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lunedì 21 maggio 2018

Magnitudo - Men Against Fire

#PER CHI AMA: Sludge/Post Metal, Conan
Dopo un paio d’anni dal primo 'Si Vis Pacem', il trio sludge doom bergamasco dei Magnitudo, torna alla carica con il nuovo 'Men Against Fire', un disco che si potrebbe descrivere come il figlio bastardo nato dopo una violenta copulazione e una dolorosa gravidanza da una relazione clandestina tra i Conan e gli Alcest. