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sabato 25 giugno 2022

Klymt - Murder on the Beach

#PER CHI AMA: Coldwave/Post Punk
Ho provato quasi un brivido di freddo quando ho fatto partire questo lavoro dei francesi Klymt. Quello incluso in 'Murder on the Beach' è infatti un asettico concentrato di coldwave che vi raggelerà il sangue nelle vene già con le sintetiche sonorità d'apertura di "Analogue Bastard", dove confluiscono turbinii industrial che ammiccano ai Nine Inch Nails. Ecco, in linea di massima su quali coordinate si muovono i nostri, che con la successiva "Blind Fish" si affidano a sonorità ancor più artificiali, ove elettronica ed EBM si prendono per mano e saturano tutta la scena. Ben più diversa invece "Mood", tra post punk e darkwave, in un compendio musicale ben più semplice da fissarsi nella testa, grazie a sonorità qui più dirette e melodiche. "Blue Song" è decisamente più cupa e marziale nel suo incedere. La voce del cantante è ben calibrata nella sua sofferenza con il contesto musicale, sebbene ogni tanto sembri fare il verso a Matthew Bellamy dei Muse e qui mi piace un po' meno. Ma la musica è sempre piuttosto convincente anche nella più delirante ed incalzante "Stay at the Bottom", furiosa nel suo martellante beat. In chiusura, l'inquietante ed enigmatica title track, dove le vocals dei due cantanti finiscono per essere sorrette da una matrice sonora fredda come quel brivido provato all'inizio del mio viaggio. (Francesco Scarci)

(Atypeek Music/KdB Records/Anesthetize Prod./Araki Records/Postghost Recordings - 2022)
Voto: 74

https://klymt.bandcamp.com/

venerdì 24 giugno 2022

Árstíðir - Tvíeind

#PER CHI AMA: Electro/Indie
Arrivano con la medesima ineluttabilità del tuono che segue il lampo, o del sorrisino che segue la scorreggia: prima i bagliori di visibilità internazionale e poi le roboanti collaborazioni, nello specifico con artisti della nuova electrowave islandese (Ruxpin e Kippi Kanínus) e russa (Iamthenorning, Veell). E, infine, l'inevitabile raccolta di reingegnerizzazioni musicali. Accade così che l'immaterialismo celtico di "Ljóð í Sand" trasmuti in un ipercinetico quasi-jungle mix con ampie aperture space-age, una sciamannanza da inizio '00, se ci pensate, o che "Lost in You" acquisisca certa iperdrammaturgia stile Anathema per pop-morbidirsi successivamente nella seconda parte, o ancora che "Days and Night" venga permeata da quell'elettronica glaciale da ?syntax-error che ricordavate nei primi dischi dei Sigur Rós, o infine che "Á Meðan Jörðin Sefur" (reinterpretata da una anodinica vocina femminile) e "Shades" acquisiscano, seppure in modi assolutamente differenti, certe sinestetiche sensazioni metereologiche poi ampiamente esplorate nel successivo 'Hvel'. Accade, sì. E non ci puoi fare niente. (Alberto Calorosi)

domenica 22 maggio 2022

Richard James Simpson – Sugar the Pill

#PER CHI AMA: Indie Punk Rock
Il terzo album di Richard James Simpson, cantante e chitarrista americano, un tempo parte fondamentale dei Teardrain, apre le porte verso il grande pubblico ad un artista visionario, innamorato della psichedelia e delle rasoiate di chitarra, quanto di quel sostrato industriale e sintetico, molto familiare negli anni '90. Il noise è il contorno, il loop che si ripete e rinnova, le voci distorte, l'indie rock alternativo, sporcato di punk rock e lisergiche sonorità, rendono questo 'Sugar the Pill' una gemma ruvida ma assai luminosa. Così ci appaiono davanti suoni di un tempo, come i Dark Star, quelli di 'Twenty Twenty Sound', prodotti da Steve Lillywhite nel 1999, nei brani "Starry Hope" e "We're in the Wolf's Mouth", mentre "Sleep" riporta un odore industriale molto forte, del resto come "Consensual Telepathy", che ritrova alcune atipiche sonorità sperimentate dai Godflesh in 'Us and Them', oppure ancora l'influenza della scuola sonora aperta dal venerabile 'Mezzanine' dei Massive Attack o dai NIN più moderati in maniera personale e ricercata. "Playing God" sembra una out-take sfuggita ai recenti Duran Duran per il suo mood dance alternativo, seguita da un brano lampo come "Whitney Said", che recita una litania in maniera criptica, prima dell'oscura e sperimentale base ambient di "Time, the River" che, con il suo carillon nel finale, ostenta fantasmi vicini ai Death in June più astratti. Da qui in poi l'opera prende una vena meno rumorosa e più ambient, la ballata triste di "Take it Back" e "John Can't Hero" ne sono gli alfieri con movimenti lenti ed ipnotici spostamenti, suoni rarefatti, sospesi che si materializzano e si espandono nell'aria sciogliendosi definitivamente e sfociando nella drammatica follia dei 101 secondi di "The Pink is Painless", un buco nero che perfora l'anima. Conclude la ballata "Love Become a Stranger", che sembra un brano di Richard Ashcroft arrangiato da un Julian Cope in una stralunata forma romantica. Il disco è pieno di collaborazioni importanti, e cito come da sito della band Gill Emery (Mazzy Star, Hole), Don Bolles (The Germs), Dustin Boyer (John Cale), Paul Roessler (The Screamers, Twisted Roots, Nina Hagen), Geza X (Geza X and the Mommymen, The Deadbeats), Grebo Gray, Wilton e Kaitlin Wolfberg. Sicuramente un album tanto interessante quanto disomogeneo nella sue composizioni che s'ispirano a molte sonorità diverse tra loro. Di certo possiamo dire che 'Sugar the Pill' ha un ottimo sound che rispolvera vere chicche di commistione tra chitarre lisergiche e ritmi ipnotico-ossessivi che furono un tempo la Bibbia musicale di una generazione. Composizioni diversificate e fantasiose, fondamentalmente cupe, a volte claustrofobiche, per un lavoro tutto da scoprire ed apprezzare in tutte le sue molteplici sfaccettature. (Bob Stoner)

