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venerdì 18 ottobre 2013

Wine From Tears - Glad to be Dead

#PER CHI AMA: Death Doom, Swallow the Sun
Anche i Wine From Tears fanno il proprio ritorno sulla scena dopo ben quattro anni di silenzio. La band russa, alfiere di un death doom, non tradisce le aspettative, offrendo una proposta che migliora quanto fatto in “Through the Eyes of a Mad”. Pur mantenendo intatte le influenze di Saturnus, Draconian o Officium Triste, la nuova release dei nostri assume maggior dinamicità nel suo flusso musicale. Un’intro e poi è “Allergic Sun” a darci il benvenuto con la sua perfetta miscela tra riffoni doom, placidi tocchi di pianoforte, malinconiche melodie affrescate dalla seconda chitarra e il classico vocione growl a cui si contrappone la classica voce pulita (non troppo convincente però). Gli ingredienti del genere ci sono tutti, sta nell’abilità ed estro delle band combinarli nel giusto modo. E i Wine From Tears direi che ci riescono egregiamente, proponendo alla fine un lavoro che si lascia piacevolmente ascoltare. “What are you Waiting for?” soffre magari un po’ dell’influenza dei primi Paradise Lost nella sua prima parte, ma poi il compitino lo portano a casa, grazie ad un finale in cui si rivela un crescendo emozionale e musicale. Ancora i caldi tocchi del pianoforte ad aprire “In Memory of the Truth” e poi le chitarre d’accompagnamento in una song che vive il suo maggiore sussulto nel rockeggiante e ipnotico break centrale. “Let me in” e a ruota tutte le successive tracce non si distaccano poi molto dal canovaccio fin qui creato, pescando idee, influenze un po’ qua e là dalle band fin qui citate e anche dai primi lavori di Swallow of the Sun o Katatonia. Unica song che sembra prendere le distanze da quanto fatto è la conclusiva “Silence no More” che tra sole voci pulite, affiancate dall’estro di una dolce donzella e ritmiche orientate al versante gothic, fanno apparire i nostri in una veste più vicina ai nostrani Lacuna Coil. Il risultato finale non sarà certo memorabile, tuttavia “Glad to be Dead” si rivela un album piacevole ai primi ascolti ma che forse alla lunga rischia di finire nel dimenticatoio. (Francesco Scarci)

(BadMoodMan Music - 2013)
Voto: 65

http://winefromtears.bandcamp.com/

giovedì 9 maggio 2013

Darktrance - Pessimum

#PER CHI AMA: Black dark, Bethlehem
E sono tre… sto parlando ovviamente degli album della one man band ucraina, Darktrance. Da notare immediatamente che lo spettro musicale coperto dal mastermind Deimos si è notevolmente ispessito, dando corpo ad un sound abile nel combinare sonorità estreme con una vena assai melodica e darkeggiante, per un risultato finale davvero singolare. L’album tocca il suo apice già con l’iniziale “Anthems of Melancholy”, traccia che vive del connubio vocale del frontman, con un cantato disperato ma assai convincente, che si contrappone al classico pulito (ormai a dir poco inflazionato), il tutto giocato su un riffing cupo e minaccioso, in cui la malinconia è acuita da soffusi tocchi di tastiera. Un bel riffone death apre “Soul Collectors”, con la voce che sembra aver assunto dei connotati più vicini al post-hardcore che al black; eccomi però improvvisamente piombare nelle tenebre con un breve break catacombale da cui esplode un’accelerazione di chiara derivazione nordica. Ma è comunque il ritmo apocalittico alternato al riffing spietato, a dettare i tempi della song, con chiari riferimenti al sound dei Bethlehem. La title track offre altri spunti interessanti a livello delle tastiere, spettrali e inquietanti cosi come le ritmiche acuminate e il cantato, ancora in versione clean, che pian piano tende ad assumere una propria delineata fisionomia. Mi piace, non c’è che dire. “Day X” esplora altre strade: quelle della paranoia, del riffing ipnotico e di un uno stile vocale ossessivo, sorretto da splendide, esplosive e spaziali linee di chitarra. “Pessimum” cresce, è una forma che va plasmandosi all’interno della mia testa, assume contorni che neppure immaginavo e lentamente appaga non poco i miei sensi. Un interludio abissale e poi è “Fall of the Emptiness” a suonare nel mio stereo con un sound vicino a quello dei nostrani Forgotten Tomb, anche se poi la creatura del buon Deimos sembra dirigersi verso altri lidi pescando un po’ dal post-black, dal dark dei Tiamat di “The Deeper Kind of Slumber” o dal doom. Sono allibito. C’è ben poco di scontato dentro le note di “Pessimum”, anche se non tutte le song ovviamente brillano di luce propria. Però è un album che alla fine risulterà coinvolgente, fresco e divertente: ultima menzione per “Whispers of the City in Blood”, traccia in linea con la produzione death doom melodico finlandese (Black Sun Aeon) e l’ultima schizoide e tenebrosa “Last”, che con i suoi otto minuti chiude degnamente un lavoro che non dovrà passare inosservato alla vostra attenzione. I Darktrance hanno fatto un grande passo in avanti rispetto al precedente album, dimostrando di essere pronti al grande salto per una etichetta dalle ambizioni più grandi. Complimenti! (Francesco Scarci)

(BadMoonMan Music)
Voto: 80

http://www.myspace.com/darktranceband

sabato 4 maggio 2013

Alley - Amphibious

#PER CHI AMA: Death Progressive, Opeth
Tornano i russi Alley, che avevamo analizzato nel 2008 con il loro debut cd “The Weed”, un album di forte derivazione dal sound dei primi Opeth. A distanza di cinque anni da quel lavoro, ecco l’ensemble siberiano tornare in sella con “Amphibious”, un progetto che pur mantenendo palese l’impasto sonoro dei gods svedesi, cerca nuove strade e il risultato, devo darne atto all’act della piccola città di Krasnoyarsk, mostra un discreto passo in avanti per i nostri. Certo, in cinque anni era lecito aspettarsi qualcosa in più, di questo passo dovremo attendere il 2028 per ottenere qualcosa di certamente più personale. La durata delle song si continua a confermare molto lunga, a dir poco estenuante, ma poco importa perché alla fine il sound non risulterà mai statico. Citavamo per l’appunto gli Opeth, e la componente più aggressiva degli Alley, senza ombra di dubbio, continua a pagare un forte dazio, sia a livello di ritmiche che di growling vocals, ai ben più famosi colleghi svedesi. È quando i nostri si lanciano in psichedelici break atmosferici che rimango affascinato dal “nuovo” sound della band della Federazione Russa. “Lighthouse” è splendida nella sua lunga fuga lisergica, quasi uno space rock sporcato di sonorità post e death progressive, parti acustiche e buonissime cleaning vocals. Ottima song davvero, forse fin troppo articolata, laddove per suonare questo genere di musica, di attributi e classe ne servono davvero tanti. “Weather Report”, la seconda traccia, inizia dando largo spazio al cantato in pulito (e tale sarà per il resto della sua durata), mostrando l’ennesima progressione e una nuova apertura da parte del combo russo. La traccia scorre via assai fluida, attraversando le foreste del death metal, scalando le impervie montagne del progressive e tuffandosi in inaspettati abissi al limite del jazz, come si evince dalla sua delirante conclusione affidate a schizoidi chitarre sorrette da un duo formato da basso e batteria. Il sound è divenuto molto più caldo, avvolgente come la coperta di pile che mi riscalda nelle notti invernali. La band non si fa mancare ovviamente nulla, quindi non stupitevi se l’inizio della title track è affidato ad un arrembante attacco death con tanto di blast beat e gli amati ubriacanti giri di chitarra tipici di Akerfeldt e soci. Poi la band prende ulteriormente coraggio e si lancia in meravigliosi giri di chitarra, atmosfere oscure e arpeggi da paura. Stanno crescendo, non c’è dubbio, pur essendo lo spettro degli Opeth costantemente presente. Ma a questo punto non darei più molta importanza. Gli Alley stanno facendo le cose per bene, certo avessero scelto una copertina migliore per questo disco, lo avremo apprezzato ulteriormente, avrebbero avuto un impatto più positivo per il sottoscritto anziché quella brutta faccia in fase di senescenza; ridurre la durata dei brani e renderli un po' più fluenti, auspico sia il prossimo passo per i nostri, certo non vorrei attendere altri cinque anni prima che un nuovo album veda la luce. (Francesco Scarci)

