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giovedì 21 agosto 2014

Cult of Vampyrism – Aporia

#PER CHI AMA: Doom esoterico, Shape of Despair, Christian Death, Pazuzu
Uscito nel 2013 per la Mercy Despise Records, il nuovo lavoro del combo italico Cult of Vampyrism racchiude immagini molto suggestive, tinte di romanticismo gotico decadente di ottima fattura. L'opera, suonata interamente dal leader Trismegisto, è uno scrigno dorato di atmosfere cupe, gelide e cristalline devote al verbo del doom esoterico e magistralmente virate a una forma di dark wave che in Italia, per fortuna, continua a produrre musica unica di alto spessore. 'Aporia' è lanciato in orbita dalla presenza vocale di Morgenstern, una dea luciferina che incarna le doti migliori della scena dark rock, ricordando il mito di Gitane Demone intrecciato alla grazia di Elena Alice Fossi dei Kirlian Camera (vedi l'esperimento di fine album "Something Special for You" che sfiora sonorità ambient dark wave tanto care ai KC) e, se permettete il paragone, alla libertà canora che si era vista solo nei migliori Disciplinatha (cult band per eccellenza!) - che come in questo caso alterna voce maschile (Trimegisto) e femminile (Morgenstern), lingua inglese e italiana (a volte anche il latino...), recitato e canto in un verbo tanto teatrale che fa risultare il tutto veramente bello e fuori dal tempo. L'album porta al suo interno il seme mistico di band come gli Esoteric, in qualche caso ricorda gli Atrocity più sinfonici, i Lacrimosa e il gothic sound dei Christian Death più eterei, che non rinuncia a brevi ma efficaci virate vintage nella concezione prog di band come gli Hammers of Misfortune e che mantiene costante i contatti con il suono dell'infinito di matrice funeral doom di casa Shape of Despair. In questo contesto, il secondo lavoro dei Cult of Vampyrism rende l'idea di come si possa creare musica intelligente anche in Italia, con un volto marcatamente underground e dal respiro internazionale. Un suono unidirezionale composto da tante influenze, fatto per creare atmosfere buie piene di romanticismo, dall'umore decadente ma costruttivo e molto vitale nelle sue composizioni, elaborate come fossero una performance teatrale (di vaga memoria Pazuzu), intenso e ragionato dove la tecnica è a supporto del risultato da ottenere e nulla è lasciato alla schiavitù del virtuosismo. Dalle lande più oscure dell'anima, una calda iniezione di vitalità inaspettata. Ottimo album da valutare attentamente in un panorama italico eternamente vuoto, statico e omologato. Da ascoltare senza limiti! (Bob Stoner)

(Mercy Despise Records - 2013)
Voto: 80

mercoledì 20 agosto 2014

Schemata Theory - Dry Lung Rhetoric

#PER CHI AMA: Heavy/Progressive, Metallica
Per fortuna quest'estate disgraziata (meteorologicamente parlando), mi ha quantomeno portato sulla scrivania dei bei prodotti da ascoltare e analizzare: uno di questi è senza ombra di dubbio il full lenght degli Schemata Theory, gruppo inglese che gode già di una discreta fama e che da quanto mi risulta, è già alle prese con il successore di questo 'Dry Lung Rhetoric' datato 2012. Informandomi qua e là, ho letto che i componenti del gruppo si sentirebbero influenzati da mostri sacri quali Metallica e Dream Theater; personalmente ritengo che la loro musica sia influenzata molto meno di quanto ne possano essere i vari membri e questo lo trovo assolutamente positivo. Soprattutto perché il progetto sta in piedi da solo e cammina con gambe forti sulla propria strada, godendo di musicisti ben dotati sotto il punto di vista tecnico e compositivo. Mi riesce anche difficile etichettare rigidamente la musica proposta, perché si tratta di un sound in continua evoluzione lungo i minuti del disco, ma sempre ben strutturato e ben calibrato. Si tocca il metal classico, ma anche lo sludge, il post metal ed il progressive. Le canzoni sono piacevoli, non c'è che dire; la varietà di tipologie di vocals proposte è poi davvero ampia, cosi come le chitarre che, sempre belle quadrate, scolpiscono riffoni degni di nota. Non vorrei tralasciare infine l'affiatatissima sezione ritmica che si fa sentire, eccome. Tutto in questo cd sembra filare in modo scorrevole, tanto che la fine arriva troppo in fretta e sono costretto a ripigiare il play per un altro ascolto. Forse, un tocco più “aperto” nella scelta dei suoni avrebbe giovato a tutto l'insieme, perché in alcuni punti trovo il suono della batteria un po' troppo chiuso e “caldo” per il genere proposto, ma stiamo parlando veramente di inezie. Sugli scudi, in assoluto, la tripletta iniziale con l'intro strumentale “A Dark Dawn”, “Perish or Prevail” e “Drones”; ma il vero capolavoro arriva con “Crisis Unveiled”, vera e propria tempesta sonora dalla quale si vorrebbe essere investiti ogni qual volta possibile. Graditissima sorpresa per quel che mi riguarda, gruppo dal notevole potenziale, a mio parere espresso ancora solo in parte; e se questi sono i risultati, ben vengano altri nuovi lavori della band. E speriamo poi, il prima possibile. (Claudio Catena)

