Cerca nel blog

sabato 26 ottobre 2019

Treehorn - Golden Lapse

#PER CHI AMA: Stoner/Noise Rock, Post-Hardcore, Melvins, Unsane, Big Black
Gli appassionati di storia come me (appassionato suona meglio di nerd) si saranno sicuramente imbattuti nel termine “epoca d’oro”, usato per identificare l’apice di una civiltà, di una nazione, di una corrente di pensiero o artistica. Si tratta di fasi determinate dal contemporaneo verificarsi di condizioni favorevoli e che possiamo ritrovare anche su scala più piccola, come ad esempio nelle nostre vite: a tutti è capitato di attraversare un periodo particolarmente propizio durante il quale si saranno presentate occasioni lavorative, realizzazioni personali e conquiste sentimentali. Certo, nulla dura in eterno, l’epoca d’oro è destinata ad esaurirsi e magari ci saremo poi ritrovati a raccoglierne le macerie: è una legge storica ed è probabilmente il motivo per cui dovremmo soffermarci a godere di quei brevi momenti in cui tutto fila liscio, momenti d’oro appunto. In 'Golden Lapse', i Treehorn non raccontano di epoche d’oro, anche perché basta dare un'occhiata alle notizie di cronaca o scorrerne i commenti sui social per capire che sarebbe fuori luogo: l’intervallo di tempo di cui parlano potrebbe essere quello trascorso tra il 2014 a oggi, passato lontano dai palchi e senza dare segni di vita. Cinque anni di assenza sono praticamente un eone e un gruppo viene considerato spacciato per molto meno, tuttavia questa pausa è servita a far germogliare le idee del trio di Cuneo (zona dove peraltro non sembra mancare il terreno fertile per del sano rock pesante, basti pensare a Ruggine, Cani Sciorrì e Dogs For Breakfast), portando lo stoner/grunge del precedente 'Hearth' ad un nuovo stadio di evoluzione, ossia questi dieci pezzi stortissimi e furibondi che non appartengono completamente né allo stoner, né al grunge, né al noise o all’hardcore: sono dei Treehorn e tanto basta, i quali hanno miscelato questo e quel genere secondo una personale ed esplosiva formula. La prima traccia “The Recall Drug” mette subito in chiaro le intenzioni della band: è un missile sparato a velocità ipersonica verso coordinate tutte sbagliate e di cui è impossibile determinare la rotta, ma che sicuramente si schianterà su ciò che incontra. Pezzi come “Virgo, Not Virgin” (un richiamo a “Taurus, not Bull” presente su 'Hearth'), “The Same Reverse” e “Damn Plan”, si sviluppano tra spericolate cavalcate del più classico stoner rock ed improvvise destrutturazioni noise, dove la chitarra si lancia in tormentosi riff sghembi, sorretta dalle percussioni massicce e da un basso cupo e fangoso; in 'Golden Lapse' però c’è anche spazio per composizioni meno intricate e non per questo scontate o meno adrenaliniche, come “Onlooker” and “Hell and His Brothers”. “A Shining Gift” sembra essere uscita dopo un tamponamento a catena tra Unsane, Melvins e Big Black, mentre "Modigliani", che si apre con un feroce giro di basso, si avvicina invece al più malato post-hardcore, manifestando punte di estrema sofferenza e anche malinconia. Dopo il breve intermezzo atmosferico di “Lapse”, scandito da rade note di chitarra, ecco la conclusiva e pachidermica “Coward Icons” che tira le somme di tutto il lavoro. Quale sia il motivo conduttore dell’album è difficile stabilirlo: un invito al “carpe diem” probabilmente, tuttavia “Lapse” si può tradurre anche con “sbandamento morale” e i titoli di molte canzoni, così come l’artwork luciferino, potrebbero giocare sull’ambiguità del termine. In questi cinque anni di “ghosting”, ai Treehorn è accaduto quello che molti avrebbero sperato succedesse ai Tool negli ultimi tredici: trovare i giusti stimoli, le giuste energie, la coesione di tutti gli elementi della band, l’ispirazione più pura e quel pizzico di “machissenefrega, noi suoniamo” che è terreno fecondo per l’opera di un musicista. 'Golden Lapse' è un lavoro spaccaossa che gode di freschezza, suoni potentissimi e un efficace songwriting, il tutto magistralmente enfatizzato da una produzione fantastica (registrazione a cura di Manuel Volpe e master di Enrico Baraldi, scusate se è poco): prendetevi un attimo di tempo per ascoltarlo e vi garantisco che sarà il vostro momento d’oro. (Shadowsofthesun)

(Escape From Today/Brigante Produzioni/Vollmer Industries/Taxi Driver Records/Canalese*Noise/Scatti Vorticosi Records - 2019)
Voto: 80