(BadMoodMan Music)
Voto: 70

domenica 28 aprile 2013

Aut Mori - Pervaja Sleza Oseni

#PER CHI AMA: Death Doom Gothic, Draconian
Primo lavoro per questo relativamente nuovo gruppo: formatisi infatti nel 2009 in Russia, la band è composta da Alexey Chernyshov e Stepan Sorokin alle chitarre, Maria Sorokina alle tastiere (e anche unica voce femminile) e Evgeniy Chepur alla voce. Tra le loro maggiori influenze si possono contare i Draconian e gli Auto-de-Fe, dalla quale band la maggior parte dei componenti provengono. Scritto e cantato totalmente in russo, le atmosfere espresse, si affacciano sul gothic doom metal, con il solito trito e ritrito connubio voce soave – growl (insomma la bella e la bestia) e tante tante tastiere che enfatizzano la malinconia e la parte più introversa dell'ensemble. L’alternanza di melodia e ritmi doom rendono il lavoro interessante da un punto di vista di attenzione, ma diventano poi ripetitivi ad ogni brano, con il risultato di risultare pesanti all’ascolto e definitivamente noiosi alla lunga. Le vocals maschili non mettono i brividi, anzi: appaiono flebili, seppur profonde; probabilmente la causa è anche l'utilizzo della lingua russa, che tende ad essere molto consonantica e poco musicale. Da sottolineare la presenza di Jerry Torstensson dei Draconian alla batteria (e responsabile anche delle registrazioni) e di tal Olof Göthlin al violino. Difficile dare un giudizio completamente positivo, a meno che non siate ragazzine che giocano ad essere dark sbandierandolo ai quattro venti, e particolarmente attratte dai ruoli di “la bella e la bestia” nelle band metal. Almeno i Nightwish avevano Tarja Turunen che metteva alla prova le sue grandi capacità liriche e trasmetteva passione; qui purtroppo non ve n’è traccia.(Samantha Pigozzo)

(Badmoodman Music)
Voto: 55

https://www.facebook.com/autmoriband

martedì 15 gennaio 2013

Raventale - Transcendence

#PER CHI AMA: Black Doom, primissimi Katatonia
Raventale sesto capitolo, il quarto recensito dal sottoscritto. Mr. Astaroth Merc torna puntuale come un orologio svizzero ad incantarci con la sua musica e dopo averci ammaliato con i colori blu, arancio, rosso delle cover cd dei precedenti lavori, questa volta tocca al verde rilassare la nostra vista e alla sua musica appagare le nostre orecchie. “Transcendence” segna un altro passo avanti nella discografia del musicista ucraino, che dal 2006, si mantiene comunque coerente nella sua proposta all’insegna di un black doom sferzante ed apocalittico, mai come questa volta influenzato da “Dance of December Souls” dei Katatonia, che io reputo essere la pietra miliare del genere. Potrete pertanto intuire quanto mi abbia lasciato poco indifferente questo nuovo album dell’act di Kiev. Già con il precedente cd ritenevo infatti, che i Raventale meritassero una chance da parte di un’etichetta ben più commerciale della russa BadMoodMan Music, per dar modo all’artista ucraino di venire fuori dai confini dell’underground. Quattro i pezzi contenuti in “Transcendence”, tutti contraddistinti da una lunga durata, superiore ai 10 minuti. Ad aprire le danze “Shine”, che non incanta tanto per il suo monotono riffing portante, piuttosto per gli azzeccati inserti tastieristici e per uno splendido assolo posto alla fine. “Room Winter” è un aggressione di puro e selvaggio death/black, con tanto di blast beat, che irrompono nelle casse del mio hi-fi, in compagnia di gracchianti vocals (a cura di Vald) che si innalzano fiere sul tappeto ritmico devastante (a tratti epico, in altri frangenti quasi al limite del techno death), che risulta ammorbidito dall’aura, appena percettibile, delle tastiere o di un arioso break centrale, che ci consente giusto il tempo di rifiatare, prima dell’invettiva conclusiva. “Without Movement” è un brano dai toni più pacati, che oltre a mettere in luce la potenza e la pulizia dei suoni, colpisce per un ipnotico giro di chitarra e armoniche melodie che s’immergono nella fitta e nebbiosa ritmica costruita dai nostri, che palesa e non poco, l’accoppiata violenza ed emozionalità, espressa dai Raventale. I conclusivi 13 minuti affidati alla travolgente title track (soprattutto nel finale), non fanno altro che confermare l’eccellente stato di forma in cui Astaroth Merc e compagni (da segnalare anche la presenza di Anton Belov come voce addizionale) versano. Insomma, che dire, se non che “Trancendence” è un altro episodio pregevole della discografia dei Raventale, di cui sono certo, sentiremo ancora parlare a lungo, in futuro. (Francesco Scarci)

