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sabato 8 giugno 2013

Evoke Thy Lords - Drunken Tales

#PER CHI AMA: Stoner, Sludge, Doom, Post-rock
Se vi chiedessi di pensare all’ultimo strumento che vi aspettereste di trovare nella formazione stabile di una band stoner-doom, credo ci siano buone probabilità che la risposta possa essere “il flauto”. Ecco quindi un primo motivo di interesse che spinge all’approccio con questo combo siberiano, al loro secondo lavoro dopo, come si legge nelle note disponibili in rete, una longa pausa che ha portato ad un radicale cambiamento nel suono, partito da basi di doom/death melodico, per approdare al curioso e originale ibrido racchiuso in questo cd. Già la copertina ha un che di allucinatorio, con un astronauta – tributo nemmeno troppo velato ai grandissimi Sleep – intento a prendersi una solenne sbornia seduto a un bancone di cui voi siete il barista, che sembra sul punto di raccontarvi la propria vita. Quello che si ascolta nel corso dei quattro lunghi brani che compongono il lavoro è un mix inaudito di classici riffoni stoner-doom (l’opener “Routine of Life”), parentesi bucoliche e quasi trance, dominate dall’effetto straniante del flauto (“Dirty Game”), e digressioni post rock lente e circolari (“Dregs”). A complicare le cose ci si mette una cantato growl ultratombale, tenuto però ben sepolto nel missaggio, tanto che l’impressione finale è quella di avere a che fare con un disco strumentale. Detto così mi rendo conto che potrebbe sembrare un pasticciaccio, ma ben presto vi sorprenderete ad abbandonarvi al flusso ipnotico che sgorga dai vostri speaker, trasportati da una corrente lisergica e multiforme. Rimane da dire di una bonus track (“Cause Follows Effect”), anch’essa molto lunga, che si distacca dall’atmosfera del resto del disco (e risulta anche meno interessante, almeno per i miei gusti) rimanendo ancorata a stilemi doom/death più classici, nella quale il cantato cavernoso è affiancato da suggestive voci femminili e tappeti tastieristici. In definitiva, quindi, un lavoro molto originale, nel quale forse è insito il pericolo che l’effetto sorpresa si esaurisca in fretta, costringendo la band russa ad aggiustare nuovamente il tiro in futuro. Ma per il momento va bene così. (Mauro Catena)

(Solitude Productions, 2013)
Voto: 70

http://evokethylords.bandcamp.com/

sabato 1 giugno 2013

Blood Red Throne - Blood Red Throne

#PER CHI AMA: Brutal Death, Malevolent Creation, Cannibal Corpse
I Blood Red Throne se ne fottono di tutto e di tutti: delle mode, delle novità e di qualsiasi altra cosa. Loro da 15 anni, cosi come Cannibal Corpse e Malevolent Creation (nomi non scelti a caso) da 25, continuano a pestare di brutto con il loro integerrimo brutal death, che con l’album celebrativo omonimo, giungono alla fatica numero sette, attraverso un feroce atto di forza e superiorità all’interno del panorama estremo europeo, alla pari solo con i Behemoth. Come al solito, il quintetto ormai guidato dal solo Død, vista la dipartita del “socio” Tchort prima di “Brutalitarian Regime”, si diletta sparandoci letteralmente sui nostri musi, nove ruvide tracce di uno scellerato death metal, nella sua forma più tenebrosa, ma tuttavia ricca di splendide aperture chitarristiche. “Soulseller”, “In Hell I Roam” e “Hymn of the Asylum”, rappresentano il mortifero trio di brani posti in apertura dell’album, contraddistinto da un rifferama ribassato, un blastbeat indemoniato, cavernose growling vocals (che fanno da contraltare a uno screaming acido), ma anche dotato di raffinati assoli e ottimi fraseggi. Non siamo certo di fronte a dei pivellini, anzi, i Blood Red Throne confermano la loro nomea di essere degli spaccaculi di prima categoria e lo dimostrano ampiamente con i fatti e con una perizia tecnica a dir poco invidiabile. “Primitive Killing Machine” ha un incedere piuttosto ritmato quasi thrash metal, dotata di un bel bridge centrale che lascia intravedere una parvenza di melodia centrale; ”Deatholation” torna a spaccare che è un piacere, pur non aggiungendo nulla di nuovo alla band scandinava e spingendomi a skippare al brano successivo, “Torturewhore” che mi violenta per la sua schizofrenica ferocia. Ubriacanti stop’n go, asperità dettate dai cambi di tempo, il grondante groove che permea tutti i brani e le tremende rasoiate inferte dalle laceranti chitarre, contraddistinguono questo nuovo inossidabile lavoro dei sempre più inossidabili Blood Red Throne, che ancora una volta si confermano alfieri del brutal death made in Europe. Una conferma! (Francesco Scarci)

