una conclusione, fatto di trame armoniche e melodiche, dove la voce non utilizza parole ma solamente suoni. Dall’atmosfera incantata della prima parte si passa ad un ambiente ritmicamente più incalzante ed armonicamente complesso nella seconda parte. La triade culmina nel finale, dove i vocalizzi di Valeria diventano arditi ed espressivi e il mood determinato e risoluto. Non solo la musica è di ottima fattura ma anche dal punto di vista lirico, siamo davanti ad un’opera di un certo spessore: l’utilizzo dell’italiano è un evidente punto di forza del progetto, non è infatti cosa da tutti i giorni sentire la nostra lingua utilizzata in un genere così particolare. Si prenda ad esempio “Cercando Solitudine”, una poesia ermetica dai toni tetri declamata da una voce sicura e calda che si adatta perfettamente alla ritmica soffice ed ai suoni di organetto e delle chitarre impregnate di chorus, a ricordare i leggendari The Cure. Dopo l'indiscutibile bellezza e l'indubbia qualità della proposta dei Dperd, veniamo ora a quella che secondo me è la macchia su questo lavoro esemplare, vale a dire la parte grafica. Se il disco musicalmente e poeticamente prende ed interessa, altrettanto non si può dire dell’artwork. Oltre ad essere discutibile la scelta dei font, anche l’immagine di copertina non ha la stessa profondità e potenza comunicativa della musica. Il soggetto è invece coerente col disco: un balcone affacciato sulla desolazione di un orizzonte montuoso sotto un cielo grigio, centra esattamente lo stile della band. In conclusione, consiglio l'ascolto di 'V' a tutti gli appassionati della dark wave anni '80, qui troveranno una band con lo stesso spirito di quegli anni ma calata nella modernità del 2016. (Matteo Baldi)

(My Kingdom Music - 2016)
Voto: 75

https://dperd.bandcamp.com/album/v

mercoledì 4 maggio 2016

Bernays Propaganda – Politika

#PER CHI AMA: Synth Wave, New Order
Se non è sempre vero che le difficoltà portano ad un miglioramento, di sicuro fortificano chi le attraversa. Quando un paio d’anni orsono la loro sezione ritmica ha detto addio, i macedoni Bernays Propaganda – già incontrati da queste parti con il loro precedente 'Zabraneta Planeta' – hanno dovuto riflettere sul proprio futuro, meditando se sciogliersi definitivamente o proseguire, e in che modo. Oggi, il loro nuovo album 'Politika' ne sancisce il ritorno con non poche novità, che non si limitano a quelle puramente di formazione. Abbandonate le incandescenti atmosfere post-punk del passato, qui si registra un deciso cambio di rotta verso sonorità decisamente più influenzate dalla synth wave dei primi New Order o Depeche Mode, sterzata stilistica che ricorda in qualche misura quella effettuata dai tedeschi Notwist all’altezza del loro capolavoro 'Neon Golden'. Se all’inizio non si può che rimanere un po’ spiazzati, dopo un po’ il nuovo suono dei Bernays Propaganda finisce per piacere, in virtù di un’atmosfera un po’ più rilassata e meno barricadera. Sulle barricate rimangono invece i testi della band, sempre tesi alla critica della società, tanto a livello locale quanto globale. Peccato solo che il fatto di essere tutti rigorosamente in lingua madre (rinnegata quindi anche la scelta di usare ogni tanto anche l’inglese) finisca per limitare fortemente la fruibilità della loro proposta al di fuori dei confini nazionali. Al di là dell’effetto straniante provocato dalla lingua macedone, è infatti indubbio che brani quali “Armija”, “I Dvete”, “Lazi Me, Lazi Me” risultino fascinosi e accattivanti, anche grazie alla voce di velluto di Kristina Gorovska e alle chitarre di Deni Krstev, che ben si integrano con la matrice elettronica che costituisce l’ossatura di un suono completamente ridisegnato. Se è vero che la dimensione in cui la band si è sempre espressa al meglio è quella live, con questo album la loro musica assume nuove sfumature che sarei curioso di vedere traslate sul palco. In definitiva un disco interessante, che potrebbe aprire una strada nuova per il gruppo, anche se l’ortodossia linguistica potrebbe rappresentare un’ostacolo non indifferente. (Mauro Catena)

