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martedì 13 settembre 2016

Amphetamin - A Flood of Strange Sensations

#PER CHI AMA: Post Rock/Shoegaze, Tame Impala, Porcupine Tree
Le one-man band sono pericolose: innanzitutto perché, per fare un bel lavoro, devi essere sostanzialmente un genio. E poi perché in qualche modo il tuo strumento preferito rischia sempre di sovrastare gli altri. È inconscio, credo. Nel caso del francese Sebastian, mente e cuore dietro il progetto Amphetamin, lo strumento prediletto è la voce: emozionale, sospirata, melodica, capace di creare belle atmosfere. Le linee vocali sono ricche di falsetti – che personalmente amo poco, ma tant’è – e mi ricordano qua e là nello stile, Steven Wilson, HIM e forse qualcosa di James Blake. Intendiamoci: Sebastian ha una voce pulita, precisa e capace di suscitare forti sensazioni. Ma la composizione e la produzione stessa del disco la premiano fin troppo: 'A Flood Of Strange Sensations' è un lavoro fortemente incentrato sulla voce. Si salva forse la chitarra (splendido l’assolo in “Favourite Doll” o la progressione di accordi in “Endless Nights”), mentre batteria, basso e synth spariscono in un lago di noia e pattern banalissimi. Musicalmente, è un disco che definirei post-rock/shoegaze nel solco di Tame Impala e Porcupine Tree, pur avendo qualcosa di prog, una forte attenzione all’atmosfera generale e anche certe interessanti venature esotiche (“Stranger On An Island”). Non mancano ritmiche serrate e distorte (“The Threshold”), ma in generale la predilezione di Amphetamin/Sebastian è per la melodia, l’arpeggio indovinato, i violini a tappetone, il mid-tempo in quattro quarti (“Neverland”). Applaudo il tentativo dell’autore di costruire un album che si lascia ascoltare, scorre piacevole pur senza stupire; e di costruirlo interamente da solo – dalla scrittura alla registrazione, fino all’autoproduzione. Ciononostante, le pur belle melodie vocali di in 'A Flood Of Strange Sensations' nascondono una composizione strumentale solo mediocre. Il risultato è un bell’esercizio vocale non sufficientemente supportato musicalmente: ma sarei curioso di ascoltare Sebastian inserito a tutti gli effetti in un gruppo “vero” – lì sì che potrebbe regalare grandi sorprese. (Stefano Torregrossa)

lunedì 12 settembre 2016

Fuzz Orchestra - Uccideteli Tutti, Dio Riconoscerà i Suoi

#PER CHI AMA: Psych/Math Rock Sperimentale
Arnaud Amaury (in italiano Arnaldo Amalrico) fu prima abate, poi arcivescovo nel Mezzogiorno francese nel tardo medioevo. Il suo nome è legato indissolubilmente a quello di Papa Innocenzo III, da cui fu incaricato di debellare l'eresia dei Catari durante la Crociata albigese del 1209. Il religioso marciò con l'esercito verso la Linguadoca dove poi a Béziers, fece massacrare migliaia di persone in quanto Catari, ma essendo la maggioranza dei cittadini cattolici, perirono anch'essi nell'azione militare. Sembrerebbe leggendaria (e comunque ancora fonte di discussioni a distanza di ben otto secoli) la risposta che fu data in quella circostanza da Arnaud Amaury a un suo soldato che gli chiedeva come distinguere nella soppressione, gli eretici dai cattolici: "Uccideteli tutti, Dio riconoscerà i suoi". E proprio da questa controversa risposta, nasce il titolo della quarta release dei Fuzz Orchestra, un connubio di generi e sottogeneri musicali che ben si amalgamano tra loro in una scoppiettante miscela sonora che include otto brani. Brani che sono innescati dal vibrante e dinamico incedere di "Nel Nome del Padre", song che abbina ad una cavalcata puramente metal, atmosfere da film spaghetti-western, corredate da una serie di parti parlate verosimilmente estrapolate da qualche film anni '60-'70 (nel disco ci saranno anche citazioni bibliche, letterarie e molto altro che ho faticato ad identificare). Questa peculiarità contraddistingue l'intero album, con una ricercatezza nei dialoghi offerti del tutto non casuale, orientata a discorsi di carattere politico-religioso che a distanza di cinquant'anni risultano ancora del tutto attuali. Il genere del power trio lombardo si srotola comunque in una musicalità che coniuga una specie di psych-stoner con sonorità a tratti orchestrali ("Todo Modo"), di cui sottolineerei l'eleganza a livello degli arrangiamenti, grazie alla presenza di una serie di ospiti (N. Manzan, M. Santoro, F. Bucci, S. De Gennaro tra gli altri) e relativi strumenti (violino, fagotto, trombone, timpano) di tutto rispetto, che rendono la proposta dei Fuzz Orchestra davvero di elevato spessore. Lenta e ipnotica, "Born Into This" convince appieno per la presenza dei fiati e per la piega sperimentale che prende nel corso della sua evoluzione strumentale; inoltre il testo non è altro che un riarrangiamento di 'Dinosauria, We', poesia di Charles Bukowski. Decisamente più oscura e angosciante (soprattutto a livello di liriche) "L'Uomo Nuovo", dove i campionamenti noisy sono affidati ad un altro ospite rilevante, Riccardo "Rico" Gamondi degli Uochi Toki. La musica dei Fuzz Orchestra si fa brano dopo brano sempre più aggrovigliante e nella tenebrosa "Una Voce che Verrà", l'atmosfera sprofonda in un baratro da cui la speranza appare fuggita da tempo. Fortunatamente un filo di luce sembra tornare nella successiva "Il Terrore è Figlio del Buio", altro pezzo dannatamente metal (oserei dire speed metal) almeno nella sua prima metà, prima che l'aria si increspi per pochi attimi e che il fuoco divampi nell'incendiario finale che introduce al "Lamento di una Vedova" e ad una fisarmonica che sembra risuonare in una qualche brasserie francese lungo la Senna. Arriviamo ahimè alla conclusione con "The Earth Will Weep", dove altri due ospiti ci stanno aspettando: Simon Balestrazzi (Kirlian Camera tra gli altri) alla piastra metallica e Pl Barberos alla voce, in un brano che sembra mixare tutto quanto fin qui ascoltato in questa incredibile release dedita a metal, noise, colonne sonore, psichedelia, stoner e molto, molto altro. Se siete alla ricerca di qualcosa di fresco, originale o sperimentale, sono certo che 'Uccideteli Tutti, Dio Riconoscerà i Suoi', potrà di certo fare al caso vostro. (Francesco Scarci)

(Woodworm Rec - 2016)
Voto: 85

domenica 11 settembre 2016

Greytomb - A Perpetual Descent

#PER CHI AMA: Post Black, Deafheaven, Altar of Plagues 
La scena estrema internazionale ribolle e non poco: Francia, U.S. e Germania sembrano essere le nazioni in cui in un modo o nell'altro, ci sia un maggiore interesse verso gli estremismi sonori cosi come una certa freschezza a livello di idee. Non trascuriamo però l'Australia, da sempre paese portatore di suoni originali, ricercati e assai decadenti. Fatta questa semplice premessa, ecco che presentarvi questi cinque cavalieri dell'apocalisse sarà compito meno arduo per il sottoscritto. I Greytomb sono un ensemble di base a Melbourne che si presenta con questo malsano quanto intrigante biglietto da visita, 'A Perpetual Descent'. Quattro tracce e 40 minuti a disposizione per conquistarci con il loro post black nevrotico, che si dimena tra bordate di scuola Deafheaven e spaventosi rallentamenti, sin dall'apertura affidata a "The River of Nihil", song che richiama peraltro una band italiana che francamente adoro, i Nihil Locus, a causa di un modo decisamente disperato di proporre le loro vocals. Poi le influenze si spingono anche ai francesi Deathspell Omega per quell'utilizzo di inquietanti atmosfere costruite da chitarre dissonanti. Insomma, le referenze dei nostri non sono mica male e se a queste aggiungete anche un che degli Altar of Plagues, capirete anche voi, che i Greytomb non sono certo degli sprovveduti, ma un gruppo da seguire con sommo interesse. Incredibili le emozioni malefiche sprigionate dal finale della opening track che ci traghettano poi ai 16 minuti di "Urban Moulder", in cui la vena black doom degli Austere prende il sopravvento nel sound del 5-piece dello stato di Victoria. Il ritmo si fa più lento e cadenzato, quasi al limite del funeral, con lo screaming acuminato di -O- (qui anche in versione parlata) a cantare di nichilismo, metafisica ed inesistenza in un sound ammorbante, a tratti asfissiante ma che sa anche essere onirico nelle sue splendide aperture ambient che dischiudono la vena più malinconica per la band australiana. Un intermezzo noise che sembra evocare le urla dei dannati all'inferno e la mortifera violenza black divampa nella conclusiva "Boundless Introspection", in cui le vocals scomodano addirittura lo spettro di Attila Csihar ai tempi di 'De Mysteriis dom Sathanas', per un finale davvero da brividi. Che altro dire se non che 'A Perpetual Descent' è lavoro assai interessante e che i Greytomb sono una new sensation da tenere assolutamente nei vostri radar. Insani. (Francesco Scarci)

