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martedì 17 agosto 2021

The Nerve - Audiodacity

#PER CHI AMA: Groove Metal, Rage Against the Machine
Era il novembre 2013 quando usciva questo funambolico disco da parte degli australiani The Nerve. Ed io che ero convinto che la label australiana fosse focalizzata quasi esclusivamente sul post rock/metal, vengo smentito dalle bordate di questo 'Audiodacity'. Per la serie ristampe da oltreoceano (Indiano questa volta), ecco il poderoso sound di questi musicisti (membri di Mammal, COG e Pre-Shrunk) che ci scaricano addosso badilate di melma infuocata. L'iniziale "14 Again" sembra un pezzo pescato dalla discografia dei Pantera, la successiva "Witness" fa l'occhiolino invece ai Rage Against the Machine, con quel rifferama sincopato ed un cantato quasi rappato, con una porzione solistica davvero avvincente ed un finale che pesca addirittura dai Faith No More. C'è un po' di tutto degli anni '90 in questo disco, facendomi sobbalzare e poi cadere dalla sedia. Il cantato rappato torna anche in "Poser (First World Problems)", altra hit di poco più di due minuti e mezzo che spingono a quel classico pogo isterico di massa. Ancora bei riffoni per "Be Myself" che evocano un che dei Pantera, con la linea di chiterra un po' più edulcorata ed una voce qui molto vicina al buon Mike Patton. I pezzi vanno ascoltati tutti d'un fiato, per questo mi lascio tramortire dall'hard rock robusto di "Excuse Me" senza farmi troppe domande, un pezzo che prende però le distanze dai pezzi ascoltati sin qui. Non male per groove e potenza ma forse ho maggiormente apprezzato i precedenti brani, sebbene assai più derivativi. Un plauso va sempre alla sezione solistica, sia chiaro. Si torna a volare con "There May Come a Time" ed un sound sempre ricco di melodia, rabbia ed energia che spinge all'headbanging furioso, enfatizzato ancor di più da esplosioni alla chitarra solistica. Ancora un rifferama di scuola texana per "The Insight" ed un cantato qui che potrebbe anche emulare un che di Phil Anselmo. In chiusura, l'indiavolata "Respect", che mette sotto i riflettori l'eccellente performance vocale del sempre bravo Ezekiel Oxe e del mago della chitarra Glenn Proudfoot. Bravi e convincenti. (Francesco Scarci)

(Bird's Robe Records - 2013/2021)
Voto: 75

https://birdsrobe.bandcamp.com/album/audiodacity

domenica 1 agosto 2021

Landskap - Landskap II

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Psych/Prog Rock
Sedimentato lo stoner tettonico della prima prova, rocciosa ma poco velleitaria, il secondo album dei Landskap, intraprende una ventosissima direzione eminentemente nordic-prog (a partire dalla copertina e, a conti fatti, dal nome stesso della band), attenta però al sunny-psych finesessanta tipo Doors (il finale "Sun of no North") e Iron Butterly (la portentosa "Leave it All Behind") con qualche inattesa sortita NWOBM (il Maiden-riff che apre la già citata "Leave it All Behind" e la turbolenza à-la-Fade-to-black che la chiude). Soltanto se immaginaste voi stessi alla guida del pulmino dei Motorpsycho dispersi nella tundra norvegese mentre canticchiate "Riders on the Storm" alla ricerca di un cazzo di albero per pisciarci contro, allora vi figurerete l'immanenza della performance vocale di Jake Harding e, per estensione, dei trentasei minuti complessivi di questo straordinario album. Dovesse capitarvi di sentirvi preda di una accesso deipnofobico tornate a casa, accendete il camino, procuratevi un plaid e mettete su questo disco, ma solo dopo esservi assicurati di aver terminato la legna e il single barrel. (Alberto Calorosi)

(Black Widow Records - 2014)
Voto: 75

https://landskap.bandcamp.com/album/ii

lunedì 26 luglio 2021

Not Movin LTD - Live in the Eighties

#PER CHI AMA: Garage Rock
Premessa all'ascolto di questo 'Live in the Eighties': se siete alla ricerca di suoni puliti e cristallini, questo non è il disco adatto a voi. Quello dei Not Moving, band garage rock piacentina in giro negli anni '80, tra le cui fila vi era quel 'Dome La Muerte', che abbiamo recensito qualche mese fa su queste stesse pagine, è un lavoro che comprende una serie di brani live risalenti al periodo 1985-88, e pubblicati nel 2005 dalla Go Down Records (il lavoro all'epoca includeva peraltro un dvd, oggi scaricabile dal sito della label stessa). Oggi, l'etichetta italica ristampa quel lavoro di una band riformatasi un paio d'anni fa con un moniker leggermente modificato in Not Movin LTD. Cosi, per rendere tributo alla band, ecco fare un tuffo nel passato per assaporare quei 13 brani che vedevano peraltro i nostri proporre anche "Break on Through" dei The Doors, l'inedita "Kissin Cousins" di Elvis Presley, "I Just Wanna Make Love to You" di Willie Dixon e "Cocksucker Blues" dei The Rolling Stones, giusto per inquadrare una proposta musicale che ora sarà molto molto più chiara. Ho parlato di garage rock all'inizio ma quanto contenuto qui è solo terremotante puro rock'n roll, registrazione pessima inclusa e stacchi tra un pezzo e l'altro che evidenziano come i brani siano stati estrapolati da più concerti, un peccato veniale quest'ultimo. Per il resto lasciarsi investire dal vibrante punk rock dei Not Movin LTD è l'unica raccomandazione che mi sento di darvi oggi, cosi come farsi ammaliare dalle voci di Rita 'Lilith' Oberti, una che potrebbe aver influenzato l’ugula istrionica di Pina Kollars dei Thee Maldoror Kollective di 'Knownothingism'. I brani sono tutti carichi di adrenalina, ma se dovessi scegliere i miei preferiti, direi la psichedelica "Sweet Beat Angel" e l'altra inedita "No Friend of Mine", un pezzo che potrebbe evocare un che dei Metallica del periodo 'Black Album' (un similare approccio è udibile anche nei primi secondi di "Catman"). Echi doorsiani emergono nella psicotica "I Stopped Yawning", mentre "Goin' Down" sembra essere un inno al punk. Insomma, una bella carrellata di pezzi che ci mostrano un pezzo di storia che per la maggior parte di noi è verosimilmente rimasta oscura. (Francesco Scarci)