lunedì 20 aprile 2015

Deviate Damaen - Retro – Marsch Kiss

#PER CHI AMA: Goth Sperimentale Identitario
Scrivere dei Deviate Damaen (ex Deviate Ladies), band romana attiva fin dal 1991 con trascorsi eccezionali e un curriculum musicale da far invidia a chiunque, è un compito ingrato che difficilmente riuscirò a portare a termine esaustivamente. La band, capitanata dal geniale vocalist, fondatore storico, G\Ab Svenym Volgar dei Xacrestani, è da considerarsi il modello sonoro che più rappresenta l'avanguardia estrema da più tempo in Italia. Il doppio lungo album dal titolo 'Retro – Marsch Kiss' è un colosso di schizofrenia poetica, spasmi sonici e romantici attacchi sonori a 360 gradi, costruiti con metodi lontani dalla consuetudine, distanti da tutta la musica odierna e basati sulla trasmissione costante di ideologie estreme, trasversali, deviate e perverse, un modo di intendere e fare musica che non esiste più, voluto e ricercato per dare qualcosa a tutti i costi. Ogni singola nota, rumore e parola è usata come un'arma per colpire la psiche dell'ascoltatore e indurlo alla riflessione, sana o insana che sia. La musica è un concentrato di porzioni rubate alla classica, alla lirica, alle canzoni del ventennio, marce militari tedesche, rumori d'ambiente, elettronica, dance wave, gothic rock, black metal sperimentale, tanta poesia, filosofia, storia, il mito dell'Impero Romano, Dante, la musica sacra e quant'altro che forse ora sta sfuggendo anche al sottoscritto. I testi dissacranti, iconoclasti, politicamente scorretti sono violentemente geniali, studiati per ferire, cantati in lingua madre, latino, tedesco e inglese, rispettando sempre quella forma arcaica che trova la sua miglior figura nel classicismo dell'antica Roma. Le liriche si muovono tra rimandi storici per approdare ad un confronto con la realtà durissimo, senza mezzi termini, mettendo a nudo le ipocrisie della società attuale ed il suo modo di vivere odierno. L'album è strutturato come un lungo audiolibro con tante voci narranti, dialoghi e monologhi intervallato da brani veri e propri, epici e ribelli, poco conformi alla normale forma canzone tra elettronica e post punk alla maniera dei Psychic TV e il black metal destabilizzante in odor di certe mitiche sperimentazioni rumorose dei Disiplin. Una veste perennemente teatrale lo rende molto impegnativo all'ascolto, dando comunque modo di focalizzarsi sull'originalità e la poetica dei testi, gustando alla perfezione tutta la trasgressione e la forza delle parole usate. Le composizioni sonore più rock oriented brillano di luce propria e di una prorompente personalità, riportando alla mente i grandi Disciplinatha di 'Adis Abeba', i Der Blutarsch di 'Der Sieg Des Lichtes Ist Des Lebens Heil' oppure i Death in June più sperimentali come quelli del brano "No Pig Day (All Pigs Must Die)" e nei momenti più duri si dividono tra il sound dei Christian Death (quelli di 'Pornographic Messiah'), l'avantgarde metal in stile Aborym, un pizzico punk/ hardcore vecchia scuola, passando per EBM, rumoristica, ambient minimale, recitato e canto militante di casa Ianva (altra band con cui il vocalist G\Ab ha collaborato) e tanti effetti in stile vecchio grammofono sparsi ovunque. Impossibile dunque giudicare 'Retro - Marsch Kiss' se non con il massimo dei voti (cosa quanto mai rara qui nel Pozzo), un'opera unica, che supera il concetto/valore della musica stessa per aprirsi ad un'esperienza espressiva unica che per i più potrà risultare inconcepibile ma per chi si mostrerà propenso a capirla e a condividerla, diventerà una vera chicca. Un'opera ostica, ossessiva, goliardica, crudele, realista, glam, anticonformista, folle, arguta, intelligente e incompresa. Un artwork perfetto e un booklet stracolmo di foto, testi e spiegazioni completano il capolavoro che ha impegnato la band per circa sette anni, licenziato via TSC Records nell'anno del Signore 2015. Concludo riportando una stupenda frase inserita nel booklet che la dice lunga sullo spessore di questo lavoro... "...Quanto alle “licenze poetiche”: i Deviate Damaen sono una licenza poetica vivente e militante. Una musica senza tempo... La continuazione del mito eterno, Roma caput mundi"! Ascolto obbligato! (Bob Stoner)