(Rehlein Music - 2021)
Voto: 74

https://soundcloud.com/rjamessimpson

giovedì 5 maggio 2022

Carpet Waves - Inner Weapons

#PER CHI AMA: Post Punk/Alternative
La Germania continua a sfornare una dietro l'altra interessantissime band post punk, con il filone emerso dal movimento punk degli anni settanta, sempre più in ascesa. I Carpet Waves sono un quartetto originario di Düsseldorf che ci presenta questo EP di cinque pezzi intitolato 'Inner Weapons', che richiama ovviamente quello che fu il rivoluzionario sound esploso in UK a fine anni '70. E cosi i nostri irrompono con la trascinante "Biography" (da cui è stato peraltro estratto anche un video), che suona post punk al 100%, per poi ammorbidire la propria proposta con la più malinconica "Aura", e quel suo piglio shoegaze (Slowdive docet) con le vocals del bravo Benjamin ad evocare inevitabilmente Robert Smith (The Cure). Questa seconda traccia mi convince decisamente più dell'incipit del disco, vuoi anche per quel suo vorticoso giro di chitarra, cosi intenso ed evocativo. "Shadows" è un po' più scarna musicalmente anche se nelle sue ritmiche ritrovo, oltre che al post punk, anche un che di indie e brit pop, ma non fatevi ingannare troppo perchè il finale sarà tutto in discesa con distorsioni di chitarra e parti atmosferiche davvero interessanti. "Narrow Dream Factory" ha un piglio decisamente più dreampop e per questo non rientra proprio tra le mie favorite, sebbene il finale, ancora una volta, avrà modo di stupirvi per il relativo inasprirsi della sua sezione ritmica. In chiusura, la lunga "Void Wilderness" ci riconsegna quell'aspetto più malinconico osservato in precedenza, abbinato però all'alternative sound degli americani Dredg dei tempi di 'Catch Without Arms'. Insomma quello dei Carpet Waves è un interessante comeback discografico che vi mostrerà come il panorama teutonico sia vivo e vegeto più che mai. (Francesco Scarci)

(Waveland Records - 2022)
Voto: 72

https://carpetwaves.bandcamp.com/

sabato 23 aprile 2022

Gong Wah - A Second

#PER CHI AMA: Psych/Post Punk/Indie
Li abbiamo apprezzati un anno e mezzo fa quando i nostri uscivano con il loro album omonimo. Tornano oggi i tedeschi Gong Wah, forti di un nuovo lavoro all'insegna di quelle sonorità kraut rock, elettronica e fuzzwave che avevamo avuto modo di apprezzare nel debut. 'A Second' segna il passo del secondo capitolo per la band di Colonia che vede ancora l'evocativa voce di Inga Nelke dominare il palco. E la proposta dei Gong Wah la si apprezza sin dall'opener, cosi gonfia, cosi melodica e trascinante. "Heartache Jean" corre che è un piacere e noi con la fantasia proviamo a starle dietro. "The Well" nel suo incedere pop rock ci porta nel mondo fatato dei Gong Wah, dove il basso magnetico di Giso Simon si unisce al fare seducente di Inga. Le percussioni darkeggianti di Nima Davari aprono "Consolation", una danza ipnotica che non potrà non coinvolgervi nel suo mood non troppo distante pure dallo shoegaze, in un brano che ha una progressione splendida e violenta, che la identificherà alla fine di questo viaggio, tra i miei brani preferiti del lotto. Sofferenza pura per la minimalista "Baby, Won't You Come Along", tiepida e inconsistente però nelle sue zaffate droniche. Più votata al post punk con venature elettroniche invece "Paint My Soul", ancora una volta coinvolgente nelle sue note quasi danzerecce, con la voce di Inga qui sopra gli scudi. E si arriva al momento del pezzo più lungo e strutturato del disco, "One Fine Day", otto minuti di commistioni sonore tra elettronica minimalistica, IDM, kraut rock e qualche ulteriore sfumatura che solo ripetuti ascolti potrebbero palesare. Ma questo è un altro pezzo favoloso di questo 'A Second', un disco in grado di celare ancora piccole perle tipo l'irruenta e sbarazzina "The Violet Room Track". Più ritmata invece "This Life", ed è in questo genere di brani che vedo più "normalità" nella proposta dei nostri, anche se, ancora una volta la voce suadente di Inga, ravviva un po' il tutto. In chiusura la ninna nanna affidata a "A Head Is Not A Home", una ballata che chiude questo stimolante e sperimentale lavoro dei Gong Wah. (Francesco Scarci)

(Tonzonen Records - 2022)
Voto: 76

https://gongwah.bandcamp.com/album/a-second

lunedì 18 aprile 2022

Fooks Nihil - Tranquillity

#PER CHI AMA: Vintage Rock/Psichedelia
Recensiti dal buon Bob Stoner un paio di anni fa col disco di debutto omonimo, tornano in sella i teutonici Fooks Nihil e il loro sound iper vintage che ci porta a cavallo tra gli anni '60 e '70 con un sound che potrebbe fare da colonna sonora a "Sulle Strade della California" o "Le Strade di San Francisco", due telefilm di metà anni '70. Perchè questo pensiero? Ho immaginato una visione dronica della West Coast, delle sue strade e delle sue spiagge, e in sottofondo questi psichedelici brani che a partire dalla bluesy "Lovely Girl", cosi ammiccante i Buffalo Springfield, si muovono lungo gli undici brani di 'Tranquillity', evocando qua e là anche Crosby Stills & Nash e soprattutto i The Byrds, letteralmente proiettandoci indietro nel tempo di cinquant'anni. Quello dei Fooks Nihil non sembra assolutamente un album concepito oggi, ma sembra tuttavia una raccolta di inediti di alcune delle band sopraccitate. Se vi piacciono questo genere di sonorità, che chiamano in causa anche i Beatles ("Mangalitza") e gli Eagles ("C.A. Walking"), non potrete farvi mancare l'ascolto di questo lavoro decisamente old style. Il mio brano preferito? Non ho alcun dubbio, "Elain", con quel suo mood alla Bob Dylan e quell'assolo conclusivo da urlo. Menzione conclusiva per "Pictures of You", un brano dal rilassatissimo e forte "sabor latino" che incanta per quel suo scherzoso fare che mi ha evocato "Piranha" di Afric Simon. Si insomma, non propriamente un album da Pozzo dei Dannati, ma per una serata in allegria, 'Tranquillity' può andare alla grande. (Francesco Scarci)