La Go Down Records ristampa una gemma fonografica che aveva già pubblicato nel 2005, ovvero questo splendido 'Live in the Eighties' dei Not Moving, band che infiammò tra il 1981 e il 1988 i palcoscenici italiani e non solo con delle esibizioni dal vivo a dir poco devastanti. Il disco è la conferma della loro forza scenica che si esprimeva tra garage rock, post punk, punk, psychobilly e psichedelia ottimamente miscelati tra loro. Una band apprezzata anche da personaggi internazionali del calibro di Jello Biafra e John Peel, capitanata fin dagli esordi dalla splendida figura e voce di Lilith (Rita Oberti) e a ruota dalla chitarra di Dome la Muerte (Domenico Petrosino), un progetto che sfociò in una serie di concerti come spalla di veri autentici miti come Johnny Thunders o Joe Strummer e che diede vita ad una serie di album tra full length ed EP che sono divenuti leggendari nel cicuito underground. Il disco in questione nel formato del 2005 era accompagnato da un DVD ma nella ristampa odierna è solo cd e versione digitale (ma comunque si può visionare e scaricare tramite il sito dell'etichetta), ed è un peccato non poter riappropriarsi visivamente di  quelle performance diaboliche, riascoltare le cover riadattate di "Break On Through" dei The Doors o "Cocksucker Blues" dei Rolling Stones, assieme alle altre di Willie Dixon ed Elvis Presley, con il selvaggio rintocco delle note suonate come solo i Not Moving sapevano fare in quel periodo nel bel paese. Quest'album non rende giustizia al suono della band come qualità sonora, anche se l'audio è più che onorevole, ma la innalza a repertorio cultural-musicale che ha fatto storia, il fissare un momento nel tempo che oggi più che mai ha la funzione di portare in alto una band che nel panorama underground italiano, a cavallo degli anni '80, fece scuola e deve essere ricordata e riscoperta da tutti gli appassionati di musica alternativa del bel paese. La band portava il nome di un brano dei DNA di Arto Lindsay, rincorreva le forme artistiche di The Cramps e l'avanguardia di Lydia Lunch, una meteora sonora nata dal nulla nella sconosciuta provincia piacentina che scrisse delle pagine di rock sotterraneo a dir poco esaltanti. (Bob Stoner)

martedì 20 luglio 2021

Hellamor / Red Stone Chapel - Major League Heavy-Rock

#PER CHI AMA: Stoner/Southern Rock
Si dice che l'unione fa la forza. Il fatto che le due band teutoniche, Hellamor e Red Stone Chapel, oltre a condividere più volte il palco, abbiano deciso di far uscire uno split album insieme, potrebbe fare al caso nostro per testimoniare quel detto iniziale, vedremo. Quattro pezzi per entrambe le band per dimostrare di che pasta sono fatte queste due realtà che francamente non conoscevo prima di oggi. Si parte dagli Hellamor, band originaria di Heidelberg, con all'attivo un full length, tre EP e ora anche questo split. La proposta dei nostri è un stoner sludge, come certificato dall'opener "Fallen Saint", un pezzo che evidenzia i pochi punti di forza nei nostri in un riffing compatto (sostenuto dalla voce piattina di Ralf) ma troppo ridondante nei suoi giri di chitarra che dopo tre minuti avrebbe potuto anche terminare li e invece prosegue per successivi tre min e 40. I richiami a Cathedral, Black Label Society ma pure ad altri alfieri della scuola heavy thrash (forse i Pantera?), sono più che evidenti soprattutto nella seconda e più psichedelica "Hourglass", ma non parliamo di certo di miracolo musicale. "I Can Hear It" infatti non fa che confermare l'attitudine rock'n roll dei nostri, che palesemente non s'inventano nulla di nuovo, ma anzi sembrano chiamare in causa a livello ritmico, i Metallica di 'Load', in una sorta di proposta garage rock da sbadigli. Ci riprovano con la più ritmata "Never Taught Me", un pezzo più sporco e forse per questo più vero. Andiamo avanti per capire se i Red Stone Chapel possono essere in grado di rovesciare l'esito di questo claudicante 'Major League Heavy-Rock'. A differenza dei primi, la band di Marburg sembra ammiccare in "The Paper King, ad un sound più southern rock, parecchio esaltante quando il sestetto decide di pestare sull'acceleratore. Qui i nostri diventano ben più convincenti dei loro compagni di avventura, sfoderando una voce rabbiosa dotata di maggiore carisma rispetto a quella di Ralf degli Hellamor e anche il sound si fa più ruvido e cattivo (vuoi forse per la presenza di ben tre chitarristi). La prova è sin da subito decisamente più convincente anche alla luce di un cambio nei tempi, stile ed atmosfera. E la cosa viene confermata fortunatamente anche dalla stravagante blues rock song intitolata "Progress in Work", che palesa per lo meno quanto sia grossa la personalità di questi tizi e quanto siano altrettanto grosse le palle di questi omoni nel mettere in musica la loro proposta spaghetti western tra vocalizzi psicotici, riff pesanti e begli assoli. La band non si ferma qui, visto che in "Genius Junction", registrata live al Subkultur di Hannover, ci spara in faccia un hard rock bello robusto che ha comunque il pregio di delineare la potenza espressa dal vivo dai nostri. Anche la conclusiva "Thieves in the Attic" è stata registrata nella medesima sede e ci mostra, sebbene tutti i limiti del caso legati ad una registrazione che forse non rende giustizia, una band comunque interessante sotto molteplici aspetti, trasudante groove dai ogni poro, grazie ad un sound cosi coinvolgente da scomodarmi per intensità un paragone con "She Sells Sanctuary" dei The Cult. Alla fine della fiera, avevo ragione, l'unione fa la forza visto che gli Hellamor li avrei schiantati al suolo se non ci fossero stati i Red Stone Chapel a salvare le loro pelli o palle che siano. Uno split che rende giustizia al nome dei Red Stone Chapel, la vera scoperta di quest'oggi. (Francesco Scarci)