(Self - 2016)
Voto: 75

sabato 10 settembre 2016

Eradikal Insane - Mithra

#FOR FANS OF: Death/Metalcore,The Black Dahlia Murder, Neaera, Benighted
Finally making it to their debut effort, French Death Metal/Metalcore fusioners Eradikal Insane have certainly seen their share of struggles over the years and have honed the anger and intensity into a fine package. Though there’s plenty of Death Metal influence in the riff-work, at the heart of the matter here is the absolutely strong and enjoyable manner in which the album makes room for it’s hard-hitting breakdowns that are incorporated here alongside the riffing which takes a lot of influence from the tightly-wound rhythms of grindcore. Technically explosive and endearingly violent, there’s plenty of sharp-edged work to be found here if way too one-note about it’s work as it’s all quite built around the same overall rhythm patterns that it doesn’t really do much to differentiate itself from the other hard-hitting groups of this style. Still, there’s plenty to like overall in the tracks for those that like that sort of violent, intense approach. Opener ‘A Perpetual Nothing’ immediately blasts through tight, mechanical patterns with plenty of deep chugging and rather furious, technical patterns with plenty of rather hard-hitting riffing amongst the breakdowns leading into the finale for a rather strong first impression. ‘Initium’ whips up a strong series of grinding patterns with a series of technical breakdowns coming continuously throughout the main patterns with the blasting drumming chopping along throughout the feverish technical breakdowns in the final half for a hard-hitting highlight. ‘Sediments of Misconception’ offers plenty of tight grinding riffing and fast-paced drumming that brings out rather strong and impassioned breakdowns that merge alongside the blasting drumming and technical riff-work throughout the charging finale for another strong highlight. ‘Consciousness Alight’ utilizes blistering technical riffing and grinding drum-work to a stellar mid-tempo series of breakdowns that bring about the stellar hardcore influences alongside the tight, technical rhythms while offering a stellar chug in the final half for a decent if unimpressive effort. ‘Abrasive Harbingers’ blazes with ferocious swirling technical leads and sprawling breakdowns bringing out the varied tempo changes leading along throughout the fine blasting and tight swirling leads grinding away into the finale for a much stronger effort. The instrumental title track offers a fine mid-album breather with a light acoustic guitar strumming away and leading back into next track ‘Intrinsic Propensity’ which blasts through brutal, intense riff-work and finely-charged breakdowns filled with utterly pummeling drumming holding the violent razor-wire riffing and grinding patterns through the intense rhythms leading into the final half for the album’s best track overall. ‘Archetypes’ offers a slower mid-tempo crunch that works nicely at bringing the breakdowns flowing into the technical rhythms grinding through the steady patterns flowing along throughout the extended series of rhythms and breakdowns into the finale for a highly enjoyable if overlong effort. ‘Harvest’ uses a tough, mid-tempo grinding pattern with plenty of ferocious blasting to work along through a steady, blasting section that goes through tight breakdowns and steady chugging leading back through the technical riffing in the grinding final half for a steady, enjoyable offering. ‘Universal Spine’ features a long, droning intro before blasting into tight, swirling and ferocious rhythms with plenty of tight patterns holding through the steady grinding and technical riffing along through the rather overlong sections in the finale for a decent if again way too long effort. Finally, album-closer ‘Metanoia’ uses a series of tight, grinding patterns and plenty of swirling technical riff-work that leaves the faster tempos along into the series of breakdowns while letting the tight rhythms coming back and holding into the blistering final half for a strong enough lasting impression. There’s a lot to like here even with the flaws. (Don Anelli)

(Self - 2015)
Score: 75

Crown of Asteria - Karhun Vakat

#PER CHI AMA: Cascadian Black/Folk/Ambient, Panopticon
La one-woman band mi mancava. Di esempi musicali con un unico mastermind uomo ne abbiamo visti passare qui nel Pozzo dei Dannati a bizzeffe, quest'oggi m'imbatto invece per la prima volta in un progetto la cui unica mente è donna, Meghan Wood, una giovane donzella del Michigan, che dal 2011 a oggi, ha prodotto una serie infinita di album/EP/split e demo con i suoi Crown of Asteria. La proposta dell'act statunitense oscilla tra un ipnotico e sognante ambient (la opening track, "Tietäjä", ne è un esempio), un black glaciale ma atmosferico e aperture folk, a suggerirmi l'amore di Meghan per gli Agalloch ed in generale per il movimento cascadiano americano, in cui meglio vedrei collocato il sound della donna di Bancroft. Detto questo, ne esce un album, 'Karhun Vakat', dal sapore mistico e ancestrale, che impressiona per la ferocia del suo riffing primordiale in "The Golden Light of Birchwood Temples", lo screaming efferato della sua vocalist, ma che sa anche conquistare per la melodia dei suoi frangenti più folk-acustici, che emergono ben più forti e conditi da una componente etnica, che in un qualche modo sembrerebbe pescare dalla cultura indiana, nella terza "Hongotar". Tuttavia, cercando sul web il significato dei titoli di alcune canzoni, mi sembra di intuire in realtà che la sciamana statunitense tragga ispirazione dalla tradizione magica finnico-careliana, ma avrò modo di investigare a tal proposito. Nel frattempo proseguo con l'ascolto del disco e arrivo a "Sky-Nail" e ad un black qui più cupo ed epico, ma dalle aperture chitarristiche davvero azzeccate che per certi versi mi hanno rievocato il sound dei Dissection. C'è comunque un certo misticismo di fondo nella musica dei Crown of Asteria, e nell'originalità stravagante di un suono che ahimè pecca nella pulizia dei suoni, produzione e mastering, sulla scia di quanto fatto dai primi Panopticon. Io comunque mi fido e mi lascio sedurre da Meghan e dalla quinta "Black Antlers Above the Lodge", un pezzo strumentale di oltre otto minuti, che vira verso un death dagli epici sentori. Il caos sonoro prosegue con "Väki", che ancora sembra rievocare poteri magici dell'antica mitologia finlandese in un movimento ondulatorio straniante che mi ha ricordato i nostri Laetitia in Holocaust e le loro soluzioni estremiste d'avanguardia; peccato solo per i volumi che oscillano fastidiosamente, altrimenti questa poteva essere una bomba di allucinazioni perverse e iraconde. Giungo alla conclusiva e in versione live acustica, "Kallohonka", che dovrebbe rappresentare il pino ove appendere i teschi degli orsi dopo le feste pagane e ai cui piedi ne venivano sepolte poi le ossa, una song che chiude il disco cosi come lo aveva iniziato. Peccato per la produzione casalinga e quella sensazione ricorrente di ascolto di un demo anziché di un full length, , ma forse è voluto come effetto. Sono certo che con un budget ben più corposo, qui staremo parlando di un qualcosa di davvero interessante. Dimenticavo, quest'album è di marzo 2016, nel frattempo sono già usciti due EP e uno split. Forte la ragazza. (Francesco Scarci)