(TSC Records - 2015)
Voto: 100

sabato 11 ottobre 2014

Chasms - Subtle Bodies

#PER CHI AMA: Dark, Psichedelia, Shoegaze
L'estate è ormai un lontano ricordo, e i Chasms anticipano l'inverno, cogliendomi di sorpresa con un album dai toni freddi e oscuri, dall'anima estremamente malinconica. “N.V.S.” apre l'album ma credo funga più da intro che come brano vero e proprio, ma mi sbaglio. La successiva “Riser” infatti conferma l'anima dark dei nostri, con una musicalità lenta e ossessiva, che sprigiona un fiume emozionale per chi apprezza Dead Can Dance e affini. Le litanie dei Chasms rappresentano la colonna sonora che mi può accompagnare in quei momenti in cui desidero isolarmi dal mondo e vagare solo con la mia mente, come in questo sabato sera di metà ottobre. Eteree voci femminili, sonorità celestiali, riverberi che sembrano appartenere ad un altro mondo, costituiscono la matrice di 'Subtle Bodies'. “Soft Opening” è una stranissima song che si muove tra il noise/drone e il dark wave. Decisamente non il genere adatto da essere ascoltato in spiaggia sotto il sole cocente, sarebbe meglio una stanza buia con le pareti nere come la pece e circondato dal nulla. “When It Comes...” riprende quasi il canonico concetto di canzone, ma le sue linee melodiche, lo stralunato battito del drumming e le sue vocals, non riescono proprio a far breccia dentro la mia anima dai tratti dannati. Lo stesso dicasi per le rimanenti due tracce (di cui sottolineerei la durata di undici minuti della conclusiva e strumentale “Dissolution Into Clear Light”) che propongono il medesimo canovaccio e finiscono solo per annoiarmi. (Francesco Scarci)

(Sleep Genius - 2014)
Voto: 55

https://www.facebook.com/oooCHASMSooo

giovedì 21 agosto 2014

Cult of Vampyrism – Aporia

#PER CHI AMA: Doom esoterico, Shape of Despair, Christian Death, Pazuzu
Uscito nel 2013 per la Mercy Despise Records, il nuovo lavoro del combo italico Cult of Vampyrism racchiude immagini molto suggestive, tinte di romanticismo gotico decadente di ottima fattura. L'opera, suonata interamente dal leader Trismegisto, è uno scrigno dorato di atmosfere cupe, gelide e cristalline devote al verbo del doom esoterico e magistralmente virate a una forma di dark wave che in Italia, per fortuna, continua a produrre musica unica di alto spessore. 'Aporia' è lanciato in orbita dalla presenza vocale di Morgenstern, una dea luciferina che incarna le doti migliori della scena dark rock, ricordando il mito di Gitane Demone intrecciato alla grazia di Elena Alice Fossi dei Kirlian Camera (vedi l'esperimento di fine album "Something Special for You" che sfiora sonorità ambient dark wave tanto care ai KC) e, se permettete il paragone, alla libertà canora che si era vista solo nei migliori Disciplinatha (cult band per eccellenza!) - che come in questo caso alterna voce maschile (Trimegisto) e femminile (Morgenstern), lingua inglese e italiana (a volte anche il latino...), recitato e canto in un verbo tanto teatrale che fa risultare il tutto veramente bello e fuori dal tempo. L'album porta al suo interno il seme mistico di band come gli Esoteric, in qualche caso ricorda gli Atrocity più sinfonici, i Lacrimosa e il gothic sound dei Christian Death più eterei, che non rinuncia a brevi ma efficaci virate vintage nella concezione prog di band come gli Hammers of Misfortune e che mantiene costante i contatti con il suono dell'infinito di matrice funeral doom di casa Shape of Despair. In questo contesto, il secondo lavoro dei Cult of Vampyrism rende l'idea di come si possa creare musica intelligente anche in Italia, con un volto marcatamente underground e dal respiro internazionale. Un suono unidirezionale composto da tante influenze, fatto per creare atmosfere buie piene di romanticismo, dall'umore decadente ma costruttivo e molto vitale nelle sue composizioni, elaborate come fossero una performance teatrale (di vaga memoria Pazuzu), intenso e ragionato dove la tecnica è a supporto del risultato da ottenere e nulla è lasciato alla schiavitù del virtuosismo. Dalle lande più oscure dell'anima, una calda iniezione di vitalità inaspettata. Ottimo album da valutare attentamente in un panorama italico eternamente vuoto, statico e omologato. Da ascoltare senza limiti! (Bob Stoner)