Crown - Psychurgy

#PER CHI AMA: Drone, Post, Sludge, Industrial
Ecco una new sensation che uscita dal nulla nel febbraio del 2012, in poco più di un anno è entrata di diritto nella schiera di band di cui attendevo con grande trepidazione il full lenght, dopo l’EP d’esordio “The One” e lo split EP in compagnia degli STValley. I francesi Crown sono tornati più in forma che mai, freschi di un contratto importante per la sempre più potente Candlelight Records e un album veramente strepitoso, che porta avanti il discorso iniziato con “The One”. Con “Psychurgy” mi trovo catapultato all’interno di un tunnel, di quelli alpini, lunghi decine e decine di km. Il senso di claustrofobia è già forte sin dal brano introduttivo che ci introduce ad “Abyss”. Il senso di angoscia inizia minaccioso ad affiorare, mentre percorro quella galleria di cemento armato che sorregge migliaia di tonnellate di terra e roccia pura. E la robustezza di quel cemento armato potrebbe essere equiparato alle chitarre del duo formato da Stephane Azam e Pascal Guth, mentre la matematica drum machine assume più i connotati del regolare alternarsi delle luci all’interno della galleria. Le vocals si alternano tra il cibernetico e un magnifico growling industriale, mentre il sound si espande e comprime come un buco nero che ingoia materia oscura. “Blood Runs” è un capolavoro di musica che tra sonorità post, doom, drone, sludge e industrial, sublima la proposta di questo magnifico ensemble transalpino. Ancora una volta, mi ritrovo estasiato di fronte agli incombenti suoni prodotti dai Crown, a quel flusso emozionale, a quel mare di lava sinuoso e a quell’autentico muro sonoro, già descritto nell’incipit della precedente recensione. I Crown nel loro gelido incedere marziale, risultano stranamente caldi, con delle melodie al limite del malinconico che mi fanno rabbrividire. Mostruosi, non so che altro dire. Fenomenali, anche perché nonostante le lunghe durate dei brani, non trovo un momento di empasse che faccia calare la mia attenzione. Sono sempre concentrato infatti nel percorrere quel famoso tunnel iniziale, ipnotizzato dalle luci per aria, e focalizzato con l’orecchio anche al rumore prodotto dall’attrito delle gomme della mia auto sull’asfalto. Tutti i rumori e i suoni si enfatizzano nel mio cervello cosi come all’ascolto di “Empress: Hierophant”, dove la mia mente è totalmente rapita dall’effettistica di fondo che popola il sound del duo francese. Menzione finale per “Alpha: Omega” che sembra più un pezzo fregato ad una band black old school che al cibernetico suono dell’act di Colmar. Lisergici, oscuri, psichici, malati, ossessivi, paranoici, criptici, deliranti, ritualistici, scioccanti, apocalittici, pachidermici, mistici: sono solo alcuni degli aggettivi che ho trovato per definire le coordinate stilistiche di “Psychurgy”, che si colloca fin d’ora tra i miei album preferiti di questo 2013. (Francesco Scarci)


