#PER CHI AMA: Death Doom, primi Katatonia |
Ennesima one man band proveniente dalla Russia, più precisamente dalla sconosciuta località di Surgut, Khanty-Mansi, con già due album all’attivo per il gruppo Solitude Productions e il consueto sound all’insegna del death doom, quello più orientato verso gli esordi dei Katatonia però, piuttosto che di scuola britannica. Comunque, classica intro ad aprire, prima che il mid-tempo canonico di “In the Embrace of Eternal Sunshine” ci avvinghi e ci faccia sprofondare nel torpore più cupo. Si perché, se devo essere sincero, non ci sono cosi tanti momenti vincenti in questo lavoro, che fa della anonimia delle chitarre la sua, ahimè, nota dolente. Si tratta infatti di ritmiche assai cadenzate, in cui trovano spazio fortunatamente, inserti di tastiere, che, nonostante la loro elementarità, provano a donare quel pizzico di malinconia al tutto, o forse tentano di impreziosire una release che non brilla di certo in termini di originalità. Mi spiace e mi sembra al contempo strano, cogliere in fallo la BadMoodMan Music, con una release non completamente all’altezza. E dire che il pedigree dei Tears of Mankind è di tutto rispetto, con una miriade di demo alle spalle (9!) e “Memoria” che costituisce il quarto lavoro in studio. Le tracce procedono stancamente, sempre prive però di quella verve che un genere simile, dovrebbe avere. Insomma anche la terza “Deadly Desire” si rivela noiosetta, se non fosse per quelle keys che cercano di salvare il salvabile, donando un po’ di interesse alla musica del mastermind russo; pure con la quarta “Passion Blackfathom Deeps” si corre il rischio di affossarci del tutto, con quella sua ritmica rilassata, su cui trovano posto le (poco entusiastiche) growling vocals di Philipp. Insomma neppure il cantato mi soddisfa, lo trovo decisamente poco espressivo e questo può costituire un problema, quando lo scopo del nostro eroe dovrebbe essere quello di emozionarci; fortunatamente la song si riprende nella sua seconda metà, complice un’atmosfera più appassionante che ne riaccende l’interesse e un giro di chitarra che sembra in realtà preso da “Shades of God” dei Paradise Lost. Strano ma vero, l’album inizia a decollare con “Under the Great Dome”, merito di un sound decisamente più fresco e vivace, che si mantiene comunque sempre in territori death doom. Con “So Long and So Recently”, ripiombiamo nella bulimia di suoni, che si limitano ad imitare quanto fatto una ventina d’anni fa dai maestri del genere. Con la settima song, si apre la seconda parte del cd, dedicato a pezzi cantati in lingua madre, le cui liriche sono ad opera di Sergey Terentjev, le quali mostrano un piglio decisamente più introspettivo rispetto alle precedenti: le chitarre sono quasi ovunque arpeggiate e le vocals, spesso pulite, assumono un tono bizzarro nel loro manifestarsi, mentre l’aura che avvolge le composizioni, ora si fa più legata al gothic dark anziché al doom. Peccato non riesca a tollerare il cantato (non proprio intonato) in lingua madre, altrimenti qualcosa in più l’avrei anche concesso. Comunque la prova dei Tears of Mankind non rimarrà certo negli annali della musica death doom, ci sarà da rimettersi a lavorare duramente alla ricerca di un ben più delineata personalità, cercando magari di ripartire dalla proposta della palpitante ultima traccia. (Francesco Scarci)
(BadMoodMan Music)
Voto: 60
Voto: 60