(Mercy Despise Records - 2013)
Voto: 80

sabato 26 ottobre 2013

Australasia - Vertebra

#PER CHI AMA: Post-rock strumentale
Già recensiti e acclamati dal sottoscritto in occasione del loro EP d'esordio “Sin4tr4“, ritornano sulle scene gli Australasia a presentarci il loro primo full lenght. Fortunatamente non mi devo più accontentare di una manciata di brani come accadde per il debut, ma il nuovo “Vertebra” ci tiene compagnia con i suoi suoni fluttuanti per 35 minuti. La componente post rock strumentale si consolida in questa nuova release, anche se “Aorta” apre in modo roboante accarezzandoci poi con delicati tocchi acustici. I brani sono corti e per questo meglio immagazzinabili nella nostra memoria sonora. Una soave voce femminile (di Mina Carlucci) delizia il nostro palato sul finale della opening track con una eterea performance. E via con “Vostok”, il cui intro è affidato a suoni elettronici, che si accavallano con robuste chitarre e pezzi in acustico, a cura di Giuseppe Argentiero. Però è il driver Gian Spalluto, mastermind dei nostri, a condurci nei meandri più ispirati e reconditi della sua mente e con “Zero” tocca il proprio apice musicale. La canzone non è nulla di trascendentale in realtà, ma quel suo ardore pregno di malinconia e gioia allo stesso tempo, donano un sorriso al mio viso. L'accelerata finale poi, degna delle migliori band shoegaze, e retaggio della componente black che anima lo spirito irrequieto di Gian, completano quella che sarà la mia song preferita di questo intrigante “Vertebra”. È il turno di “Aura”, song al limite del trip hop, che potrebbe vivere tranquillamente su un disco di Sigur Ros o Massive Attack, in cui la bravissima Mina ci regala anche gli attimi più emozionali di questo disco. Dopo l'ascolto di questa song mi domando come l'Immortal Frost Productions, label dedita per lo più a black e ambient, abbia pensato di promuovere i nostri, che nutrirebbero maggiori speranze e visibilità, con etichette più vicine al loro sound. Scelta opinabile e non me ne vogliano gli amici della IFP. Con “Antenna” però me ne chiarisco il motivo: pezzo caustico, che rievoca l'ardore post black del polistrumentista italico, a miscelarsi egregiamente con sonorità cupe post rock. Si continua a martellare anche con la breve “Volume”, mentre i due minuti della title track rappresentano piuttosto un intermezzo che ci prepara alle soffuse melodie di “Apnea” (che già avevamo ascoltato nel precedente EP) in cui ancora una volta è la calda voce di Mina a deliziarci, quando si insinua nel vortice musicale dominato dall'elettronica. A chiudere ci pensano la robustezza disgregante di “Deficit” e la lunghissima “Cinema”, traccia che evoca paesaggi lontani, avvolti da una malinconica nebbia autunnale che conferma le eccelse qualità di una band che deve avere solo quel pizzico di fortuna per poter esplodere. Fossi in loro punterei oltremanica (o oltreoceano) per guardare speranzosi al proprio futuro. Bravi! (Francesco Scarci)