(Candlelight Records)
Voto: 85

http://crownritual.bandcamp.com/album/psychurgy

Myridian - Under the Fading Light

#PER CHI AMA: Death/Doom, Swallow the Sun, Draconian
Con questo cd non poteva andarmi peggio: capisco che la strada dall’Australia all’Italia sia abbastanza lunga, ma ritrovarmi tra le mani, per la seconda volta un disco argentato che non fa il suo dovere, inizia a diventare piuttosto fastidioso; per di più anche il booklet del cd sembra esser stato inzuppato d’acqua. E allora rivolgiamoci ancora al fatato mondo di internet per ascoltare questa release, che si apre con i tocchi di pianoforte di “Passage”, che si collega immediatamente alla successiva “To the Dying Sun” per la sua melodia di fondo, con la proposta del combo australiano che lascia immediatamente intravedere quale direzione musicale il disco si appresti a intraprendere. Siamo nell’area del death doom, ricco di pathos e atmosfere, anche se la voce di Felix Lane ricalca piuttosto quella degli esordi dei Katatonia, un po’ aspra. Il five-piece di Melbourne colpisce sicuramente per l’emozionalità che riesce ad esprimere ed imprimere con un pezzo che, nonostante una sezione ritmica comunque non certo leggera, mette in scena un sound che ha la forte capacità di conquistarmi per le sue deprimenti melodie, quasi tipicamente nord europee. Siamo nella zona appunto cara alla band di Blakkeim e soci, dei loro conterranei Draconian o dei finlandesi Swallow of the Sun. I pezzi sono tutti piuttosto molto lunghi: dopo gli otto minuti abbondanti della seconda traccia infatti, ecco i nove di “Veil of Sorrow”, con un’inedita performance vocale, con il chitarrista Josh Spivak in versione totalmente pulita, a duettare con Felix che si alterna tra un growling assai convinto e uno screaming un po’ più arcigno, mentre le chitarre, sorrette da un drumming mansueto, dipingono paesaggi desolati. Non avremo certo per le mani un qualcosa di originale, tuttavia “Under the Fading Light” si lascia piacevolmente ascoltare, anche se talvolta si scade nella ripetitività di fondo di alcune linee di chitarra o arpeggi. La freschezza dei Katatonia di “Dance of December Souls” o ancor di più di “Brave Murder Day” sono ancora assai lontane, eppure i Myridian sanno intrattenere i propri ascoltatori grazie a pezzi interessanti, in cui talvolta riescono a manifestare una propria personalità o offrendo qualche spunto di una certa rilevanza, laddove a diventare dominante è invece il pianoforte, come nella oscura title track o nella malinconica “Starless”. Le tracce però alla fine, finiscono per assomigliarsi un po’ tutte e questo alla lunga fa un po’ scemare l’interesse nei confronti di un disco che fino ad un certo punto mi aveva convinto appieno. Complice sicuramente la lunga durata dei pezzi, la loro monoliticità e la mancanza di qualche variazione al tema, mi fanno propendere a mezzo punto in meno nella mia valutazione complessiva dell’opera. Tuttavia, chi ama il genere, un ascolto a “Under the Fading Light”, come minimo dovrà sentirsi obbligato a darlo. (Francesco Scarci)


The Pit Tips

Bob Stoner

Pavlov's Dogs - Pampered Menial
Immolation - Kingdom Of Conspiracy
Cathedral - The Last Spire
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Francesco “Franz” Scarci

Consecration - Cimet
Apocynthion - Sidereus Nuncius
Entropia - Vesper
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Alberto Merlotti

Daft Punk - Random Access Memory
Gazebo Penguins - Raudo
Escape the Faith - Ungrateful
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Samantha Pigozzo 

Amorphis - Circle
Velvet Goldmine - OST
Depeche Mode - Ultra
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Michele “Mik” Montanari