giovedì 14 gennaio 2021

Blood Pollution - Raw Sovereignity

#PER CHI AMA: Thrash Metal, Motorhead
Non ho ben capito come mai la Wings of Destruction mi abbia riproposto un album del 2015, quando la band in questione ha peraltro già fatto uscire un nuovo lavoro. Detto questo, loro sono i russi Blood Pollution e l'album è 'Raw Sovereignity', uscito ormai sei anni fa. Una mezz'ora abbondante di suoni thrash'n roll per la band moscovita. Brani scanzonati, veloci, divertenti per una serata all'insegna di birra, wurster e crauti in compagnia degli amici, a partire dall'iniziale "Runaway" per poi proseguire attraverso pezzi più o meno interessanti, fino alla conclusiva "Tribes of Doom". Sapete per atteggiamento e proposta musicale chi mi hanno ricordato questi tre pazzoidi? Un ipotetico ibrido tra Motorhead, Tankard e primissimi Over Kill. Pezzi belli tirati, vocals impastate, chorus ruffiani e tanta spensieratezza. Brevi schegge impazzite come la seconda "Greetings From Nowhere", due minuti e mezzo di mosh indiavolato, tra schitarrate selvagge e una parvenza di assoli. Non grandi cose, ma tanta genuinità che forse andavano di moda 35 anni fa. Però che volete farci, il disco ce l'abbiamo fra le mani oggi, divertiamoci perlomeno. Ascoltare "Rocket Erection" è stato un tuffo nel passato quasi ad assaporare i primissimi vagiti dei Megadeth, con la voce del frontman a emulare l'esimio Dave Mustaine dei vecchissimi tempi. E poi ancora tonnellate di riffoni come non se ne ascoltava da anni con i miei pezzi preferiti identificati nella campanellosa "Monster Trucks Gone Wild", l'hard rockeggiante "Into the Abyss" e la conclusiva "Tribes of Doom", la traccia più lunga e strutturata del lotto, che mette in pista un po' tutte le influenze dall'heavy al punk passando attraverso il thrash concepito dal terzetto russo. Niente di serio, a parte puro rock'n roll. (Francesco Scarci)

giovedì 22 ottobre 2020

Mad Dogs - We Are Ready To Testify

#PER CHI AMA: Hard Rock
Non è facile evitare di cadere in certi pregiudizi o clichè da trito e ri-trito, se nell’Anno Domini 2020 ci troviamo per le mani un disco hard rock. Ma bisogna pur ammettere che si avverte, eccome, quando le corde sono fatte vibrare con il cuore e con passione. O quando a prevalere über-alles è la trascinante carica di certe schitarrate, che ti obbligano a scuotere la testa, senza un preciso motivo. Lo fai e basta. Questa nuova uscita per la Go Down Records, nonché terzo album in studio per i Mad Dogs, racchiude appieno il rock’n’roll sanguigno e genuino della band, senza mezze misure. Di derivazione spiccatamente seventies, ma con un’energia affilata e straripante. L’opener del disco, “Leave Your Mark On What You Do”, si presenta già con un richiamo Zeppeliniano negli stacchi di batteria iniziali. Semplice riscaldamento muscolare prima delle folli cavalcate che ci attendono, scandite da una raffica di groove: reminiscenze australiane in questa direzione, ma senza scomodare Bon Scott e compagni una volta tanto. Citiamo piuttosto le influenze dei Radio Birdman per affinità (con i cui componenti tra l’altro, i Mad Dogs hanno condiviso il palco). Siamo a bordo ormai, su questa locomotiva che corre all’impazzata: i rockers marchigiani non cedono di un beat e si prosegue a tutta birra. Le sei corde sono letteralmente “on fire” e senza tregua danno vita a riff diretti e travolgenti ed assoli irrefrenabili. Bad Religion e MC5, saltellando freneticamente tra garage rock e street punk, poi una rapida apparizione delle tastiere nella title-track, ma sempre e comunque guidati dallo stesso filo conduttore, unico vero e proprio credo: il Rock. Anticipato dall’uscita di tre singoli ("Not Waiting", "Hard Fight" e "Postcard From Nowhere"), 'We Are Ready To Testify' è la consacrazione del rock’n’roll secondo la visione della band italica e allo stesso tempo ne incarna appieno il messaggio. Si respira a pieni polmoni la devozione che i nostri hanno da sempre dedicato alla loro vera fede. E non si può che apprezzare la semplice caparbietà con cui scelgono di imboccare questa strada: testa bassa, pochi giri di parole e qui si suona sul serio. (Emanuele 'Norum' Marchesoni)

(GoDown Records - 2020)
Voto: 78

https://www.facebook.com/maddogsrnr/

sabato 16 maggio 2020

VV. AA. - 2003-2020

#PER CHI AMA: Garage Rock/Punk
Lo dichiaro immediatamente, non amo le compilation dove sono inserite più band, uno strumento utile solo per le etichette per fare propaganda al proprio roster, noioso per chi come il sottoscritto, deve ascoltare alla rinfusa brani scelti a rappresentare in modo totalmente casuale e poco approfondito, le varie band incluse. Fatte la dovuta premesse, dirò anche che non è assolutamente mia intenzione fare un track by track, non ne avrebbe alcun senso considerato poi che molte delle 28 band incluse in questa carrellata infinita, sono già state recensite su queste stesse pagine con i rispettivi album. La Go Down Records per celebrare i 17 anni di vita (non poteva aspettare i 20, mi domando) ha pensato bene di rilasciare questo lavoro, che si apre col blues rock mellifluo degli Alice Tambourine Lover e con la delicata ugola della sua frontwoman. Poi a ruota, il garage rock degli Ananda Mida con un estratto da 'Cathodnatius', il surf rock dei Diplomatics e il desert rock dei Fatso Jetson. Il comun denominatore lo vedete pure voi, è solo uno, il rock appunto, in ogni sua forma e manifestazione, un genere di cui la Go Down Records ne è assoluta alfiere. E allora nella giostra di questa raccolta non potevano mancare le divagazioni prog jazz de Glincolti o il più robusto stoner degli Humulus. C'è un quantitativo esagerato di musica, tutti pezzi assai brevi per un'ideale abbuffata di musica di facile presa, rock'n roll, di che altro stiamo parlando altrimenti. E allora ecco l'acid rock dei Mother Island, freschi di un nuovo album in uscita (cosi come l'hard rock dei Beesus), il punk-rock dei The Morlocks, per divertirsi in leggerezza in poco meno di tre minuti, la psichedelia dei Vibravoid, o lo sludge dei Jahbulong e ancora, per identificare un mio pezzo preferito, "Raul" dei Maya Mountains, probabilmente la band, più delle altre, in grado di differenziarsi dal marasma sonoro qui contenuto, per un ascolto però alla fine, comunque distratto. Inutile dare un voto ad un simile prodotto, ne avrebbe francamente molto poco senso. Non posso far altro che augurarvi un buon ascolto. (Francesco Scarci)