(Immortal Frost Productions - 2013)
Voto: 80

http://www.australasiamusic.com/

giovedì 5 settembre 2013

Forgotten Sunrise - Cretinism

#PER CHI AMA: Suoni sperimentali
Ogni volta avvicinarsi ad un album degli estoni Forgotten Sunrise e descriverne i suoi contenuti in modo corretto, si rivela un'impresa irta di pericoli. Lo aveva fatto in passato il mio compagno di ventura Rob, in occasione dello splendido “Ru:mipu:dus”, ci provo oggi io, con l'uscita del nuovo “Cretinism”. Un album di 15 pezzi per una durata totale che supera abbondantemente i 50 minuti. La proposta dei nostri, che aveva preso già largamente le distanze dal death metal prima e dal metal poi, ha definitivamente abbracciato la sfera della sperimentazione più avanguardistica, mantenendo inalterata però la forte componente elettronica che si palesa già dopo l'evocativa intro. L'inizio e il tema portante di “The Moments When God Was Wrong” infatti, se non fosse per le vocals di Anders Melts, potrebbero avvicinarsi alle prime produzioni dei Depeche Mode. Nei momenti in cui Anders canta, il sound è più vicino alla dark wave. Comunque sia, nulla è scontato nella musica dei nostri: le melodie e le ritmiche decisamente '80s, la tribalità affidata all'inizio di “Samewonder” cosi come pure la sua fluida dinamicità che sembra fuoriuscita da un videogame dell'Atari; poi ecco far capolino la voce femminile di Gerty Villo e delle harsh vocals che mi lasciano francamente stranito. Un po' nintendo style, con un pizzico di EBM, una spruzzata di industrial e quel mood neo folk e il gioco è fatto. Risultato: il delirio più puro. Un breve intermezzo mi riporta alla realtà, ma so che è solo un preludio alla follia che i nostri si preparano a spararmi nelle orecchie. Non mi sbagliavo di certo perché con “All Ctrl” (un tributo al tasto Control del Pc?) i nostri mi scaldano con eterei suoni infernali, vuoi per la soave voce di Gerty che si contrappone ai malvagi grugniti di Anders sopra un tappeto di percussioni che ho adorato e che mi ha evocato nella mente addirittura i Prodigy. Eletta mia song preferita. Ancora suoni inquietanti, direi marziali e “Sisters, Brothers & Other Hellborn Creatures” si fa notare per lo più per la sua forte aurea sulfurea. Un altro interludio prima di “Tankover Trinity”, oscura song dal ritmo disco dance, a cui fa seguito “...dots” che abbina electro music con gorgheggi death (affidati a Nuclear Holocausto Vengeance dei blackster finlandesi Beherit) e flebili cleaning vocals: song spettrale dal forte impatto emotivo. Terza pausa ed è il momento di “Numb-er Ate”, pezzo quasi trip-hop che introduce a “Our Oun”, altra song che abbina elementi psichedelici, electro e darkwave sotto l'egida della carismatica voce di Anders. “Niit” funge da ponte con la conclusiva tenebrosa e delirante “Bo:gie”. “Cretinism”, la cui etimologia deriva dal francese antico “Chretien”, rimanda alla storia dei cristiani eretici che si rifugiavano nelle valli dei Pirenei con scarsa presenza di iodio, e che avevano prole affetta da ipotiroidismo. Un tema contorto per un disco contorto, che rappresenta quanto stessi realmente aspettando dal comeback discografico dei Forgotten Sunrise. (Francesco Scarci)

domenica 9 settembre 2012

The Shimmer - New Days

#PER CHI AMA: Dark/New Wave, Joy Division
E' vero, l'avvento di internet ha impattato sulla musica pesantemente e in mille modi. Uno tra tutti è possibilità a molti gruppi di emergere e farsi ascoltare, visto che i classici canali sono gestiti solo dalle grosse etichette e produttori. La cosa divertente è che ho scoperto i The Shimmer in tutt'altro modo, cioè in quello classico di qualche anno fa: ad un festival. Devo dire che tra i tanti gruppi e i diversi generi, loro mi hanno colpito come uno schiaffo quando meno te lo aspetti. I due ragazzi in questione (Max - chitarre e synth, Ricky - voce, basso e Mac) propongono canzoni che prendono a piene mani dal dark & new wave, il tutto in chiave elettronica (per quanto riguarda batteria e synth), e perfino con molta professionalità e umiltà. Poi pensi: ho mai visto in passato un gruppo così dal vivo? No. Fino ad ora mi rispolveravo i vecchi cd dei Joy Division, the Cure e Depeche Mode, ma dal quel festival le cose sono cambiate. "New Days" è il loro primo lavoro autoprodotto a cavallo tra il 2009 e il 2011, contiene nove pezzi e si presenta con un bel digipack. "Star Birds" apre il cd e le sonorità elettroniche si sentono immediatamente, synth e un semplice tastiera a cui si aggiungono poi la drum machine e chitarra creano l'atmosfera per la voce, carica di effetti e molto eterea. Il ritmo incalza e crea un pezzo malinconico, ma allo stesso dinamico. La terza traccia "Lullaby for You" ha un'atmosfera diversa, simile ad un volo pindarico tra le nuvole che cambia ed evolve. Interessante il semplice riff di chitarra che, aggiunto di delay, crea un motivo difficile da togliersi dalla testa. Maledetto Max. "House of Love" (di cui vi consiglio anche il video) è la canzone più rappresentativa dell'album e del progetto The Shimmer. Ritmica semplice ma incalzante, basso distorto e un bel riff "liquido". La voce di Ricky fa il resto, grazie al solito tocco di riverbero che ci riporta indietro ai tempi di Disorder. Il cd si chiude con "Silene", bellissimo il giro di xilofono che crea un'atmosfera fiabesca, e altrettanto l'assolo di chitarra. Grande semplicità negli arrangiamenti che arriva all'ascoltatore, senza bisogno di capirla o interpretarla. A breve uscirà il nuovo album e in base alle ultime canzoni proposte ai recenti concerti, esplorerà più profondamente il dark side of the new wave. Prepariamoci. (Michele Montanari)