Deville - Hydra
Alice In Chains - The Devil Put Dinosaurs Here
Cathedral - The Last Spire
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Roberto Alba 


Dark Tranquillity - Construct
Thaw - Thaw
Lantern - Below
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Stefano Torregrossa 


Dark Buddha Rising - Ritual IX
Clutch - Earth Rocker
Gojira - L'Enfant Sauvage
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Mauro Catena 


Motorpsycho - Still Life with eggplant
Motorpsycho - Blissard Deluxe Edition
Rokia Traorè - Beautiful Africa
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Kent


Baroness - Red Album
Disfear - Live The Storm
Solitude Aeturnus - Into The Dephts Of Sorrow

mercoledì 29 maggio 2013

Viscera/// - 2: As Zeitgeist Becomes Profusion of the I

#PER CHI AMA: Post-Hardcore, Sludge, Space Rock e Psichedelia
Mi dovrei vergognare, non c’è dubbio. Come si può perdersi per strada un album come quello degli italianissimi Viscera///, tra l’altro anche più volte indicati dal buon Kent nei suoi ascolti e riscoprirli solamente ora, solo perché la loro etichetta mi ha inviato magnanimamente il loro cd? Mea culpa mea culpa, mea grandissima culpa. E allora analizziamolo il contenuto di questa release: se i nostri si erano resi artefici nel 2007, di un album, “Cyclops”, che offriva il fianco ad una certa brutalità di fondo che mischiava schegge grind a sonorità post hardcore e industrial, tanto da guadagnarsi l’appellativo di brutalcore, con questa release, i nostri percorrono una strada molto più avventurosa, irta di pericoli e quindi più sfidante, anche per colui che li deve ascoltare e recensire. Già dall’iniziale “Ballad of Larry L.” capto la voglia di sperimentazione dei nostri, con una lunghissima song che per 2/3 si mantiene strumentale, barcamenandosi tra ammalianti sonorità post e ambient, in cui solo alla fine trova posto una bellissima e suadente voce. Quella stessa voce appare in “Hands in Gold”, traccia che per i primi quattro minuti ci regala ancora soffuse atmosfere, melodiche linee di chitarra e ambientazioni post rock, prima che nel bel mezzo del brano i nostri si lascino andare a schegge di grind impazzito. Si tratta solo di una manciata di secondi, perché poi l’ensemble italico torna ad abbandonarsi in deliziose fughe space rock, delineate da velate influenze blues che si miscelano perfettamente con una “psichedelia settantiana”. “Um ad-Dunia” sembra aprire la seconda parte del disco, ben più violenta della prima metà: il brano ha solo l’intro permeato delle intimistiche melodie ascoltate fino ad ora, perché il resto evidenzia un po’ del retaggio proveniente dalla precedente release, con ritmiche assai tirate e vocals al vetriolo. Tuttavia la nuova direzione musicale intrapresa dai Viscera/// rimane sempre udibile nella matrice di fondo dei nostri. Essendo un fan dell’ultimissima ora, ammetto però di preferirli in versione più riflessiva, piuttosto di band in grado di mostrare i muscoli con chitarre al fulmicotone, ritmiche serrate e vocals belluine, direi che di questa tipologia ce ne sono fin troppe. Quando però l’ensemble dipinge splendidi scenari desolati, ammetto di amarli e non poco. A chiudere il cd ci pensano i 14 minuti e passa di “They Feel Like CO2”, delizioso pezzo che torna a riproporre, solo nei primi minuti, i Viscera/// in veste più meditativa a livello musicale, offrendo un cantato all’insegna dello screaming corrosivo tipico dell’hardcore. Le linee di chitarra sono lineari, un po’ di quella sperimentazione evidenziata a inizio disco si è un po’ persa per strada, non fosse altro per un bel bridge centrale, qualche cambio di tempo e un riffing che da li a poco diventa nevrotico, dirompente ed inacidito, una tempesta elettrizzante che preannuncia la quiete finale che chiude questo secondo lavoro degli enigmatici ed eclettici Viscera///. Se anche voi vi siete persi “2: As Zeitgeist Becomes Profusion of the I”, avete tutto il tempo per rimediare, soprattutto perché ora potrete godere anche della versione in vinile. Ottima scoperta. Mea culpa! (Francesco Scarci)