Sons of Alpha Centauri - Buried Memories

#FOR FANS OF: Instrumental Industrial/Post Rock
'Buried Memories' is the 2019 instrumental release from industrial post-rock band Sons of Alpha Centauri (SOAC). The album is immediately intriguing as the first three tracks are separate mixes and remixes of the same track "Hitmen" by Justin K. Broadrick. The first is a standardized mix with dark distortion, typical of its genre, lacking depth, until the final two minutes of the track, that resembles Pantera, however that maybe an overreaching comparison. The second remix feels more original with haunting sounds that accompany the distorted instrumentation and even though it continues the dark theme there are hints of ambience and lightness layering the mix creating more depth to the sound. The third remix follows nicely with a literal more industrial sound, with the rhythm section being replaced with what can only be described as a moving machine, with the song evolving into a haunting wobble. The second half of the album is mixed and remixed by James Plotkin who improves the sound massively with his creativity and originality. "Warhero" strips back the effects with cleaner sounds creating a mild uneasiness at first, until the marching band style drumming begins and the conventional repetitive heavy guitar riff takes over. "Remembrance" delivers the optimum industrial sound of the album with moments of almost silence at times that seemingly include the sound of rain drops echoing in a cave. SOAC saves the best for last with the final track "SS Montgomery" - the single taken from their debut album. Remixed again by James Plotkin it begins with a pleasant base line and a truly original and unique drum beat. The remix is reminiscent of "Wake Up" by Rage Against the Machine with an outro that leaves you wanting more. SOAC deliver an original idea with this record and the collaboration with James Plotkin elevates their sound to new heights. (Stuart Barber)


mercoledì 23 ottobre 2019

Halma - The Ground

#PER CHI AMA: Post Rock strumentale
Se avete bisogno di rilassarvi e ricaricare le batterie, non c'è niente di meglio che affossarvi in una bella poltrona comoda, un po' di penombra ed un volume dello stereo non troppo elevato, lasciando fluire nel vostro corpo e mente, le note di questo nuovo capitolo dei teutonici Halma. 'The Ground' è il titolo del loro settimo album, se non vado errato, con il quartetto di Amburgo a prenderci per mano e farci fare un giro nel loro sottosuolo. Mentre me ne stavo spaparanzato ad ascoltare il cd però, le immagini che mi si compongono nella mente sono più quelle di un giro notturno per una luminosissima città sconosciuta; fuori dall'auto il caos, ma io dentro mi ritrovo ovattato in anomali suoni, costituiti da timidi bassi e flebili percussioni, come quelle che potete assaporare durante l'ascolto di "Advanced Construction" o "Peak Everything", le prime due song di 'The Ground'. Per quanto i quattro musicisti ci propongano una forma strumentale di post rock, sappiate che l'ascolto del cd non è propriamente dei più semplici. Potrete ritrovare infatti divagazioni noise, proprio come accade nella seconda parte di "Peak Everything", oppure lisergiche partiture psyck rock, perennemente guidate da quel basso che sembra essere lo strumento portante degli Halma, e che nel corso ritroveremo tonante a tratti, tipo quando sostiene la linea di chitarra di "CK and Why?", più sciamanico nel suo incedere nella seconda parte dello stesso brano, che per certi versi mi ha evocato un che dei The Doors. Il disco prosegue su queste coordinate anche con le successive "It Could All Be Different", song asfittica ed eccessivamente ridondante per i miei gusti, in quel suo nebuloso incedere. Troppo spazio infatti viene concesso al basso e dopo il un po' il rischio di annoiarsi è dietro l'angolo, invece quando è la chitarra a prendersi la scena, le cose si fanno più interessanti. Detto che in un simile contesto, una voce ci stava verosimilmente come il pane a destabilizzare un sound talvolta troppo monolitico, il cd prosegue con la malinconica e riverberata verve di "Keep it in the Ground", dove ancora l'abuso del basso finisce per abbassare il mio indice di gradimento verso la band. Ed è un peccato perchè i presupposti iniziali erano più che positivi, perchè va bene rilassarsi, ma qui il rischio è di piombare in un sonno pesante. (Francesco Scarci)

Magic Pie – Fragments of the 5th Element

#PER CHI AMA: Hard Rock/Prog Rock, Kansas
Ci sono voluti alcuni anni di attesa per gustare il ritorno in grande stile della navigata band norvegese dei Magic Pie, che al quinto album, uscito per la Karisma Records (prodotto ottimamente da Kim Stenberg e mixato in maniera esemplare da Rick Mouser), tocca una vetta artistica notevole, compiendo un ulteriore balzo in avanti nella qualità musicale proposta, offrendo un disco variegato e ricercato da veri esperti, sapienti e conoscitori del genere prog/retro rock, ovviamente rivisitato e adattato in chiave moderna, da sempre manifesto intento della band. Le indiscutibili doti compositive ed esecutive si esprimono al meglio sin dal primo dirompente singolo di questo 'Fragments of the 5th Element', intitolato "The Man Who Had It All". La song incanta con i suoi virtuosismi sopraffini ed una spettacolare composizione degna di nota, spostandosi tra il Gabriel e i suoi Genesis storici, aperture beatlesiane e fraseggi alla Dream Theater/Marillion, ed uno scambio di voci e cori curatissimo che proseguirà per tutto il disco, canzone dopo canzone, caratterizzandolo fortemente. Tracce di hard rock in stile Kansas e pefino dei vecchi Judas Priest, scorrono nelle vene di "P&C (Pleasure & Consequences)" con un corridoio free jazz rock inaspettato e una coda di chitarra e tastiere per un finale melodico che mostra una band perfettamente in grado di giocarsela anche con le ultime uscite dei Deep Purple. Da notare la splendida voce di Eirikur Hauksson che riporta in auge il tono rauco appena accennato, da sempre di casa anche nei fantastici Jethro Tull d'annata. "Table for Two" è un pezzo impressionante, che riesce a fondere l'elaborata leggerezza rocciosa dei Kansas con il suono cosmico di "Alladin Sane" del duca bianco, e lo spettro sofisticato del più recente Bowie si aggira anche in "Touch by an Angel", una ballata virtuosa che rimanda al romanticismo futurista di Nad Sylvan. Ci si abbandona al puro piacere nella lunga "The Edonist", brano conclusivo, complicato e multicolore (come la splendida copertina del cd, cosi raffinata ed intrigante) di circa 23 minuti, carico di ricercati snodi stilistici alla Yes, o alla maniera di Neal Morse con tanto di aperture nel segno di Gillan e compagni, a cui aggiungerei anche, in alcuni tratti, una certa colta aggressività alla ELP, un piccolo gigante sonoro che non deluderà gli amanti del progressive rock, volto a rinvigorire i fasti del passato, una musica progressiva capace, intelligente ma soprattutto esageratamente piena di vita. Lunga vita al Prog Rock! (Bob Stoner)

