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sabato 23 gennaio 2016

Lifestream - Post Ecstatic Experience

#PER CHI AMA: Black Atmosferico, Emperor, Dissection
Ancora Francia, ancora Les Acteurs De l’Ombre Productions, nella sublabel Emanations, ancora black metal di classe, questa volta con i malatissimi Lifestream e un sound oscuro come la pece, che non fa prigionieri. Una tempesta di metallo nero che si abbatte sulle nostre teste attraverso nove pezzi che, pur non inventando nulla, colpiscono per quell'insana melodia che i cinque musicisti di Bordeaux sono riusciti a creare e infondere con questo 'Post Ecstatic Experience'. Dicevo nove pezzi per la versione in cd, nella tape ne troverete invece sette. Il disco apre con la mefitica e breve "Introspective Maze" che prepara a "An Unfathomable Dereliction" che irrompe a gamba tesa con un riffing serrato contrappuntato da ottime melodie che potrebbero evocare i fasti di un passato glorioso dello Swedish black dei Dissection unito all'intransigente sound di Deathspell Omega o le estranianti melodie dei Blut Aus Nord. In Francia il black è di casa e ha ormai soppiantato quelle nazioni nordiche che hanno dato le regali origini al genere. I Lifestream sono l'ennesima band partorita dai cugini transalpini, che propongono una nuova rilettura di una musica che non ne vuol sapere di passar di moda. Non stupitevi quindi delle fosche melodie di "Lifeless Solace" che rievocano gli Emperor nelle loro parti più atmosferiche. I cinque galletti sanno quello che fanno e lo fanno davvero bene, segno che la LADLO Productions ha avuto ancora una volta l'occhio lungo. "Parasite Glory" è un pezzo che unisce saggiamente la violenza del black con alcune partiture heavy, e un vocalist che offre una componente vocale più improntata al growl che allo screaming. Gli spettri del sound scandinavo dei primi Dimmu Borgir, di Samoth e compagni, e tutta la combriccola inclusa nella seconda ondata black di metà anni novanta, rivive in questa traccia, in cui rallentamenti doom e suggestioni horror, la identificano come la mia song preferita del disco, soprattutto considerati i suoi lunghi 10 minuti di durata. Se "Celestial Scourge Subjugation" strizza l'occhiolino ai Ved Buense Ende per le sue disarmoniche chitarre, "Sad Thoughts Overdose" colpisce per il malinconico feeling sprigionato dalle sue ancestrali melodie. Il disco scivola via offrendo una certa fierezza nei suoni, interessanti partiture corali, plumbee parti atmosferiche, ipnotiche ritmiche serrate (nella lunga e tortuosa "Two Faces") e talvolta malinconici riff di chitarra a suggellare un'altra bella uscita discografica da parte dei nostri vicini francesi, intelligenti peraltro nel puntare sempre sulle band di casa propria. Lo capissimo anche noi in Italia, e non vedremo certo le nostre più talentuose band migrare verso le grosse etichette indipendenti. Gran bell'album comunque 'Post Ecstatic Experience', la cui unica pecca potrebbe essere identificata nella sua eccessiva durata che va oltre l'ora di musica. (Francesco Scarci)

mercoledì 1 aprile 2015

Hands of Orlac - I Figli del Crepuscolo

#PER CHI AMA: Doom Rock, Mercyful Fate, Candlemass, Black Sabbath
Ispirati all'omonima pellicola horror del 1924, gli italo-svedesi Hands of Orloc, fanno uscire il loro secondo LP a distanza di tre anni dal disco che gli diede un po' di visibilità. Il five-piece (in parte) nostrano torna con un album nuovo di zecca che esce per l'etichetta danese Horror Records in compartecipazione con la Terror From Hell Records. La proposta di questo mistico 'I Figli del Crepuscolo' non si muove poi di troppo rispetto al precedente lavoro, offrendo un sound all'insegna dell'esoteric doom rock, che rompe il ghiaccio della solita intro, con "Last Fatal Drop". E qui si inizia ad apprezzare alla grande il sound di questi misteriosi ragazzi che con una ritmica non troppo sofisticata, danno inizio alle loro danze diaboliche. Fin qui però nulla di trascendentale: dopo un minuto, gli arrangiamenti si fanno più interessanti grazie ad una splendida melodia di flauto e alle impetuose vocals di Ginevra (aka The Sorceress), che si collocano su delle linee di chitarra che richiamano suoni prog rock dai tratti palesemente seventies. Chitarre che sul finire del pezzo si prenderanno la scena, scatenando una tempesta magnetica di fluttuanti melodie cosmiche, per un risultato da brividi. L'impatto con la band è certamente dei migliori. "Burning" sembra essere sospinta da un impulso stoner, ma è solo apparenza, perchè gli Hands of Orlac si lanciano in psichedelici fraseggi che si muovono tra il doom dei Black Sabbath e sfuriate tipicamente metal, in cui trovano posto le vocals spettrali della cantante e l'immancabile suono del flauto. Ma il flusso sonoro dell'ensemble è in costante evoluzione: non pensate di trovare lo stesso arpeggio o lo stesso accordo per più di qualche secondo perché le atmosfere sono assai mutevoli nell'arco di questo disco. Ancora una citazione cinematografica all'inizio (e poi alla fine) di "A Coin in the Heart" con un pezzo di dialogo estrapolato da "Operazione Paura" di Mario Bava (1966) con le chitarre che irrompono citando i primi Iron Maiden. La song prosegue poi lungo i binari sin qui percorsi dai nostri, mostrando i notevoli punti di forza della band: le atmosfere criptiche da film horror anni '60 che si miscelano con stralci progressivi e fughe di flauto a la Jethro Tull. Quello che magari faccio più fatica a digerire è la voce della "sacerdotessa", troppo pulita e un po' priva di personalità. Per molti di voi che apprezzano la band sin dagli esordi, questa mia affermazione potrebbe risuonare nell'aria come una bestemmia, ma sinceramente una voce maschile, un po' più carismatica, avrebbe giovato maggiormente nel mio giudizio globale. Le tracce rimanenti, "Noctua" e "A Ghost Story", confermano quanto di buono fatto sin qui dal combo italo-scandinavo, grazie alle ottime doti individuali dei due chitarristi che sciorinano riffoni profondi e assoli stentorei, mentre Jens Rasmussen (aka The Clairvoyant), si mostra come un batterista preparato ed eclettico sia su velocità sostenute che più rilassate. La conclusiva "Mill of the Stone Women" aperta da un altro spezzone di film degli anni '60, "Il Mulino delle Donne di Pietra", garantisce altri sette minuti di matrice occult doom che sicuramente farà la gioia di tutti gli amanti del genere rock. Pollice alto per questa ottima formazione dal sicuro avvenire. (Francesco Scarci)