mercoledì 26 febbraio 2020

Graham Bonnet Band - The Book

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Hard Rock
Un melodic griffato Frontiers ("Welcome to My Home", "Strangest Day", la consueta sfilza di cognomi napoletani nei crediti), ma non soltanto. In apertura, per esempio, una spiazzante fucilata power - l'avreste detto? - i cui pallettoni finiscono conficcati nel prosieguo, per esempio in "Dead Man Walking", dove emerge invero un certo retrogusto Rainbow. I Rainbow, già. Quelli di "Rider", sparata giusto "Straight between the eyes" (sì, sì, cantava Turner, lo so), quelli di 'The Book' trascinati nuovamente 'Down to Earth' dall'eccellente, nervosissimo, riffettismo del giovane Conrado Pesinato, una specie di John Petrucci delle caverne. I Rainbow di 'Down to Earth', l'album più sovraesposto ("Since You've Been Gone", "Lost in Hollywood", "All Night Long", "Eyes of the World"... ma dov'è finito quel riff laser di tastiera che arrembava il pre-finale?) e al contempo sottoesposto (non avreste risentito almeno anche "Love's no Friend"?) dell'intero disco due, quello delle reincisioni: sedici insignificanti riproposizioni fotocopia sovente affaticate (il "Wanna make you miiiiine!" di "All Night Long", ma risentitevi anche il Bruce Dickinson asmatico di "Earth's Child" sul disco uno). Due grahambonnettosissime ore in tutto a coprire un'intera carriera quasi cinquantennale. Eccetto, ovviamente, gli imbarazzanti Marbles. Ve li ricordate? No? Domandatevi il perché. (Alberto Calorosi)

(Frontiers Records - 2016)
Voto: 60

https://www.facebook.com/grahambonnetmusic/

venerdì 14 febbraio 2020

Hourswill - Dawn of the Same Flesh

#PER CHI AMA: Heavy Prog, Anacrusis
Ci eravamo lasciati nel 2017 con i portoghesi Hourswill alle prese col loro secondo lavoro 'Harm Full Embrace'. I nsotri tornano sul finire del 2019 con questo nuovo 'Dawn of the Same Flesh', album sempre targato Ethereal Sound Works, proponendo il loro classico heavy prog dalle forti tinte malinconiche, come dimostrato già dall'iniziale "Asherah", una song piacevole ma forse un po' troppo sdolcinata per i miei gusti. Le cose iniziano a migliorare dalla seconda "Innocence", un pezzo dotato di una bella base ritmica, ottime vocals, discrete melodie, ma poco altro. Non che si tratti di una song brutta, non fraintendetemi, anzi il suo strizzare l'occhiolino più volte ai Nevermore, la fa apparire anche interessante, però è quel senso di stra-sentito che dopo pochi minuti mi infastidisce e me ne fa perdere l'attenzione. Ci si riprova con "A Beauty in Bloom", un pezzo ben più tirato (che risulterà anche essere il mio preferito), complice un muro ritmico che sembra combinare nello stesso momento heavy, hard rock, prog e thrash, in una combo che mi ricorda un mix tra Anacrusis, Xentrix, Meshuggah e Saxon. Strano no? Vi basti però dare un ascolto attento a quelle chitarrone un po' sincopate verso metà brano per capire cosa stia blaterando. Si torna a delle sonorità più soffici con "Now That I Feel" e francamente questo è il lato che fatico maggiormente a digerire dell'ensemble di Lisbona, troppo dura per essere considerata la classica ballad, troppo leggerina per essere definita una song metal, per non citare poi quel duetto tra il frontman e la classica fanciulla di turno (Neide Rodrigues) a offrire i propri servigi canori dietro al microfono (la vocalist tornerà anche in "Hanwi"), che non ho trovato proprio appropriatissimo. Si ripassa al robusto heavy rock di "Enlightenment" con la voce di Leonel Silva fin troppo sopra le righe, mentre alle sue spalle, giochi di chitarre, basso e batteria, regalano attimi di grande interesse soprattutto nella seconda parte della traccia. Si arriva cosi al trittico formato da "Benightedness (Part I, II & III)", che lungo i suoi oltre dodici minuti alterna un po' tutti gli umori sonori del quintetto lusitano, dai suoni in penombra di quell'introduttivo piano (con terribile voce a complemento), passando da ringhianti riff di chitarra della seconda parte per arrivare fino alle partiture acustico jazzy-flamencate della terza sezione. Il disco ha ancora ben quattro da offrire ma soprattutto una schiera di numerosi ospiti da proporre. Tra questi, mi soffermerei su Agostinho Lourinho che nella conclusiva e già citata "Hanwi", trova modo di dar sfoggio della sua creatività al sax con un assolo pauroso in un caldo pezzo atmosferico che sembra esser stato concepito sulle spiagge di Salvador de Bahia dal duo formato da Toquinho e Gilberto Gil, per un esperimento questo, davvero riuscito. Che altro dire degli Hourswill quindi? C'è ancora sicuramente molto da lavorare; in "Dawn of the Same Flesh" si trovano cose decisamente interessanti alternate ad altre un po' più noiose e scontate, tuttavia mi sento di dare fiducia al combo portoghese auspicando in nuovi passi in avanti nel futuro della band. (Francesco Scarci)