martedì 11 dicembre 2012

Amber Tears - Revelation Renounced

PER CHI AMA: Death/Doom Folk, My Dying Bride, Amorphis
In casa Solitude e co. pare sia venuta di moda la ristampa dei vecchi album delle band sotto contratto, cosi dopo gli Inborn Suffering, è il turno degli Amber Tears, vedere il proprio debut ristampato. Questo sestetto russo lo avevamo già incontrato lo scorso anno in occasione dell’uscita di ”Key to December”, indicato dal sottoscritto come un surrogato, di certo non spiacevole, dei vecchi classici Anathema e My Dying Bride, riletti in chiave folk. Questo nuovo vecchio lavoro si apre ancora una volta in modo folkish, con tanto di epiche cornamuse che predispongono il campo a “Through Autumnal Rain”, e proprio come suggerisce il titolo, ci troviamo al cospetto di un sound che affonda le proprie radici nell’autunnale poesia del death doom, ma che vede tuttavia affiorare anche stralci di musica folk scandinava (chissà perché nelle orecchie mi sovviene il nome Amorphis) ed un assolo che pare preso in prestito da “A Deeper Kind of Slumber” dei Tiamat. Un po’ onirici, un po’ pagani, assai melodici e di certo atmosferici, gli Amber Tears degli esordi, appaiono in una versione decisamente più edulcorata e quasi più originale, rispetto a quelli che mi avevano comunque divertito lo scorso anno. Vorrei nuovamente sottolineare che fra le mani non abbiamo chissà quale disco geniale, certo è che il death gothic doom, intriso di folk degli Amber Tears, è tremendamente palpabile anche in “Leaving the Tears” e alla fine dei conti, risulterà anche assolutamente efficace. Il vocalist si conferma bravo nel districarsi tra il classico cantato growl e delicati passaggi narrati (scuola Saturnus); e non posso poi non menzionare la sezione strumentale, che si mette in luce per azzeccatissimi assoli ed una ritmica, che per una volta, non potrò accusare di essere pesante o furibonda, spesso responsabile nel soggiogare la nostra attenzione con tutta la propria dirompente noia. Sulla base di quanto ascoltato sin qui e dei successivi passaggi acustici, che alla fine ho incontrato nel corso dei 56 minuti di questo album, per gli eccessi folk (forse in questo disco addirittura straripanti), non posso che suggerire l’ascolto di “Revelation Renounced”, come base di partenza per la scoperta degli amici russi degli Amber Tears. (Francesco Scarci)

(BadMoodMan Music)
Voto: 75

http://www.myspace.com/ambertearsband

giovedì 8 novembre 2012

Wedding In Hades - Misbehaviour

#PER CHI AMA: Doom Gothic, My Dying Bride
Vi confiderò che la Francia, a differenza del Franz, non m'ha mai attirato molto musicalmente a parte per qualche complesso. E i Wedding In Hades confermano il mio scetticismo verso la loro scena. Composizioni prive di ogni originalità e testi squallidi, fanno da padroni in questa pubblicazione, rendendomi di difficile sopportazione l'ascolto. Per perizia, ho pure dato un ascolto al loro primo full length e mi sembrava nettamente migliore. Non nascondo invece che il gruppo cerca di crearsi una propria personalità musicale provando ad uscire dai stilemi del genere britannico, usando chiari riferimenti ai Type O Negative o ai Saturnus. La presenza della violinista Marie Clouet (scomodata dalla The Grand National Orchestra Of Ile De France), rimane marginale e, invece di aiutare la band ad emergere nelle composizioni, si confonde nel resto dell'opera. Ma le sorprese non si fermano qui, perché all'interno di questo disco trovo un'ulteriore supporto al mio giudizio: una traccia death metal. Fatta male per di più. Probabilmente è stata scritta apposta come un simpatico scherzo o come tattica geniale per dar risalto all'opera, ma in un contesto dove si fatica a produrre un buon disco, non vedo spazio per tali perdite di tempo. Non uno ma tre passi indietro dal disco precedente, a dimostrazione che ultimamente la BadMoonMan Music non ne azzecchi una in fatto di band, a differenza delle etichette gemelle. Bocciati. (Kent)

(BadMoonMan Music) 
Voto: 50

martedì 2 ottobre 2012

Tenochtitlan - Sotvorenie Mira

#PER CHI AMA: Metal Etnico, Avantgarde, Senmuth, Negura Bunget
Era da un bel po’ che tenevo d’occhio questa band, poi finalmente nella cassetta postale mi sono trovato il loro cd e con grande entusiasmo mi sono lanciato ben presto nella recensione. Beh, mettiamo subito in chiaro una cosa: pur avendo i nostri un monicker che richiama l’antica città azteca o un’intro dal sapore vagamente tribale, non siamo al cospetto di alcuna band centramericana, bensì trattasi di un side-project russo, che vede coinvolti alcuni membri di act dell’underground, tra cui il più noto, è sicuramente Senmuth, un polistrumentista resosi famoso, per aver prodotto una cosa come 120 release in una decade. Comunque sia, la proposta del combo dell’est Europa è un qualcosa di estremamente suggestivo, originale, e a tratti mi verrebbe da aggiungere esotico. Si perché pur presentando un sound piuttosto estremo, diverse sono le divagazioni etniche che esso propone, probabilmente dovute anche all’interpretazione in lingua madre (in cirillico tra l’altro l’intero booklet) delle song, che, cinque in tutto, raggiungono un totale di 45 minuti di musica di pregevole fattura. Se devo porre attenzione su qualcosa in particolare mi soffermerei sulla traccia numero tre, un mid-tempo dai suoni stranianti, in cui le vocals pulite di Archon si alternano con le harsh del duo Senmuth e Lefthander, e in cui si percepisce pure l’innesto di un flauto e di altri strumenti tipici della tradizione flokloristica. Niente male, ma l’album non è ancora decollato del tutto; lo fa però alla grande con la sinfonica quarta song, un’ondata di suoni magniloquenti, pomposi ed epici, che mi inducono ad alzare il volume e farmi trascinare dalla fierezza che essa emana. Il quinto brano evidenzia ancora una certa predilezione per sonorità ambient, comunque intrise da quel flavour etnico che va via via conquistandomi; poi ad irrompere ci pensa una ritmica marziale, con un bel growling in primo piano. Quando parte l’ultima traccia, il suono dei synth mi ricorda la proposta etnica del buon Senmuth, mentre le incursioni a dir poco stravaganti, possono suggerire alla mia memoria i francesi, ahimè disciolti, Carnival in Coal o i finlandesi The Wicked. In conclusione, questo quarto lavoro offre la possibilità di dare ascolto ad un interessante prodotto, che per certo, prende le distanze da tutti gli stereotipi che affollano, in questo momento, l’ormai saturo mondo metallico. Provare per credere. (Francesco Scarci)