(Self - 2016)
Voto: 70

giovedì 8 settembre 2016

Face The Maybe - The Wanderer

#PER CHI AMA: Progressive/Metalcore, Between The Buried And Me, Periphery
Per me il progressive vero è finito con 'A Change Of Season' dei Dream Theater. Lo ripeto da anni. Eppure, continuo ad essere smentito da queste realtà indipendenti (penso agli Earth’s Yellow Sun, ai No Consequence, ai Tardive Dysknesia) formate da musicisti straordinariamente dotati di tecnica, intuito, capacità e voglia di sorprendere. In questa categoria entrano oggi a gamba tesa gli spagnoli Face The Maybe, con il loro 'The Wanderer' – che segue il debut 'Insight' del 2011. Un disco straordinario, sorretto da un lavoro vocale praticamente perfetto (Tomas Cunat passa con facilità da una voce pulita, precisa ed estesa ad un convincente harsh-vocals tinto di growl) e da una capacità di songwriting davvero rara. Le dodici tracce trasudano continuità e coerenza da tutti i pori, e permettono al quintetto di Barcellona di esplorare tutti i canoni del genere: c’è il metalcore dei Periphery con i ritornelli strappamutande (“All That I See” e “Seth”), c’è il djent ipertecnico (“Dagger” e “The Swan”), c’è l’epicità oscura di certi Opeth (“New Dawn”); e non mancano ovviamente sfumature dei più classici Dream Theater (“The Wanderer”). Ma ogni riferimento è frullato e digerito dai Face The Maybe, che affrontano la scrittura dei brani con maturità, personalità e con un’attenzione alla melodia che, pur facendo storcere il naso ad alcuni puristi del metal, trasforma un disco difficile, tecnico e impegnativo in un’esperienza di ascolto godibilissima anche ad orecchie non preparate. Non sorprendetevi, dunque, se ascoltando 'The Wanderer' vi troverete a passare da uno shredding violentissimo di chitarra su un tappeto di doppia cassa, ad un ritornello che potreste tranquillamente fischiettare sotto la doccia. C’è molto materiale al fuoco (dodici pezzi, quasi tutti sopra i 6 minuti e con punte di oltre 9), forse fin troppo. Ma ne vale la pena. (Stefano Torregrossa)

Diana Spencer Grave Explosion - 0

#PER CHI AMA: Space Rock/Stoner, Kyuss, Colour Haze
Il tempo si dilata, rallenta, sussurra. Appaiono orizzonti rossi, sabbia, stelle, spazi infiniti, solitudine. Un deserto oscuro e senza fine, disabitato, dove il tempo perde ogni senso. E invece – sorpresa – siamo a Bari, patria dei Diana Spencer Grave Explosion. Il quintetto sorprende per la capacità di creare straordinarie atmosfere stoner ricche di psichedelia, che sanno trasformarsi, quando serve, in monolitiche architetture di chitarre maestose e headbanging furioso. “Space Cake” gioca su un riffing indovinatissimo, che sa pesare con precisione, distorsione ed effetti, alternandosi tra cavalcate stoner a suon di crash e rullante, e momenti più lisergici. Un piano elettrico dal gusto anni ’70 apre “Avalanche”, guidata da delay spaziali e una melodia riuscitissima fino ad una inaspettata apertura in maggiore. La batteria (che sceglie pattern minimali ma precisi, sullo stile di Brant Bjork) e il basso costruiscono una base solida e granitica su cui poi tastiere (sentite che suoni! assolutamente perfetti) e chitarre hanno ampio spazio di manovra. Sono evidentemente le chitarre a reggere l’intero lavoro, con un sound maturo a metà tra i Kyuss e il kraut rock dei Colour Haze. Ma non è un disco solo stoner, intendiamoci: è l’anima psichedelica dei Pink Floyd e di certi Motorpsycho ad affacciarsi nell’intro della lunga suite conclusiva del disco. “Long Death To The Horizon” riassume in 13 minuti la visione complessiva del quintetto barese, passando da una cantilenante melodia ad uno spirito blues distorto e oscuro, per poi tuffarsi in un oceano stoner di wah e mid-tempo. Il disco si riavvolge apparentemente su se stesso, chiudendo con la stessa magia dell’inizio, tra violini e fisarmoniche di un’improbabile orchestrina. Grande musica, personalità, maturità; ottima produzione; e la capacità, sempre più rara, di far volare l’ascoltatore e catturarlo, dal primo all’ultimo minuto. Se queste sono le premesse, non vedo l’ora di ascoltare il loro full-length.(Stefano Torregrossa)

mercoledì 7 settembre 2016

Moloch – Verwüstung

# PER CHI AMA: Black/Ambient/Dark, Abigor, Beherit
Il black metal offre in termini stilistici numerosi spunti creativi a discapito della sua fama di musica chiusa, statica e ripetitiva e Moloch ne è un buon esempio. Il connubio di arte estrema, espressa a suon di ambient, dark e black metal di carattere teutonico, emotivo, drammatico, ricco di venature strazianti ed interpretazioni vocali lancinanti inclini a seviziare la voce di un'anima perduta, devota alla solitudine, al nichilismo totale nei confronti di un mondo in caduta libera, genera sempre un certo effetto a sorpresa. La one man band ucraina ha sfornato una miriade di creazioni e collaborazioni anche importanti dalla sua fondazione (2004) ad oggi e l'album in questione datato 2014, e distribuito dalla Metallic Media, spinge ulteriormente la fase creativa della band verso un suono ancor più rigido, glaciale, ferreo e di confine. Tramutando il malessere esistenziale in conflitto contro il mondo insano in cui si è destinati a sopravvivere, Moloch (Sergiy Fjordsson aiutato alla batteria dal prestigioso Gionata Potenti, già al lavoro con numerose band tra cui Blut Aus Nord e Deathrow), esaspera ed esalta il tipico sound black in forma compatta e nevrotica, esuberante nei sui ritmi serrati e sinistri, carichi di disperazione e dall'umore macabro. Riff taglienti e gravidi di ossessione, calati in atmosfere cupe e malate. Le composizioni sono frastagliate, oserei dire primordiali, anche nella produzione, a volte grezze e rudi, sempre pronte a rimarcare la linea continuativa che le legano con il passato e le origini di questo genere musicale estremo. All'interno dei brani troveremo aperture decadenti e buie, ritmiche martellanti di batteria ad incalzare un cantato tetro e teatrale, instancabile nella sua ricerca della perfetta melodia del dolore. Il suono non evoca particolari virtuosismi ma è costante la presenza di una certa maestria nello stendere composizioni sotterranee, dall'odore acre e dal sentore paludoso e di perdizione. Una collaudata e singolare tecnica compositiva, selvaggia e radicale, cosparsa e disseminata nell'intero album che lo rende omogeneo ed ipnotico, qualità che brano dopo brano diventerà sempre più presente e notevole. In perfetta comunione tra loro, troviamo musica e artwork di copertina, con un lavoro grafico criptico e raggelante, sostenuto anche da una colossale durata del cd di quasi ottanta minuti. Lontano dalle luci della ribalta e legato nel sangue da una corrente espressiva sotterranea e violenta, Moloch incalza con la sua opera l'arte di band ai margini come Centuries of Deception, Abigor, Inquisition e Beherith, con un sound difficile da assimilare e descrivere, ma per chi saprà captarne la profondità d'intenti si aprirà un vaso di Pandora che può condurre nei meandri più bui della nostra esistenza. Aperto da un intro ambient nero come la pece ("Todestille"), il disco esplode nel suo interno con tutta la sua perversa spigolosità, senza dare tregua per tutta la sua durata, depressivo e riflessivo in totale opposizione al concetto di mainstream. "Du Bist Nichts in Dieser Sterbenden Welt ", condotta da un intro di basso distorto, offre la prima tregua dopo sei brani devastanti per approdare alla titletrack, "Verwüstung" che, con tutta la sua rarefatta onnipotenza, mostra una lunga coda rivolta ad un'ecatombe del genere umano, la sua scomparsa osannata a suon di drone music, dark, ambient e sfuggenti tocchi di piano e rumori silenziosi, bui, in assenza totale di ritmo per ben undici minuti. La chiusura è affidata inaspettatamente ad una traccia nascosta ("A Symphony" by Chopin) con la sua prima ventina di minuti passata nel totale silenzio sonoro per poi aprirsi ad una sinfonia classica orchestrale, presumo un omaggio all'autore (perdonate la mia lacuna in ambito classico). Un album definitivo, l'oscurità in piena regola. Disco da avere. (Bob Stoner)