giovedì 3 marzo 2022

Warpaint - Heads Up

#PER CHI AMA: Psych/Art Rock
Un'avveduta riproposizione degli acclamati languori sonici già sobillati nel lavoro precedente ma opportunamente (forse troppo/rtunamente) arricchiti di trame e substrati elettronici, vedi per esempio la kraut-bossa medialista di "Don't Wanna" o le distanze fatton-danzerecce di "So Good" o "Don't Let Go" e ancora la Bristol/izzazione diffusa un po' ovunque, ma soprattutto in apertura ("By Your Side" e "Whiteout"). Oppostamente, due elementi di continuità conducono l'ascoltatore nei paraggi del precedente, omonimo 'Warpaint': la progressiva riverberanza (leggi: sonnolenza) dei suoni e la (stra)ordinaria voce di Theresa Wayman, sempre (in)consapevolmente carica di sensualità ipnotica post-fattanza (in "Whiteout" soprattutto). Spregiudicatamente dream-poppy e save-a-prayeristico invece il singolo "New Song", soltanto apparentemente avulso dal contesto sonoro di quest'album dedito ad un psych art rock tutto al femminile. Un album che fareste bene ad ascoltare in cuffia mentre aspettate l'alba strafatti di mescalina, gambe penzoloni, seduti su un molo di legno proteso nell'Oceano Pacifico. (Alberto Calorosi)

(Rough Trade - 2016)
Voto: 68

https://www.facebook.com/warpaintwarpaint

domenica 6 febbraio 2022

Mona Kazu – Steel Your Nerves

#PER CHI AMA: Dark/Post Wave
Esce per il trittico Falls Avalanche Records/Urgence Disk/Atypeek Music il nuovo album di questo ottimo duo transalpino e vista la generosità della proposta, possiamo dire che il salto quantico dei Mona Kazu è avvenuto nel migliore dei modi e assolutamente in una forma splendente, luminosa, quasi accecante. L'evoluzione è impressionante, la voce di Priscilla Roy è divenuta possente, autoritaria, sognante, tesa, inquietante, protagonista e, brano dopo brano, si snoda tra i richiami canori di vocalist strepitosi e diversi tra loro, come Bet Gibbons o Kim Gordon, oppure, per la sua estensione vocale Ann–Mari Edvardsen dei mitici The 3rd and the Mortals o Rachel Davies degli Esben and the Witch. Ad una gran voce va equiparata una solida e credibile musica, che faccia incetta di tutto il background di una band che è in attività da più di un decennio e che sperimenta da sempre con generi opposti tra loro, trip hop, post punk, elettronica, rock alternativo e jazz d'avanguardia che, uniti solo per attitudine vocale e non per stile musicale, alle atmosfere cupe degli Avatarium (quelle più acustiche) della magica Jennie–Ann Smith, formano l'attraente stato sonoro degli attuali Mona Kazu. Aggiungete un velo mistico nel ricordo della compianta Andrea Haugen (Aghast/Hagalaz' Runedance) e avrete un quadro completo su cui valutare un'opera splendida, che dovrebbe essere osannata da tutti i cultori di musica alternativa. Un disco maturo e adulto che proietta la band in un emisfero magico, surreale, un altro mondo sonoro, etereo, riflessivo, affascinante. Franck Lafay che si occupa della musica ed è l'altra parte del gruppo. Da sempre i Mona Kazu si presentano come duo, ma questa volta si sono avvalsi anche della collaborazione esterna del bravo batterista/percussionista, Règis Boulard. Per il resto, l'ottimo mastering di Mathieu Monnot (Eyemat), ha consolidato la formula sonora perfetta per questo mix di generi, districandosi alla perfezione, tra bassi profondi, suono cameristico, post rock, teatralità e avanguardia, forgiando la variegata anima sonora di un album dal cuore dark, che in ogni sua canzone lascia senza respiro l'ascoltatore. Che i Mona Kazu avessero ottime qualità era indubbio da tempo, ma questo nuovo lavoro supera tutte le aspettative. Difficile trovare la miglior canzone, forse l'oscurità di "Birds" o il riff alla Sonic Youth di "Porto Twins" con la sua evoluzione trip hop ed il fantastico intermezzo avantgarde jazz, il buio romantico e futurista di "Troubles" che nel suo progredire riporta alla mente la natura musicale classica, drammatica e teatrale de "La Tristesses de la Lune", il brano dei Celtic Frost. Il fatto è che questa coppia di musicisti è riuscita a creare un vero e proprio capolavoro, una scatola magica di suoni e stili rimescolati tra loro in maniera magistrale, senza rinunciare al taglio underground, esaltando e innalzando le proprie qualità alla massima potenza espressiva, dando vita ad un album imperdibile che considero, a tutti gli effetti, una delle migliori uscite del 2021. (Bob Stoner)