(BadMoodMan Music)
Voto: 75

mercoledì 5 settembre 2012

Edenian - Winter Shades

#PER CHI AMA: Gothic/Doom, Draconian

La casa discografica, la copertina del cd (una donna di schiena in un paesaggio innevato), la provenienza della band (Ucraina) e le note iniziali di questo lavoro (soavi tocchi di pianoforte), preannunciano già quello che mi devo aspettare dall’ascolto di “Winter Shades”. Lo avrete capito anche voi, ne sono certo. Gli Edenian sono gli ennesimi esponenti di una scena, che sta per esplodere per quanto sia intasata. Se qualche anno fa, il metalcore e suoi derivati avevano saturato il mercato con migliaia di uscite, ora è il death doom e derivati più estremi (funeral o depressive) ad andare per la maggiore. Devono essere fieri My Dying Bride, Paradise Lost e Anathema ad aver avviato un movimento che ha avuto cosi presa, a quasi vent’anni dalla sua nascita. E il combo ucraino in questione deve essere rimasto ammaliato dalla performance dei maestri inglesi, proponendo infatti un lavoro di death doom melodico, che oltre alle succitate band, si ispira anche alla seconda ondata di death doom band, Draconian e Swallow the Sun, avendo tra le sue fila (ma anche gli Anathema l’avevano) la componente “angelica” di una voce femminile, quella di Samantha Sinclair, che fa da canonico contraltare alle growling (e pessime cleaning) vocals dei due vocalist, Alexander e Volodymyr. Insomma tutti i clichè del genere sono racchiusi nelle note di “Winter Shades”, un lavoro che ha ben poco da chiedere in fatto di originalità. Per carità, gli amanti del genere, saranno contenti sapere che una nuova realtà in ambito death doom (e anche gothic, visti i chiari riferimenti ai Tristania) malinconico, popoli il panorama metal; io ne avrei fatto sicuramente a meno. Suggerirei infatti alla Solitude Productions e sublabel di dare meno spazio alla quantità, ma di focalizzarsi maggiormente sulla qualità, che nell’ultimo periodo è andata un po’ scemando. Ultima curiosità dell’album, è che il brano “The Fields Where I Died” si apre con la narrativa vocale di David Duchovny, “superoe” di “Californication” e in passato l’agente Fox Mulder di X-Files. Ma che diavolo ci fa in una release di questo tipo, mi domando. Per concludere, gli Edenian sono ancora una band acerba, che, se vorrà raggiungere determinati obiettivi, dovrà lavorare sodo per scrollarsi di dosso, le innumerevoli e palesi influenze a cui sono soggetti. Sufficienza risicata raggiunta, ma per il momento, niente di più. (Francesco Scarci) 



(BadMoodMan Music) 

Voto: 60

mercoledì 1 agosto 2012

Zgard - Reclusion

#PER CHI AMA: Folk/Black, Ambient/Doom, Primordial
Gli Zgard sono il progetto di Yaromisl, cantante/chitarrista dei Goverla, e credo che sia io che voi, miei cari lettori, ci stiamo chiedendo chi siano. Questi Goverla, dopo la pubblicazione del loro primo full-lenght due anni orsono, hanno preso la classica pausa di riflessione e da ciò è scaturita la nascita degli Zgard. A sostenere Yaromisl nel suo cammino individuale troviamo anche Hutsul, flautista dei Goverla. E tanto per completare il quadro, per svariati motivi la nostra band ha pubblicato due album con label differenti nel giro di due settimane. Ma lascio trarre a voi le conclusioni sui nostri amici ucraini. Allora vi dico come sono andate le cose. Tornando dalla radio sabato pomeriggio ho subito messo su questo cd, perché i suoi colori mi attiravano fortemente. In tangenziale c'erano lavori e se non ricordo male dovrei averlo ascoltato minimo due volte prima di arrivare a casa, per poi ascoltarmelo ancora nei giorni successivi. Il prodotto che mi hanno somministrato è formato da una spessa base doom e da una venatura di black melodico, dominato incontrastabilmente dalle tastiere. Le sfuriate di batteria e chitarra non mancano certo, ma la loro collocazione è alquanto di dubbia efficacia. È difficile parlare di un disco come questo. Il motivo è per la sua implacabile creatività ma anche per la mia avversione verso tale genere. Parliamoci chiaro: le composizioni in sé non sono pessime ma questo lavoro proprio non mi cattura per niente. È paragonabile all'ascolto di Radio3 quando torni alle 4 di notte da un concerto e guidi in solitaria facendoti inondare di musica classica, la ascolti volentieri ma non sai né che canzone sia né perché la stai ascoltando. Non credete che si salvi così facilmente questo disco però. Le ultime due tracce sono catastrofiche. "Despair" si lascia ricordare per l’enfasi dei suoi synths mentre "Weeping Goddess" ci delizia con un flauto saltato fuori da uno scatolone dei ricordi delle scuole medie. Se poi il booklet, oltre che al cirillico fosse stato tradotto in inglese, mi sarei quasi avventurato a dare una scorsa ai testi per assaporare tutto il pensiero del buon Yaromils. Chiudo dicendo che è l'artwork ad alzarne la valutazione. (Kent)

(BadMoonMan Music)
Voto: 60

martedì 6 marzo 2012

In Loving Memory - Negation of Life

#PER CHI AMA: Death/Doom, My Dying Bride, Saturnus
Gli In Loving Memory fanno sentire un po’ meno soli i connazionali Helevorn, in una scena death doom spagnola, che non appare proprio cosi affollata. Ma ben venga, se comunque le sole due realtà che esistono, messe tra l’altro sotto contratto dalla potente Solitude Productions, rilasciano ottime release. “Negation of Life” costituisce il secondo lavoro per la band di Bilbao, che propone un sound minaccioso nel suo incedere, tetro, oscuro e quanto mai affascinante, sin dalla opening track “Even a God Can Die”, un esempio lampante di death doom emozionale, legato alle trame chitarristiche che si intrecciano con un nostalgico pianoforte e un pesante growling. “Skilled Nihilism” appare invece con un fare molto più vicino alle melodie ariose dei finlandesi Insomnium, prima di lasciare posto ad una robusta ritmica e alle vocals di Juanma B. che provano a ricercare un’intuizione più cibernetica, che potrebbe conferire un pizzico di originalità in più al prodotto, se solo usate in maniera più massiccia; comunque al termine del suo ascolto, “Skilled Nihilism” si rivela proprio vincente, forse perché cosi easy listening, con le sue facili melodie che si stampano immediatamente nella testa. Il cd prosegue e con esso la voce cerca di mutare, trovare nuove strade, come pure la maglia musicale degli In Loving Memory, che prova a sfuggire agli stilemi del genere, in cui appare ancora palesemente cosi imbrigliata. Leggo un forte desiderio da parte del quintetto basco, di proporre qualcosa di diverso, che si traduce in linee più armoniche delle chitarre o nell’uso di vocals sussurrate. La title track si apre con un bell’arpeggio, anche se poi a prevalere è la componente death doom malinconica, di chiaro (e consueto) riferimento ai danesi Saturnus. Passo avanti, fiducioso di poter trovare qualche nuova intuizione, qualche lampo di genialità inespressa nei solchi di questo platter, che pur proponendo un genere assai roccioso, non scade mai nella noia. Un sussulto, si ecco quello che cercavo, “November Cries”, sembra estratta da “The Angel and the Dark River”, capolavoro dei My Dying Bride. Lo so, lo percepisco, gli In Loving Memory hanno la luce di chi ha la voglia di cambiare le regole, di chi non vuole stare più al gioco, solo che sono ancora intrappolati, ma sono certo che ben presto la loro vera natura potrà emergere ed esplodere. Ulteriori segnali emergono chiari con “Shimmering Divinity”, song lenta, meditativa, capace di creare un evidente senso di sospensione, come se qualcosa di brutto stesse per accadere, ma che in realtà non riesce a trovare forma. Si prosegue con una serie di song che fanno del senso di inquietudine ed inadeguatezza su questa terra, il loro punto di forza, per un album i cui temi (trattasi di concept) sono in realtà legati all’inesauribile lotta fra bene e male (evviva l’originalità). Poco importa, si arriva in fondo al cd soddisfatti per aver scoperto una nuova interessante realtà, all’interno del sempre più popoloso marasma musicale, una nuova band che se riuscirà a percorrere una sua strada, potrebbe aprire nuove frontiere in un genere il cui rischio è quello del collasso su se stesso. Ora o mai più per osare. (Francesco Scarci)