(ABAF Records - 2012)
Voto: 75

Islands - S/t

#PER CHI AMA: Post Metal, Cult of Luna, *Shels
Una delle cose che più mi fa incazzare è quando una band fantastica come quella che sto per recensire, non viene notata da nessuna etichetta e una release come quella degli australiani Islands, finisca per passare totalmente inosservata anche dagli addetti ai lavori, soprattutto a causa di un'uscita unicamente digitale. In questo caso, al Pozzo abbiamo voluto fare uno strappo alla regola proprio per poter dare valore ad una release davvero interessante in un ambito a dir poco intasato ultimamente come quello del post metal. 'Islands' è un lavoroche consta di 5 pezzi che avanzano lenti e carichi di groove. I punti di riferimento? Gli onnipresenti Cult of Luna, ormai vera e propria istituzione per il genere, tanto da aver a mio avviso surclassato gli ormai disciolti Isis, gli sperimentalismi dei The Ocean e la rigida integrità dei Neurosis. Gli Islands partono da questo sound, offrendo uno spaccato di desolati paesaggi invernali e arricchendolo di qualche orpello tipico di quegli australiani, popolo da sempre ricco di idee innovative. E cosi dopo l'iniziale “Golden Path”, i nostri si mettono a giocare con i riverberi di “Hand Built View”, song che si muove tra il post rock/metal e il progressive, offrendo splendide melodie, qualche bel chitarrone pesante, vocals tra il growl e lo screaming e un'ascendente progressione di suoni e colori, in uno sbarluccichio di emozioni che esaltano la prova di questi ragazzi. Non so se queste mie parole bastino per convincere in primis le etichette, poi chi legge, che abbiamo a che fare con una band dotata di enorme talento che può veramente rivoluzionare un genere. “Clouds Mistaken for Smoke” è una traccia strumentale di dieci minuti che vive di splendide ambientazioni post rock prima di ruggire con eccelse linee di chitarra in un ipnotico viaggio che per certi versi mi ha ricordato le ultime cose degli *Shels miscelati con le melodie dei Ne Obliviscaris. Spettacolari. “March” è il brano più oscuro dei cinque, ma anche il più corto e forse quello che meno riflette i contenuti fin qui uditi, che si fa ricordare solo per l'utilizzo pulito della voce e poco più. Arriviamo ai 13 minuti finali di “I, Destroyer” e ancora gli Island possono dirsi bravi nell'aver riscritto e ampliato i limiti che questo genere ha ancora da offrire, in una song corrosiva, ma comunque pregna di malinconia e dotata di un'accattivante componente progressive/post-hardcore. Inutile ribadire la grandiosità dei suoni contenuti in questo album omonimo, non potete fare altro che collegarvi alla loro pagina bandcamp e scaricarvi (peraltro gratuitamente) il loro lavoro e se anche voi lo apprezzerete come il sottoscritto, beh potreste anche lasciare la vostra offerta per stimolarne la messa su cd. Sarebbe un delitto ignorarli. (Francesco Scarci)