(Falls Avalanche Records/Urgence Disk/Atypeek Music - 2021)
Voto: 88

https://fallsavalancherecords.bandcamp.com/album/steel-your-nerves

mercoledì 5 gennaio 2022

Closure in Moscow – First Temple

#PER CHI AMA: Indie/Prog Rock
Poco tempo fa avevamo presentato la ristampa, ad opera della Bird's Robe Records, dello splendido primo disco di questa band australiana, amatissima in patria e capace con questo secondo album intitolato 'First Temple', di arrivare al primo posto in classifica, come miglior album nella categoria hard rock/punk indipendente, agli AIR awards del 2009. La band alla fine del 2008, si sposta in blocco negli Stati Uniti per continuare la fruttuosa collaborazione con il produttore Kris Crummett, che già nel precedente, 'The Penance and the Patience', aveva dato alla luce un ottimo debutto per la giovane band di Melbourne, che in questo modo rinvigorisce il proprio sound, aumentando il cast degli strumenti usati e la qualità di produzione, per un lavoro che risulterà più elaborato, levigato al meglio, meno spigoloso e più accessibile, coloratissimo come la sua splendida copertina, variegato e di moderna visione, un mix perfetto per non passare inosservati e creare una sorta di marchio di fabbrica definitivo per i Closure in Moscow. Un modo di vedere il prog rock contaminato da visioni psych, hard rock, indie punk, con suoni caldi e profondi, voci che incantano e una timbrica sempre pulsante. L'intensità della musica, che in tutte le sue diversità di stile, viene proposta e sviluppata ovunque nel modo migliore, mostra una capacità di esecuzione e di composizione al di sopra della media (ascoltatevi "Afterbirth" e ditemi cosa ne pensate!). Una proposta musicale che non mostra lacune, che si fa ascoltare a tutto tondo senza perdere mai lo smalto, brano dopo brano, ed anche se il suo aspetto risulta essere evidentemente volto al mainstream, niente lo rende banale o derivativo, anche oggi che ha superato il decennio di vita dalla sua prima uscita, via Equal Vision Records e Taperjean Records nel 2009. I richiami sono al solito rivolti ai The Mars Volta, ai Coheed and Cambria e ai Pain of Salvation, avvolti da un'aurea di indie intelligente e fresco alla Byffy Clyro (stile 'Infinity Land'), ma tutto filtrato dall'amore per il prog rock dei seventies ed il virtuosismo acrobatico spalmato all'interno delle coloratissime composizioni, in perfetta sintonia con la classe della band di Claudio Sanchez e soci. Fa scuola il brano "Arecibo Message", una canzone dalle potenzialità enormi. Un disco che all'ascolto risulta accessibile ma assai complicato, divertente e sofisticato allo stesso modo, un album pretenzioso, anche a livello stilistico (non tutti si possono permettere un brano in acustico come "Couldn't Let You Love Me"), ma studiato con un sound fresco ed evoluto, per essere ascoltato con facilità e valutato come un piccolo gioiello, anche dopo numerosi ascolti, un album che supera a pieni voti le aspettative degli amanti del genere. Album da non perdere assolutamente. (Bob Stoner)

martedì 14 dicembre 2021

Closure in Moscow - The Penance and the Patience

#PER CHI AMA: Prog Rock
L'etichetta australiana Bird's Robe Records, si prende la licenza di riportare sul mercato mondiale un assoluto capolavoro, uscito per la prima volta nel lontano 2008, opera dei Closure in Moscow, band originaria di Melbourne, un progetto musicale che più volte fu premiato in patria per meriti artistici (ricordo che il loro ultimo album risale al 2012). La label di Sidney, con una copia cartonata dall'artwork magnifico, completa di note informative e libretto interno, rimette in circolo questo gioiellino intitolato 'The Penance and the Patience', che altro non è, che il primo lavoro di studio dell'act australiano. Difficile dare un' identità alla musica dell'album, vista la quantità di spunti e richiami musicali contenuti in questa opera. Possiamo però dire che al primo ascolto ci si rende conto che il quintetto s'intrufola naturalmente e assai bene, tra le movenze stilistiche in voga tra band del calibro di Coheed and Cambria, (con cui hanno anche suonato live), The Mars Volta e i vari progetti di Omar Rodríguez-López, risultando a tutti gli effetti discendenti accreditati di quel modo di intendere il progressive rock che fece emergere lo stile incontrastato degli Yes tra la fine dei '60 e l'inizio dei '70. Una linea invisibile li unisce alle band citate per qualità e virtuosismo tecnico espresso attraverso composizioni che non conoscono limiti, che tendono ad unire la maestosità di certo classic rock dei seventies, il gusto e la complessità di alcuni brani ricercati del passato in bilico tra powerflower e prog rock, l'impatto del punk alternativo alla At the Drive In e Pedro the Lion, con una velata vena da musical nello stile dei the Dear Hunter connesso con l'estrosità dei Leprous di 'Malina'. 'The Penance and the Patience' diventa cosi un album dirompente fin dalle prime note dell'iniziale "We Want Guarantees, Not Hunger Pains", che mostra subito un impatto duro ma controllato e una splendida forma moderna, di intelligent rock, pieno di cose pregevoli, pensate da ottimi musicisti, cercate ed apprezzate anche dagli ascoltatori più esigenti. I Coheed and Cambria sono sempre dietro l'angolo, come i The Mars Volta del resto, ma i Closure in Moscow riescono a mantenere una propria personalità che li contraddistinguerà anche nelle release successive, con ulteriori sbocchi verso lidi più pop, aggiungendo anche qualche gingillo elettronico qua e là, senza perdere mai di vista la loro sanguigna vena da progsters incalliti, con il gusto per l'AOR e l'hard rock dei mostri sacri di un tempo. Cos'altro dire, "Dulcinea" apre il cuore di tutti i rockers con la sua potente ariosità, "Breathing Underwater" è una sperimentale carica di dinamite e "Ofelia... Ofelia" con quel suo piano sullo sfondo e la sua indole cosi triste, sinfonica e psichedelica, è a dir poco adorabile. Certamente siamo di fronte ad un disco di tutto rispetto e di ottima produzione, stilisticamente impeccabile, tecnicamente virtuoso e sorprendentemente aperto a qualsiasi tipo di ascoltatore, pur trattandosi di un vero e proprio disco prog rock di moderna fattura. Un album da ascoltare per credere, un disco da non perdere, visto che la Bird's Robe ci offre questa seconda chance di metterlo tra gli scaffali delle nostre raccolte migliori. L'ascolto è assolutamente consigliato per riscoprire la sua grande bellezza artistica. (Bob Stoner)