(BadMoodMan Music)
Voto: 75

www.inlovingmemory.es

sabato 3 marzo 2012

Tears of Mankind - Memoria

#PER CHI AMA: Death Doom, primi Katatonia
Ennesima one man band proveniente dalla Russia, più precisamente dalla sconosciuta località di Surgut, Khanty-Mansi, con già due album all’attivo per il gruppo Solitude Productions e il consueto sound all’insegna del death doom, quello più orientato verso gli esordi dei Katatonia però, piuttosto che di scuola britannica. Comunque, classica intro ad aprire, prima che il mid-tempo canonico di “In the Embrace of Eternal Sunshine” ci avvinghi e ci faccia sprofondare nel torpore più cupo. Si perché, se devo essere sincero, non ci sono cosi tanti momenti vincenti in questo lavoro, che fa della anonimia delle chitarre la sua, ahimè, nota dolente. Si tratta infatti di ritmiche assai cadenzate, in cui trovano spazio fortunatamente, inserti di tastiere, che, nonostante la loro elementarità, provano a donare quel pizzico di malinconia al tutto, o forse tentano di impreziosire una release che non brilla di certo in termini di originalità. Mi spiace e mi sembra al contempo strano, cogliere in fallo la BadMoodMan Music, con una release non completamente all’altezza. E dire che il pedigree dei Tears of Mankind è di tutto rispetto, con una miriade di demo alle spalle (9!) e “Memoria” che costituisce il quarto lavoro in studio. Le tracce procedono stancamente, sempre prive però di quella verve che un genere simile, dovrebbe avere. Insomma anche la terza “Deadly Desire” si rivela noiosetta, se non fosse per quelle keys che cercano di salvare il salvabile, donando un po’ di interesse alla musica del mastermind russo; pure con la quarta “Passion Blackfathom Deeps” si corre il rischio di affossarci del tutto, con quella sua ritmica rilassata, su cui trovano posto le (poco entusiastiche) growling vocals di Philipp. Insomma neppure il cantato mi soddisfa, lo trovo decisamente poco espressivo e questo può costituire un problema, quando lo scopo del nostro eroe dovrebbe essere quello di emozionarci; fortunatamente la song si riprende nella sua seconda metà, complice un’atmosfera più appassionante che ne riaccende l’interesse e un giro di chitarra che sembra in realtà preso da “Shades of God” dei Paradise Lost. Strano ma vero, l’album inizia a decollare con “Under the Great Dome”, merito di un sound decisamente più fresco e vivace, che si mantiene comunque sempre in territori death doom. Con “So Long and So Recently”, ripiombiamo nella bulimia di suoni, che si limitano ad imitare quanto fatto una ventina d’anni fa dai maestri del genere. Con la settima song, si apre la seconda parte del cd, dedicato a pezzi cantati in lingua madre, le cui liriche sono ad opera di Sergey Terentjev, le quali mostrano un piglio decisamente più introspettivo rispetto alle precedenti: le chitarre sono quasi ovunque arpeggiate e le vocals, spesso pulite, assumono un tono bizzarro nel loro manifestarsi, mentre l’aura che avvolge le composizioni, ora si fa più legata al gothic dark anziché al doom. Peccato non riesca a tollerare il cantato (non proprio intonato) in lingua madre, altrimenti qualcosa in più l’avrei anche concesso. Comunque la prova dei Tears of Mankind non rimarrà certo negli annali della musica death doom, ci sarà da rimettersi a lavorare duramente alla ricerca di un ben più delineata personalità, cercando magari di ripartire dalla proposta della palpitante ultima traccia. (Francesco Scarci)

(BadMoodMan Music)
Voto: 60

venerdì 23 dicembre 2011

(EchO) - Devoid of Illusions

#PER CHI AMA: Death Doom, Swallow the Sun, Saturnus
Dopo averli visti un paio di volte live (ora li aspetto con gli Agalloch), averli avuti ospiti nella mia trasmissione radio, non potevo esimermi dal recensire il debut album dei bresciani (EchO), che hanno voluto fare le cose in grande sin da subito: prodotti alla stragrande da Greg Chandler degli Esoteric (che sarà anche guest star in una delle song del cd) e registrati ai Priory Recording Studios, in UK, cover art cd affidata ad Eliran Kantor (Testament, Atheist, Sodom, Xerath tra le sue opere), il sestetto nostrano gioca immediatamente tutte le proprie carte vincenti. Il nome deriva da quello della ninfa delle Oreadi della mitologia greca, famosa per essersi innamorata di Narciso, con le parentesi invece ad indicare l’onda sonora che si propaga. Per quanto riguarda la musica invece, ci troviamo di fronte ad un album che potrebbe essere idealmente suddiviso in due parti: una prima metà che si rifà alle sonorità death doom nordiche (e mi vengono immediatamente in mente Swallow the Sun e Black Sun Aeon), cosi pregne di malinconia e dalle forti tinte invernali, caratterizzata da un’inclinazione post rock; una seconda metà invece un po’ più aggressiva, ma entriamo nel dettaglio, perché dopo la consueta intro, ci tuffiamo all’interno dell’(EchO) sound con “Summoning the Crimson Soul”, una song che mostra subito l’attitudine spinta della band di abbinare riffoni di scuola “Meshugghiana” con una spiccata vena atmosferica, grazie alle ottime tastiere di Simone Mutolo, per poi insabbiarsi nel torpore del doom che caratterizza da sempre le uscite dell’etichetta russa. Con “Unforgiven March” emerge anche una certa disposizione dei nostri ad addentrarsi in territori quasi funeral, con un sound nero come la pece, che comunque si mantiene sempre melodico con la voce di Antonio Cantarin veramente superlativa sia in fase growling che cleaning. Cenni dei primi My Dying Bride si mescolano con “Serenades” degli Anathema e frangenti acustici alla Saturnus, per un risultato finale davvero da paura. Sono rapito dalla scorrevolezza dei pezzi, pur trattandosi di un genere non cosi accessibile a tutti i palati e comunque dallo spessore della musica proposta da una band che esiste solamente da fine 2007 e che già mostra doti da veterana. Si prosegue con “The Coldest Land” e ancora emerge forte l’ecletticità di Antonio alle vocals con una performance che rischia seriamente di coinvolgere non solo gli amanti del genere death doom, ma che può richiamare (anzi deve richiamare) fan da generi decisamente più melodici. Tutto suona alla perfezione grazie alla cristallina produzione ma anche al fatto che i nostri sono ottimi musicisti e lo dimostrano sia nelle fasi più movimentate che in quelle più eteree; i giri strazianti delle chitarre si insinuano nelle nostre orecchie e sono certo che non ci lasceranno più e come con il sottoscritto vi ritroverete a fischiettare alcuni giri di chitarra meravigliosi, prima di abbandonarvi ad un finale contraddistinto da un climax ascendente di emozioni, legato ad un altrettanto eccellente lavoro dei due axemen, Simone Saccheri e Mauro Ragnoli. Sono estasiato, non so che dire, il sound degli (EchO) mi ha conquistato e divorato, per quel suo essere in costante movimento, alla ricerca di continue soluzioni per sorprendere l’ascoltatore (ascoltate l’ipnotica progressiva “Internal Morphosis” con il successivo finale dirompente di scuola djent, fantastica). Ancora un altro pezzo veramente elegante ed intelligente è rappresentato da “Omnivoid”, contraddistinto da quel suo incipit sempre estremamente atmosferico ed onirico, che ben presto lascerà posto alla furia dilagante di una splendida ritmica (sempre controllata e melodica sia ben chiaro), con ancora una volta un lavoro magistrale alle tastiere, soprattutto nella sua parte conclusiva dove ancora le chitarre ultra ribassate danno un contributo eccezionale al brano. Sempre più galvanizzato vado avanti con l’ascolto, abbandonandomi alla disperata “Disclaiming My Faults”, una sorta di semi-ballad, dove accanto a dei suoni forse un po’ troppo ruffiani (all’inizio, prima del selvaggio finale) – lo stesso leggasi per la successiva “Once was a Man” -, vorrei sottolineare nuovamente la perizia vocale del bravissimo Antonio, con un’estensione canora notevole. Menzione finale per “Sounds From Out of Space”, dove il cantato catacombale del bravo Greg aleggia nei primi minuti di questo album che mi sento di consigliare a tutti gli amanti della musica metal, dal gothic al death, passando da black e doom. Ottimo debut, senza dubbio; se poi consideriamo che sono italiani, non possiamo che esserne fieri! (Francesco Scarci)