(Self)
Voto: 80

domenica 8 aprile 2012

Monumentum - Ad Nauseam

#PER CHI AMA: Dark Electro-Gothic
Ad introdurmi all'ascolto dell’album dei Monumentum è la meravigliosa tela di Alessandro Bavari riprodotta in copertina, dal titolo “Aula della Coprofilia”, la cornice più indovinata e calzante per la musica di “Ad Nauseam”, che sembra attingere dal grigio tocco dell'artista romano lo stesso senso di oppressione che il quadro è in grado di infondere. Dal primo album “In Absenthia Christi”, che uscì nel 1995 per Misanthropy Records, sono passati ben sette anni, un lungo silenzio che faceva temere lo scioglimento ma che ha invece contribuito a donare nuova linfa al gruppo, restituendoci una delle band più valide e singolari che l'Italia possa vantare. Il filo conduttore che lega questo nuovo lavoro al precedente è apparentemente molto sottile ed è evidente come le influenze dark-wave di “In Absentia Christi” oggi si rivelino impreziosite da un maggior dinamismo. Tuttavia, già dopo alcuni ascolti attenti, si avverte la medesima atmosfera drammatica e decadente del debutto e non si ha dubbio sul fatto che ci si trovi davanti ad un altro bellissimo album. “Ad Nauseam” è un lavoro che va assimilato lentamente per carpirne la bellezza e questo non significa necessariamente che si tratti di un disco difficile: la grandezza dei Monumentum sta, infatti, nell'assemblare una complessa ed elegante struttura di sovraincisioni senza che l'insieme perda mai in immediatezza, ma svelando certe trame nascoste solamente all'ascoltatore più paziente. Inutile tentare il paragone con altre band, perché la classe del gruppo milanese è unica; e se da una parte il loro suono riesce ad evadere dai cliché tipici di un genere come l'electro-gothic (a cui il gruppo potrebbe essere erroneamente associato), dall'altra va detto che risulterebbe azzardato anche un accostamento all'elettronica pop di gruppi appartenenti al mainstream, con i quali la band ha un'affinità solamente "estetica" riscontrabile in alcuni arrangiamenti. Brani come “Last Call for Life”, “A Tainted Retrospective”, “Perché il mio Amore” (cover di Fausto Rossi) e “Under Monochrome Rainbow” sono semplicemente bellissimi e vengono resi ancor più perfetti da un ispiratissimo Andrea Stefanelli, che grazie alla sua interpretazione vocale ci trascina in un vortice di affanno, negatività e abbandono, per poi liberarci e lasciarci esausti. Notevole anche la prova della cantante Francesca Bos, che per un istante riesce a tingere di un colore più vivido il dark-rock di “Distance” e “I Stand Nowhere”. Altre canzoni come “Angor Vacui” e “Numana” fanno invece della ricerca sonora il loro punto focale e si sviluppano senza l'ausilio del cantato, tra perversioni digitali e soffocanti incubi sonori. Senza esagerazioni, ritengo che “Ad Nauseam” sia uno degli album più belli che la scena alternativa abbia proposto negli ultimi anni... un grande ritorno, senza dubbio. (Roberto Alba)