Pluto Jonze - Awe

#PER CHI AMA: Indie/Alternative/Psych Pop
Pluto Jonze è un produttore, songwriter e performer proveniente da Sydney, innamorato della psichedelia quanto del pop che si diletta da circa un decennio, a sperimentare melodie e intrugli sonori, che spaziano tra idee prese in prestito al buon John Lennon ad un certo glam di stampo Marc Bolan/Elton John, passando per lo strano mondo di Wayne Coyne e compagni, giocando con la psichedelia, cogliendo a tratti, nella sua musica, atmosfere e modi di fare tipici, proprio dei The Flaming Lips più elettronici e solari. C'è un certo modo di riscrivere il pop con gusto e classe, che mi ricorda anche le gemme dei britannici The The, magari quelli di 'Soul Mining' del 1983, riveduto e corretto con gli accenti del moderno verbo e tutta la tecnologia della odierna musica elettronica, con velate parvenze dance e lontanamente anche soul. Bisogna ammettere che il singolo "Rumschpringe" è un brano stratosferico, carico di luce pop in tutte le sue forme, e meriterebbe la vetta di molte classifiche mondiali, con un ritornello perfetto da cantare a squarcia gola con una vena ipnotica e vagamente corale, un brano molto solare. "Moonmaking" si destreggia in un cantautorato molto vicino al soul elettronico con bassi profondi e melodie ammalianti. Proseguendo nell'ascolto di 'Awe' posso confermare essere un disco di ottima fattura, peculiare nella sua produzione dove si nota peraltro un gran lavoro nella ricerca delle sonorità usate, un bel prodotto che risulta al contempo, assai orecchiabile e radiofonico, pur mantenendo sempre un legame solido con il mondo del pop d'autore di buona caratura. Il loop di violino inserito nel contesto di una struttura soul, come accade nella title track, è un marchio di fabbrica per l'autore australiano che si inserisce a forza in un contesto governato da ottimi artisti del calibro di Saint Vincent e la K.D.Lang di 'Invincible Summer', dopo essere uscita indenne dagli scontri della Yoshimi Battles The Pink Robots. Niente male il classicismo space di "Walk Off the Edge With Me", e gli arrangiamenti beatlesiani, riletti in chiave moderna, di "I'll Try Anything", ed interessante è la particolare voce quasi da figlio dei fiori, cosi visionaria e astratta, di Pluto Jonze, che canta e suona quasi tutto, in tutte le canzoni, aiutato solo da pochi intimi amici musicisti. Il disco va a chiudersi dopo "New Morning High" con il romantismo di "Blue China", completando una carrellata di brani decisamente ben ragionati e costruiti per rimanere nella memoria dell'ascoltatore, trasportandolo in una realtà di sogno e allucinazione pop di tutto rispetto. (Bob Stoner)

domenica 5 dicembre 2021

Árstíðir - Live in Dresden 2013

#PER CHI AMA: Indie/Folk
Registrato nella secentesca Dreikönigskirche, una (mica tanto) pittoresca chiesolona situata nel centro di Dresda, nel corso del minitour in supporto di 'Svefns Og Vöku Skil', questo eccellente live di soli trentuno minuti beneficia oltremodo del riverbero acustico caratteristico dei luoghi di culto che assurge a una sorta di amplificatore emozionale del suono, tanto nei momenti più intimi ("Orð Að Eigin Vali" e "Days and Nights") quanto nelle più ardimentose galoppate interiori ("Á Meðan Jörðin Sefur" o lo straordinario medley "Shades / Tárin"). Niente preti dei miei stivali, niente sermoni, ostie da benedire né fedeli da intimorire. Sei canzoni derivanti dal già citato 'Svefns Og Vöku Skil', una dal precedente 'Árstíðir' e una dal successivo 'Verloren Verleden'. Senz'altro il modo più logico e moderno di utilizzare una strabenedetta chiesa. In chiusura, una fantasiosa versione a cappella del tradizionale islandese "Heyr, Himna Smiður" registrata nella stazione dei treni di Wuppertal, il cui video raggiungerà una certa, inspiegabile, web-virulenza. (Alberto Calorosi)

venerdì 3 dicembre 2021

Lo-fi Sucks! - Loud, Fast, Shut Up!

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Indie Rock
Non cambiano di tanto le prospettive sonore nell'ultimo, post/umo 'Loud, Fast, Shut Up!' (registrato nel 2004 e pubblicato sette anni dopo, tra l'altro solo su vinile). La ortoriflettente "I Won't Complain" accarezza per quasi tutto il tempo il post-pop alla Deus, prima di annientarsi in una luce dissonante che vi ricorderà forse i Talk Talk imperscrutabili di "Ascension Day". Ritroverete quei caratteristici arpeggi climatici qui e altrove, per esempio in "Return of the Son of Orange", o in "No Taste", sognante esempio di classic-post-rock italiano adorante Lou Reed. Reciprocamente, il fattonz-punk di "Fat Butterfly" vi riporterà dalle parti di quel Lou Reed sognante adorato dal classic-post-rock italiano. "Know Your Orange!" è splendidamente electropunk nei modi, per esempio di una "Mimporta Nasega" (CSI). La riproposizione krautronica di "Rats from Strasbourg", invece, è un esecrabile eresia meritevole soltanto di inquisizione spagnola. Breve tour promozionale nel 2011 e poi più niente, fino a oggi compreso. Peccato. (Alberto Calorosi)

lunedì 15 novembre 2021

The Decemberists - Florasongs

#PER CHI AMA: Indie/Folk
Se non fosse che Colin Meloy abbia candidamente dichiarato che questo 'Florasongs' rappresenti nient'altro che una manciata di outtakes di 'What a Terrible World, What a Beautiful World', questo EP suonerebbe alle vostre orecchie proprio come una manciata di outtakes di 'W-A-T-W'. Non è così, naturalmente, ma solo per causa della vostra innata bastiancontrarietà. Impossibile individuare incompatibilità tematiche, come invece accadde per l'EP 'Long Live the King' successivo a 'The King is Dead', dal momento che 'W-A-T-W' non è un concept. Troverete invece una manciata di canzoni altrettanto limpide, scartate da 'W-A-T-W' forse solo perché troppo simili ad altre ("Why Would I Now?"), oppure troppo differenti ("Fits & Starts"), oppure ancora perché troppo a metà strada tra il troppo simile e il troppo differente ("Stateside"). Cinque canzoni, diciannove minuti: una facciata di vinile. Prendete dallo scaffale la vostra copia di 'W-A-T-W', estraete il secondo vinile, quello con il lato B serigrafato invece che inciso. Bene, ora ascoltate questo 'Florasongs', interrogandovi nel frattempo sul significato di tutto ciò. (Alberto Calorosi)