domenica 13 ottobre 2019

Vixa - Tutto a Posto

#PER CHI AMA: Crossover/Rapcore
Scrivo Vixa ma va letto vipera, sarà fatto e mi adeguo. 'Tutto a Posto' è l'album d'esordio di questo quartetto ferrarese che ammetto non incontrare proprio i miei gusti musicali, ma cercherò di essere quanto mai oggettivo nell'analisi del presente lavoro. Si parte col noise rock introduttivo di "Sbaglio da Me", una song che per almeno il primo minuto mi lascia ben sperare tra ritmiche cibernetiche ed un riffing compatto; quello che temevo era il cantato in italiano e le mie paure si tramutano in dura realtà, difficile da digerire perchè è il classico modo di fare degli artisti italiani che affidano interamente la scena al vocalist (non proprio un maestro nel canto), relegando in secondo piano gli altri strumenti, ma perchè? Molto meglio infatti la seconda parte del brano, quando voce e ritmica vanno a braccetto, anche se la performance vocale di Alen Accorsi lascia un pochino a desiderare. Ancora un buon inizio con "Borderline", tra l'altro il singolo apripista del quartetto, che si qui lancia in una commistione sonora tra crossover, rapcore e un roccioso rock, quasi un mix tra Rage Against the Machine, Faith No More ed IN.SI.DIA, il tutto condito da un colorito utilizzo delle liriche a base di "vaffanculo vari". Decisamente un passo in avanti rispetto all'opener. Con "Immobile", la sensazione, per lo meno iniziale, è di apprestarsi all'ascolto di un brano grunge, in realtà poi è un'alternanza ritmica adombrata a tratti, ancora dalla voce del frontman. E dire che la song si muove piacevolmente su coordinate stilistiche che evocano un che dei Deftones, ma ci sono ancora un po' di cosine da aggiustare, perchè la strada sembrerebbe quella giusta, soprattutto quando la performance vocale si amalgama in modo ottimale con gli altri strumenti. "Veleno (parte 1)" è un massiccio pezzo strumentale che si chiude con una sorta di parodia rap. "Riserva di Calma" è un altro brano che combina rap e rock, che forse poteva anche andare alle selezioni di X-Factor, pur di evitare di cadere tra le mie grinfie e dire che comunque a livello di testi, i Vixa sono anche interessanti (e socialmente attivi). "Veleno (parte 2)" è un brevissimo intermezzo che ci porta a "Illuso", il pezzo più oscuro del lotto soprattutto a metà brano dove c'è un bel rallentamento atmosferico e degli ottimi suoni, tra stoner e space rock, decisamente il mio pezzo preferito e anche quello più convincente, soprattutto per l'uso di voce e keys. "Lavoro di Stomaco" sembra aprire sulle note di uno dei primi pezzi dei Metallica per placarsi immediatamente e affidare lo stage ad Alen in un'evoluzione litfibiana del brano di cui sottolinerei il chorus, graffiante e accattivante quanto basta. A chiudere il disco ecco la nevrotica title track, schizoide nella sua natura ritmica e rapper nel cantato, infine detonante nella sua magnetica conclusione. Un lavoro per quanto mi riguarda interessante, che con qualche aggiustamento in più, potrebbe conquistare anche la fiducia di chi come me, non ama queste sonorità. (Francesco Scarci)