(Terror From Hell Records/Horror Records - 2014)
Voto: 80

sabato 28 febbraio 2015

Warnungstraum - Mirror Waters

#PER CHI AMA: Black Ambient, primi Katatonia, Cultus Sanguine, primi Ensoph
Dei Warnungstraum non so granchè se non che si tratti di una band lucana, costituita da Bartlett Green, Cabal Dark Moon e Vox Mortuorum, terzetto dedito inizialmente a un black metal ferale, che dal 2009 a oggi, ci ha regalato tre lavori, di cui l'ultimo è il qui presente 'Mirror Waters'. Fatte le dovute presentazioni, ci addentriamo alla scoperta delle quattro song che costituiscono l'album, quattro lunghi sospiri di morte, aperti dalle melodie orrorifiche di "Antarabhava" dai decadenti contenuti lirici. La song mostra fin da subito il cambio di rotta intrapreso dall'act di Potenza che, abbandonati gli estremismi sonori darkthroniani dei precedenti album, si lancia in un sound mid-tempo che ha rievocato nella mia mente i gloriosi e sottovalutati Cultus Sanguine. Auspico che anche voi ricordiate questo nome (se cosi non fosse siete pregati di andarveli a cercare) e possiate quindi capire l'effluvio emotivo che potrete respirare nella opening track, song che gode di una certa maestosità di fondo, sebbene contraddistinta da ritmi di chitarra lenti e delicati, in cui i synth di B.G. rappresentano il vero driver della musicalità dei nostri e l'acido screaming di Cabal Dark Moon ne completa il quadro. Dieci lunghi minuti di sonorità oniriche spezzate da un break ambient, costituiscono il più che discreto biglietto da visita dei Warnungstraum (in tedesco "sogno premonitore"). "The Gardens of Yima" è la seconda traccia dall'inequivocabile impronta ambient, per cui ho chiuso gli occhi e ho immaginato di trovarmi in un tempio buddista, lasciandomi sopraffare dall'affabile spiritualità delle poche note che risuonano in questo lungo brano strumentale in cui non vi è alcun segno di estremismo sonoro. Con "Narkissos" ritorniamo a percorrere il sentiero battuto nella opening track: atmosfere malinconiche, la chitarra acustica che si sublima con quella elettrica, le harsh vocals stemperate dal lavoro delle tastiere in un altro lungo brano dai contenuti accativanti, forse alla lunga un po' ripetitivi, ma comunque di sicuro impatto emozionale, che a metà brano sembrano anche evocare lo spettro dei Katatonia più primordiali, per un risultato alla lunga coinvolgente. Il suono di un'arpa e di un flauto introducono la conclusiva "The Sad Singing Woods", altro pezzo strumentale di suadente misticismo che non sfigurerebbe in un qualche lavoro new age di Kitaro. 'Mirror Waters' alla fine è un buon lavoro che rilegge il black metal sotto una nuova prospettiva, che sia l'inizio di una nuova era? Difficile dirlo ora con soli quattro brani, mi limiterò pertanto a parafrasare il Manzoni con "Ai posteri l'ardua sentenza..." (Francesco Scarci)