(Ethereal Sound Works - 2019)
Voto: 67

https://www.facebook.com/Hourswill

mercoledì 6 novembre 2019

Deadly Shakes - Left Behind

#PER CHI AMA: Hard Rock
In arrivo dalla Francia un bel carico di hard rock suonato con i controcoglioni. Loro sono i Deadly Shakes e 'Left Behind' è il loro EP di debutto, dopo aver rilasciato un altro EP, questa volta col monicker The Stone Cox, nel 2015. Quattro pezzi quindi per saggiare la tonicità di questo terzetto di Mulhouse. Si parte da "Living by the River", caratterizzata da un bel giro di chitarra iniziale, vocals potenti e da un groove che mi ha evocato per certi versi quello contenuto in 'Electric' dei The Cult. Lo spunto finale poi, a livello di solismi con tanto di coda stoner-darkeggiante, impreziosisce un brano di per sè convincente. Si passa a stretto giro all'arrembante, ma soprattutto punkeggiante, "Reap What You Sow", un pezzo che ammicca a certa produzione targata Billy Idol, una scheggia divertente di rock che dura poco più di una manciata di minuti. Pronti poi per ricominciare dalla title track, una semi-ballad dall'anima blues-rock, com'erano anni che non ne sentivo, con un bel crescendo finale con tanto di assolo scaldacuori in stile Guns N' Roses. Le danze si chiudono con un altro pezzo che scomoda Axl Rose e compagni: si tratta di "Never Return", che ci mostra nuovamente il lato più tenero di questa band alsaziana, ma al contempo la capacità di muoversi all'interno di contesti non propriamente hard rock, bensì più controllati ed introspettivi, sebbene nel finale i nostri si lancino in uno splendido e accecante esempio di hard rock di scuola Led Zeppelin. Peccato solo che il lavori non superi i 17 minuti, sarebbe stato interessante capire maggiormente come la band si muova in territori, dove spingere il piede più sull'acceleratore, è più che indicato. (Francesco Scarci)

(Love Apache Records - 2019)
Voto: 69

https://deadlyshakes.bandcamp.com/releases

venerdì 1 novembre 2019

The Dues - Ghosts Of The Past

#PER CHI AMA: Psych/Blues Rock, Led Zeppelin, Radio Moscow
Per gli amanti di sonorità vintage/retrò che ci conducano indietro nel tempo di almeno 40 anni, eccovi serviti i The Dues, terzetto proveniente da Winterthur, in Svizzera. 'Ghosts of the Past' - mai titolo fu cosi azzeccato - è il terzo lavoro dei nostri, che include nove song che inglobano nel loro magico fluire, rock'n'roll, funk, psichedelia e blues rock, citando indistintamente nelle loro note, Cream, Led Zeppelin, Black Sabbath, Jimmy Hendrix e molti altri, insomma quei fantasmi del passato menzionati proprio nel titolo di questa terza fatica. E allora vai che si parte con la title track e quel giro di chitarra su cui si va a piazzare la voce di Pablo Jucker, in una song dai risvolti quasi doomish che cita sin da subito, Ozzy Osbourne e soci. "Something for my Mind" è una breve e nervosa scheggia rock che vi farà oscillare il capo e non poco. "Sails of Misery", con quel suo rullare imponente di batteria in apertura, si lancia in un impetuoso rock'n'roll, in cui a farla da padrone sono i giri di chitarra di Pablo (favoloso peraltro nella sezione solista), accompagnato puntualmente dall'ottimo basso di Stefan Huber e dal preciso drumming di Dominik Jucker. L'intro di "Under the Sea" è più pacato e oscuro, il che ci rivela anche una versione più riflessiva dei The Dues, in una song che appare però svuotata e pertanto meno efficace delle precedenti. Con "Love" mi sembra di entrare in uno di quei club dove musicisti con ampi pantaloni a zampa di elefante, si dilettano improvvisando pezzi blues rock, che mancano però di una magica spinta propulsiva. Questo per dire che l'energia emersa nelle prime tre song, sembra via via scemare: anche in "Elements of Doubt" assisto alla stessa cosa, ossia un pezzo blues rock che suona un po' troppo forzato per i miei gusti. Preferisco quell'attitudine genuina e spontanea che avevo apprezzato nel filotto iniziale e che fortunatamente sembra riapparire almeno in "La Realidad", in cui Pablo, oltre a cantare in spagnolo, adotta uno stile vocale differente. Rimane poi la conclusiva "Ley Lines", il brano più lungo e articolato (vista la forte vena psych rock che la pervade e quel suo fantastico assolo conclusivo che chiama in causa molteplici interpreti di quel periodo d'oro) di questo 'Ghosts Of The Past', e che vede i The Dues essere assai più convincenti in quei brani più ricercati e dinamici, che di certo avrebbero spopolato nei meravigliosi anni '70. (Francesco Scarci)