((R)esisto - 2019)
Voto: 67

sabato 12 ottobre 2019

Acid Brains - As Soon as Possible

#PER CHI AMA: Grunge/Punk Rock
Gli Acid Brains sono una storica band toscana, formatasi addirittura nel 1997 e dedita ad un alternative-punk rock, che torna a farsi largo sulla scena con questo nuovo sesto album dal titolo ben chiaro, 'As Soon as Possible'. Appena possibile quindi date un ascolto a questo lavoro che si muove dall'ipnotica opening track, "Our Future", giocata su profonde partiture di basso e voce, a cui segue una bella e potente linea di chitarra. Con "Go Back to Sleep", le carte sul tavolo si sparigliano e si torna a parlare di un classico punk rock, orecchiabile e canticchiabile quanto basta per farci venire voglia di saltare e urlare come pazzi, proprio come lo sguaiato urlo che il frontman riversa verso la fine del pezzo, mentre le ritmiche corrono arrembanti e ci conducono con furia a "Sinners". Il motivetto di chitarra e voce iniziali entrano nella testa e da li non se ne escono grazie a quella graziata ritmica che contraddistingue la song. Suoni leggeri che sfiorano addirittura la psichedelia in "Really Scared", un pezzo che mostra un'apertura quasi di scuola floydiana, prima che la song s'incanali in una linea melodica più lineare rispetto alle precedenti, sicuramente più seriosa e meno scanzonata, quasi a dire che gli Acid Brains vanno presi sul serio. Ma l'eterogeneità è parte del DNA dei nostri e allora in "Not Anymore", eccoli proporre un sound decisamente più roccioso e grunge oriented (penso ai Nirvana più rozzi e cattivi), e non a caso questa sarà anche la mia song preferita del lotto. C'è tempo ancora per un paio di canzoni cantate questa volta in italiano, "Capirai" e "Canzone di Settembre": la prima, nonostante il riffing bello compatto che chiama in causa i System of a Down, perde potenza quando si palesa il cantato in italiano. La seconda, è un esempio di pop rock che ho fatto più fatica a digerire, cosi lontana dai miei canoni sonori, ma ci sta considerata appunto l'ecletticità degli Acid Brains. Discreto ritorno, peccato solo che la durata del cd sia piuttosto risicata, avrei optato almeno per un paio di pezzi in più. (Francesco Scarci)

Solitude in Apathy - S/t

#PER CHI AMA: Dark/New Wave/Gothic
I Solitude in Apathy sono un trio campano formatosi nel 2016 e guidato dalla calda voce di Santina Vasaturo, la cui avvenenza vocale funge da vero driver di questo lavoro omonimo. Si tratta di un EP di quattro pezzi aperti da "Dreaming in Silence", ove a mettersi in mostra, oltre ai tratti vocali della front woman, ci sono pure le partiture post punk/new wave del combo napoletano. Il sound è fumoso e ci porta indietro nel tempo di quasi trent'anni, con quegli ammiccamenti alla scena dark di fine anni '80, affidati al basso tortuoso della stessa Santina ed in generale ad un suono che proprio limpidissimo non è. Ma dopo tutto, sembra non essere nemmeno un difetto nell'economia generale di questi 22 minuti di musica targata Solitude in Apathy. Soprattutto perchè, con la seconda "Nothing Lasts Forever", i nostri virano verso uno shoegaze più meditativo e fortemente malinconico, la classica song atta ad aprire la stagione autunnale, con l'appassire delle foglie, le umide giornate novembrine, i vetri delle finestre bagnati dalla condensa e quei cieli dipinti di un grigio privo di sfumature. È un sound delicato, non certo ricercato, ma che gode di influenze che ci portano anche della sfera del gothic e dell'alternative. "The Other" è la terza traccia, peraltro anche singolo apripista dei nostri: la voce eterea della vocalist poggia suadente in apertura sul suo basso, ricordando le cose più solenni e tranquille di Myrkur (in formato new wave), cosi come un che dei primi vagiti di Kari Rueslåtten, alla guida dei primi The 3rd and the Mortal. Niente di originale sia chiaro, tuttavia non posso negare il fatto che il brano sia comunque piacevole da ascoltare, anche se francamente avrei osato qualcosina in più. L'ultima song è "Ocean", l'ultimo onirico canto della sirena Santina, in una sorta di ninna nanna che avrei utilizzato come chiusura di un full length piuttosto che di un EP. Avrei gradito infatti più ciccia ecco, i due minuti di flebile chitarra sul finale sono un po' pochini per farmi gridare al miracolo. Pertanto, sappiate che attenderò il trio italico al varco di un album più lungo e strutturato prima di dare giudizi conclusivi. Per ora benino, ma si sa, io pretendo il molto bene. (Francesco Scarci)

(Vipchoyo Sound Factory - 2019)
Voto: 66

https://solitudeinapathy.bandcamp.com/releases

Lucy Kruger and the Lost Boys - Sleeping Tapes for Some Girls

#PER CHI AMA: Psych Folk
Il paesaggio rimane immobile, tutto rimane immobile, luminoso, splendente e riflessivo, dopo l'ascolto di questo album edito dalla Unique Records. Tocchi leggeri di chitarra a scandire melodie astrali di una voce incantevole, ritmi leggeri, eterei, appena accennati per introdurre arie di magica seduzione e ipnotica malinconia. Solo così si può spiegare la seconda uscita, 'Sleeping Tapes For Some Girls', di questo splendido progetto della songwriter Lucy Kruger (già voce degli ottimi Medicine Boy) proveniente da Cape Town ma berlinese per la gestazione della sue opere sonore, che suona come Hugo Race & The True Spirit a rallentatore, rievocando la candida psichedelia folk e blues degli Opal, dei primi Low e le atmosfere evanescenti di certi Slowdive (epoca 'Souvlaki') virati al folk con la struggente malinconia acustica dei Cranes più delicati e se non possiamo premiarli col voto massimo all'originalità, poiché il genere intrapreso è ferreo nelle sue caratteristiche estetiche, li premieremo per l'implacabile bellezza di cristallo della Kruger, che in "Digging a Hole" stringe alleanze niente meno che con l'inarrivabile voce della mitica Nico. Brano dopo brano ci si addentra in un universo intimo ed introspettivo, la splendida "Half of a Woman" potrebbe far impallidire o svanire i brani dell'ultimo album di Florence and the Machine, per intensità e profondità espressiva. Il freddo del nord s'impossessa della chiave più intima del caldo verbo folk e sfodera gioielli di raffinata e rara bellezza, come "Cotton Clouds", una canzone così immobile, glaciale e sospesa in aria tanto irreale quanto magnifica. Ecco, da qui in poi il disco, che gode di una sonorità encomiabile, snocciola un gioiello dopo l'altro, accompagnando l'ascoltatore verso la conclusione, con una mistica sensualità destabilizzante, tra rituali e canti dal sapore antico e sciamanico, visioni di paesaggi sconfinati e irraggiungibili, tra Sharron Kraus e gli Hagalaz Runedance in salsa "All Tomorrow's Party (The color of Dirt)", un viaggio incredibile verso il mondo interiore, ove aprire il proprio cuore per aprire la mente attraverso le cerebrali composizioni di questa fantastica cantautrice, dalla spettacolare voce magnetica e seduttiva. (Bob Stoner)