(Human to Dust/Metallic Media - 2014)
Voto: 85

https://molochukr.bandcamp.com/album/verw-stung-2

martedì 6 settembre 2016

Ingrain - Aembers

#PER CHI AMA: Post Black/Shoegaze, Alcest, Autumn for a Crippled Children
'Aembers' è l'EP d'esordio degli israeliani Ingrain. Il disco, uscito a giugno di quest'anno per le Pest Productions, consta di sei tracce, di cui le prime cinque registrate addirittura nel 2013, mentre la sesta, la scorsa estate, quando il lavoro uscì originariamente in digitale. Poi l'attenzione della label di Nanchang e finalmente l'approdo sul mercato con un formato fisico e un sound per certi versi ambizioso, capace di coniugare il black metal con un approccio a tratti acustico e atmosferico, sicuramente melodico e dal forte impatto emozionale, come testimoniato dalla track in apertura, "Bramm". Forti del supporto alla consolle di Dan Swano, il terzetto di Gerusalemme colpisce per quei suoi arpeggi di chitarra che si insinuano in una matrice estrema che corre a cavallo tra death e black, anche se in quei momenti più rilassati e scevri da galoppate condite da blast beat e tremebonde vocals, la proposta dei nostri sembra virare ad un versante più orientato all'hard rock, rendendo il tutto pertanto più accessibile. Lo dimostra l'attacco di "Firmament", song dotata di un'aura decisamente malinconica, che conquista per la sua vena squisitamente blackgaze, che può scomodare più di un paragone con Agalloch e Alcest; poi quel suo assolo finale su di una ritmica post black, è davvero splendido, tanto che da solo vale il costo del cd. Il tremolo picking è un'altra delle caratteristiche vincenti dei nostri, che hanno davvero tutte le carte in regola per sfondare con la loro proposta e un'ispirazione che ne esalta le doti tecnico compositive. Spettacolare il break di "To See", forse la song più matura di un lotto di brani davvero notevole e considerato che stiamo parlando di musica scritta tre anni fa, mi aspetto davvero grandi cose dal futuro degli Ingrain. "Voidd" è forse un primo assaggio di quello che verrà, otto minuti e mezzo che strizzano l'occhiolino anche agli Autumn for a Crippled Children (oltreché agli Alcest) e che confermano le potenzialità di questo brillante e inedito trio proveniente da Israele. Ben fatto! (Francesco Scarci)

(Pest Productions - 2016)
Voto: 80

https://pestproductions.bandcamp.com/album/aembers

I-Def-I - In the Light of a New Day

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Emocore, Breed 77
Dopo il Mcd 'Bloodlust Casualty' del 2005, ritornano gli inglesi I-Def-I con il full length di debutto e un risultato che definirei soddisfacente. Dopo un anno di lavoro, partecipazioni a compilation, apparizioni a festival, e su diversi magazine internazionali, la band di Manchester centra l’obiettivo al primo colpo, con un album vario che potrà piacere ad una vasta schiera di heavy metal fans: dai seguaci del movimento metalcore agli amanti del thrash, passando attraverso gli ascoltatori più incalliti dell’emocore, ma più in generale a chiunque mostri una mentalità aperta. Il quartetto inglese scalda gli animi con 15 songs davvero buone (ma forse un po' troppe) che si barcamenano all’interno di sonorità alternative, premendo saltuariamente il piede sull’acceleratore e sfociando raramente, in territori swedish death o in altri momenti, in territori più metalcore. I ragazzi sono bravi a mixare riffs di chitarra, talvolta pesanti, a melodici break. Questo è metal moderno, anche se, in taluni casi, il rifferama può risultare preso in prestito dai Pantera (come si evince nei primi pezzi), mentre il modo di cantare di Chris Maher, può ricordare un ibrido tra il Mike Patton ai tempi dei Faith No More e il vocalist dei Linkin’ Park, per l’uso un po’ rappato della sua voce. La traccia “Tunnel Rat” ospita addirittura un assolo del buon vecchio Slash dei Guns’n Roses, un po’ arrugginito ma che si conferma essere sempre un musicista di gran classe. La proposta della band albionica è decisamente attuale, i ragazzi mostrano un grande potenziale, ahimè poi rimasto tale, visto lo scioglimento nell'anno successivo. Meteore! (Francesco Scarci)

domenica 4 settembre 2016

Electric Beans - Sans Modération

#PER CHI AMA: Punk Rock
Avete presente quel vostro compagno di classe alle scuole superiori - tutti ne avranno avuto uno – un po’ basso e tarchiatello, che portava sempre il cappellino da baseball, che non eccelleva in nessuna materia ma stava simpatico a tutti, professori inclusi? Quello che leggeva tutti quei fumetti introvabili, che ascoltava solo punk rock, tutto il giorno, che non fumava ma aveva sempre una lattina di birra da 50 cc nello zaino e che avete sentito almeno una volta parlare di voi come “il suo amico” nonostante voi non lo avreste mai definito tale, sicuramente non in pubblico? Quello a cui non potreste mai, per nessuna ragione, augurare alcun male. Ecco, gli Electric Beans sono quel vostro compagno lì. Sono dei simpatici cazzoni francesi che suonano un punk rock senza infamia e senza lode, dritto e senza fronzoli, né selvaggio, né particolarmente veloce, ma sincero, quello si. Senza maschere. Questo loro 'Sans Modération' (la cover cd sembra un tributo alla birra Ceres) è un disco generoso, live, di quasi settanta minuti in cui si trova tutto quello che c’è da sapere su di loro. La conoscenza della lingua francese potrebbe essere d’aiuto per godere appieno della loro musica ma soprattutto dei loro testi, musica che rimane comunque sufficientemente apprezzabile anche in caso contrario. Convengo con voi che esistano mille modi migliori per trascorrere settanta minuti del vostro tempo, ma a uno che vi considera sinceramente come un vostro amico, un ascolto glielo dovete, come minimo. (Mauro Catena)

(Mogettes Prod - 2016)
Voto: 65

https://electricbeans.bandcamp.com/releases

sabato 3 settembre 2016

Bear Bone Company - S/t

#PER CHI AMA: Hard Rock, Black Label Society
I Bear Bone Company (BBC) sono un power trio svedese formatosi quattro anni fa e solo l'anno scorso si sono lanciati nel vasto mondo discografico con questo Self titled album. I tre ragazzotti non hanno più vent'anni e la loro maturità musicale si sente tutta, un concentrato di rock duro e crudo, sanguigno e immediato, come si faceva un tempo. Le dodici tracce sono ben bilanciate, arrangiate con cura e potenti come ci si aspetta da questo genere, basti ascoltare la opening track "Fade". È una cavalcata veloce e cadenzata, con riff classici che ci portano indietro di quindici-vent'anni e fanno l'occhiolino ai Black Label Society e company. Il vocalist si fa notare sin da subito per la sua ottima estensione vocale, lanciandosi in acuti che farebbero impallidire una vocalist femminile. Alcune influenze grunge portano a galla i gusti retrò della band, come in "Kiss N Tell" che sulla falsariga degli Alice in Chains o STP, si sviluppa in aree più heavy. Il chitarrista (nonché cantante) mette in piazza i suoi studi, con accelerazioni e rallentamenti, il tutto condito da un bell'assolo che scalda le corde fino a farle divenire incandescenti. La band si cimenta anche in brani più lenti, "Down in Flames", trovandosi a proprio agio, anche se gli arrangiamenti avrebbero voluto qualcosa di meno scontato. Per fortuna l'enseble di Örebro non hanno voluto opprimerci con la solita ballata che spesso le band includono per accontentare tutti, quindi rendiamo grazie al trio svedese. Traccia dopo traccia, tutto scorre fluido, forse troppo, nel senso che nonostante il livello generale sia più che buono, si rischia di cadere in uno stato catatonico per una certa mancanza di stimoli. Questo rischio aumenta se non amate il genere, oppure se lo avete lasciato da parte da un po'. L'esordio dei BBC è buono ed essendo una band matura non aspettiamoci evoluzioni particolari, ma facciamo tesoro del buon rock che questo trio scandinavo può regalare ora ed in futuro. (Michele Montanari)