(Self - 2013)
Voto: 85

Heaven's Scum - It All Ends in Pain

#PER CHI AMA: Swedish Death, Dark Tranquillity, Arch Enemy 
Da oggi, il Lussemburgo non sarà più solo la nazione famosa per lo sviluppato settore bancario o siderurgico, ma anche la patria che ha dato i natali a questi melo-brutal deathsters che rispondono al nome di Heaven's Scum. Il quartetto di Differdange, formatosi nel 2011, esordisce a tre anni dalla sua fondazione, con questo 'It All Ends in Pain', album che in realtà di brutale ha forse solo la voce. "Never Wanted", la prima song dopo l'intro apripista, infatti si muove infatti su sonorità oserei dire Swedish, strizzando l'occhiolino a Dark Tranquillity o ad Arch Enemy, senza mai travalicare i confini del brutale. Diciamo che quello che penalizza al primo ascolto il debut album dei nostri (ma accadrà ahimè anche dopo svariati), è ascrivibile ad un cattivo bilanciamento in termini di equalizzazione del suono, con le growling vocals di Bigben Canyon, sempre troppo in primo piano a seppellire quasi del tutto il roboante incedere strumentale dei nostri, a tratti ovattato nella sua peccaminosa pulizia. Questo si rivela come una vera tragedia per l'esito finale, perché si fatica a gustare il riffing graffiante dell'act mittleuropeo, o qualche arpeggio dal vago sapore progressive. Tra le song, vi segnalerei "Love" per quel suo approccio più rock oriented. "Dr. Lecter's Passion" ha delle buone linee melodiche, peccato solo che a sconvolgerne ancora una volta il risultato conclusivo, ci sia il vocione di Bigben che, se ben modulato, a mio avviso potrebbe invece regalare ottimi risultati, soprattutto nella sua veste più sporca o urlata, proprio come accade in questa song, la migliore del lotto, e in "Enemy" la classica ballad heavy, in cui si può godere di una versione più intimista del vocalist del Granducato. Con le successive tracce i nostri tornano in pista, tenendo però il pedale dell'acceleratore schiacciato ma mai fino a fondo scala, muovendosi piuttosto su mid-tempo assai ritmati. Con "Blood Covered Dawn" è tempo di un'altra ballad prima della thrashettona "Inferno" (d'altro canto con quel titolo, che ci si poteva aspettare), che vanta un discreto arpeggio centrale. Un'altra ballad (ora si esagera però) è "I Don't Know", quattro minuti e mezzo che spezzano il ritmo un po' a singhiozzo che il disco è andato acquisendo e che verrà nuovamente spezzato dalla semi ballad "The Fallen Hero". Insomma, 'It All Ends in Pain' ha evidentemente più ombre che luci, tocca ora agli Heaven's Scum aggiustare qualcuna delle loro lampadine e darci un prodotto decisamente superiore. Mi raccomando, la prossima volta non si soprassiederà su questi errori che in un debut album hanno tutto il diritto di stare. (Francesco Scarci)