venerdì 11 ottobre 2019

Late Night Venture - Subcosmos

#PER CHI AMA: Post Metal, Cult of Luna, Ufomammut, Type O Negative
Strano ma vero, la Czar of Crickets Productions ha deciso di varcare i confini nazionali, selezionando una nuova band da inserire nel proprio rooster, andando a pescare in Danimarca. Si avete letto bene, l'intransigente etichetta elvetica si è spinta in nord Europa per selezionare questi Late Night Venture, un quintetto originario di Hovedstaden, che con 'Subcosmos' arriva al traguardo del quarto album (in discografia anche un paio di EP), il terzo peraltro a chiudere una trilogia cosmica sul genere umano, la vita e l'universo. Il genere proposto dai nostri si affida ad un post metal oscuro e asfittico, ma assai melodico, che acchiappa sin dalle note iniziali dell'opener "Fram From the Light", un brano intenso, pesante, ipnotico, in cui ampio risalto viene affidato agli strumenti, un po' meno alla possente e sbraitante voce dei due frontman. Con "Bloodline", la seconda traccia, la marzialità del brano si fa più urgente, con un effetto senza dubbio vincente, e che richiama per certi versi i Cult of Luna. Ma il ventaglio di influenze dei nostri non si ferma ai gods svedesi, va esteso anche ai Neurosis, a cui i nostri strizzeranno l'occhiolino a più riprese nel corso del disco. Il risultato è davvero buono, avendomi spinto ad andare a spulciare la vecchia discografia della band danese per saperne un pochino di più dei nostri che sono riusciti a toccare le mie corde. Poi quando "2630" (per la cronaca, il CAP del sobborgo di Høje-Taastrup dove due dei membri della band sono cresciuti) prende forma nel mio stereo, ecco che si materializza anche lo spettro dei Type O Negative grazie ad un sound doomeggiante e ad una voce baritonale in stile Peter Steele (pace all'anima sua). Ma la song riserva ancora qualche sorpresa grazie a delle contaminazioni elettroniche che si scorgono in background e ad una esaltante frazione conclusiva, all'insegna di un crescendo ritmico da paura. Sempre più interessanti. E l'oscurità va ingurgitandosi ogni forma di luce con la criptica "Desolate Shelter", una song semi-strumentale davvero angosciante che pesca ancora a piene mani da un post metal contaminato da psichedelia, doom e sludge. Il disco, cosi permeato di influenze techno-cibernetiche (penso all'inizio della title track), è una sorta di insano viaggio distopico nella società malata. "No One Fought You" ha un inizio sognante: le influenze di scuola Isis/Cult of Luna si palesano quando l'apparato ritmico va ad ingigantirsi, ma francamente risulta comunque gradevole assaporare la proposta peculiare del combo danese. L'ultima lunga song, "No Burning Ground", ci consegna altri 10 estasianti e cosmici minuti di questo 'Subcosmos', un disco che vede man mano svelare altre più celate influenze, che citano anche Celtic Frost, Yob e Ufomammut, soprattutto nell'epilogo quasi stoner dell'ultima traccia. Ben fatto. (Francesco Scarci)