(Sliptrick Records - 2015)
Voto: 65

Spectrale/Heir/In Cauda Venenum - Split Cd

#PER CHI AMA: Black Sperimentale
Agosto 2016, Francia, manco a farlo apposta. Tre manifestazioni musicali completamente differenti che si palesano nello split album edito dalla Emanations Productions, la divisione ancor più "underground" della Les Acteurs de l'Ombre Productions. La prima, gli Spectrale, side project di Jeff Grimal (chitarra e voce dei The Great Old Ones, qui supportato da Jean-Baptiste Poujol), autori qui di tre pezzi, l'opener "Sagittarius A", "Al Ashfar" e "Crepuscule", sorte di eterei intermezzi ambient, coadiuvati da una spettacolare chitarra acustica in un ipnotico trip strumentale. I secondi, i black thrasher Heir, anch'essi autori di tre pezzi, "Descent", "Upon the Masses" e la conclusiva "Sectarism", in una proposta oscura, malata e mefitica, grazie a quella commistione di black, sludge e thrash, carico pure di una certa dissonanza a livello delle linee di chitarra, che talvolta si lanciano in galoppate dal vago sapore punkeggiante che rendono la proposta del combo di Tolosa, variopinta, muovendosi in tetri meandri della musica estrema, non disdegnando pure tenue parti atmosferiche come nei quasi dieci minuti di "Upon the Masses" o nell'ultima traccia, in cui il quintetto transalpino la alterna ad un furioso e malinconico black metal, grazie a l'utilizzo delle chitarre in tremolo picking. Ho tenuto l'analisi degli In Cauda Venenum in ultima istanza perché oltre a palesarsi per terzi, e probabilmente essere i più talentuosi del trio di gruppi, si sono rivelati anche i più originali, proponendo qui un'unica song, “Laura Palmer, Agonie à Twin Peaks”, una lunga traccia di oltre 14 minuti che ci riconsegna quel mood noir surreale tipico della serie di David Lynch. Cosi, lungo l'evolversi del brano, il terzetto di Lione, arricchitosi peraltro di un violoncellista, ha modo di proporre il tema del film (scritto dal compositore italo-americano Angelo Badalamenti), rivisto e offerto in un contesto che abbina black metal, orchestrazioni da paura, atmosfere horror. Una vera gemma post black, che a mio avviso rende questo split album davvero interessante. Non me ne vogliano le altre due band, ma avevo già citato gli In Cauda Venenum, al tempo della recensione del loro debut album, come potenziale crack futuro e qui ne ho avuto la conferma. (Francesco Scarci)

(Emanations Productions - 2016)
Voto: 75

Summer Contest


Ecco i vincitori del Summer Contest che metteva in palio il nuovo Split Album di In Cauda Venenum, Heir e Spectrale, oltre a 3 copie della Compilation della Les Acteurs de l'Ombre Productions.

La risposta al quesito era: Francia

I vincitori:

Federico B. - Colle Val d'Elsa (SI)
Lorenzo D. - Magione frazione San Savino (PG)
Francesco S. - Taranto
Cristina E. - Milazzo (ME)


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Here the winners of the Summer Contest that offered the chance to win a copy of the Split Album by In Cauda Venenum, Heir e Spectrale and 3 Compilations made by Les Acteurs de l'Ombre Productions

The right answer was: France

The winners:

Federico B. - Colle Val d'Elsa (SI)
Lorenzo D. - Magione frazione San Savino (PG)
Francesco S. - Taranto
Cristina E. - Milazzo (ME)

mercoledì 31 agosto 2016

Spectral Mortuary - From Hate Incarnated

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Brutal Death, Cannibal Corpse, Morbid Angel
Continua la riscoperta di vecchi album da parte del Pozzo dei Dannati che quest'oggi ci porta in Danimarca e all'anno 2007, quando esordì un nuovo combo atto a devastare il mondo: costituito da membri dei grinders Exmortem e da altri musicisti della scena estrema scandinava, gli Spectral Mortuary rilasciano il loro debut album, 'From Hate Incarnated'. Il lavoro si presenta come il classico disco death metal che tanto andava in voga a metà anni ’90, senza nulla aggiungere e nulla togliere a questo genere. Un onesto platter di musica incendiaria, caratterizzata da ritmiche possenti e una batteria precisa e veloce. Demoniache growling vocals e qualche buon assolo (registrato, ahimè ad un volume più basso), completano il quadro di questa brutal death old-school band danese. Che altro dire a riguardo di un album, che ha il solo pregio di far male e non regalare nulla di nuovo, ad una scena che più volte ho sottolineato puzzare di stantio? Di sicuro non troverete un attimo di tregua dall’inizio alla fine dell’album, non un respiro concesso, perché l’intensa furia distruttiva del quintetto scandinavo, sovrasta tutto ciò incontri sulla sua strada. L'ispirazione? Ovviamente quella trainante dei mostri sacri americani, Morbid Angel e Cannibal Corpse in primis, che sfocia di sovente in sfuriate grind, per poi rientrare in binari più canonici. Decisamente un disco indicato solo per gli amanti del death metal nato al sole della Florida. (Francesco Scarci)

(Mighty Music - 2007)
Voto: 60

https://www.facebook.com/spectralmortuary

Bone Man – Shapeshifter

#PER CHI AMA: Psych Stoner/Grunge
Album uscito ormai quasi da un anno, questo dei Bone Man, trio basato a Kiel nel nord della Germania, ma di cui sarebbe davvero un peccato non parlare. Si tratta infatti di un lavoro oltremodo affascinante, che prende le mosse da un hard-psych influenzato tanto dallo stoner dei Kyuss quanto dal grunge di Seattle, nel quale si respira un ché di viscerale, una rabbia ancestrale che sembra affondare le proprie radici in oscuri culti nordici e che riesce a conferire al disco una magia tutta particolare. È una musica tutto sommato semplice, quella dei Bone Man, in cui gli ingredienti sono pochi, ben riconoscibili ma dosati sapientemente. Le chitarre macinano riff oscuri e si lasciano trasportare spesso da impeti psichedelici che rimandano sovente agli Screaming Trees, la ritmica è tonante e precisa e la voce davvero bella e affascinante, dotata di una pasta grumosa, un timbro cavernoso e potente che ricorda in qualche modo Glenn Danzig. Quello che fa la differenza, come sempre succede, sono le canzoni. E qui ce ne sono di davvero belle e memorabili. La tripletta iniziale, per esempio, è fenomenale: la title track e "Bad Fashion" sono ottimi esempi di quell’effetto selvaggio e soprannaturale che i tre riescono a conferire ad un genere che non avrebbe più niente di nuovo da dire. Allo stesso modo "The Wicker Man" è un trascinante capolavoro che riesce a porsi al di fuori dal tempo e ricorda in qualche modo i canti dei pirati del settecento. Il resto del programma non delude e riesce a mantenersi su livelli di eccellenza pressoché costanti fino alla fine. Una splendida sorpresa, un disco dalla bellezza solenne e selvaggia da ascoltare a ripetizione e custodire gelosamente, in attesa di un seguito che, stando ai rumors, non dovrebbe farsi attendere molto a lungo. (Mauro Catena)