(Nykta Records - 2014)
Voto: 70

https://www.facebook.com/pages/Warnungstraum

sabato 2 agosto 2014

Cemetery Fog - Towards the Gate

#PER CHI AMA: Death old school, Celtic Frost
Non so molto di questo duo finlandese se non che una spettrale intro apre questo 'Towards the Gate', mini Lp di debutto della band (all'attivo anche tre demo), costituito da cinque pezzi (di cui due sono intro e outro). Andiamo allora a dare un ascolto alle tre tracce vere e proprie di questo dischetto: “Withered Dreams of Death” è la prima song che si affaccia con una chitarra old school, che mostra i suoi richiami glaciali al suono primordiale dei Celtic Frost. L'atmosfera è plumbea, l'incedere lento e minaccioso, il lavoro alle sei corde è sorretto da una tastiera mefistofelica e ingannatrice, mentre le growling vocals si rivelano efficaci nel descrivere sogni di morte. Si tratta di un salto indietro nel tempo di almeno vent'anni, quello che ci regala la musica dei Cemetery Fog e il trend occulto dei nostri si conferma anche con la successiva "Embrace of the Darkness", altra song dai forti richiami retrò ma che comunque sa conquistare per il proprio approccio horror, quasi sulla scia dei King Diamond, ma senza la vocina del "Re Diamante". La song trova addirittura il modo di offrire un bellissimo break acustico, con clean vocals sussurrate e delicate note di pianoforte in sottofondo. Niente male ma anche nulla di nuovo. "Shadow of Her Tomb" è il terzo brano, quello dal piglio decisamente più rallentato e inflazionato. Si tratta infatti di un death doom dalle tinte funeral, in cui compare addirittura la celestiale (ma non troppo) voce di una gentil donzella, il tutto per un risultato a tratti scontato. Poco importa; come opera prima questi errori ci possono anche stare, ma per il futuro cerchiamo di trovare una via più personale di dischiudere il proprio sound. (Francesco Scarci)

lunedì 21 luglio 2014

Splatters - Fear of the Park

#PER CHI AMA: Horror Rock
Oi! Oi! Oi! Queste sono le prime tre parole che mi sono saltate alla testa ascoltando l'album di esordio di questa band lombarda, formatasi nel 2011 e con un demo di 5 canzoni all'attivo. L'ensemble è formato da Drow come voce e seconda chitarra, Alex Damned alla chitarra e cori, Mr. Sprinkle al basso e Paul Destroyer alla batteria. Di loro però parla la musica: come si può già intuire dal titolo, è un gioco di parole che riprende il famosissimo disco degli Iron Maiden, e quella piccola sensazione di disagio che si prova entrando in un luna park (magari scancanato e semi abbandonato): la si sente meravigliosamente nella “Intro”. Pronti per un giro sul rollercoaster? Ottimo, perché ”Killer Clown” è la colonna sonora adatta, così scattante, incisiva e rimembrante il sound più punk/hardcore, con la voce roca e urlata, oltre a dei cori che risulterebbero migliori tenendo le braccia alzate e agitate per aria. Non che ”Welcome to Zombieland” sia tanto diversa, ma qui la differenza è nella sonorità meno spedita e più profonda: giusta proprio per il tunnel degli orrori, o degli specchi. Il ritornello è difficile da non cantare, magari agitandosi per la stanza... Questo potrebbe essere l'incipit adatto per la terza traccia ”Here Come the Monsters”, magari rincorrenti questi audaci (o sconsiderati?) visitatori del luna park in declino, formati magari dagli storici freakshow: la batteria, grazie anche alle note di chitarra ripetute in rapida successione, ricordano facilmente le gambe che scappano e il rumore dei piedi sulla terra, in fuga da questi fenomeni da baraccone. Come se volessero collegarsi al precedente brano, ”Die in a Leather Jacket” sembrerebbe quasi voler ricordare "Die With Your Boots On" degli Iron. ”Hope” si distacca dalla melodia ascoltata finora: addirittura ricorda Alice Cooper con la sua strafamosa “Poison”, anche se gli Splatters si limitano a modificarne il tempo e renderlo più spedito e battuto, mantenendo un profilo più hardcore. “Why Do They Always Die in This Way?” inizia con note di pianoforte, chitarra elettrica e voce grave, ma chiara e limpida. Lasciato trascorrere il minuto (e mezzo) di calma, si torna alla carica con un bel incitamento musicale “Run! Faster than You Can Run!” cantato urlando, mentre la batteria non lascia un attimo di tregua. Ma i peccatori vanno in paradiso? E perché no, con la vertiginosa ed energica “Sinner in Heaven” sembra che possano accedervi, magari con qualche pedata nel fondoschiena, come il motivo lascia intendere... Probabilmente “My Lucky 13” potrebbe essere un plauso, o ringraziamento, a Jason Voorhees per la grande fortuna che ha portato questo infausto numero, o semplicemente un richiamo ad uno dei B-Movie che hanno scandito i grandiosi anni '80. Tornando al nostro luna park infestato, quando i malcapitati si trovano nel labirinto di specchi ritrovano “Minotaury”, da cui è difficile scappare. Si sa che ogni cosa arriva ad una fine: ed è così anche per questo primo lavoro degli Splatters, un viaggio psicotico in un parco divertimenti malefico e invaso da diverse creature. “Dark Way” è la traccia conclusiva, suonata al pianoforte e cantata alla stregua dell'incipit di “Why do...”. Ovviamente le ultime note del piano riprendono quelle dell'intro, creando una specie di vortice da cui è difficile uscire... non puoi scappare dagli incubi. In chiusura, quest'album mi ha letteralmente entusiasmato e ispirato, trovandolo geniale e folle al tempo stesso. Una richiesta: aggiornate il profilo myspace, se volete tenerlo come sito ufficiale; troppo scarno per i miei gusti. (Samantha Pigozzo)