(Self - 2014) 
Voto: 60 

domenica 10 agosto 2014

Icosa - The Skies Are Ours

#PER CHI AMA: Djent Progressive, Tesseract, Meshuggah, Tool
Se due su tre membri della band hanno chitarre a 7 e 8 corde, voi a che genere pensate? Facile no, al djent. Ecco quindi già vagamente (ed erroneamente) circoscritto l'ambito in cui si muovono i notevoli Icosa, ensemble proveniente da Londra. Amanti di Meshuggah e dei primi Tesseract fatevi avanti, avrete di che ingozzarvi con le cervellotiche linee di chitarra del duo formato da Tom Tattersall e Stacey Douglas, con il primo anche vocalist e con Jack Ashley a completare l'esplosivo terzetto, dietro una farneticante batteria. "Ermangulatr" si presenta timida, ma a poco a poco cresce, fino a che non salgono in cattedra i chitarroni ultra tecnici delle due asce e le vocals urlate del bravo Tom. La song innalza splendidi muri di suoni arzigogolati ma sempre assai melodici che si alternano a paurosi stop'n go e a belle sfuriate death, senza tralasciare ipnotiche ambientazioni e fughe math, in una sorta di connubio tra i Tesseract più incazzati e i più meditativi Between the Buried and Me, il tutto improvvisato come nella migliore jam session. I territori esplorati con la successiva title track - part 1 - ci conducono in mondi ancor più bizzarri, in cui forse risiedono i The Mars Volta, il folletto Devin Townsend ma anche qualche deathster incallito. La voce di Tom si dirige verso toni più malati, mentre le ritmiche degli Icosa si spingono verso un suono ancor più stravagante, dotato di ritmiche sghembe dall'effetto asfissiante, che si muovono impazzite dalla cuffia destra a quella sinistra e viceversa. La psicosi degli Icosa mi entra nel cervello e con la title track - part 2 - i nostri non fanno altro che darmi il colpo di grazia con uno schizoide sound baritonale, che partendo dai più classici Meshuggah e Tool, trova modo di sfogarsi in divagazioni rock settantiane (King Crimson), merito anche del vocalist che va in cerca di vocalizzi meno estremi e più "cantabili". Con "Trepidation" gli Icosa chiudono egregiamente il loro EP, 'The Skies Are Ours', divertendosi con sonorità inizialmente mid-tempo, ma che cedono ben presto il passo ad un sound evoluto, iperbolico e totalmente imprevedibile, che ha modo di palesare a 360° tutti i pregi dell'act londinese, dall'eccezionale tecnica e padronanza strumentale, al favoloso gusto per le melodie e alla grande capacità di coniugare insieme queste incredibili doti. Per il momento, la mia votazione si limita a un 80, ma per il semplice motivo che ho potuto godere solamente di 22 minuti di musica; inoltre, meglio partire sempre dal basso se si vogliono raggiungere vette stellari. (Francesco Scarci)

(Self - 2014) 
Voto: 80 

Old Wainds - Nordraum

#PER CHI AMA: Black Old School 
Old Wainds, un nome, una garanzia. La garanzia sta nel fatto che qualunque album la band rilasci, è qualcosa di assolutamente ignorante e votato alla totale devastazione. Questi russi sono in giro dal lontano 1996 e solo dopo 3 demo, nel 1999, esordiscono con un vero e proprio full length. La capacità di questa band non è nelle doti tecniche, gli Old Wainds suonano infatti fottutamente primitivi, essenziali e senza virtuosismi di sorta, la loro bravura risiede nel fatto che con 4 riff in croce siano in grado di risucchiarti in un vortice di insanità mentale. Questo nuovo 'Nordraum' vanta, per la prima volta, un artwork semplice ma di ottimo impatto visivo cosa che non si può dire dei loro precedenti lavori dal titolo in cirilico e dalle grafiche non proprio ispirate; questa volta nel libretto ci sono persino i testi tradotti dal russo all’inglese e questa è una mossa intelligente per una band che guarda al futuro, di sicuro più florido di un passato non proprio glorioso. Devo ammettere che da una copertina ed un libretto così ben curati mi aspettavo anche una sostanziale sterzata di stile verso strade più limpide ed orecchiabili, ma mi sono sbagliato di grosso perché 'Nordraum' si rivela letteralmente come artiglieria pesante in mano a dei pazzi furiosi, una vera carneficina! La registrazione è molto migliore se paragonata ad altri loro album, tuttavia gli Old Wainds proprio non ne vogliono sapere di suoni laccati. Il sound di 'Nordraum' è rimasto più o meno lo stesso, graffiante, ruvido e fortemente distorto e questo rappresenta uno dei punti di forza che ha caratterizzato la band sin dagli albori. Dimenticatevi tastierine e chitarrine folk, perché in questi 38 minuti a farla da padrone sarà solo l’enfasi del chaos e della devastazione. Tracce semplici di media durata, come microsismi che ti smuovono dentro: ascoltate “Insane Stellar Race” e “As Spilled Blood They Sprout” per farvi un'idea e chiedetevi quanti sono ancora i gruppi che nel 2014 suonano veramente Black Metal senza infarcirlo di cazzate avantgarde e/o progressive per renderlo più appetibile alla massa; e se ancora non vi basta ascoltate l’ottava ed ultima traccia “Stoneweaver”. Certo forse non siamo di fronte ad un capolavoro ma un gruppo così va promosso soprattutto per la costanza nel proporre un genere che deve o sarebbe dovuto rimanere così, sporco, violento ed al contempo trascendentale. Il Black Metal è quella musica che ti travolge, un buio dove è possibile osservare i propri istinti primordiali, una zona intima, nascosta agli occhi dei più, dove solo noi possiamo avere accesso e gli Old Wainds riescono magistralmente nel loro intento. In conclusione, credo che qualunque persona amante del vero Black Metal troverà 'Nordraum' un buon album soprattutto per la genuinità della proposta. (Alessio Skogen Algiz)