(Czar of Crickets Productions - 2019)
Voto: 77

https://www.facebook.com/latenightventure/

Maïeutiste - Veritas

#PER CHI AMA: Prog Death/Black, primi Opeth
Non sono passati otto anni dal precedente lavoro, ma quattro, eppure ho rischiato fortemente di dimenticarmi di questo ensemble transalpino che avevo positivamente recensito nel 2015. I Maïeutiste tornano col loro secondo album, 'Veritas', mantenendosi fedeli alla label Les Acteurs de L’Ombre Productions ma non troppo al sound claustrofobico che ne aveva caratterizzato il debut omonimo. Quando "Veritas I" emerge infatti dal mio stereo, rimango piacevolmente stupito dalla freschezza e da una maggior ariosità nel sound dei nostri, con un black/death pur sempre violento ma con una dose di epica e solenne melodia di fondo ben più importante ed una ecletticità, la solita direi, con cui il collettivo (otto strumentisti, tra cui sax, violino, viola e violoncello) sembra sentirsi molto più a proprio agio. E noi, come sempre, non possiamo che goderne appieno, respirando a pieni polmoni e ad orecchie completamente stappate, la nuova brillante creatura della compagine di Saint-Étienne. Accanto alle atmosfere ariose dell'opener (con tanto di break acustico centrale), si ritrovano quelle più oscure, ma viranti completamente ad un prog rock di scuola Opeth, della seconda strabiliante "Infinitus", un pezzo da leccarsi i baffi, per quella sua aurea oscura contrappuntata ancora da intermezzi acustici, per il dualismo vocale tra black/growl e clean vocals del frontman, ma in generale, per un approccio votato ad un death progressive assai ricercato che vede i suoi riferimenti nel periodo centrale della band di Mikael Åkerfeldt e soci. State a vedere che abbiamo trovato veramente gli eredi morali dei gods svedesi? Non ne sarei tanto cosi sicuro a dire il vero, conoscendo questi folli francesi, sono quasi certo che nel corso dell'ascolto di 'Veritas' ne sentiremo ancora di tutti i colori. Fatto sta che le prime due tracce sono delle vere bombe che rischiano di veder salire vertiginosamente i Maïeutiste in cima alle mie preferenze di questo 2019. Un breve intermezzo sinfonico, "Suspiramus", ed è la volta di "Universum", un brano ben più ritmato e nervoso nel suo minaccioso incedere, complicato e contorto, ostico quel che basta per spingerci ad una maggiore attenzione nell'ascolto, prima che i nostri decidano di rilassarsi, mollare gli ormeggi e lasciarsi andare in splendide fughe chitarristiche. Rimangono soli due pezzi, "Vocat" e "Veritas II", per una maratona ancora lunga trenta minuti, fatta di suoni intricati, deliranti, obliqui ma intriganti, che vedono la band spingersi in territori più estremi ma dalle atmosfere decisamente più plumbee, in cui le clean vocals riescono a mitigare la durezza di un impianto ritmico dalle tinte fosche, soprattutto nella lunga e lenta seconda parte di "Vocat", quasi del tutto strumentale, prima di un esplosivo epilogo finale. L'inizio di "Veritas II" richiama alla memoria ancora una volta gli Opeth, con i classici arpeggi iniziali di album quali 'Still Life' o 'Blackwater Park'; poi è una furente aggressione black che si stoppa improvvisamente al quarto minuto per lasciare la parola al vento e ad un silenzio che si protrae per oltre otto minuti (di cui avrei fatto a meno perchè interrompe quell'inebriante percorso emotivo intrapreso) fino all'assurdo finale onirico. Gran bell'album, non c'è che dire, che si candida alla mia personale top 3 dell'anno. (Francesco Scarci)

(Les Acteurs de L’Ombre Productions - 2019)
Voto: 84

https://maieutiste.bandcamp.com/releases

martedì 8 ottobre 2019

Daniele Brusaschetto - Flying Stag

#PER CHI AMA: Inustrial/Thrash, Voivod, Godflesh, Fear Factory
Daniele Brusaschetto vive la scena underground da ormai trent’anni e già questo dato dovrebbe bastare a dare un’idea della sua passione per la musica. Rendiamoci conto: tre decadi spese a comporre, provare, riprovare, comprare strumentazione, cercare live, gestire “contatti” (come dicono Sick Boy in 'Trainspotting', i pusher in generale e noi spacciatori di musica brutta nello specifico) che non rispondono mai, litigare coi fonici e con lo spazio sempre insufficiente del bagagliaio dell’auto, girovagare per studi di registrazione e locali. Insomma, una vita di sacrifici (tanti) e soddisfazioni (qualcuna). Non so voi, ma se all’inizio della mia carriera musicale (sigh!) mi avessero chiesto “Come ti vedi tra trent’anni?” io avrei citato (e citerei tuttora) Palahniuk: “Morto”. Daniele invece non si è mai perso d’animo: dopo tutto questo tempo e malgrado tutte le difficoltà, continua a comporre e suonare, ed è grazie a questa determinazione che è arrivato a festeggiare i venticinque anni del proprio progetto solista con il dodicesimo (sì, avete letto bene, 12) album in studio intitolato 'Flying Stag'. Dopo aver saggiato le varie possibilità di un rock elettronico caratterizzato da una vena profondamente cantautorale, minimale ed intimista, il musicista torinese sceglie di tornare alle proprie radici spiccatamente metal, confezionando un album molto più istintivo e rabbioso, quasi a voler celebrare una seconda giovinezza e dare sfogo a sentimenti a cui solo l’irruenza di un sound abrasivo può dare forma. Ecco quindi che in 'Flying Stag', i riff estremi della chitarra distorta accompagnata solo dal cantato pulito, talvolta in growl dello stesso Brusaschetto e dalle puntuali ritmiche di batteria dell’ottimo Andrea Marietta, si prendono tutta la scena, dando vita ad un graffiante lavoro in cui riecheggiano il thrash metal cerebrale dei Voivod, la furia contaminata dei Fear Factory e le destrutturazioni rumoristiche dei Godflesh. Posso solo fare ipotesi sul concetto che sta dietro a questo disco: i cervi volanti del titolo e il triste sole della copertina, stilizzato come lo disegnerebbe un bambino, parlano di chimere ed illusioni, così come i testi delle canzoni trasudano esistenzialismo e critica verso la routine quotidiana imposta da una società alienata ed infelice, impegnata nel perenne inseguimento di traguardi effimeri. Daniele Brusaschetto introduce l’ascoltatore nella sua personale mostra delle atrocità con “Otherwhere”, una sorta di rollercoaster di fraseggi dissonanti che corre tra disturbate visioni oniriche e risvegli in una realtà dai contorni da incubo e prosegue con il vorticoso thrash di “Stag Beetle”, lucida riflessione sulla futilità delle ossessioni contemporanee (“The world has always been more or less the same, big fish eats small fish, we are as we are, we are an alms dish”, “Desires are a world that does not exist”). Ascoltare la pachidermica “Splattering Purple” e la velocissima “The Unreal Skyline” è come sfrecciare in auto tra squallide periferie metropolitane ed inquinati siti industriali in abbandono, mentre appare più introspettiva per contenuti la non meno irruenta e voivodiana “Like When It’s Raining”. Dopo la furibonda cavalcata dall’inequivocabile interpretazione di “Fanculo Mondo”, il disco arriva alla chiusura con la crepuscolare “From the Tight Angle”, una cruda riflessione su come molti prevarichino il prossimo nella sola speranza di apparire più forti e non trovarsi a ricoprire il ruolo di vittima. Uscito grazie all’impegno di etichette indipendenti (Wallace Records, Bandageman Records, Bosco Records e Solchi Sperimentali Discografici), registrato e mixato da una colonna portante dell’underground torinese come Dano Battocchio e masterizzato dallo studio americano Audiosiege, 'Flying Stag' è un album robusto ed essenziale, perfetta sintesi del lunghissimo percorso compiuto da Daniele Brusaschetto, un percorso che sembra averlo riportato al punto di partenza: non è stato un viaggio a vuoto però, perché il musicista mostra una consapevolezza nuova unita all’energia di quel ragazzino che trent’anni fa si sarà sentito chiedere “Come ti vedi tra trent’anni?”. La risposta oggi dovrebbe essere: “Più vivo che mai”. (Shadowsofthesun)