(Atomic Stuff - 2012)
Voto: 80

sabato 16 novembre 2013

Serpent Noir - Seeing Through the Shadow Consciousness: Open up the Shells

#PER CHI AMA: Black/Thrash old school, Hellhammer, primi Bathory
La Daemon Worship Productions si sta confermando per il sottoscritto pozzo di conoscenza per quanto riguarda una scena underground maledettamente oscura e malvagia. La band di oggi arriva dalla Grecia grazie all'unione di alcuni membri di band altrettanto sconosciute anche per uno come me, che pensava di conoscere buona parte del sottobosco estremo. I nomi Embrace of Thorns, Necrovorous, Nefandus, Ofermod, Leidungr, cosi come Serpent Noir non mi dicono nulla. Ciò non toglie che quello che ho fra le mani sia qualcosa che scotta, come quei vapori di zolfo che si alzano dalle viscere dell'inferno. “Allies from the Black Sun Universe” esordisce con un black cupo e tirato che a metà brano si mette in mostra per la sua veste liturgica e sulfurea. Un gran plauso lo faccio immediatamente allo screaming chiaro e graffiante del vocalist Kostas e al martellante drumming di Michayah Belfagor. “Dragon Egregore” emana un feeling più old style, con le chitarre che si muovono in territori horror/heavy metal, regalandoci anche uno splendido assolo conclusivo. Con “Voids of Samael” si torna a picchiare selvaggiamente, con il sound che si mantiene ancorato ad un black dalle forti venature thrash, di un passato mai dimenticato (Hellhammer, primi Bathory), prima di interrompersi in un ritualistico break centrale, con suoni di morte che aleggiano nell'etere. L'incedere di “Andramelek Stone” è lento e minaccioso, cosi come pure quello spettrale di “Black Sphere”, due brani in cui la componente horror si rivela preponderante. Un gong apre la breve e classicheggiante “Shifting to Shadows Consciousness” in cui sono le grevi sonorità di chitarre e basso a mettersi in mostra. “Dragon Noir” è un altro cerimoniale che ci introduce alla conclusiva “Open up the Shells” altra song bella tirata, con un lunatico assolo centrale, ambientazioni esoteriche da brivido che completano un'opera davvero gradevole dal sapore old school. Occulti! (Francesco Scarci)

(Daemon Worship Productions - 2012)
Voto: 70

https://www.facebook.com/pages/Serpent-Noir/

sabato 19 ottobre 2013

Abstract Spirit - Theomorphic Defectiveness

#PER CHI AMA: Funeral Doom, Skepticism
Con la Solitude Productions non c’è proprio verso di dormire sonni tranquilli. Dopo gli HellLight, torno a soffrire d’insonnia, tormentato da angosce e paure, contagiato dall’ascolto della nuova release dei russi Abstract Spirit, altra band che già abbiamo visionato sulle pagine del Pozzo. La proposta? Niente di più facile di un funeral doom, in cui un cavernoso e demoniaco vocalist si impossessa del microfono a partire dalla opening (e title) track, “Theomorphic Defectiveness”. Il sound del quartetto russo è decisamente meno accessibile rispetto a quello dei colleghi brasiliani sopraccitati. Meno accessibile perché di fondo vi è meno melodia, le tastiere sono decisamente meno invasive, seppur scandiscano i tempi, vi è un minor minimalismo sonoro; tuttavia qui si può trovare una maggiore imprevedibilità (l’uso delle trombe ad esempio nella breve “Leaden Dysthymia”), cosa assai rara per un genere ostico come questo. La cadenza dei nostri è sicuramente marziale, le ambientazioni nella loro cupezza, riescono addirittura ad infondere un senso di forte malessere interiore, tale da farci suggerire dalla label russa, l’etichetta per i nostri, di horror funeral doom band. Ben ci sta, aggiungo io, perché anche un ascolto non attento delle tracce, porterebbe a tale conclusione. Da brividi, non certo di piacere questa volta, l’impatto che il combo moscovita ha su chi scrive. L’oscurità di una notte senza luna si fa ancora più scura con la seconda song, “За сонмом цветных сновидений”, lenta e ossessiva nel suo macabro incedere. La voce da orco di A.K. iEzor è poi spaventosa, trasmettendo una malvagità primordiale. Le stridule ma efficaci chitarre offrono rari frangenti di epicità che richiamano il sound dei Primordial, ma non fatevi ingannare troppo, perché la musica dei nostri viaggia a rallentatore, seppur nella loro pomposa veste orchestrale. L’odio sgorga a fiumi dalla disarmonica quanto mai fluida colata lavica che emerge dagli strumenti di questo affascinante ensemble. Una voce femminile, quella di Stellarghost (la brava tastierista), fa capolino nella funerea “Prism of Muteness”, song che vanta un’ottima orchestrazione e anche la più varia del lotto. Con “Under Narcoleptic Delusions” si fa infatti ancora visita al catacombale antro della band, che chiude questo quarto capitolo della loro discografia con una monumentale cover degli Skepticism, “March October” per un finale all’insegna della cupezza totale. “Theomorphic Defectiveness” è in definitiva un album intrigante per certi versi, ma di difficilissimo approccio se non siete proprio dei fan del genere. Rischiereste seriamente di farvi male. (Francesco Scarci)