(BadMoodMan Music)
Voto: 85

sabato 17 dicembre 2011

The Sullen Route - Apocalyclinic

#PER CHI AMA: Death/Doom/Post Metal
Devo ammettere che non mi avevano fatto impazzire in occasione della loro prima release anche se un 65 se l’erano portato a casa, colpa di un sound un po’ troppo ridondante, fin troppo asfissiante e privo di una certa personalità. Il quartetto russo (orfano della bella bassista che aveva popolato i miei sogni in occasione della prima release) ci riprova e devo confessare che un bel balzo in avanti i nostri l’hanno fatto, forse seguendo anche le indicazioni che da più parti erano arrivate dagli addetti ai lavori, e che quanto contestavo nel precedente “Madness of my Own Design”, in questo nuovo capitolo è stato definitivamente limato e sistemato. Partendo comunque da una base death doom, ecco che la band di Volgograd ha seguito qualche piccolo accorgimento: migliorato sensibilmente il songwriting e lo si evince fin dall’iniziale “Hysteria”; abbandonate le divagazioni pachidermiche, conferendo una maggiore ariosità e dinamicità alla proposta anche nelle parti più strettamente doom come nella seconda “Selfish I”; migliorata decisamente la performance vocale, con Elijah molto più sicuro nella sua veste non growl (non posso parlare di clean perché non sarebbe corretto). Ciò che di buono c’era nel debut è rimasto invariato e sto parlando di quelle atmosfere malinconiche/autunnali che qui sono state riprese e curate maggiormente nei dettagli (splendida “Burial Ground”) dove addirittura il doom sembra voler lasciare posto a delle divagazioni post rock, con parti arpeggiate che contribuiscono nel permeare il tutto di una velata vena nostalgica. L’album trasuda di calde emozioni: “Cynoptic” è una song dal mood quasi trip hop spezzata solo dal growling profondo di Elijah e da un riffing a tratti possente. L’apice lo si raggiunge però con “Dune”, song che miscela un southern metal con il death, questo a dimostrare che i The Sullen Route questa volta devono essere presi decisamente sul serio, perché le idee ci sono e sono anche estremamente interessanti, come dimostrato dal finale goticheggiante affidato a “Tonight’s Avenue” e alla roboante “All in October” (che mi ha ricordato qualcosa dei Rapture). Bel disco, ne sono lieto. Ora mi aspetto il capolavoro con la prossima release. Avanti tutta! (Francesco Scarci)

(BadMoonMan Music)
Voto: 75

sabato 26 novembre 2011

Raventale - Bringer of Heartsore

#PER CHI AMA: Black Doom, Shining
Ecco che a cadenza quasi annuale, mi ritrovo fra le mani il nuovo lavoro della one man band ucraina Raventale che, guidata dal suo leader Astaroth, continua quel percorso all’insegna del black doom atmosferico, iniziato nel 2006 con “На Хрустальных Качелях” e passato attraverso le recensioni del Pozzo, degli album “Mortal Aspiration” e “After”. Eccomi quindi qui a recensire il quinto album dell’act di Kiev, che conferma quanto di buono fatto fin’ora e anzi ci sembra ormai pronto a fare il grande salto per una etichetta un po’ più “commerciale” della russa BadMoonMan Music. L’album si apre con “Anything is Void”, che ci dà immediatamente prova della bontà della nuova proposta dei Raventale. Non tradendo comunque il proprio passato, Astaroth ci consegna un sound che viaggia costantemente sulla linea a cavallo tra un black atmosferico, con quella tipica vena doom che si arricchisce di qualche sprazzo avantgarde/progressive. Quello che ne viene fuori sono otto tracce, abbastanza lineari, dirette, ma sempre permeate di quel feeling malinconico autunnale, che da sempre contraddistingue la musica del combo ucraino. “Twilight… the Vernal Dusk” mostra il lato più oscuro di Astaroth Merc, influenzato dal periodo di mezzo degli Shining, ma che al suo interno apre anche a quelle sonorità progressive appena citate, grazie ad un lavoro di chitarre assai entusiasmante, sorretto egregiamente dal supporto atmosferico delle tastiere. Il disco, facendo tesoro degli errori del passato, scivola via più facilmente rispetto al suo predecessore, forse vuoi per la durata mai eccessiva dei brani o anche per un’accresciuta semplicità nelle linee di chitarra. È sempre tuttavia piacevole ascoltare quelle tipiche sfuriate black, come nella terza “These Days of Sorrow”, che ancora una volta richiama le epiche cavalcate del buon vecchio Burzum, grazie a quel suo riffing ridondante e stracolmo del tipico feeling glaciale nordico. A differenza di “After”, sembra mancare la componente tipicamente desolante/angosciante del genere ed avere invece più spazio una parte più ariosa, che sembra rifarsi in questo caso a sonorità più prettamente finlandesi (penso agli ultimi Insomnium, ma anche al prog degli ormai defunti Decoryah, che si fondono insieme). Certo non siamo di fronte a qualcosa di unico ed estremamente originale, ma come detto più volte, quel che conta sono le emozioni che la musica dei Raventale è in grado di sprigionare e come sempre devo ammettere di trovarmi di fronte a qualcosa che realmente riesce nel suo intento, ossia scuotere la percezione dei miei sensi. Ben poco spazio è lasciato al cantato di Astaroth, che continua comunque a dimostrarsi eccellente nella sua prova vocale, con una timbrica a cavallo tra screaming/growling che non va mai fuori dal seminato. Ultima segnalazione relativa alle liriche che includono nei suoi testi, parti della poesia di Alexander Blok, uno tra i più grandi poeti russi insieme a Puskin. Ancora una volta Astaroth non tradisce le mie attese, pertanto sarà in grado di soddisfare anche le vostre. Consigliato! (Francesco Scarci)