(Pink Tank Records - 2015)
Voto: 75

https://bonemankiel.bandcamp.com/album/shapeshifter

Faun - Totem

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Neofolk, Medieval, Orplid
A distanza di un paio d’anni dal precedente lavoro, 'Renaissance' (datato 2005), tornò in pista il quintetto teutonico dei Faun, con un nuovo affascinante album. Dopo una lunga intro di quasi quattro minuti, inizia un viaggio nel loro mondo ancestrale. 'Totem' è suddiviso virtualmente in tre capitoli: la prima parte viaggia su binari dark gothic, con le voci di Lisa e Fiona sempre in risalto e l’intrigante uso di strumenti folkloristici, come il bouzouki irlandese, l’arpa celtica, il didgeridoo e l’hurdy-gurdy, che conferiscono al sound dei nostri, le emozioni tipiche della musica classica, per la sua capacità di essere senza tempo. Si tratta di composizioni vellutate, estremamente rilassanti, che ci riportano con la mente a paesaggi incantati, con quell’uso delle chitarre acustiche che tracciano dolci linee melodiche e angeliche vocals femminile che declamano splendide poesie. Ciò che mi fa storcere il naso è come sempre il cantato maschile di Oliver Sa Tyr in lingua tedesca, e quella sua incapacità di fondo di risultare melodica. La parte centrale del disco è invece orientata a sonorità medievali: sembra di essere scaraventati indietro nel tempo di quasi mille anni nella lande scozzesi che hanno ospitato il film 'Braveheart', grazie all’utilizzo di strumenti “vetusti” quali mandolino, flauti, percussioni e cornamusa. La terza parte del cd infine, torna a ricalcare il sound posto in apertura di questo lavoro, con ambientazioni più oscure e ipnotiche, fatte di atmosfere evocanti antichi riti pagani ed una certa spiritualità che mostra la connessione dei nostri con la natura. 'Totem' non è certo un disco di facile approccio, ma se siete alla ricerca di musica di sicuro non banale, la proposta dei Faun, potrebbe sicuramente fare al caso vostro. (Francesco Scarci)

(Curzweyhl/Rough Trade - 2007)
Voto: 70

http://www.faune.de/faun/pages/start_en.html

martedì 30 agosto 2016

The Last Days of Jesus - Dead Machines’ Revolution

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Punk/Dark/Rock, Misfits, Devo
E questi da dove diavolo sbucano fuori? Partendo da un monicker non certo esaltante, questi The Last Days of Jesus mostrano cattivo gusto anche per ciò che riguarda la cover del cd, quanto mai orribile. E la musica? Beh, ho dovuto ascoltare e riascoltare un sacco di volte questo disco (addirittura il quinto e per fortuna l'ultimo della loro discografia, ma uno nuovo è in lavorazione), per capire se potevo salvare qualcosa e per comprendere anche in quale filone inserire questi pazzi slovacchi. Dopo svariati ascolti, faccio ancora fatica ad intendere e digerire il sound di questo quartetto, che dice di suonare un deathrock, ma di death e rock qui ce n’è gran poco. Mi sembra, più che altro, che ci sia una forte componente elettro-gothic di stampo teutonico, sulla quale i quattro psicopatici, inseriscono diversi elementi presi dal punk (Misfits), dalla musica dark (primi The Cure) e gotica, arrivando a creare un qualcosa da loro definito come neo-batcave-postpunk-goth-agrhlszjf (e non mi chiedete cosa vuol dire quest’ultima definizione). A me sinceramente pare che la release della band di Bratislava sia una presa per il culo per gli ascoltatori pertanto non mi sento assolutamente di consigliare questo bizzarro lavoro, che ha il solo pregio di essere altamente ironico e di saper creare delle atmosfere dannatamente noir. La band probabilmente da cui traggono ispirazione è quella degli americani Devo, che negli anni ’80 univano il punk rock al synth-pop: qui troviamo infatti strane sperimentazioni che disorientano non poco, ma dire che la musica di 'Dead Machines’ Revolution' sia piacevole, mi sembra pura follia. Se pensate che la vostra mente sia abbastanza aperta, potreste fare un tentativo e dargli un ascolto, verrete catapultati in una granguignolesca dimensione parallela. (Francesco Scarci)

(Strobelight Records - 2007)
Voto: 55

http://www.thelastdaysofjesus.sk/

Vert - Accepting Denial

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Emocore, Lost Prophets, Incubus
Dall’area di Wolverhampton (UK), nel 2007 saltò fuori quella che sembrava la new sensation del momento, i Vert. Francamente mi trovo di fronte ad una delle tante band che popolavano il mercato discografico in quel periodo, con il conseguente rischio di saturarlo, a causa della loro proposta musicale non del tutto originale. Il quartetto inglese, accostato più volte dai magazine ad Incubus e Lost Prophets, propina un sound energico e robusto fatto di chitarre non troppo pesanti, ma abbastanza veloci, cariche di una certa attitudine punk, che fanno il bello e il cattivo tempo, lungo le 10 tracce di questo 'Accepting Denial', primo e unico full length per la band britannica (nel 2009 lo scioglimento inevitabile). La voce di Steve Braund oscilla tra momenti malinconici ad urla cariche di rabbia. La musica dei nostri, mai troppo cattiva, anzi piuttosto ruffiana, paga dazio, in diversi pezzi, alle band succitate, come pure in alcuni frangenti sono udibili reminiscenze metalcore. Qui trovate dell’easy music che avrà fatto sicuramente la gioia degli amanti di sonorità nu metal/rock. Egregiamente prodotti ai MCC Studios da Andy Giblin (Slipknot, I-Def-I, Kill 2 This), i Vert non fanno altro che svolgere il loro compitino raggiungendo una stringatissima sufficienza, mixando sonorità catchy a vocals da MTV. Il disco non mi ha mai convinto appieno, però non è neppure da stroncare; mi è rimasta solo la curiosità di sapere dove i nostri potevano andare a parare in una successiva produzione. (Francesco Scarci)

lunedì 29 agosto 2016

Jet Banana - Master is the Enemy

#PER CHI AMA: Power Rock, Stones
Un rapporto piuttosto conflittuale, quello che mi ha visto alle prese con quest’album di debutto dei francesi Jet Banana. Conflitto cominciato dalle scelte grafiche del font e dell’artwork che sono quanto di più vicino possa esserci ad un pugno in un occhio, e continuato poi con le roboanti dichiarazioni della cartella stampa, secondo cui il suono del giovane quartetto sarebbe il risultato di un matrimonio tra il power pop, Stones, Dandy Wharlos, Eagles of Death Metal e AC/DC, da loro ribattezzato in modo alquanto pretenzioso “power rock”. Va dato atto ai Jet Banana di aver fatto le cose per bene, con tanta passione ed evidente spiegamento di forze (sempre più difficile, oggi, trovare un cd che contenga un libretto ciccione con testi e fotografie), per confezionare un lavoro di buon livello. Musicalmente siamo dalle parti di un FM rock molto facile e orecchiabile, discretamente fresco e coinvolgente, che guarda in modo abbastanza fedele ai modelli di riferimento dichiarati, a volte con un approccio un po’ scolastico, altre invece mostrando anche qualche buono spunto. Il problema, quando parliamo di questa musica, è che se non si hanno delle buone canzoni difficilmente ci si potrà far ricordare più di qualche minuto. Ed è qui che devono ancora lavorare sodo, i Jet Banana, sulla profondità e la solidità del loro songwriting, perché è grazie alle belle canzoni che siamo disposti a passare sopra ai riff troppo simili ad altri già sentiti mille volte o a suoni e arrangiamenti un po’ stantii, come delle vecchie giacche dimenticate troppo a lungo nell’armadio, che una volta indossate non sono ancora vintage, ma semplicemente fuori moda. Per ora, quindi, resta un disco sincero e divertente, suonato bene e con una bella energia, ma per lasciare un segno serve qualcosa di più. (Mauro Catena)