(Consouling Sounds)
Voto: 80

http://viscera3stripes.bandcamp.com/

Red Harvest - Sick Transit Gloria Mundi

#PER CHI AMA: Black Industrial
Andiamo a scoprire il quinto album per i Red Harvest, storica band norvegese che debuttò nel '92 su Black Mark con “Nomindsland” e che, lontana dai vari trend che si sono avvicendati nell'arco di questo due decenni nel metal estremo, ha sempre mantenuto fede ad un percorso artistico autonomo. Attraverso lavori come “There's Beauty in the Purity of Sadness”, “Hybreed” e “Cold Dark Matter”, i Red Harvest hanno saputo plasmare il suono embrionale degli inizi, fatto di intuizioni originali ma anche di sperimentazioni talvolta poco riuscite, approdando così ad un industrial-metal molto personale. Se, qualitativamente parlando, “Hybreed” poteva rappresentare il disco della svolta, “Sick Transit Gloria Mundi” acquista un ruolo diverso, imponendosi come il migliore lavoro partorito dal gruppo e facendo emergere i Red Harvest da un "quasi anonimato" che non rendeva certo giustizia al loro reale valore. “Sick Transit Gloria Mundi” è un disco che raggiunge non soltanto la perfezione stilistica ma diventa anche il tramite di un concetto vasto ed attualissimo, che vede coinvolte scienza e spiritualità in una realtà terrificante. Quello che i Red Harvest dipingono è un inferno non molto distante dal mondo reale, un mondo incolore dove l'umanità è totalmente asservita alle macchine e si prostra ad una tecnologia dai connotati quasi mistici. Assorbita la lezione di nomi fondamentali quali Scorn, Ministry, Pitchshifter e Godflesh, la band stravolge questo patrimonio genetico e lo riassembla in modo convincente, conferendo alla propria musica una vena apocalittica, malata e spesso brutale, con ritmi martellanti ed un'atmosfera sempre cupa ed ossessiva. Nascono così dei pezzi devastanti come “AEP”, “Humanoia” e “Beyond the End”, grida disperate d'allarme che giungono impetuose e stridono nell'aria velenosa di una natura ormai al collasso. L'assalto metal industriale dei Red Harvest sa essere distruttivo e inarrestabile ma in episodi come “Desolation”, “CyberNaut” e “Godtech” è un incedere lento e pesante ad accompagnare le immagini aberranti descritte, come se due occhi stanchi seguissero annoiati i fotogrammi terribili di una catastrofe imminente. Dolore, rabbia e grigia frustrazione convivono nell'album più bello che i Red Harvest abbiano realizzato fino ad ora, tracciando un'alternativa estraniante di annullamento e di lenta autodistruzione, un'ultima chance per fuggire da questo mondo intossicato... get off the planet, now! (Roberto Alba)