(Sixteentimes Music/Czar of Crickets Prod. - 2019)
Voto: 69

https://thedues.bandcamp.com/album/ghosts-of-the-past 

mercoledì 23 ottobre 2019

Magic Pie – Fragments of the 5th Element

#PER CHI AMA: Hard Rock/Prog Rock, Kansas
Ci sono voluti alcuni anni di attesa per gustare il ritorno in grande stile della navigata band norvegese dei Magic Pie, che al quinto album, uscito per la Karisma Records (prodotto ottimamente da Kim Stenberg e mixato in maniera esemplare da Rick Mouser), tocca una vetta artistica notevole, compiendo un ulteriore balzo in avanti nella qualità musicale proposta, offrendo un disco variegato e ricercato da veri esperti, sapienti e conoscitori del genere prog/retro rock, ovviamente rivisitato e adattato in chiave moderna, da sempre manifesto intento della band. Le indiscutibili doti compositive ed esecutive si esprimono al meglio sin dal primo dirompente singolo di questo 'Fragments of the 5th Element', intitolato "The Man Who Had It All". La song incanta con i suoi virtuosismi sopraffini ed una spettacolare composizione degna di nota, spostandosi tra il Gabriel e i suoi Genesis storici, aperture beatlesiane e fraseggi alla Dream Theater/Marillion, ed uno scambio di voci e cori curatissimo che proseguirà per tutto il disco, canzone dopo canzone, caratterizzandolo fortemente. Tracce di hard rock in stile Kansas e pefino dei vecchi Judas Priest, scorrono nelle vene di "P&C (Pleasure & Consequences)" con un corridoio free jazz rock inaspettato e una coda di chitarra e tastiere per un finale melodico che mostra una band perfettamente in grado di giocarsela anche con le ultime uscite dei Deep Purple. Da notare la splendida voce di Eirikur Hauksson che riporta in auge il tono rauco appena accennato, da sempre di casa anche nei fantastici Jethro Tull d'annata. "Table for Two" è un pezzo impressionante, che riesce a fondere l'elaborata leggerezza rocciosa dei Kansas con il suono cosmico di "Alladin Sane" del duca bianco, e lo spettro sofisticato del più recente Bowie si aggira anche in "Touch by an Angel", una ballata virtuosa che rimanda al romanticismo futurista di Nad Sylvan. Ci si abbandona al puro piacere nella lunga "The Edonist", brano conclusivo, complicato e multicolore (come la splendida copertina del cd, cosi raffinata ed intrigante) di circa 23 minuti, carico di ricercati snodi stilistici alla Yes, o alla maniera di Neal Morse con tanto di aperture nel segno di Gillan e compagni, a cui aggiungerei anche, in alcuni tratti, una certa colta aggressività alla ELP, un piccolo gigante sonoro che non deluderà gli amanti del progressive rock, volto a rinvigorire i fasti del passato, una musica progressiva capace, intelligente ma soprattutto esageratamente piena di vita. Lunga vita al Prog Rock! (Bob Stoner)

domenica 13 ottobre 2019

Vixa - Tutto a Posto

#PER CHI AMA: Crossover/Rapcore
Scrivo Vixa ma va letto vipera, sarà fatto e mi adeguo. 'Tutto a Posto' è l'album d'esordio di questo quartetto ferrarese che ammetto non incontrare proprio i miei gusti musicali, ma cercherò di essere quanto mai oggettivo nell'analisi del presente lavoro. Si parte col noise rock introduttivo di "Sbaglio da Me", una song che per almeno il primo minuto mi lascia ben sperare tra ritmiche cibernetiche ed un riffing compatto; quello che temevo era il cantato in italiano e le mie paure si tramutano in dura realtà, difficile da digerire perchè è il classico modo di fare degli artisti italiani che affidano interamente la scena al vocalist (non proprio un maestro nel canto), relegando in secondo piano gli altri strumenti, ma perchè? Molto meglio infatti la seconda parte del brano, quando voce e ritmica vanno a braccetto, anche se la performance vocale di Alen Accorsi lascia un pochino a desiderare. Ancora un buon inizio con "Borderline", tra l'altro il singolo apripista del quartetto, che si qui lancia in una commistione sonora tra crossover, rapcore e un roccioso rock, quasi un mix tra Rage Against the Machine, Faith No More ed IN.SI.DIA, il tutto condito da un colorito utilizzo delle liriche a base di "vaffanculo vari". Decisamente un passo in avanti rispetto all'opener. Con "Immobile", la sensazione, per lo meno iniziale, è di apprestarsi all'ascolto di un brano grunge, in realtà poi è un'alternanza ritmica adombrata a tratti, ancora dalla voce del frontman. E dire che la song si muove piacevolmente su coordinate stilistiche che evocano un che dei Deftones, ma ci sono ancora un po' di cosine da aggiustare, perchè la strada sembrerebbe quella giusta, soprattutto quando la performance vocale si amalgama in modo ottimale con gli altri strumenti. "Veleno (parte 1)" è un massiccio pezzo strumentale che si chiude con una sorta di parodia rap. "Riserva di Calma" è un altro brano che combina rap e rock, che forse poteva anche andare alle selezioni di X-Factor, pur di evitare di cadere tra le mie grinfie e dire che comunque a livello di testi, i Vixa sono anche interessanti (e socialmente attivi). "Veleno (parte 2)" è un brevissimo intermezzo che ci porta a "Illuso", il pezzo più oscuro del lotto soprattutto a metà brano dove c'è un bel rallentamento atmosferico e degli ottimi suoni, tra stoner e space rock, decisamente il mio pezzo preferito e anche quello più convincente, soprattutto per l'uso di voce e keys. "Lavoro di Stomaco" sembra aprire sulle note di uno dei primi pezzi dei Metallica per placarsi immediatamente e affidare lo stage ad Alen in un'evoluzione litfibiana del brano di cui sottolinerei il chorus, graffiante e accattivante quanto basta. A chiudere il disco ecco la nevrotica title track, schizoide nella sua natura ritmica e rapper nel cantato, infine detonante nella sua magnetica conclusione. Un lavoro per quanto mi riguarda interessante, che con qualche aggiustamento in più, potrebbe conquistare anche la fiducia di chi come me, non ama queste sonorità. (Francesco Scarci)

((R)esisto - 2019)
Voto: 67

domenica 23 giugno 2019

Hunternaut - Inhale

#PER CHI AMA: Hard Rock/Post Grunge, Alice in Chains
Terminata l’eterea intro di sintetizzatori, ammetto di aver pensato per un attimo di aver inserito per sbaglio un disco degli Alter Bridge nello stereo! Scherzi a parte, il riff introduttivo di “Oxidize”, con quell’intreccio della doppia linea di chitare whammate, lascia percepire da subito certi richiami al quartetto di Orlando nel disco, soprattutto nelle parti chitarristiche di ispirazione piuttosto Tremontiana. L’impronta Hunternaut emerge comunque in un hard rock solido, ma dalle sfumature tetre allo stesso tempo, quasi ancorate a certe cose dei Tool. Certo giungono ad alternarsi anche sezioni meno grevi (“Soap Bubbles”, “Out There”), funzionali più per orecchi non abituati a volumi troppo alti, ma comunque piuttosto piacevoli. Le linee vocali abbastanza melodico-italianizzate, coniugano poi la potenza propria del gruppo a questi momenti di ristoro, dai toni più leggeri, rendendo il climax complessivo abbastanza altalenante. Forse proprio per questo gli otto brani di 'Inhale' ci portano anche a qualche spunto riflessivo, più di quanto ci si aspetti di primo acchito. Il quartetto di rockers si era presentato al mondo musicale con "Hundreds of Scars", versatile singolo estratto da quest’album d’esordio, uscito nell’aprile di quest’anno per la (R)esisto Distribuzione. Nonostante la giovane età, i quattro musicisti bresciani dimostrano comunque una notevole attenzione agli arrangiamenti, supportata poi dal mordente e dalla passione tipici, che si concretizzano in questo debut dalle diverse chiavi di lettura, senza estremismi o leziosità, ma adatto a tutte le tipologie di ascoltatori, anche i meno attenti. Le potenzialità ci sono, soprattutto perché questi ragazzi hanno una strada lunga davanti, per poter stupire con qualche bel colpo. Restiamo in traccia. (Emanuele "Norum" Marchesoni)