(Capitol Records - 2015)
Voto: 68

http://www.decemberists.com/

venerdì 29 ottobre 2021

Piet Mondrian - #Di Che Stiamo Parlando

#PER CHI AMA: Indie Rock/Synthwave
Di che stiamo parlando quando parliamo di tecnopop? Il neoplasticismo musicale ostentato dai Piet Mondrian compie un percorso sonoro indubbiamente identitario. Synth/etismi rettangolari e quel caratteristico vocione nuovoromantico estetizzante in bocca a chiunque (tranne Battiato) trovasse il coraggio di collocarsi davanti a un microfono nei primiottanta. Battiato, già. Quello di 'Passaggi a Livello', più precisamente quello della sequenza di quadrisillabi in chiusura, ritrovato nei finali strampalati di "Canetti", "Rumore Bianco", ma anche e soprattutto "Tu Sei il Paradiso" (fate un confronto con "Listening Wind" dei Talking Heads). Quello più alchemico di 'Gommalacca' e 'Ferro Battuto' per via della profondità quasi ambient conferita ai suoni. Quello delle citazioni, disseminate in giro come origano sulla pizza ("Canetti", "Rai 5", "Fosteruollas" o i monologhi di "Derrida"). Battiato soprattutto, ma anche Garbo, i Talking Heads, gli Ultravox, i Bauhaus. I CSI. (il singolo "Un Dio Ovunque"). Qualcuno ha individuato il barrito di "Immigrant Song" (Led Zeppelin) in "Tu Sei il Paradiso"? No? (Alberto Calorosi)

(Borgo Allegro - 2017)
Voto: 75

https://www.facebook.com/pietmondrianband/

lunedì 25 ottobre 2021

Haley Bonar - Impossible Dream

#PER CHI AMA: Indie/Folk/Alternative
Un seducente eppure calibrato dream-folk più ("Jealous Girls" – insinuantemente lennoniana, non trovate?) o meno ("Hometown") sonnolento quello della cantante americana di nascita canadese che risponde al nome di Haley Bonar. Forse dalle parti di una Hope Sandoval che s'infila i calzettoni di lana; più ("Kismet Kill") o meno ("Called You Queen") rugginoso, più o meno alla Courtney Love che cerca il barattolo della schiuma da barba. Potreste individuare qua e là un certo fattonz-pop ultramodaiolo tipo Warpaint, specie nei momenti maggiormente guidati dall'elettronica: i Radiohead apotropaici di "I Can Change", i War on Drugs nello spremiagrumni di "Stupid Face". Prestate poi attenzione alla (eccellente) produzione, soltanto apparentemente semplice eppure sovente risolutiva e, spesso, riverberante (prendete ad esempio "Your Mom is Right" o ancora "I Can Change"), a conferire una profondità sonora inaspettata, soprattutto in cuffia. (Alberto Calorosi)

(Gndwire/Memphis Industries - 2016)
Voto: 75

https://haley.bandcamp.com/album/impossible-dream

venerdì 3 settembre 2021

Miles Oliver – Between the Woods

#PER CHI AMA: Indie Folk Rock
Cantautore e poeta parigino abituato a fare tutto da sé (armato di chitarre acustiche ed elettriche, piano e loop station) e a dividere il palco con nomi del calibro di Shannon Wright, Wovenhand e Be Forest, Miles Oliver è al suo quarto album, al solito registrato in proprio, in perfetta solitudine. Pare che 'Between the Woods' sia nato al ritorno da un tour di settimane negli US e che abbia visto la luce inizialmente come libro, una sorta di diario del tour corredato da fotografie e poesie che hanno poi originato le 12 canzoni racchiuse qui dentro. Fedele al motto che “l’importante è la canzone, e non il modo in cui si presenta”, i 12 brani si susseguono scarni e scarnificati da un lavoro di sottrazione che lascia ben poca carne attaccata ad uno scheletro fatto di chitarre acustiche, talvolta doppiate dall’elettrica raramente accompagnate da un piano elettrico, un basso o una drum machine altrettanto essenziale. Il risultato, lungi dell’essere minimamente originale, è comunque sincero nel mostrare le proprie fragilità attraverso una voce stridula che ricorda vagamente quella del compianto Vic Chesnutt, e interessante nel suo voler offrire un’affresco che, nelle parole dell’autore, rappresenta la sue personale visione della cultura americana. Dalle radici folk blues dell’iniziale "Save Me" (dove la voce non è sorretta da strumenti) alle menti alienate di "Deamontia", fino alla vendetta di una donna oppressa di The Song I hate, unica concessione ad un rock più o meno rumoroso, il lavoro si dipana attraverso bozzetti acustici ("Last Time"), fino all’immancabile dedica a Kurt Cobain di "Myberdeen" e la danza dolente di "This is a Lie", screziata di elettronica povera, che chiude con la giusta dose di malinconia un lavoro di ottimo artigianato. E se è vero che le canzoni non sempre lasciano il segno, Miles sembra sincero nel mostrarci il suo mondo, e l’impressione è che possa dare il meglio sé nella dimensione live. (Mauro Catena)