(Solitude Productions - 2013)
Voto: 70

domenica 7 luglio 2013

Boreworm - The Black Path

#PER CHI AMA: Brutal Death Progressive, Djent, Born of Osiris, Meshuggah
Spaventoso l'impatto che ho avuto con l'EP di debutto degli statunitensi Boreworm. Un 4-track di furioso e melodico brutal death metal che apre le danze con la title track e mi consegna una delle pochissime band, in territorio estremo, che sia stata in grado di conquistarmi fin dal primo minuto d'ascolto. Chitarre polifoniche, inserite in una matrice cosi ingarbugliata di cambi di tempo e velenosissimi stop'n go; una tessitura ritmica granitica, costellata di cosi tanti e interessanti intrecci strumentali da necessitare più e più ascolti. Ne sono innamorato e per me, amare questa forma di death brutale assai futuristica, è cosa assai rara. Con "Xenophagia" ritorno all'esclamazione che apre questa recensione: spaventosa! Suoni cupi e feroci, sorretti da atmosfere horror, suoni bombastici che possono richiamare il djent, il deathcore o il techno death. Meshuggah, Cynic, Born of Osiris e tutti gli altri messaggeri del sound progressivo in territori brutali, rappresentano le influenze riscontrabili nel corso di questo dinamitardo EP di debutto di questo splendido ensemble made in USA, che già fin d'ora eleggerò tra i debutti di assoluto valore doi questo 2013. Non vorrei pompare ulteriormente la band, è la musica a parlare egregiamente per loro: il death fuso con lo sci-fi, le opprimenti atmosfere di "The Black Path", l'esagerato tasso tecnico plaesato anche nella dinamica e travolgente "Hive Conduit", mi mandano al settimo cielo. Il growling cavernoso, il quantitativo infinito di melodia, mischiato alla cattiveria e al matematico (soprattutto in "Clandestine") sound dei Boreworm, completano un lavoro che non posso far altro che elogiare e consigliare a tutti gli amanti di sonorità estreme e non solo. Esagerati! (Francesco Scarci)

sabato 8 giugno 2013

Frozen Ocean - Trollvinter

#PER CHI AMA: Soundtrack, Ambient, Burzum, Raison D'etre, Elend 
I Frozen Ocean, one man band russa che abbiamo recensito qualche mese fa, ci stupiscono con una colonna sonora interessante ispirata all'opera, in lingua svedese per bambini, “Moominland Midwinter” di Tove Jansson, scrittrice, illustratrice e pittrice finlandese di origine svedese, i cui lavori sono stati tradotti in 38 lingue diverse in tutto il mondo. Vaarwel, ovvero l'artefice di questo cd nonché unica mente dietro i Frozen Ocean, con questa lunga colonna sonora straccia tutto quello che fin qui ci aveva fatto sentire e quindi niente più chitarre zanzarose o ritmi veloci e ossessivi, niente screaming, niente black metal ma una infinita carrellata di suoni, rumori e umori in grigio che guardano all'infinito inverno di cui la storia ispiratrice parla. In questo lavoro dalla difficile collocazione artistica, il nostro mastermind moscovita ha potuto sbizzarrirsi con un'infinità di generi adiacenti al krautrock dei 70's, alla drone music, all'ebm, all' ambient elettronica in generale. Tutto suona con andamento soffice e narrativo, proprio come se ci immergessimo a fondo nel testo, come se stessimo vivendo all'interno della fiaba e come tale, rivivere gli stati d'animo contemplati nel libro. Tutto porta il fondale grigio come lo stupendo fiabesco artwork di copertina curato da Al.Ex (mayhem project), tutto è posizionato a dovere, sia che in esame si prenda la lunga traccia numero cinque fatta di drone tastieristico esasperato e monotono, sia che alla sbarra si prenda la successiva traccia sei, dove il sound cristallino e la venatura claustrofobica/horror portano subito alla mente le grandi colonne sonore dei film di Dario Argento. Vi sono poi esplorazioni nel campo dell'elettronica EBM/synth pop con buoni risultati, magari non innovativi, ma che qui introdotti con moderazione e misura riescono a rendere bene l'idea. In fine altri collegamenti sparsi tra tutti i brani li troviamo con i primi Tuxedomoon, Raison d'Etre, Elend e l'immancabile Burzum nella veste dark ambient. Certamente “Trollvinter” è un lavoro lungo (quarantadue minuti) e impegnativo da affrontare, dai mille risvolti introspettivi, una favola in noir narrata egregiamente con visionaria astrazione ed eterea oscurità, la colonna sonora di una fiaba per adulti abituati ad interagire con la parte nascosta della propria anima. (Bob Stoner)