(Negative Existence - 2014) 
Voto: 75 

Enola - The Light Fröm Below

#PER CHI AMA: Post Hardcore, Isis, Mastodon, Yakuza
La Francia si riconferma terra sacra e fertile per l'underground dedito al post core più interessante e prolifico. Gli Enola vengono da Tolosa e sfornano un album dal titolo 'The Light Fröm Below' che supera ogni mia aspettativa. Post core per attitudine, alternativo di nascita ed emotivamente spinto per carattere. Dentro questo scrigno sonoro possiamo trovare di tutto, dall'heavy psichedelia astrale dei Mastodon alla fisicità stregata di Yakuza, Eyehategod e Converge, dalle ali illuminate del suono degli Isis all'allucinata urgenza creativa divergente degli At the Drive In e chissà quante altre band vi verranno in mente nel riascoltarli più volte. Il fatto è, che la bravura indiscussa del quintetto francese fa scivolare la musica tra i vari stili musicali estremi con una facilità spiazzante. Restando fermi dell'idea che a renderli ancora più interessanti è il loro modo di mantenere alta l'originalità nelle composizioni, quell'identità che (mi si perdoni il paragone!) mi rimanda con nostalgia alla veste più selvaggia dei compianti Noir Desir (quelli di 'Tostaky' del 1992). Certo, gli Enola vengono da un altro pianeta, sono molto più potenti, suonano parti melodiche intense e magmatiche, hanno energia da vendere, attingono anche dal nu metal (vedi System of a Down) e riescono ad aggiungere un'emotività così reale e vitale che in pochi nel genere sanno ancora far pulsare. Tecnicamente ben preparati, vocalmente sicuri, due chitarre ben congeniate e talentuose, un ordigno di cinque brani pronto ad esplodere tra le vostre mani senza pietà. Questi indomabili musicisti francesi non si sono risparmiati nel comporre e suonare quest'album e si sente dalla prima all'ultima nota, tutto per la gioia dei nostri timpani. Calcolate un nuovo amore per la vostra collezione di post core, nel sotterraneo francese vi attende qualcosa di atomico... Enola! Da avere!!! (Bob Stoner)