(Tatra Records)
Voto: 90

http://www.myspace.com/monumentum

domenica 18 marzo 2012

Mors Syphilitica - Feather and Fate

#PER CHI AMA: Gothic, Darkwave
Andiamo parecchio indietro nel tempo, 2001 e al terzo lavoro per gli americani Mors Syphilitica, terzo progetto di Lisa ed Eric Hammer, già conosciuti come Requiem in White e The Order of N.C.S. Dopo l’omonimo cd d'esordio ed il successivo “Primrose”, i coniugi Hammer ci propongono questo “Feather and Fate” che, in linea generale, non aggiunge nulla di nuovo a quanto già fatto in precedenza, ma che si presenta come un album carico di tutta la bellezza malinconica tipica dei Mors Syphilitica ed ha forse un tocco ancor più delicato e seducente. La materia sonora sulla quale Lisa poggia con grazia la sua finissima voce è un insieme di emozioni che a tratti sorreggono le parti vocali e a tratti reclamano, invece, uno spazio di primo piano, fondendosi con la voce e creando un tutt’uno morbido e armonioso. Durante l’ascolto di “Feather and Fate” arrivo quasi a percepire visivamente la musica ed essa appare ai miei occhi come una materia malleabile in continuo movimento… ma credo che la musica dei Mors Syphilitica in fondo sia proprio questo, cioè un insieme di note in costante mutamento che si muovono sinuosamente negli angoli più bui dell’anima dando vita a sensazioni intense, a volte così fragili da sembrare oniriche. In un album di questo tipo, nel quale le canzoni formano quasi un tutt'uno inscindibile tanto sono ben amalgamate fra loro, è difficile sostenere che ve ne sia qualcuna che emerge sulle altre, ma non posso mancare di affermare che “How Long?” e “Only a Whirlwind” mi hanno colpito, turbandomi profondamente, forse per la maggiore carica emotiva che esse sprigionano. In realtà tutte le canzoni sono intrise della bellezza sensuale e del fascino triste che Lisa ed Eric riescono a conferire loro ed è questo ciò che rende i loro lavori unici. (Laura Dentico)

(Projekt)
Voto: 80
 

Lex Decimate - Seas of Endless

#PER CHI AMA: Darkwave, Elettronica, Ambient, Gothic
Lex Decimate. Ovvero "distruzione della legge". Secondo quanto riportano le note di copertina, il significato che Lee Duis attribuisce al monicker del suo progetto è collegato al rifiuto delle imposizioni sociali e al tentativo di liberarsi da ogni dogma che possa minare la nostra identità. Attraverso la sua musica, Lex Decimate vuole condurci in una dimensione lontana da tali restrizioni, un posto in cui nessuno soffochi la nostra esistenza stabilendo quali persone noi dovremmo essere o quali dovremmo amare. Se questo è l'intento dell'artista americano, diversa è invece la natura del concept affrontato in “Seas of Endless”, un album incentrato sulla descrizione di un mondo distrutto in cui solo una parte esigua del genere umano è sopravvissuta. I "Mari dell'Infinito" non sono altro che le emozioni dei superstiti, la loro rabbia, le lacrime del ricordo unite ai sogni di un nuovo mondo che, timidamente, tenta la strada della ricostruzione. Riguardo l'aspetto prettamente musicale, “Seas of Endless” si articola in undici brani caratterizzati da una discreta varietà stilistica, anche se l'ambito in cui si muove Lex Decimate rimane indubbiamente connesso alla musica elettronica e alle sue varianti più "ambientali". Attraverso le algide tessiture dei sintetizzatori e del piano, l'uso di beat felpati, l'alternanza tra una base ritmica morbida e la battuta controtempo negli episodi meno pacati dell'album, Lee Duis è riuscito a creare veri e propri soundscape sonori, dei paesaggi di assoluta desolazione che ben si sposano al concept lirico dei testi. A questo si unisce un'impostazione vocale a volte greve, a volte melodica, altre volte sussurrata e criptica. In ogni caso, una prova canora sempre perfettamente intonata con l'umore oscuro e drammatico che permea ogni singolo brano. Non tutta l'opera vive di momenti entusiasmanti, ma “Seas of Endless”, “One Breath Gone” e “Find Myself”, sono ottimi esempi di come si possa suonare elettronica in modo intelligente e professionale, senza l'appoggio di una grossa etichetta, senza riciclare i facili cliché che le mode del momento impongono e, soprattutto, affidandosi agli unici ingredienti necessari alla buona riuscita di un prodotto: talento, passione e buon gusto. (Roberto Alba)