(Self)
Voto: 70

http://frozen-ocean.net/

giovedì 23 maggio 2013

Ecnephias - Necrogod

#PER CHI AMA: Horror Heavy, Rotting Christ, Septic Flesh
Avete mai provato quella sensazione quando siete a tavola, di voler lasciare il meglio che c’è nel piatto alla fine? Ebbene, prima di ascoltare il tanto atteso ritorno sulle scene dei lucani Ecnephias, ho aspettato qualche giorno, cosi giusto per pregustarmelo un po’, insomma una sorta di “Sabato del Villaggio” come scriveva il buon Leopardi, in cui crearmi le giuste aspettative. Dopo quattro giorni, ho inserito finalmente “Necrogod” nel mio stereo per capire quale evoluzione avesse subito il sound di Mancan e soci. Ecco quindi proiettarmi con l’occulta intro nel mondo enigmatico e mediterraneo della band potentina. Volete sapere cosa ho pensato appena chiusi gli occhi e mi sono abbandonato a “Syrian Desert”? Mi è sembrato che questo prologo potesse ricalcare il debut EP dei Moonspell, quell’“Under the Moonspell” che mi sconvolse qualche lustro indietro l’esistenza, per quel suo forte taglio arabeggiante. Quando è poi “The Temple of Baal Seeth” a svelarsi come vera prima traccia, torno ad assaporare il sound ellenico nelle corde dei nostri, sporcato però da influenze british che ne ammorbidiscono il suono; immaginate un bel mix tra Rotting Christ e ultimi Paradise Lost e potrete capire di che cosa stia parlando. Vorrei quindi indicare gli Ecnephias come maggiori esponenti di una ipotetica scena della Magna Grecia. Sicuramente vi starete chiedendo il perché delle mie parole. Perché le chitarre del combo italico offrono il meglio della band greca, ossia quei riffoni che sembrano più un ingranaggio che va via via sbloccandosi, uniti ad un rifferama più pulito che invece ricalca l’ultimo periodo della band albionica, il tutto sempre contraddistinto dal dualismo vocale di Mancan, bravo a districarsi tra un growling sempre comprensibile (utile anche per farci capire le liriche, tra l’altro estremamente interessanti in quanto legate a mitologia, simbolismo, religione e magia) e delle cleaning vocals corali. “Kukulkan” è un brano ritmato, in realtà molto semplice ma che sa comunque conquistare per la sua melodia di fondo fresca e malinconica, sorretta da quei leggeri tocchi di pianoforte e da aperture che evocano tempi lontani, con un assolo di chiara matrice heavy. Parte di quella robustezza presente in “Inferno” sembra essere scemata per far posto ad atmosfere più soffuse e malinconiche, non fosse altro che le orrorifiche e a tratti incazzate melodie della title track, mi smentiscano immediatamente, spingendomi addirittura ad evocare nella mia tortuosa mente i Necrophagia e per orchestrazioni anche gli ultimi maestosi Septic Flesh. Niente paura perché arriva “Isthar (Al-'Uzza)” e qui il buon Mancan mi guarderà di sottecchi dietro ai suoi baffi: l’inizio della traccia (ma anche il chorus) ha tirato fuori dai cassetti della mia memoria “Desaparecido” dei Litfiba, spingendomi con un balzo temporale di 26 anni indietro; non sto pensando ad una canzone precisa ma a quell’aura dark, sprigionata dalle chitarre e dai vocalizzi, che contraddistinse il debutto della band di Piero Pelù e soci, anche se nel chorus di “Isthar” una rivisitazione di “Istanbul” ci potrebbe anche stare. Certo poi il growling del bravo vocalist permette alla band di prendere le distanze da quel lavoro, anche se al secondo e al terzo ascolto, ho riprovato questa stessa sensazione, focalizzando ulteriormente la mia attenzione su questo brano. Eccoli di nuovo poi gli echi orientali tornare in “Anubis (The Incense of Twilight)”, song contraddistinta da una ritmica sempre molto pulita e armonica con il resto degli strumenti. Semplice e diretta la batteria, essenziali le keyboards, pulite e mai spinte le chitarre, con la voce di Mancan sempre inappuntabile ed inconfondibile, peccato solo non abbia potuto godere di performance in cantato italico. “Kali Ma (The Mother of the Black Face)” è un altro pezzo in cui tornano a manifestarsi gli spettri dei Paradise Lost, forse quelli più ancorati a “Draconian Times”, mentre “Voodoo (Daughter of idols)” penultimo brano del disco e quasi un tributo ai vecchi Iron Maiden, vede la partecipazione in veste di special guest di Sakis dei Rotting Christ alla voce, segno della reciproca stima e amicizia che lega le due band. A chiudere ci pensa la strumentale “Winds of Horus”. Insomma, il restyling degli Ecnephias parte da “Necrogod” e dalla nuova etichetta alle spalle dei nostri, la sempre attenta Aural Music; speriamo solo che sia la rampa di lancio per una più che meritevole carriera degli Ecnephias, contraddistinta da sempre da ottimi lavori, che a mio avviso, non hanno però goduto della giusta attenzione da parte del pubblico. E allora, per rifarsi delle mancanze passate, date una grande chance a “Necrogod”, non ve ne pentirete! (Francesco Scarci)