(Self - 2014)
Voto: 80 

sabato 9 agosto 2014

Sagas – Traumwanderer

#PER CHI AMA: Doom Black Progressive, Tyr, Anathema, Agalloch, Paradise Lost 
Parto inconsueto questo EP di debutto dal titolo 'Traumwanderer' dei tedeschi Sagas, uscito nella primavera del 2014. la band teutonica si presenta con un artwork abbastanza originale, e un booklet completo di testi cantati esclusivamente in lingua madre, cinque brani per circa una mezz'ora di musica divisa tra alternative metal, progressive e black atmosferico. Potremmo accostare il quintetto di Happenheim allo spirito degli Agalloch ma i nostri non sono così devoti al pagan folk, li potremmo avvicinare agli ultimi Tyr ma suonano più moderni e alternativi anche se l'effetto ipnotico/epico si avvicina molto; potremmo trovare deboli tracce dei Paradise Lost o dei My Dying Bride (vedi "Konigsmord") se solo volessero apparire più gotici, potremmo giudicarli come una versione prog dei Craft se fossero decisamente più glaciali e ferali, comunque, anche se non tutto quadra alla perfezione, in queste cinque tracce si trova la forza e il coraggio di oltrepassare le barriere dei generi, sperimentare nuovi accostamenti sonori, vedi il growl e le parti vocali narranti estremamente ostiche e malvagie (di scuola Immortal), legate a chitarre pulite, cristalline, supportate da doppia cassa rombante a pieno regime. Un sound (dalla chiara derivazione gothic anni '90) pulito all'inverosimile, astratto, come se ad una black metal band sostituissimo i tipici suoni distorti e cavernosi scambiandoli con quelli dei ultimi Anathema o dei primi Alcest. L'incontro risulta affascinante, atipico, originale anche se a volte non sempre incisivo, sicuramente ricco di atmosfera, arcaico e innovativo allo stesso istante. Qualche piccola modifica, amalgama e sofisticazione alle composizioni ed il gioco è fatto! Possiamo quindi sperar bene per il prossimo futuro di questi musicisti tedeschi. Calcolando poi, che la band è di recentissima costituzione, è nostro dovere tenerla d'occhio, confidando in nuove ricette sonore molto promettenti. Album da recepire con cautela, da odiare o amare senza moderazione. Interessante debutto! (Bob Stoner)

(Self - 2014)
Voto: 70

Fallujah – The Flesh Prevails

#PER CHI AMA: Death Progressive, Cynic
Dopo il cambio stilistico ravvisato con il precedente EP, il brillante 'Nomadic', si è creata una certa attesa per il nuovo album degli americani Fallujah, anche da parte del sottoscritto, che non aveva particolarmente amato gli esordi della band, ancora impastati da una buona dose metalcore. Invece sono curioso di ascoltare il nuovo 'The Flesh Prevails' che promette di portare una bella ventata d'aria fresca al genere. E la opening track, “Starlit Path”, mette subito i puntini sulle "i" offrendo sonorità dotate di classe e una buona dose di melodia, quasi del tutto inattesa. Notevole l'impatto dei nostri con una song che non rinuncia al roboante ardore del deathcore, alle sue ritmiche al fulmicotone, alle growling vocals di Alex Hofmann, ma che aggiunge articolati giri di chitarra, ariose linee melodiche e ne garantisce una notevole accessibilità. Il suono si fa ancor più articolato con la seconda “Carved From Stone” che affianca alla furia dei nostri break dal forte flavour progressivo in pieno stile Cynic. Pazzesco. La violenza dirompente esplicata da una ritmica schiacciasassi e da brutali vocals vengo mitigate da semplici delay di chitarra. Forse è con la successiva “The Night Reveals” che i nostri prendono ancor più le distanze con il passato, certo non a scapito della pesantezza dei suoni, che vengono meglio convogliati e arricchiti da arrangiamenti che rendono il sound dei Fallujah più pieno e completo. Con la title track, la musica dei Fallujah completano definitivamente la propria conversione con un sound di fatto più vicino ai Cynic, piuttosto che agli esordi burrascosi dell'ensemble californiano, e questo non può far altro che giovare alla nuova immagine dei nostri. Non conosco il perché di questa svolta, sinceramente me ne frego e anzi me ne compiaccio visto che ho trovato una nuova band che mi faccia vibrare con la propria musica ricca, complessa e cinematica. Non me ne vogliano i vecchi fan della band, ma io i Fallujah li preferisco cosi e quando in “Levitation” compare in sottofondo una voce femminile, non mi sconvolgo e confermo nel vedere i nostri come potenziali e degni eredi dei già citati Cynic. Ci vorrà ancora tempo, consapevolezza e il raggiungimento di una maturità consolidata, per arrivare là dove sono arrivati Paul Masvidal e soci, ma posso dire che quella imboccata dai Fallujah è una strada tortuosa, irta di ostacoli, ma sicuramente illuminante. Ben tornati ragazzi. (Francesco Scarci)

(Unique Leader Records - 2014)
Voto: 85