(Wallace/Bandageman/Bosco Rec/Solchi Sperimentali Discografici - 2019)
Voto: 74

http://www.danielebrusaschetto.net/

Into the Moat - The Design

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Techno Death, Pestilence, Atheist
Gli Into the Moat sono un quintetto di Ft. Lauderdale nato nel 2001 che, dopo aver dato alle stampe nel 2003 ad un EP, hanno registrato presso i Mana Studios di Eric Rutan (Hate Eternal), questo 'The Design'. La musica è un death metal ultra tecnico che si rifà ai mostri sacri del genere, gli ahimè mai troppo compianti Death, Atheist, Pestilence e Cynic, reinterpretandoli però in modo asettico e asfittico. Mentre le band suddette riuscivano, infatti, a trasmettere emozioni forti attraverso un feeling speciale che si instaurava con l’ascoltatore, gli Into the Moat risultano freddi e poco coinvolgenti. Dal punto di vista tecnico la band americana, la cui età media si aggirava all'epoca sui vent’anni, è superlativa: le chitarre tessono trame intricatissime, la batteria è al limite del disumano e la voce si assesta su livelli buoni. È però tutto il complesso che alla fine ne esce penalizzato. Nonostante le idee non siano niente male, il tutto appare come un esercizio di tecnica fine a se stesso dove lo scopo è quello di stupire l’ascoltatore con trovate sempre nuove e originali che, in realtà, alla fine hanno il solo effetto di disorientarci. Fortunatamente questo 'The Design' non dura neppure tanto, però vi garantisco che, per arrivare al termine dei 33 minuti complessivi, è stata una vera faticaccia. Per concludere, i nostri hanno sì svolto il loro compitino raggiungendo la sufficienza risicata, troppo poco però per potermi emozionare ancora come ai bei tempi, quando Chuck Schuldiner e soci dominavano il mondo. (Francesco Scarci)

Uivo Bastardo - Clepsydra

#PER CHI AMA: Death Melodico/Industrial, Supuration
Uivo Bastardo è un progetto parallelo creato da ex membri dei Kronos, Helder Raposo e André Louro, rispettivamente tastiere e voce, il chitarrista João Tiago, e dal produttore, qui anche in veste di batterista stabile in formazione, David Jerónimo (Concealment). Uscito per Ethereal Sound Works nella primavera di quest'anno, 'Clepsydra' è un buon concentrato di metal pesante dalle forti influenze industriali, forzate in ottima maniera da un uso delle tastiere mirato e ricercato, così influente nel sound che arriva a caratterizzarlo positivamente, costruendo insieme al resto della band, composizioni ben strutturate e potenti. Le parti vocali sono molto spinte, quasi sempre urlate e sparate in faccia violentemente, l'impatto è duro e ricorda certe parti gotiche dei Paradise Lost della prima era anche se le ritmiche più squadrate e gli inserti melodici, futuristici, a volte sinfonici, donano ai brani quel tocco tecnologico, claustrofobico, fantascientifico e progressivo che attrae molto l'ascoltatore. Si fatica un po' ad apprezzare la lingua madre del cantato usata dalla band di Lisbona ma dopo alcuni ascolti ci si accorge che le canzoni suonano perfette anche così, ben prodotte, suonate bene, con una buona dose di originalità e mostrano un buon equilibrio tra gothic/industrial e melodic death metal, trovando il suo culmine nella pesante dichiarazione d'intenti di "Tormentòrio", in "Refùgio", brano teso e claustrofobico (il mio preferito) e in "Fuga Mundi", song dai toni bui e drammatici. Le canzoni si ascoltano bene e la durata del disco, che supera di poco la mezz'ora, sottolinea l'intensità e l'urgenza espressiva di un'opera che trae ispirazione dai padri del thrash metal anni '90 e da quelle atmosfere progressive, ricercate e cervellotiche in stile 'The Cube' dei mitici Supuration. Un disco che convince, mai banale e senza cadute, né di stile tanto meno di intensità, il tempo di abituarsi al canto in portoghese e tutto suona poi al punto giusto, belle parti veloci, mai troppo caotiche. Infatti, una delle caratteristiche della band è proprio la capacità di restare aggressivi, pesanti, melodici e tesi costantemente per tutto lo scorrere dell'album, dimostrando di avere trovato la chiave per un suono singolare ed in continua evoluzione. In sostanza un ottimo primo album, una band che ha carattere e la voglia di rinvigorire un tipo di metal abusato, anche in senso commerciale, da tante band prive di idee e talento. Ascolto consigliato! (Bob Stoner)