(Nocturnal Art Productions)
Voto: 90

Talbot - Scaled

#PER CHI AMA: Stoner, Post Metal, Doom
Non sono la persona più indicata per recensire lo stoner, ma trattandosi degli estoni Talbot, che seguo sin dal loro esordio e che ho già recensito su queste stesse pagine con “Eos”, ho voluto fare un’eccezione. “Scaled” esce autoprodotto, orfano del supporto della Slow Burn Records, ma poco importa, il risultato è comunque garantito. Il duo di Tallinn torna coi loro bei riffoni super ribassati a centrifugarmi l’animo ed eccole di nuovo ronzare nella mia testa le ritmiche dei mitici esordi dei Cathedral, quelli di “Forest of Equilibrium”, con quel vocione maligno ad alternarsi alle cleaning vocals. Il doom ancora una volta si coniuga sapientemente con lo stoner in lunghe fughe space rock contaminate da un melmoso sludge dotato di una vena post-, come sin da subito sottolineato dalla traccia in apertura, “Spectral Express” che mi fa innamorare della nuova release dei Talbot. La ritmica è sinuosa, martellante, ubriacante e manifesta ancora una volta quella capacità di attorcigliarsi, come un serpente ai rami di un albero. Facile dunque perdersi nei deliranti passaggi del duo baltico, che con questo nuovo “Scaled” vuole confermare quanto già di molto buono è già stato espresso in passato. Se si vuole trovare un difetto, mi viene da dire che forse troppo spazio è concesso al basso che alla fine rischia di essere fin troppo preponderante sugli altri strumenti, mentre vorrei sottolineare la straordinaria prova, stracolma di fantasia, del bravo drummer Jarmo. Se “Egomine” sembra inizialmente inseguire i classici dettami del genere, la seconda parte del brano lascia ampi margini alle deliranti elucubrazioni musicali dei nostri. Sono trascorsi un paio d’anni dal precedente album e continuo a trovare affascinante la proposta di questo act nordico, perché si distacca consapevolmente dagli stilemi del genere. Se “Delta” non desta particolarmente la mia attenzione, ci pensa la successiva e lunghissima “Shadowbird” a farmi ripiombare nei miei deliranti trip mentali, affidati ad un lungo incipit completamente strumentale, prima che le vocals, psichedeliche a loro volta, contribuiscano a stordirmi con la loro tonalità, tra l’urlato di scuola Lee Dorian e il cavernoso; la migliore song del cd. Il sound di “Scaled” rivela una maggiore padronanza dei propri strumenti da parte dell’ensemble estone, ma forse ne acuisce un po’ la staticità e quel senso di soffocamento. La title track è una breve e tranquilla traccia che apre con un lontano suono di tamburo ed una ruffiana melodia in sottofondo, con il vocalist che dapprima sussurra qualcosa nel microfono prima di esplodere nella conclusiva e nebulosa “Hallelucinogen”, song che palesa un senso di irrequietezza di fondo nelle sue chitarre liquide e nel suo cantano malsano, fino alle sue sacrali note conclusive. Un plauso finale anche alla minimalista cover in bianco e nero che decreta l’eccezionalità del duo composto da Magnus Andre e Jarmo Nuutre. E ora spiegatemi perché i Talbot siano senza una casa discografica. Misteri… (Francesco Scarci)

Winternight - Pestilenz

#PER CHI AMA: Black, Abigor, Gehenna, Altar of Plagues
La band germanica arriva dalla Thuringia/Baden – Wurttenberg e questo è il primo full lenght del 2010 licenziato da Obscure Abhorrence Productions. Nel 2013 hanno pubblicato per la stessa etichetta un altro full lenght dal titolo “Todhen Uopal” che speriamo di recensire presto. Premesso che il cd ha un artwork dalla scrittura graficamente indecifrabile e discutibile che li rende alquanto e volutamente anticommerciali, possiamo dire a gran voce che la musica del duo tedesco ha un buon feeling, glaciale, sulle orme di un classic black metal dalle tinte epiche e battagliere con uno screaming al limite della schizofrenia, violentissimo e tagliente, un tiro costante e ferreo come la migliore scuola impone. La traccia due è lunghissima e velocissima, undici e più minuti di epica sinfonia distorta e interminabile cantato in antico alto tedesco come del resto tutti gli altri brani. Niente di nuovo a livello compositivo ma tanta rude potenza nera distesa in questo lavoro, duro e diretto, senza compromessi e senza pietà. Intromissioni cinematografiche in lingua tedesca e ambient sparse qua e là, chitarrone zanzara e velocità, questa la summa dell'intero album divisa con qualche stacco di rallentamento come nel caso della traccia quattro che arriva ad un finale sperimentale di folk rumorista/ ambient minimalista. Album che suona come i migliori Altar of Plagues, Gehenna, Gorgoroth e Abigor. La traccia sette sfodera tutte le qualità della band, l'ipnosi statica e rumorosa, la velocissima esecuzione ritmica, la nera ossessività e sgangherati cori fino ad arrivare alla quasi intima morbosità dell'esperimento conclusivo della traccia numero otto che chiude il lavoro in maniera decisamente anomala ma con gusto, lasciandoci esterrefatti e allucinati dall'azzardo sonico di tale strana composizione, tanto malinconica quanto liberatoria. Il brano è giocato tra una stordente chitarra in sottofondo, dei feedback, rumori e un lontano clavicembalo cosmico circondato da esuli, drammatici cori fantasma. Album di belle premesse, band con buone possibilità di evoluzione... aspettiamo curiosi il nuovo lavoro... (Bob Stoner)