(Aural Music)
Voto: 80

http://www.ecnephias.com/

lunedì 9 gennaio 2012

Ecnephias - Inferno

#PER CHI AMA: Black Dark Gothic, Rotting Christ, primi Death SS
Non poteva mancare sulle pagine del Pozzo, il come back discografico degli Ecnephias, band lucana che seguo sin dal loro primo cd, che con questa nuova release, li vede tra l’altro, al loro esordio su Scarlet Records, brava nel sottrarli alla Code 666. Il digipack si presenta inquietante fin dalla lugubre copertina, dove una Madonna (deduco) lacrimante sangue giace su un letto, con in braccio un bimbo (Gesù Cristo?). Poche note di pianoforte introducono “Naasseni” e poi ecco esplodere l’urlo di “A Satana”, dove a colpirmi immediatamente, è la forte connessione musicale con gli ultimi Paradise Lost, con un bel riff di base avvolto da orientaleggianti melodie create dalle tastiere di Sicarius e con il buon Mancan ad alternare il suo growling ad una voce non del tutto pulita, passando tra l’altro con estrema disinvoltura dall’inglese all’italiano (da sottolineare che il ritornello peschi dall’”Inno a Satana” di Giosuè Carducci). La parte finale è poi da stropicciarsi gli occhi, cosi come la successiva “A Stealthy Hand of an Occult Ghost”, dove i nostri riprendono il loro vecchio amore per i Rotting Christ, contaminato però da una verve cibernetica tipica dei The Kovenant, per abbandonarsi ancora una volta ad una chiusura da brividi, affidato ad un basso slappato e a delle fantastiche melodie. Sono entusiasta nel sentire che la band non si sia persa per strada, nonostante i molteplici cambi di line-up, ma abbia anzi continuato la propria evoluzione sonora, sfoderando un’altra prova degna di nota, che spero non lascerete passare inosservata. “Buried in the Dark Abyss” apre con un’altra strofa in italiano (sinceramente, le parti che adoro e che conferiscono quel quid in più alla proposta dei nostri) e poi grandi come sempre a creare atmosfere orrorifiche in stile primi Death SS, grazie a fantastiche keys, intelligenti chitarre, brillanti cavalcate gravide di malinconiche melodie e grazie soprattutto alla voce di Mancan, sempre carica di teatralità, che lo elevano a mio avviso, tra i migliori cantanti in circolazione oggi, grazie al suo spiccato eclettismo. Il disco procede con un altro pezzo interessante, “Fiercer than any Fear”, che dimostra nuovamente quanto i refrain in italiano siano più facili da essere memorizzati e cosi eccomi cantare “Oh Dio del Male della Sorte”. La malinconica “Voices of Dead Souls” (una sorta di semiballad, una bestemmia lo so, perdonatemi ragazzi), rappresenta un altro esempio di quanto i nostri abbiamo enfatizzato maggiormente l’utilizzo della nostra madre lingua a livello di liriche, emerga una spiccata ecletticità nei brani, sempre estremamente vari; ciò che mi esalta rispetto ai passati lavori è, a parte una eccellente cura negli arrangiamenti, anche la componente tecnica del quartetto, talvolta straripante e che esula completamente dal contesto estremo. La fiamma nera brucia ancora nei solchi di questo “Inferno” e non solo per ciò che concerne il titolo: l’anima black continua a permeare di una cupa atmosfera questo magnifico lavoro, che sicuramente ha il pregio di aprire la musica dei nostri a frange decisamente meno estreme del black ma che allo stesso tempo, corre forse il rischio di perdere gli amanti di sonorità più old school. Tuttavia chi segue la band sin dagli esordi, è abituato alle sonorità accattivanti dell’ensemble italico (splendida a tal proposito la sezione ritmica di “In my Black Church” con un profondo basso, quei delicati tocchi di pianoforte, e un sound grondante un groove pazzesco) o alle trovate geniali di Mancan e soci. “Lamia” chiude infine il cd e ancora una volta rimango stupefatto dalla epicità di un brano che starebbe bene nel “Notre Dame de Paris” di Cocciante (va bene, ora ho forse esagerato, ma non vogliatemi male ragazzi, non vuole essere un insulto, ma anzi vorrebbe esaltare il lavoro egregio svolto, che si completa con una bombastica produzione). A chiudere la versione digi ci pensa la bonus track “Chiesa Nera”, che non è altro che la versione in italiano di “In my Black Church”. Che dire ancora? Lasciarsi scappare questo lavoro, sarebbe una delirante follia. Da avere ad ogni costo! (Francesco Scarci)

(Scarlet Records)
Voto: 85

giovedì 30 giugno 2011

Necrophagia - Harvest Ritual Volume I

#PER CHI AMA: Black/Thrash dalle tinte horror
Signore e signori, il teatro dell’orrore riapre i battenti con questa opera dei Necrophagia ormai datata 2005. Per chi non li conoscesse, i Necrophagia sono uno dei gruppi più longevi della scena metal: formatisi per mano di Killjoy nel 1983, per emulare le gesta dei Venom, esordiscono nel 1987 con “Season of the Dead” con un album estremo e malato. La band poi si scioglie, ma nel 1994 Phil Anselmo (cantante dei Pantera, all’epoca) propone a Killjoy di scrivere un nuovo lavoro: ne esce “Holocausto de la morte”... la creatura Necrophagia riprende a vivere con un nuovo orrorifico sound... il resto della storia la conoscete tutti... Dopo “The Divine Art of Torture” del 2003, ritorna sulla scena il sestetto statunitense con un nuovo e perverso album, “Harvest Ritual Volume I“, titolo che lascia presagire l’arrivo anche di un “Volume II”. L’impianto sonoro di questa nuova fatica, rimane il tipico black/thrash che ha contraddistinto i passati lavori della band, su cui si instaurano le corrosive e malate vocals di Killjoy e le spettrali tastiere di Mirai Kawashima (preso in prestito dai giapponesi Sigh) che conferiscono quel caratteristico e fascinoso aspetto lugubre ai Necrophagia, con forti richiami al cinema horror di Lucio Fulci (maestro italiano dell’horror mondiale). Le 10 song che costituiscono questo lavoro, sono come sempre tutt’altro che rassicuranti: campionamenti horror, riff granitici e voci malvagie catalizzano l'attenzione degli ascoltatori. Vi segnalo le tracks che più mi hanno colpito: la bellissima “Unearth” caratterizzata da tastiere orientaleggianti e pesantemente influenzate dal grande Claudio Simonetti, e “London 13 Demon Street” in cui a farla da padrone sono sempre le keys cupe e sinistre di Mirai, ma dove fa la sua comparsa anche una tenebrosa voce femminile. Rispetto ai passati lavori, questo nuovo “Harvest Ritual Vol. I” potrebbe mostrarvi (ma non lasciatevi ingannare) il lato più melodico e maturo della band di Killjoy e Phil Anselmo, quasi a voler scrollarsi di dosso l’etichetta di gruppo da serie B. Affascinanti... (Francesco Scarci) 
 