((R)esisto Distribuzione - 2019)
Voto: 68

https://www.facebook.com/HunterNautBand/

lunedì 20 maggio 2019

Space Traffic - Numbness

#PER CHI AMA: Psych Rock
L'ho sudata (e fatta sudare) questa recensione, vuoi perchè ad un certo punto mi sono trovato dall'altra parte del mondo con la band che giustamente mi sollecitava alla sua pubblicazione sul sito, vuoi perchè, chi originariamente doveva scrivere queste righe, è scomparso. Alla fine è toccato a me descrivere le sensazioni emanate da questo primo capitolo dei valdostani Space Traffic intitolato 'Numbness'. Un salto indietro nel tempo che mi ha riportato ai vecchi e sempre più rispolverati ultimamente - penso ai The Mighties - anni '60. Lo si evince dall'opener "Numbness", la title track, ma in successione anche dalle varie "U Say U Love Me", "Power and Pride" e "Fire from the Depth". Inizio col raccontarvi di quanto sia suggestivo il motivo del moniker della band, legato a quel momento d'interruzione delle comunicazioni tra la navicella Apollo 10, in orbita nel 1969 sul lato oscuro della Luna, e la Nasa, e la comparsa contestuale a bordo della capsula di una strana musica che venne attibuita poi al traffico degli oggetti spaziali in collisione col campo magnetico della Luna stessa. Ma volgiamo lo sguardo verso il cielo e torniamo a parlare di musica e a quel suo sound parecchio vintage rock che scomoda facili paragoni con grupponi anni '60. Con "Time Machine" penso ad un ibrido tra blues/hard rock, psichedelia nelle sue note iniziali e quella spruzzatina di stoner che non guasta mai. Toni decisamente più pacati con la già citata "Power and Pride", la classica ballata strazzamutande dei vecchi dischi primi anni '70, la song che si metteva alle feste per il classico ballo lento, quello del tête-à-tête con la ragazza dei sogni, in una song che potrebbe richiamare Beatles e Pink Floyd allo stesso tempo. Non male, anche se devo ammettere di aver apprezzato maggiormente il basso, a braccetto con la chitarra solista, di "Hails of Love", un altro pezzo che per certi versi mi ha evocato i Floyd più rock oriented e meno sperimentali. "Mirror Game" tiene invece un ritmo più tirato con la voce del frontman qui più convincente che in altre parti nel cd. Si ritorna a suoni più compassati con "Blue Moon", almeno nella prima parte, cosi delicata e malinconica anche nel cantato di Marco Pica, prima di un finale che si lancia in un chitarrismo sfrontato di scuola zeppeliana (ripresa poi dal bravo Slash) che me la fa optare come mio brano preferito di questo 'Numbness'. C'è ancora tempo per un altro paio di brani, l'intimista "Tear it Down", dove largo spazio è riservato alla chitarra ispirata di Fabio Baldassarri e "Fire from the Depth" che menzionavo all'inizio come classico pezzo di rock'n roll sessantiano. Rimane un'ultima song, "The Dream", qui in versione live, per undici minuti di inossidabile psych rock di scuola floydiana che esalta le qualità del terzetto di Aosta in questa loro prima fatica. Sprazzi di luce, ma anche qualche ombra su cui lavorare (penso ad un perfezionamento a livello vocale ad esempio), ma la strada su cui si sono incanalati gli Space Traffic sembra promettere bene. (Francesco Scarci)

sabato 11 maggio 2019

The Worst Horse - The Illusionist

#PER CHI AMA: Hard Rock/Stoner
Una mitragliata hard-stoner-fucking-rock’n’roll ci getta violentemente in questo 'The Illusionist'. L’opener “Tricky Spooky” ci aggredisce e ci trascina giù, vorticosamente nel disco, al grido rabbioso dei milanesi The Worst Horse. Un grido che sale dal basso e si protrae fino alla successiva “313 Pesos”, che non accenna a diminuire i toni, con l’imposizione del suo groovvone metallico e fregiandosi di richiami (e ricami) hard blues, sempre ovviamente con gli amplificatori sparati al massimo. 'The Illusionist' è in realtà un concept, improntato appunto sulla figura appunto dell’Illusionista. Questo tetro personaggio è artefice ma allo stesso tempo vittima di malvagità, ormai schiavo di quei mostri interiori che ha voluto seguire ma che ora si impongono al suo volere, gli stessi mostri che sovente s'impossessano anche dei cupidi esseri umani. Le tetre fantasie che s'incontrano nei brani, sono infatti profonda allegoria di una realtà che troppo spesso cede alle malvagità, quei demoni che raschiano il fondo dell’anima umana e tuttavia ne sono anche parte integrante. La title-track, coi suoi richiami ai Motorpsycho più recenti, funge appunto da descrizione-presentazione del nostro Illusionista e della sua eterna caduta. L’album procede senza intoppi, sempre sfoggiando riffoni e groove trascinanti in puro stile Worst Horse, tra pure sonorità stoner alla The Sword ed ispirazioni dark-blues sabbathiane. Elemento fondamentale, anche per lo storytelling del concept, le vocals potenti e laceranti (come nel brano “XIII”) di David Podestà, fondatore del gruppo assieme al guitar-man Omar Bosis. Dopo essere passati per oscuri anfratti e scabrosi pensieri, arriviamo in conclusione, dove ci aspettano sette abbondanti minuti con la sparata hard-rock “It”, brano solido, dal titolo già decisamente evocativo in ambito di demoni e terrori. La struttura è decisamente articolata rispetto agli altri brani, ma pur sempre coesa, traduzione di un ottimo lavoro a livello compositivo e di arrangiamenti del trio milanese (oggi quartetto con l’ufficializzazione dell’ingresso del nuovo bassista). Da segnalare anche la presenza su quest’ultima traccia di un ospite d’eccezione: Luca Princiotta (Doro Pesch, Blaze Bayley) come chitarra solista. Diretto e deciso, ma molto più profondo del previsto nelle tematiche, questo concept-album è sicuramente un’eccellente prova da parte dell’ensemble milanese, che prima di 'The Illusionist' aveva pubblicato un EP omonimo, 'The Worst Horse'. Negli ultimi anni la frequente attività live deve aver temprato le corde di questi ragazzi dal grande potenziale, che ci regalano un’altra piccola chicca da inserire nell’ampio panorama dello stoner-rock nostrano, arricchito però da quell’anima groove ed aggressiva che li contraddistingue. (Emanuele "Norum" Marchesoni)