domenica 28 agosto 2016

Paramnesia - Ce Que Dit La Bouche D'Ombre

#PER CHI AMA: Cascadian Black, Addaura, Skagos
Non è il nuovo EP dei francesi Paramnesia questo 'Ce Que Dit La Bouche D'Ombre', bensì il vecchio lavoro uscito nel 2013 in CD-r, rimasterizzato e riproposto dalla label cinese Pest Productions. Due pezzi per un totale di 23 minuti che ci fanno conoscere le radici del male da cui trae linfa vitale il quartetto di Strasburgo. "I" segna inequivocabilmente il passo di un rozzo black cascadiano che si rifà, come influenza principale, agli statunitensi Addaura, grazie a ritmiche tiratissime e roboanti, vocals malvagie e qualche accenno di melodia (e malinconia) nei momenti più mid-tempo. Non mancano neppure frangenti più atmosferici anche se qui si rivelano merce assai rara, cosi come pure sorprende il finale parlato della prima traccia che introduce a "II", altri 11 minuti di suoni black primordiali che lasciano solamente trasparire le potenzialità dell'ensemble transalpino, con sprazzi di catartico post rock, che con qualche difficoltà erano emerse anche nel lacerante album omonimo, dove comparivano le tracce "III" e "IV". Per lo meno ora abbiamo capito il perché della progressione nei titoli di quelle due song. Speriamo solo che ora i Paramnesia si mettano alla ricerca di una propria meglio definita identità, per ergersi dalla sempre più affollata scena post black. (Francesco Scarci)

Third Island - Dusk

#PER CHI AMA: Post Rock/Post Metal/Shoegaze
A volte è un semplice artwork a conquistare i sensi ancor prima della musica. Cosi è stato per me con i Third Island, un amore a prima vista, che con quella loro copertina cosi essenziale ma anche cosi affascinante, hanno subito catturato la mia attenzione. Poi, avuto il digipack in mano, messo il disco argentato nel player e fatto partire il primo brano dei tre, rilassandomi di fronte alle atmosfere sommessamente post rock della opener, "Thawed My Skin". Undici minuti in cui il trio irlandese palesa la propria passione per sonorità darkeggianti, che combinano inequivocabilmente il post-rock con lo shoegaze in un incedere marziale, ripetitivo, oserei definirlo ipnotico, complici anche le tematiche che trattano i nostri, ossia disturbi del sonno e incubi annessi. Incubi che si materializzano nel corso della song con l'ingrossarsi delle chitarre che vanno quasi a sfiorare il post metal, ma anche nell'incupirsi di quella voce inizialmente cosi morbida e sognante. La band di Limerick prosegue con i nove minuti di "Come Now" e quelle pesanti gocce di pioggia che si odono nella parte introduttiva della song lasciano presto il posto alla litanica (ma anche malinconica) voce del frontman e una musica che via via sembra cadere in balia di un doom intinto in lisergiche pozioni magiche, in un sound che ha modo di evocare i Godflesh, ma anche Kowloon Walled City e una versione molto più soft di Neurosis e Isis. Ci dirigiamo inebriati verso la fine dell'EP con la terza e conclusiva "It's Moving", ulteriori undici minuti di sonorità post, vocals stralunate, atmosfere morbose e un lungo e asfissiante finale interamente strumentale. 'Dusk' alla fine è quello che si dice un buon biglietto da visita per una band agli esordi, che si è formata soltanto lo scorso anno. Insomma un altro ensemble dell'underground da appuntarsi nel proprio libricino degli appunti per futura memoria. (Francesco Scarci)

sabato 27 agosto 2016

The Walk – Wrong Enemy

#PER CHI AMA: Alternative Rock
I The Walk sono un quartetto di Strasburgo, capitanato dal cantante e chitarrista, nonché autore di tutti i testi, Hervé Andrione, giunto oggi al debutto sulla lunga distanza dopo un paio di interessanti EP che già mettevano in evidenza uno stile piuttosto peculiare e personale, seppur non originalissimo. La musica della band si basa sulla chitarra bluesy (per lo più acustica, a volte slide, spesso distorta) e la voce di Andrione, il cui timbro ricorda a volte quello di Bertrand Cantat dei Noir Desir, cui fa da contraltare Nicolas Beck con il suo tarhu, uno strumento piuttosto raro, una sorta di violoncello inventato dal liutaio australiano Peter Biffin negli anni '80, ispirato dalla tradizione mediorientale ed in particolare al tanbur turco. Il suono dei The Walk si nutre di questo contrasto apparente, esacerbato da una sezione ritmica potente, precisa e di stampo decisamente rock. Quello che ne esce è una musica che trova forti riferimenti in quello che negli anni '90 si sarebbe definito come “alternative”, muovendosi in un ambito che spazia dai già citati Noir Desir (anche se qui si utilizza esclusivamente la lingua inglese) ai Deus, fino a Jeff Buckley, il Ben Harper più roccheggiante e più di una suggestione grunge. Se è vero che i brani più propriamente rock sono piacevolmente grintosi ma difettano forse di un po’ di impatto e personalità, i pezzi più riusciti sono, a mio avviso, quelli in cui si toglie un po’ il piede dal pedale dell’acceleratore e dove viene dato maggior spazio al dialogo tra chitarra e il tarhu, quindi piacciono “Stand the Truth”, con un accordion suggestivo, o la drammatica epicità buckleyana di "Words of Wisdom", o ancora le delicate “Until” e “Expanding Universe”, mentre la vetta viene toccata da “A Price to Pay” col suo arrangiamento d’archi e il poderoso crescendo finale. Altrove invece, le idee ci sono e sono buone ma è come se non siano state sviluppate a dovere: “Far From my Dreams” parte bene con le sue atmosfere avvolgenti che ricordano “Release” dei Pearl Jam ma poi si prolunga per 8 minuti, sembrando ripiegarsi su stessa senza davvero mai prendere il volo. L’impressione è quella di trovarsi di fronte ad un prodotto realizzato con grande cura del dettaglio, a partire dallo splendido artwork che ritrae i musicisti come stregoni africani, fino ad un suono curato e scintillante. Forse troppo, a dire la verità, nel senso che forse, sull’altare della pulizia sonora è stato sacrificato un po’ di quel sacro fuoco che sono sicuro animi le loro esibizioni live, ma si tratta comunque di dettagli in un lavoro che risulta già maturo e riesce a valorizzare le idee quanto la tecnica dei musicisti. Disco molto interessante e band da seguire con attenzione. (Mauro Catena)

Blerthrung - Blindvei

#PER CHI AMA: Raw Black Metal
Blerthrung è un duo black metal proveniente dalla ridente e solare Melbourne. Da diverso tempo non mi arrivava una elegante busta in plastica con un CD-R e un foglio di carta stampato in bianco e nero. Questo genere di cose solitamente viene visto come una scortesia ma in alcuni casi, come quello della musica che non ha interesse né verso il mezzo né verso gli altri, è benevolmente accettato (tra l'altro, visitando la loro pagina di facebook è annunciata la stampa di musicasette a cura della etichetta francese Wulfrune Worxxx). L'ascolto di questo debutto lascia un attimo disorientati al primo impatto, non riuscendo a capire la strada che voglia percorrere il gruppo a causa di troppi stili e direzioni diverse intraprese. "The Ground" ci accoglie con un accettabile, mesto e basilare depressive black, "The Black Plague" e "Their Virus" non sono classicamente veloci, e men che meno oscure e malefiche, anche se cercano di strizzare l'occhio al lo-fi scandinavo ricordandomi i primi demo degli Abruptum. Gli intermezzi e "Cracks In The Stone" approcciano arie melodiche e gothiche, con un cambio di sonorità poco piacevole. Le uniche tracce che mi ricordano piacevolmente, dal punto di vista concettuale, il black metal vecchia scuola sono le ultime "What We Have Grown" e "Ancient Wisdom", in cui finalmente si sente velocità, tiro e un po' di tenebra australe. La volutamente scarsa qualità sonora, l'estetica disperata, naturalistica e oscura non bastano a giustificare il genere e la sua esecuzione. A mio parere il gruppo australiano non ha sbagliato qualcosa nel ricettario del "voler essere black metal", ha semplicemente composto musica ancora acerba e senz'alcun impatto. (Kent)