giovedì 26 agosto 2021

Belvas - Roccen

#PER CHI AMA: Indie Rock
Dal nome e dall'artwork di copertina di questa band comasca mi aspettavo qualcosa di molto più aggressivo, violento, ruvido e sotterraneo. Tradendo le mie aspettative, la band lombarda qui al suo debutto, spiazza tutti i presenti, suonando un rock italianissimo, con venature blues incastrate a soluzioni tipiche della tradizione rock alternativa tricolore dell'ultimo trentennio, con l'aggiunta di suoni e idee rubate un po' qua e là, tra i grandi classici dei 70s e un pizzico della canzone d'autore del bel paese. Mostrano un buon sound i Belvas, a volte un po' di maniera, che quando è più sporco, forse incalza di più e stimola un piacevole ascolto, con il basso che corre libero e distorto. La ricerca poetica nei testi, sincera e ispirata, anche se a tratti ancora acerba e cosparsa di una forzatura pseudo maledetta, sembra talvolta fuori luogo per il trio lumbard. Mi sembra ovvio far cadere paragoni a pioggia, tra Afterhours e Il Santo Niente dell'ultimo periodo oltre a richiami più morbidi tra Estra, Negrita e Negramaro d'annata. Questo non deve essere frainteso come una nota dolente anzi, il tocco di orecchiabilità diffusa li rende per certi aspetti anche più originali di tanti altri lavori simili. Dopo tutto la band dimostra una grande voglia di originalità che a volte li avvicina a certe soluzioni musicali dei Verdena meno sperimentali. Con una produzione più ruvida, diciamo più vicina al suono di 'Birdbrain' dei Buffalo Tom, li avrei apprezzati anche di più, sebbene debba ammettere che il disco è ben fatto e ben suonato. Un sound più aggressivo, più abrasivo, si poteva anche rischiare (la parentesi funk del brano "Disco B" non la concepisco, per quanto sia carina come esperimento) e sono convinto che avrebbe calcato la mano sul lato più rock dei Belvas, e con i disarmanti Maneskin che spopolano ovunque, sarebbe stato interessante avere come contraltare in patria, una vera rock band, più sana, polverosa e sanguigna. L'insieme dei brani di 'Roccen' ha comunque dato i suoi frutti, creando un lungo lavoro che supera i 70 minuti (cosa molto insolita ai giorni nostri), con tanti brani variegati ed interessanti, tra cui "Bianco", "Niente Dentro Me", ed il singolo "Voci di Pietra", che mostrano un buon futuro per questo power trio, capitanato da una voce di tutto rispetto ed una chitarra che a volte esce dalle composizioni con tanto gusto armonico e fantasia. Il mio umile consiglio è di puntare ad ingrossare il sound e modularlo sulle corde di una sorta di post-grunge modellato sullo stile italiano, come fecero un tempo le band sopraccitate, che hanno dato molto a questo paese caduto in miseria musicale da tempo. Gli ingredienti ci sono tutti (ascoltate "Spaziale" per credere), basta correggere il tiro ed inasprire quei suoni che mancano da un po' nella scena rock italiana (magari una sterzata sonica verso certa nuova scena stoner rock europea potrebbe dare ulteriori benefici ed anche riascoltare vecchi e nuovi gioielli de Il Santo Niente) per salire di tono e dare una personalità ancora più forte a questo promettente giovane trio di casa nostra. (Bob Stoner)

lunedì 19 luglio 2021

Amusement Parks on Fire - An Archaea

#PER CHI AMA: Shoegaze/Alternative/Dream Rock
Ci hanno impiegato ben 10 anni a tornare sulle scene i britannici Amusement Parks on Fire, dopo il successo ottenuto con 'Road Eyes'. La band di Nottingham si era fatta notare da Geoff Barrow dei Portishead che ne aveva promosso il debut nel 2004. Poi il secondo disco l'anno successivo, il già citato 'Road Eyes' nel 2010 ed infine il lungo silenzio rotto prima dall'EP 'All the New Ends" nel 2018 e da 'An Archaea', il nuovo album. Un altro disco un po' border-line, diciamoci la verità, per quanto siamo abituati a pubblicare qui nel Pozzo, nonostante il medesimo venga etichettato come shoegaze, indie rock, ma forse l'etichetta più corretta sarebbe dream pop. Diciamo che per come si presenta l'opener "Old Salt", con quelle sue morbide chitarre e quei vocalizzi ancor più eterei, non è che mi abbia del tutto entusiasmato. Si certo, ci sono echi che riportano a Slowdive e My Bloody Valentine, le chitarre mostrano tratti di una certa rudezza, ma la voce di Michael Feerick non mi fa affatto impazzire. I nostri sembrano irrobustire la propria proposta con la successiva "No Fission", ma è solo una parvenza legata alle chitarre inizialmente più tirate, ma non appena la voce si palesa, si placa anche tutto il comparto ritmico, non offrendo mai uno spunto realmente vincente. "Diving Bell" è un intermezzo strumentale propedeutico a "Breakers", che si apre con una bella botta di batteria in stile Dredg ai tempi di 'Catch Without Arms', tema percussivo che si ripropone a più riprese in un brano sostellato da fraseggi post rock. "Aught Can Wait" esalta i vocalizzi onirici di Mr. Feerick e a quel punto mi convinco che i nostri si possano solo amare o odiare e se non si entra in sintonia con la voce del frontman, il rischio di odiarli si fa assai probabile. Tuttavia, rimango stupito qui da un comparto chitarristico fuori dagli schemi, disarmonico e imprevedibile che mi consente di guardare la band sotto una luce diversa e forse apprezzarli per quello che non ho sentito fino ad ora. Sembra quasi iniziare un nuovo disco per me da questo brano in poi che sembra scomodare anche un che dei Radiohead più sperimentali, in quella che comunque è per me la migliore canzone (forse anche la più chiassosa) del lotto. Un altro strumentale di raccordo all'insegna del noise pop, ed è tempo di "Boom Vang", la song da cui è stato estratto il video di promozione per il disco: bel riffing introduttivo, voce di Michael a prendersi la scena, e la sei corde a costruire psichedelici riff su tempi dispari, quasi a voler dimostrare che oltre al cuore ci sia anche una buona dose di tecnica in queste note. Certo, non tutte le tracce escono col buco e la malinconica "Atomised" alla fine rientra tra i punti deboli del disco. La band inglese prova a risollevare le sorti con la title track ma si tratta di un pezzo molto, ma molto pop, quasi un tributo ai Beatles, complice anche quel pianoforte di accompagnamento che in realtà non fa mai decollare il brano. Ultima traccia affidata alle note soffuse di "Blue Room" che chiude in modo un po' troppo scontato un disco che francamente mi sarei aspettato di ben altro spessore. Lo dicevo che gli Amusemet Parks on Fire si amano o si odiano, e mi sa che io rientro nella schiera dei secondi. (Francesco Scarci)