(Obscura Abhorrence Productions)
Voto: 70

http://wintarnaht.bandcamp.com/album/pestilenz

Wo Fat - The Black Code

#PER CHI AMA: Stoner, Doom, 70’s Hard Rock
Primo lavoro dei Texani Wo Fat per la Small Stone (e quarto in totale), etichetta che è ormai sinonimo di sano, genuino, schietto stoner. Così come il ben noto eroe del fumetto francese Obelix era caduto da piccolo nel pentolone della pozione magica che dona forza sovrumana, così i Wo Fat (il nome sembra derivi da un personaggio della serie televisiva “Hawai Five-O”) sembra abbiano fatto lo stesso, ma con un ipotetico pentolone del fuzz più spinto. Classica formazione in power trio, i Wo Fat sono una pianta carnivora, con le radici ben piantate nei classici stilemi dell’hard blues anni ‘70 della sacra triade Hendrix-Sabbath-ZZ Top, nutrita con dosi criminali di stoner e doom, in agguato nelle paludi del delta del Mississippi, pronta a stritolare qualsiasi cosa gli capiti a tiro con le sue fauci appiccicose, ad ingerirlo e risputarlo fuori sotto forma di riff devastanti, ritmiche da treni merci carichi di minerali di ferro e improvvise digressioni chitarristiche uscite da una jam acida sotto il sole del deserto del Mojave. Solo cinque brani, tre dei quali superano i dieci minuti, dal peso specifico altissimo e la temperatura davvero rovente. Menzione d’obbligo per “The Shard of Leng”, assolutamente spettacolare per come accelera e rallenta ripetutamente nel corso di 12 minuti che vorresti non finissero mai, condensandovi tali e tante idee sulle quali altri gruppi avrebbero costruito un disco intero. Tutte le tracce sono comunque notevoli, dal blues saturo di “Hurt at Gone”, alla monolitica coltre di feedback che seppellisce la title track prima che cominci il suo inesorabile incedere. A fronte di queste maratone, l’iniziale “Lost Highway”, sembra quasi un pezzo “radio friendly”, con in suoi soli 5 minuti di tempesta desertica (sembra quasi di sentire lo spostamento d’aria calda proveniente dagli amplificatori). Il più grande torto che si possa fare a questo album, sarebbe quello di prestargli un orecchio distratto e catalogarlo frettolosamente come l’ennesimo disco stoner senza nulla da dire. Qui c’è molto di più, e se è vero che la parola “innovazione” non trova posto nel vocabolario dei Wo Fat, quello che mi trovo tra le mani è uno di quei lavori che sono sicuro riascolterò certamente, anche tra qualche anno. (Mauro Catena)

(Small Stone Recordings, 2012)
Voto: 75

http://smallstone.bandcamp.com/album/the-black-code