giovedì 25 agosto 2016

Magnitudo – Si Vis Pacem

#PER CHI AMA: Sludge/Psych/Post Metal
Un nome pesante per una musica ad alto peso specifico. I Magnitudo, direttamente da Bergamo, già dal primo EP riescono ad attirare l’attenzione su di sé tanto che la Sepulchral Silence, label britannica si è subito premurata di aggiungere questi ragazzi nel proprio roster. L’EP è stato registrato egregiamente dall’ottimo Danilo Battocchio, membro dei post-metallers torinesi Last Minute To Jaffna. Non solo il sound risulta potente ma anche il nome della band suggerisce forza, intensità e un buon grado di pericolosità perfettamente calzante con l’essenza della band. I Magnitudo si sono spinti fino a imprimere su disco la violenza e la portata distruttiva di un attacco all’umanità da parte di forze immemori e ancestrali che hanno come fine solamente la devastazione totale. Uno scenario che non in molti riuscirebbero a sostenere, è come guardare da una finestra a vetri la propria città che viene inghiottita da un gigantesco terremoto (mai immagine fu cosi attuale - RIP/ndr): voragini che si aprono ovunque, edifici che crollano, urla che echeggiano alte e disperate ed il sole offuscato per la troppa polvere sospesa nell’aria. 'Si Vis Pacem' la prima parte di un famoso detto latino: se vuoi la pace prepara la guerra. Difendere la propria posizione, fortemente ancorati alle proprie idee, pronti a combattere, uccidere e morire per esse. Le premesse ci sono tutte, anche l’ansia nel vedere le figure incravattate con la maschera a gas in copertina. Milioni di burattini identici che non sanno nemmeno più respirare, mossi dalla stessa brama di potere e che brilla rossa nei loro occhi. Ma ora basta fantasia, è giunta l’ora di far vibrare i timpani. Si parte senza foga ma con grazia: il primo pezzo, "Marjane", è una song orientaleggiante venata di rabbia che si trasforma in un ambiente ostile, senza ossigeno e senza via d'uscita. Un incipit ansioso e malvagio che ci traghetta alla seconda traccia in cui per la prima volta appare la voce distorta di Dario, e il cui suono ricorda quello di un titano sceso sulla Terra con intenzioni non propriamente di fratellanza. La musica si articola in bordate di accordi dissonanti, mitragliate di batteria e cambi di metrica accanto a molti spazi sonici nelle parti ritmicamente distese tipicamente doom sostenute da un rugginoso ribollire di valvole. La terza traccia "χορού Λάρισας" introduce la voce pulita, una scelta coraggiosa ma anche ben riuscita nel suo minimalismo, sembra quasi un lamento ma potrebbe anche essere un’invocazione ancestrale sacra, e questo probabilmente non lo sapremo mai. La canzone continua come un fiume in piena tra granitici riff e terremoti che flagellano un paesaggio ormai privato di ogni forma di civiltà umana. Con "T", brano di chiusura, torniamo alle sonorità dell’inizio ma con un’attitudine diversa, più disillusa e determinata. E ancora la voce di Dario ci guida sul sentiero della battaglia e ci esorta una volta di più a puntare i piedi e guardare la distruzione che ci si staglia davanti con lucida coscienza e una buona dose di cinismo. (Matteo Baldi)

(Sepulchral Silence Records - 2016)
Voto: 80

mercoledì 24 agosto 2016

Hoaxbane - Messengers of Change

#FOR FANS OF: Black Metal, Dark Funeral, Satyricon
Going straight into the fray, German two-man black metal sect Hoaxbane take a socially critical position, hostile towards all manipulative ideologies which seek to achieve a superficial, conformist, consumer society. That means employing a charging, explosive traditional black metal approach to their music, with explosive tremolo-picked rhythms and a generally up-tempo attitude that offers plenty of furious, deep riffing with some nice melodic accents along the way with plenty of nice drum-blasts and the nice bit of varied dynamics to make for a wholly appealing time here. A few of the tracks aren’t that impressive and there’s plenty of repetitious rhythms running rampant here as it tends to reuse itself quite often to sell the same general paces and tempos but overall there’s more to like here against the flaws. The opening title track immediately blasts through explosive drumming and up-tempo swirling tremolo-picked patterns that settle on a sprawling series of galloping rhythms around into a frenzied series of rhythms in the final half for a fantastic opening effort. ‘Bloodshed’ features a slow-building intro into a series of extravagant swirling tremolo patterns that continue on throughout the up-tempo paces with striking drum-patterns blasting along with the fiery riffing carrying along the finale for a fun, explosive highlight. ‘Diagnose Wahnsinn’ opens with blasting drumming and tight swirling tremolo rhythms along into a tight gallop with more massive sprawling rhythms held throughout the sprawling, majestic patterns flowing throughout the final half for a decent enough effort. ‘Element of Truth’ offers a melodic series of swirling tremolo riffing and plenty of plodding drumming that works through a fine melodic series of rhythms with the sprawling patterns holding this one along into the up-tempo blasting in the finale for another decent effort. ‘Erotic Aphyxiation’ uses tight blasting and swirling mid-tempo riff-work with furious patterns charging along throughout the tight, charging paces with plenty of deep swirling arrangements alongside the pounding drumming that carries into the final half for another standout highlight. ‘Asylum of Faith’ utilizes blistering double-bass blasting and a steady, mid-tempo rhythm charging along with the tight drum-work holding this one through the full-on, frantic riff-work moving through the militaristic patterns in the tight pace into the finale for a great highlight. ‘Welcoming Pain’ moves past the spoken-word intro to a light, sprawling plodding-style tempo with light melodic riffing weaving around the light rhythms with the occasional burst into frenzied patterns and tight blasting that moves in spurts through the final half for a solid if still weakest track here. ‘Secrets of My Cravings’ uses tight, explosive tremolo pattern riff-work and frantic blasting that holds the pacing along the relentless full-throttle tempos as the furious riffing and charging drum-blasts relentless move through the agonized, sprawling finale that’s utterly devastating at first before a weak ending. Lastly, album-closer ‘Versager der Evolution’ takes explosive, furious drumming and sprawling tremolo patterns into the stylish series of frantic galloping tempos that feature swirling melodic patterns and blasting drumming along into the final half for an enjoyable lasting impression. Again, only a few minor areas hold this one back. (Don Anelli)

(Mighty Music - 2015)
Score: 85

Khaldera - Alteration

#PER CHI AMA: Post Metal Strumentale, Russian Circle
La Czar of Crickets prosegue nella sua opera di sondaggio di band provenienti dal territorio svizzero e quest'opera, che va avanti ormai da un paio di lustri, sta mostrando i suoi frutti, ossia un brulicare importante di realtà underground rosso crociate davvero interessanti. E 'Alteration' rappresenta il secondo EP di una di questi gruppi, i Khaldera, un trio strumentale che ha da offrire tre brani votati a un post metal ragionato che poggia le proprie fondamenta su un materasso di suoni vellutati ("Impending Tempest") ma anche in grado di mostrare un certo coraggio nel cambiar marcia e irrobustirsi in una song più grossa qual è "Inevitability of Transition". Come al solito, la mancanza di una voce si fa sentire malamente per il sottoscritto, che vive questa situazione come una zoppia impossibile da correggere, anche se ensemble quali Russian Circle o Pelican, hanno fatto della loro esclusiva strumentalità il punto di forza. Pertanto fatevi sotto, non siate timidi, lasciatevi investire dal crepuscolare sound di questo terzetto elvetico che nella conclusiva "Afterglow" avrà modo anche di sciorinare riverberi post rock in una quanto mai inattesa tribalità a livello di percussioni, per un brano al limite dell'ambient. Diciotto minuti forse sono un po' pochi per giudicare un lavoro cosi eterogeneo e di per sé complicato qual è 'Alteration', però la curiosità per un futuro full length si fa largo assai più forte. (Francesco Scarci)

(Czar of Crickets - 2016)
Voto: 70

https://www.facebook.com/Khaldera/