(Silencer Records)
Voto: 75

http://www.lexdecimate.com/

domenica 15 gennaio 2012

Faith and the Muse - The Burning Season

#PER CHI AMA: Gothic/Dark Wave
Un colpo di frusta: comincia così il nuovo album dei Faith And The Muse, che si apre con la breve e tirata “Bait & Switch”. “The Burning Season” rappresenta il quarto lavoro in studio, se si vuole escludere il doppio cd “Vera Causa”, uscito nel 2001 a celebrare la carriera di William & Monica, album che era stato presentato come un lavoro completamente diverso da ciò che avevano proposto in passato e addirittura in grado di destabilizzare i vecchi fan, che avrebbero anche potuto far fatica ad accettare un mix di generi così variegato e bizzarro per un gruppo che nel corso di dieci anni ha fatto del proprio stile un punto di forza. Da grande ammiratrice dei Faith And The Muse, che sono IL mio gruppo preferito praticamente dal loro debutto “Elyria” del 1994, avevo finito con l'attendere quest'album addirittura più di tutti gli altri lavori da loro pubblicati ed ero pronta a tutto... tuttavia, non era necessario corazzarmi di buona disposizione, dal momento che non è stato affatto difficile per me innamorarmi subito di “The Burning Season”, un album sì estremamente vario, ma anche decisamente riuscito! I Faith And The Muse si muovono con sorprendente disinvoltura e naturalezza tra generi tanto diversi tra loro, senza mai risultare eccessivi o sgraziati, ma anzi, evidenziando una versatilità davvero notevole... dodici canzoni infuse di un'energia fresca, ispirata, canzoni assemblate in modo da saltare da un genere all'altro e tuttavia capaci di creare un tutt'uno organico che ha un senso intrinseco indipendentemente dalle parti delle quali è composto. Un mosaico di stili, una tavolozza di colori, un album sentito intensamente, dal quale traspare tutta la passione che il duo americano ha messo in questo lavoro. Se non sorprende, per chi conosce le origini della carriera di Monica Richards, l'abilità con cui la sua voce riesce ad adattarsi in modo perfetto agli aggressivi ritmi punkeggianti di canzoni quali “Sredni Vashtar” e “Relic Song”, colpisce invece la sua predisposizione anche per un genere apparentemente ben distante da quello che ci si potrebbe aspettare siano le sue influenze principali, e così stupisce la carnale sensualità con cui affronta una lenta canzone jazz, “Gone to the Ground” (la quale vede la partecipazione di Matt Howden al violino). Forse “Bouddicea” e “Willow's Song” sono le canzoni che richiamano in modo più incisivo lo stile più tipicamente Faith And The Muse del passato, di album quali “Elyria” ed “Evidence of Heaven”. Nella eterea e severa “In the Amber Room” si possono riconoscere echi lontani dei Cocteau Twins. Ma le canzoni che preferisco in assoluto sono la title track, “Whispered in Your Ear” e “Visions”, calde ed avvolgenti e con una spruzzata di morbida elettronica, donano nuovo spessore alla voce di Monica e sono i momenti più esaltanti e indovinati di tutto l'album, assieme a “Failure to Thrive”, cantata da William Faith e molto darkeggiante. Ritengo che a questo punto della loro carriera William & Monica non potessero che sentire il desiderio e la necessità di dare nuova luce e nuova freschezza alle loro canzoni e questa decisione non può che essere rispettata, data l'esperienza ormai acquisita dai due, che ha permesso loro di affrontare con eleganza e sicurezza un cambiamento così drastico, del quale, tuttavia, si era già visto qualche accenno, a mio avviso, nella scelta delle canzoni che dovevano far parte del primo dei due cd di “Vera Causa”. Per tutti coloro i quali si possono essere sentiti traditi da un album come “The Burning Season”, consiglio di ascoltarlo bene e senza pregiudizi, cercando di entrare nello spirito vero delle canzoni, senza timore di trovare troppi elementi estranei a ciò che hanno sempre riconosciuto nei Faith And The Muse. “The Burning Season” è davvero un bell'album. (Laura Dentico)

(Out of Line)
Voto: 80