Voto: 63

Gli Amusement Parks On Fire (APOF) sono una vecchia conoscenza in ambito shoegaze e post rock. Prodotti per la prima volta nel 2005 da Geoff Barrow dei Portishead, sono attivi fin dal 2004 con una certa continuità fino al 2010, anno in cui la band inglese decide di prendersi una lunga pausa musicale. La band capitanata da Michael Feerick (voce e chitarre) ha forgiato la sua forza compositiva attingendo al sound di band come My Bloody Valentine, Swervedriver, The Boo Radleys ed ha continuato a farlo con ottimi sviluppi e risultati fino ai giorni nostri. Gli APOF sono da considerarsi un esempio di coerenza stilistica, poiché la loro formula, all'interno di un genere che oggi non è più in voga ed è considerato un culto per pochi estimatori dal mainstream, risulta ancora fresca e ispirata come ai fasti di un tempo. Il risveglio creativo del 2017 ha portato buoni frutti e probabilmente questo nuovo disco dal titolo 'An Archea' (titolo che dovrebbe aver a che fare con le molecole di energia in chimica) è forse il lavoro che racchiude il succo delle produzioni precedenti, ottime prestazioni soniche fatte di lisergiche distorsioni, solarizzate all'inverosimile, affascinante noise pop colorato, psichedelia e visioni rarefatte, un caleidoscopio di emozioni tenui, momenti di ipertensione e melodica, rumorosa allucinazione, combinate nella dovuta maniera ad un istinto post rock, e degnamente accompagnate, da un canto tenue dal chiaro sapore '90s, tra Ride, MBV e The Boo Radleys appunto. Le chitarre ammalianti rimangono in primo piano e se nei primi due brani d'apertura il ricordo cade implacabile sulla falsariga di Medicine, Swirlies e MBV, in "Diving Bell" le cose si arricchiscono di dettagli spostando il tiro su sonorità post rock/ambient più complesse e ricercate, verso territori luminosi che furono un tempo dei Sigur Ross, tra feedback e astratti sonori che indispettiscono e rendono teso anche il mood soffice di questo brano per accompagnare di seguito, l'ottima quarta traccia, "Breakers". Si prosegue con una veste pop e luminescente associata a degli assalti chitarristici rumorosi ed inaspettati per tagliare il candore splendente di "Aught Can Wait". Da sottolineare, con nota di merito, la cura e la ricerca sulle sonorità perfettamente in equilibrio dell'intero disco, promotrici attive del miglior sound possibile per questa band. "Gamma" è una fuga ambient sperimentale, con un velo sottile di "The Flamming Lips" al suo interno, di due minuti e mezzo che apre alla deflagrante "Boom Vang" (altro brano delizioso), che continua la proverbiale ascesa verso l'infinito degli APOF, divisa tra rumore, romanticismo e sospensione ipnotica, con una trama fatta per spiccare il volo verso i cieli più lontani. "Atomised" è un brano sospeso tra psichedelia e new wave con echi di certe trovate raffinate degli ultimi lavori dei The Church, mentre per la canzone che dona il titolo all'intero lavoro si aggiungono ritmi e coretti a più voci di stampo beatlesiano che distraggono un po' lo sguardo dalla distorsione lisergica tipica della allucinata aura compositiva della band di Nottingham. "Blue Room" conclude la carrellata di tracce dall'atmosfera morbida ed è forse assieme alla precedente, la più delicata del disco. Alla fine si rimane sorpresi dalla qualità musicale di quest'album, dal carisma dei suoi brani, dalla sua freschezza compositiva, dall'ipnotico splendore delle sue canzoni, un estratto di musica pop e psichedelia che non tutti apprezzeranno di questi tempi, ma che darà molte soddisfazioni ad ascoltatori appassionati ed attenti come il sottoscritto. (Bob Stoner)

giovedì 15 luglio 2021

Neumatic Parlo - Random Toaster

#PER CHI AMA: Indie Rock/Shoegaze, Radiohead
Già celebrati lo scorso anno dal buon Bob Stoner in occasione del loro debut 'All Purpose Slicer', tornano in sella i teutonici Neumatic Parlo con un EP nuovo di zecca, 'Random Toaster'. Cinque song per saggiare lo stato di forma dei nostri dopo questo anno e mezzo di follia pandemica. Devo ammettere che i cinque di Düsseldorf non se la passano affatto male, proponendo sempre quel concentrato di indie garage rock, che ammicca, sin dalle note dell'iniziale "Real Insight", ad un che dei Radiohead, qui rivisti in una versione più psichedelica ma pure punkeggiante, esplicato nelle note pulsanti di quel basso strappa applausi. Un po' come il battito del cuore, sorretto da un elettronico pacemaker, il sound del quintetto tedesco mi acchiappa che è un piacere, facendo fluire sotto la mia pelle piacevoli ed inebrianti sensazioni che arrivano a toccare l'apice in quella sorta di assolo conclusivo. Assai sperimentale invece "Nicolas Winding Refn", ma essendo un tributo all'omonimo e geniale regista danese divenuto famoso per il film 'Drive', era lecito aspettarselo. Andatevi a vedere il film e magari nel frattempo ascoltatevi un brano che, almeno nella prima metà, suona quasi surreale con quelle percussioni in primo piano, in compagnia della voce del bravo Vincent Göttler e un sottofondo noise al contempo sognante. Molto più orientata a velleità shoegaze/post punk, la terza "Lake Perris State Recreation Area", grazie a quella sua malinconica atmosfera su cui poggia la ritmica cadenzata dei nostri con la voce di Vincent qui in versione più straziante. Più classica e forse ancorata ai primi Radiohead, ma ancor prima ai The Smiths, la quarta "Ghost", francamente il pezzo che alla fine meno mi ha colpito, perchè privo di quella vena di originalità riscontrata nei precedenti brani. Tuttavia, nella seconda parte il brano si riprende ed è un crescendo emotivo alquanto affascinante. In chiusura, la lunghissima "Airplane", quasi dieci minuti di musica che aprono con le ambientali sonorità che strizzano nuovamente l'occhiolino a 'Kid A' dei Radiohead, per poi virare verso ipnotici giri di chitarra e litanici vocalizzi, e decollare infine in un crescendo chitarristico che ci porterà fino al termine di questo ottimo lavoro, secondo interessantissimo biglietto da visita di questi Neumatic Parlo. (Francesco Scarci)