(Ethereal Sound Works - 2019)
Voto: 74

https://uivobastardo.bandcamp.com/

domenica 6 ottobre 2019

Wall Of Sleep - Slow But Not Dead

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Doom, Black Sabbath, Pentagram
Anche l’Ungheria ha i suoi “Black Sabbath”, capitanati dall’Ozzy Osbourne locale, Gabor Holdampf, responsabile delle vocals di questo disco uscito ormai nel 2004. Sto parlando dei Wall Of Sleep, compagine formatasi nel dicembre 2001 dalle ceneri dei Mood, la prima vera doom metal band ungherese, autrice di ben quattro album a cavallo degli anni ‘90. Nonostante sia stato registrato nel 2003 e di certo non sia stato agevolato da una buona distribuzione internazionale, fatta da piccole etichette indipendenti, 'Slow But Not Dead' rappresenta il primo full length di sei (l'ultimo uscito nel 2018) realizzato dalla band, dopo l’EP uscito nel 2003, 'Overlook the All' (fuori sempre per la PsycheDOOMelic Records). La musica che i cinque magiari propongono ormai l’avrete già intuita: un doom in pieno stile Black Sabbath con delle vocals degne del miglior Ozzy. Nel corso dei pezzi, vi è un uso piacevole delle chitarre acustiche, delle percussioni, talvolta tribali, e delle tastiere in mezzo a dei mastodontici ed oscuri riff di chitarra. La musica del “Muro del Sonno” paga sicuramente un grosso tributo al complesso di Iommi e soci, che ha scritto la storia di questo genere, ma l’offerta del quintetto ungherese farà la gioia anche di chi adora Pentagram, Trouble, Candlemass o Cathedral. I Wall Of Sleep riprendono il sound tipico del doom cercando di aggiungere elementi heavy, rock e dark per creare deliziose atmosfere in perfetto stile anni ’70. L’album sfoggia poi influenze blues, udibili in un paio d’occasioni, cosi come pure riprende, in taluni frangenti, l’attitudine ruvida di un certo punk rock di fine anni settanta e la coniuga sapientemente con l’hardcore. Pur non essendo un grande amante del genere, ho trovato interessante avvicinarmi ad un gruppo di questo tipo, soprattutto per la loro tendenza a non ripetere pedissequamente gli insegnamenti dei maestri, ma anzi ricercando soluzioni innovative e nuove melodie. (Francesco Scarci)

(PsycheDOOMelic Records - 2004)
Voto: 68

https://www.facebook.com/wallofsleep

Praise the Plague - Antagonist II

#PER CHI AMA: Black Doom, Dissection
A cadenza annuale, tornano i germanici Praise the Plague: era infatti settembre 2018 quando uscì 'Antagonist', l'EP d'esordio della band di Berlino e settembre 2019 vede i nostri tornare con 'Antagonist II', un secondo EP che prosegue sulla scia di quel blackened doom che era stato discretamente apprezzato dalla critica lo scorso anno. Inizio col dire che non vedo/sento grosse differenze con il vecchio lavoro, se non a livello di produzione qui molto più bombastica e che finalmente conferisce maggior risalto a livello di malvagità proposta. Due sole tracce però a disposizione per questo vinile 12" in uscita per la Argonauta. Ecco, mi sarei aspettato qualcosa in più che questa pillola malefica di black che poco si sposa mi pare con il resto del rooster della label nostrana. Comunque sia, "Torment", la prima traccia del lavoro, si apre con il grido del vocalist Robert a cui si accoda la ritmica tagliente in stile Dissection. E proprio il glaciale black svedese credo che rappresenti la fonte di ispirazione per i nostri almeno nelle parti più tirate, questo perchè i nostri tendono a rallentare impietosamente il proprio sound quando si spostando nel versante doomish, creando atmosfere vertiginose interrotte dalle classiche sferzate black. E la bufera annichilente prosegue anche nella seconda "Woe", un pezzo forse più oscuro del lato A del vinile, visto l'incipit che puzza di mefitico e putrefatto funeral doom, con le oscure grim vocals ad ergersi su una ritmica lenta ed opprimente che non concede troppo spazio alla melodia, sia chiaro. È solo a metà brano che le sanguinose e gelide chitarre tornano a soffiare nella loro impetuosa insania. La seconda parte del brano invece sembra ammiccare ad un sludge/post-metal che aumenta il mio interesse per l'ensemble teutonico. Ora sia chiaro, mi aspetto una release più strutturata per meglio giudicare la proposta dei Praise the Plague che per ora si devono accontentare di questo mio voto cosi risicato. (Francesco Scarci)