(Season of Mist)
Voto: 75

martedì 5 aprile 2011

Eptagon - Discrimen


Una strana intro apre il cd degli italiani Eptagon, un lavoro di 5 pezzi più intro e outro, dedito ad un certo occult black metal che mi ha ricordato da vicino gli esordi degli Handful of Hate e dei mitici Necromass. Chitarre zanzarose, in pieno stile nordico, costruiscono le ritmiche furiose del sound dei nostri, con una batteria impazzita che ne appesantisce l’incedere e delle vocals demoniache a completare il quadro di questo discreto “Discrimen”, release che nulla ha da chiedere e ben poco ha da dire, in quanto ancora forma embrionale di una band che potrebbe esplodere in un futuro o sparire completamente nell’anonimato. L’act piemontese non si limita certo a ripetere pedissequamente la lezione dei grandi maestri del nord Europa, ma prova ad includere delle variazioni al tema, come qualche mid-tempo o oscuri angoli di terrore come l’arpeggio inserito nella parte centrale di “Ares Ares”, che smorza per qualche secondo gli attimi concitati del disco. Diciamo che il lavoro è ancora abbastanza grezzo, complice anche una registrazione alquanto amatoriale, comunque di spunti interessanti per il futuro se ne intravedono. Lasciamoli lavorare e maturare e poi vediamo che cosa salterà fuori… (Francesco Scarci)

(Evil Cemetary Records)
Voto: 60

giovedì 17 marzo 2011

Wraithmaze - Adagio in Self-Destruction


Le informazioni che ho a disposizione per questa band finlandese sono veramente scarse, a partire da una copertina quasi indecifrabile a causa della sua scurezza; tutto ciò che è nelle mie mani è racchiuso nel booklet (scarno) del cd, che a parte i testi, ci informa che abbiamo a che fare con un terzetto formato da Jarkko Rintee alle vocals, Matti Auerkallio alla batteria e Janne Kielinen a synths e chitarra. Allora partiamo subito con l'analisi della musica dei nostri che fin dall'iniziale "Anxiety", mette in luce un sound capace di combinare doom a suoni che demarcano tratti orrorifici, il che cattura immediatamente la mia attenzione: riffone ultra pesante in apertura di disco con voci demoniache in sottofondo e una sinistra tastiera (a dominare tutto il brano) che sembra presa in prestito dalle colonne sonore dei film di Dario Argento e poi tutto ad un tratto uno squarcio nel cielo e le ritmiche che partono nel loro inquietante e assai melodico incedere. Riffs di scuola scandinava infatti pestano che è un piacere e il growling riposseduto di Jarkko a sprigionare fiumi di paura. Con "Contradiction" e il suo possente alone di mistero, mi sembra di cogliere nel sound dei nostri, influenze dei connazionali Gloomy Grim: ritmiche mid-tempos, sintetizzatori che creano tenebrose ambientazioni horror, da brivido l’effetto finale se ascoltato nel buio di una stanza; eccellente anche il chorus “Walking Contradiction” che si imprime nella testa e non lo si riesce più a rimuovere alimentando la nostra sete di adrenalina. Si prosegue sulla stessa linea anche con la pomposa “Burn Liver Burn”, song che continua a mettere in luce le buone qualità del combo finnico che pur non andando a cercare chissà quali raffinati suoni, ha il merito di produrre brani accattivanti, combinando costantemente ritmiche black assai ariose e sinfoniche intervallate con intermezzi ambient (vedi la title-track). “In the Depts of Oblivion” le vocals, in versione più screaming, urlano su un tappeto black sinfonico di reminiscenza primi Dimmu Borgir, che va via salendo di intensità nel corso del brano fino all’epilogo tastieristico. “Equilibrance”, sesta traccia di questo intelligente lavoro, è una suite lunga quasi dodici minuti, che ancora una volta apre con tetre melodie per poi lanciarsi in un mid-tempo che tocca il suo apice in un bridge posto a metà brano, con melodie colme di malinconia che decisamente mi hanno riportato ai primi lavori di My Dying Bride e Anathema, quindi senza alcun dubbio positivo. La conclusiva”Observations of Cremation” è una song che funge da outro ad una release senz’altro positiva che mi ha permesso oggi di scoprire una nuova (l’ennesima) realtà proveniente da una nazione unica, la Finlandia! Benvenuti Wraithmaze! (Francesco Scarci)

(Self)
Voto: 75