(BadMoonMan Music)
Voto: 75
 

sabato 19 novembre 2011

The Morningside - Treelogia – The Album as is Not

#PER CHI AMA: Death Doom, Agalloch, Saturnus
Quando ho visto recapitare nella mia cassetta postale il nuovo pacchetto promozionale della Solitude Productions, mi sono subito lanciato per verificare se al suo interno era racchiuso il nuovo EP dei moscoviti The Morningside, che ho già recensito su queste pagine e che da sempre mi affascinano per quel loro sound che richiama gli esordi malinconici e ormai andati dei Katatonia. E cosi, trovato il cd, infilato nel mio lettore, mi appresto ad ascoltare questa nuova fatica dell’act russo; tre tracce per quarantasette minuti che si aprono con una triste pioggia autunnale che ben presto viene rimpiazzata dalle pacate chitarre dei nostri e dal growling mai troppo esasperato di Igor. Non cambia di una virgola il sound death doom dei quattro di Mosca e sinceramente per una volta mi viene da pensare “molto meglio cosi”. Ho voglia di questo genere di sonorità, ho bisogno di lasciarmi incupire dai suoni deprimenti dei nostri, ho voglia di annegare in un mare di emozioni strazianti, nostalgiche, uggiose, insomma abbandonarmi in questo paesaggio decadente fatto di alberi con foglie rosse e cadenti, nuvoloni carichi di pioggia, e un vento sferzante i nostri visi. “The Trees Part One”, parte seconda e terza, riescono nell’intento di garantirmi tutto questo, senza dover mai ricorrere a scorribande velenose o ritmiche devastanti, anzi utilizzando in taluni frangenti, parti strumentali che prendono drasticamente le distanze dal death doom originario dei nostri, sfumando in ambientazioni post rock. Che questa sia la nuova frontiera della musica estrema, a me non interessa, fintanto che verrò avvolto da piacevoli sensazioni e il mio cuore tormentato verrà placato da siffatta musica, come se una coperta e un tè caldo mi venissero poste sulle spalle dopo aver preso un bell’acquazzone che ha inzuppato me e i miei abiti, è una bella sensazione no? “Treelogia” per me riproduce tutto ciò di cui ho bisogno e di cui i fan di band quali Agalloch, My Dying Bride o Novembre non dovrebbero lasciarsi sfuggire. Elegiaci. (Francesco Scarci)

(BadMoodMan Music)
Voto: 75

domenica 3 luglio 2011

Benighted in Sodom - Reverse Baptism

#PER CHI AMA: Black Doom
Atmosfere decadenti che inneggiano a temi magico surreali per questo ottimo lavoro dei Benighted in Sodom. Monumento ermetico dall’aura enigmatica che della vacuità del titolo riprende lo stile per dedicare due intere canzoni ad un fantomatico Ocean (ascoltandole attentamente sono sempre più convinto si tratti di una metafora dell’infinito, più che dell’oceano materiale vero e proprio), dalla modica durata di dodici minuti ciascuna. Le conoscenze di un retroterra magico si appagano nella mefistofelica "Flauros", traccia intitolata ad un demone multiforme che i trattati del settore indicano come rappresentante per eccellenza di una potenza incontrollata. Aneddoti riportano anche la scelleratezza di Crowley, che osò invocare la natura di questo demone rimanendo comodamente seduto nel cerchio d’invocazione. Che tutto questo non sia un caso lo testimonia la canzone stessa, unica nel suo genere all’interno dell’album: è la sola traccia ad iniziare con una batteria lanciata a tutta velocità, evidenziando la capacità di una band prevalentemente doom ad affrontare squarci di ballate black. Interessante l’accostamento di voci pulite a screaming, inserite al momento giusto nella fasi di ‘rilascio’ delle tracce per evitare una monotona ripetizione dello stesso tema. Decisamente un ottimo album, che grazie all’equilibrio di andamenti lenti e veloci non stanca l’attenzione del pubblico (ovviamente di nicchia). Mancano tuttavia quegli arpeggi hopeless tipici del doom, motivi firma di un genere slow che fa delle atmosfere ignote il proprio cavallo di battaglia. Manca anche la viscerale violenza del black più puro, poiché altre appaiono essere le ricerche stilistiche dei Benighted. Ho apprezzato particolarmente i suoni di chitarra che si sviluppano in una sorta di trance onnipresente, quasi fossero liquidi. Pur essendo riusciti (loro) nell’intento di creare un’opera degna di questo nome, non sono riuscito (io) a trovare quel piccolo particolare che rende questo gruppo unico nel panorama a cui appartiene. È tuttavia innegabile che sanno quello che fanno. Flauros non lo conoscono in molti. (Damiano Benato)

(BadMoodMan Music)
Voto: 75

giovedì 16 giugno 2011

Amber Tears - The Key to December

#PER CHI AMA: Death/Doom, Anathema e My Dying Bride
Vedendo la copertina del cd degli Amber Tears, ho pensato per un attimo di avere tra le mani qualcosa di power/folk, a causa del vecchio col bastone, raffigurato sul booklet, che cammina tra la neve; non so spiegarvi per quale motivo abbia immaginato questo, ma l’immagine della cover ha suscitato in me tale infondato timore. Vedendo poi la casa discografica sul retro della custodia, la BadMoodMan Music, mi sono tranquillizzato e ho pensato che sicuramente la proposta del combo viaggerà all’interno dei confini death/doom. E in effetti non mi sono sbagliato. Dopo una inutile intro, si passa a “Gray Days Eternity” in grado di confermarci immediatamente che il sound partorito dall’act russo è realmente un death doom cadenzato, che ancora una volta si rifà ai classici del passato (Anathema e My Dying Bride su tutti); a volte mi domando dove la Solitude Production vada a scovare tutte queste band e se forse, il fossilizzarsi troppo in un unico genere, non rischi di penalizzare l’etichetta russa. A farmi passare questi brutti pensieri, ci pensa il sound degli Amber Tears, che nelle loro otto tracce, ci presentano la loro proposta che, pur puzzando di già sentito, si lascia piacevolmente ascoltare; vuoi per la presenza di strumenti etnici in alcune tracce (è forse una cornamusa quella che si sente qua e là nel disco?), forse per le intriganti melodie pagane o per gli intermezzi acustici della terza “Away from the Sun”, o ancora per la dinamicità inaspettata di un lavoro che pensavo potesse annoiarmi dopo pochi minuti, mi lascio trasportare dal piacevole (talvolta toccante) feeling che questa release è in grado di emanare. Effettivamente ho sbagliato, giudicando superficialmente. Gli Amber Tears non garantendo nulla di innovativo, ma semplicemente rileggendo, in chiave moderna, i dettami di vent’anni fa dei grandi maestri inglesi, ci offrono un prodotto di sicuro interesse, ben confezionato, e che di certo farà la gioia dei fanatici di questo genere e non solo. Forte nei solchi di "The Key to December" anche l’influenza dei danesi Saturnus, che appaiono assai spesso come fonte di ispirazione, quando ci si trova a parlare di sonorità di questo tipo. Il feeling malinconico che si respira nell’arco dell’intero lavoro è mitigato dal riffing corposo del duo di asce formato da Alexey e Dmitry. La prima metà del cd, scorre via tra echi nostalgici di suoni di metà anni novanta e ispiratissime melodie che richiamano la tradizione scozzese, quasi mi ritrovassi proiettato sulle Highlands scozzesi e attorno a me il solo verde dei prati e delle colline con il vento a sibilare nelle mie orecchie. È un senso di pace che mi godo lassù tra le nuvole che si appoggiano su quelle sinuose alture e la colonna sonora perfetta è proprio quella degli Amber Tears, che muovendosi tra death/doom e strepitosi passaggi acustici (ascoltate “Like a Silent Stream” e ditemi che ne pensate) riescono a donarmi 40 minuti di palpabili emozioni. (Francesco Scarci)