(Karma Conspiracy Records - 2019)
Voto: 82

https://theworsthorse.bandcamp.com/album/the-illusionist

mercoledì 24 aprile 2019

Trevor and the Wolves - Road to Nowhere

#PER CHI AMA: Hard Rock, AC/DC
Nel primo album solista pubblicato dalla catarrosissima voce solista dei genovesi Sadist, rileverete fin da subito un'attitudine elettivamente e ostentatamente wild, pronta a riflettersi innanzitutto nella copertina, qualcosa a metà tra il vicino scorbutico di Dinamite Bla e un Rufus Ruffcut post Wacky Race e, subito dopo, nella ruvidità lignea e immediata dei suoni (chitarra, batteria, riuscite forse a non battere il piede per terra? Sì? Sul serio?) in modi non dissimili da cert'altri celeberrimi boscaioli a corrente alternata/diretta e provenienti dai famigerati antipodi. Riff asciutti, batteria metronomica: l'AB/CD del sound AC/DC omaggiato nella iniziale "From Hell to Heaven Ice" si propaga in realtà per tutto l'album, soltanto saltuariamente (e timidamente) virante verso sensazioni vagamente spacy (il blue-oyster chitarrismo percepibile in "Burn at Sunshine"), o NWOBHorrorM (una fuggevole capatina nel confortevole death metal sound della casa, è gentilmente offerto in "Bath Number 666"), oppure "motörheadeliche" (in "Wings of Fire" e "Lake Sleeping Dragon" ad esempio) o infine hardfolk/ancorapiùhardblues (nel violino scorticato di "Red Beer" o nella kilmister-sadness-blues "Roadside Motel"). Devozione, professionalità e un songwriting indubitabilmente ebanistico. (Alberto Calorosi)

(Nadir Music - 2018)
Voto: 65

https://www.facebook.com/brutaltrevor%20/

The Shadow Lizzards - S/t

#PER CHI AMA: Stoner/Groove Rock, Led Zeppelin
Un chitarrismo apertamente 1969/hendrixiano ("Power On" e tante al.) o jimmypage/esco ("Overhaul" e le restanti al.), a tratti eminentemente strumentale (cfr. la lunga coda psych di "Breathtaker", le divagazioni bluesy stile Gov't Mule di "Sea of Curls" e "Go Down"), una voce (non sufficientemente) rauca d'ordinanza, una batteria non sempre mixata a dovere ("Rip Me Off"), qualche timida testardaggine stoner (la paranoid-sabbatiana e successivamente iper-spacey "Warzone") e, splat, giù tonnellate di quella specie di gelatina hammond ("Go Down", "Power", "Rarity" e tutte le al.) color profondo purple utilizzata da qualche anno a questa parte dagli ingegneri del sound più astuti come principio attivo antichizzante: il frondosissimo album d'esordio delle Luccertole (sic) ombreggiate di Norimberga si colloca con monolitica intenzionalità nella prima periferia del popolosissimo empireo zeppelin-centrico, notoriamente pullulante di reggiseni sventolanti e ipertricotici beati in stato sempiterna rock-fattanza, ad osare là dove osano (si fa per dire) autori del calibro di Mountain ("Top of the Mountain", ovviamente), "Rival Sons" e soprattutto "Graveyard". Una manna sonora alla psilocibina per il vostro unico, rugginoso ganglio uditivo rimasto. (Alberto Calorosi)

(Tonzonen Records - 2018)
Voto: 75

https://theshadowlizzards.bandcamp.com/

Ritchie Blackmore's Rainbow - Memories in Rock II

#PER CHI AMA: Hard/Heavy, RJ Dio
Volonterosamente determinato a riempirvi gli scaffali e al contempo vuotarvi le tasche con quella nota logica di marketing cara alla politica italiana denominata annusa-le-mie-scorregge-puzzolenti, il Becchino Permamentato formerly-known-as-guitarist, sbatte fuori il terzo live-fotocopia in meno di due anni. Duemila16: 'Memories in Rock', di cui avrete senz'altro ammirato la copertina raffinata grosso modo come un bootleg filippino degli anni novanta. Duemila17: 'Live in Birmingham 2016', in cui avrete indubbiamente gradito la scaletta clonata (fuori "16th Century Greensleeves", dentro "Burn" e "Soldier of Fortune") come una pecora cinese canterina. Duemila18: 'Memories in Rock II', di cui avrete sicuramente apprezzato la clonazione al quadrato, nella copertina, uguale nientemeno che a 'Rainbow Rising', e nella scaletta (dentro tutti i summenzionati, più "All Night Long", "Temple of the King" e crepi l'avarizia, pure un fottuto inedito). Già, l'inedito. Il primo da ventitré anni a questa parte. Si parla di almeno diecimila metallari nel mondo ricoverati per complicazioni cardiache. Quasi la metà sarebbero reggiani. Un franoso mezzotempo 101% AOR aperto da un truffaldino (ma decente) riff Dio-era e nevrilmente percorso dai consueti clichet chitarristici di Mr. Becchino P. che potrebbe stare giusto sul lato B di 'Bent Out of Shape' o nelle bonus track di una qualunque release della Frontiers. Oppure qui. Si intitola "Waiting for a Sign". Un titolo, se ci pensate, straordinariamente comico. (Alberto Calorosi)

(Minstrel Hall Music - 2018)
Voto: 45

http://www.ritchieblackmore.info/