(BadMoodMan Music)
Voto: 75

giovedì 2 giugno 2011

Kamlath - Stronger than Frost

#PER CHI AMA: Dark Gothic Doom, Moonspell, My Insanity, Evereve
A volte mi domando come possano nascere le collaborazioni tra artisti cosi lontani o semisconosciuti tra loro, un’amicizia, un gioco tra etichette o cosa? Quindi mi chiedo come e cosa possa aver accomunato Max Konstantinov e Peter Shallmin, entrambi provenienti dalla Siberia con lo svedesone Mike Wead (Mercyful Fate/King Diamond, Candlemass), Dennis Leeflang (Within Temptation, Epica) e infine addirittura con l’italianissimo Marco Benevento, singer dei The Foreshadowing? Insomma il connubio tra Russia, Svezia, Olanda e Italia ha partorito i Kamlath e il genere Siberian Metal (in quanto il concept ruota intorno alla tradizione della comunità siberiana, ma qui se la potevano anche risparmiare), tra l’altro sotto l’apporto grafico di un altro membro della scena internazionale, Seth Siro Anton, dei greci Septic Flesh. Il risultato a conti fatti non è affatto male, se siete però dei fan del vocalist dei nostrani The Foreshadowing, in quanto se, come me, non apprezzate la timbrica del buon Marco, avrete grosse difficoltà a digerire la proposta del combo, ma cercherò di analizzare il tutto con estremo raziocinio. La proposta è certamente accostabile ad un gothic dark doom che viaggia sempre su linee di chitarra compassate e atmosferiche, con le vocals che raramente travalicano il cantato pulito. La musica si lascia piacevolmente ascoltare sin dall’iniziale “Isgher”, dove immediatamente è Marco ad assurgere a ruolo di assoluto protagonista grazie alle sue melodie vocali, su un sound mai troppo graffiante. I suoni, forse un po’ troppo glaciali, sono riscaldati ben presto dal chitarrismo solista di Mike Wead che regala sprazzi di grande classe. La seconda “Seven Thousand Winters” apre quasi con piglio black metal, con una ritmica selvaggia, per poi prontamente assestarsi su un mid-tempo melodico, ma ripartire, nello sviluppo del brano, ancora più furiosa. La voce ammaliante di Marco è sovrana (e lo sarà per tutta la durata del cd) e domina su un tappeto ritmico rutilante, creato dalla batteria incalzante di Dennis. Con la terza “Thy Revelation” tocchiamo l’apice compositivo di questo inaspettato “Stronger than Frost”, con una song struggente che si conclude con un assolo meraviglioso. La tecnica di certo non manca al quintetto internazionale e i nostri non esitano di certo a palesarla. La title track ha più le sembianze di un pezzo dei Moonspell, mentre la successiva “One Tired Wise” si rivela meno sostenuta e con un mood notevolmente malinconico, che si riproporrà anche nella splendida conclusiva “From Siberian Deeps”. A suggellare il lavoro dei nostri ci pensa poi un’ottima produzione nei romani Temple of Noise Studio a conferire una maggiore italianità a questa release. Un unico appunto vorrei fare: limitate la performance vocale di Marco che rischia di sovraccaricare e rendere noioso l’ascolto del cd. Oscuri! (Francesco Scarci)

(BadMoodMan Music)
Voto: 75

martedì 15 marzo 2011

Raventale - After


Come back discografico per Mr Astaroth, leader della one man band ucraina Raventale, che a poco più di un anno e mezzo dal precedente “Mortal Aspirations”, torna col suo black doom atmosferico. Se tanto avevo apprezzato la precedente release, con “After” mi sembra che il talentuoso polistrumentista abbia fatto un leggero passo indietro, proponendo sonorità molto più derivative che in passato. L’album si apre con “Gone”, dieci minuti di un doom soffocante, cadenzato e desolante, in cui la voce del nostro eroe si conferma sofferente e disperata, senza tuttavia mai travalicare in uno screaming blackish. Il sound continua ad avere come punti di riferimento i grandi maestri del genere (quelli degli esordi però), Anathema e My Dying Bride, mostrando ritmiche permeate di un pathos e di una drammaticità, oramai vero marchio di fabbrica per l’artista di Kiev. Passaggi ambient si accavallano a frangenti acustici, in cui le sole emozioni ad emergere non possono che essere quelle di un’autunnale malinconia. Finalmente, il cd inizia a prender quota e posso riconoscere le qualità dei Raventale, che nella breve (per i loro consueti standard) title track torna a mostrare anche quella cattiveria palesata nei precedenti lavori, pur mantenendo comunque quell’alone mistico di sempre. Passano i minuti ed è il turno della strumentale “Youth”, altri 5 minuti di gelidi paesaggi tipici della steppa, in cui ancora una volta, si incuneano ritmiche che richiamano alla memoria gli Anathema di “The Silent Enigma”. Ben venga quindi in questo caso l’essere derivativi, anche se gli originali rimangono irraggiungibili, anche perché il limite del buon Astaroth, è quello di essere talvolta un po’ troppo ripetitivo nei suoi giri di chitarra. Siamo quasi alla conclusione del cd ed è il turno di “Flames”, song più orientata verso il black nordico piuttosto che capace di continuare a percorrere la strada del funeral doom ascoltato fino ad ora: un po’ Immortal (quelli più epici), un po’ Burzum (quello più melodico) e un po’ Dimmu Borgir (quelli meno sperimentali), i Raventale spingono il loro sound verso la Norvegia. C’è da dire però che questa traccia non è altro che una ri-registrazione di “Shredding the Skies by Fire”, brano presente nel debutto “Means on a Crystal Field”. Quando pensavo che ormai il cd si fosse concluso dopo la quarta traccia, fa capolino una bonus track di 7 minuti, che alla fine risulterà anche essere la mia traccia preferita del disco, sicuramente la più varia, anche se i fantasmi di Burzum e Satyricon emergono ancora una volta, in una song che fa del minimalismo il suo credo. D’altro canto lo dicevo in apertura di recensione, questo “After” è decisamente l’album più derivativo del nostro amico Astaroth, tuttavia potrei continuare con un bel “chi se ne frega”, se dopo tutto la musica che salta fuori dalle tracce di questo cd, si lascia ascoltare piacevolmente continuando a trasmetterci oscure gelide emozioni; vorrà dire che passeremo sopra anche questo peccato veniale… (Francesco Scarci)

(BadMoodMan Music)
Voto: 75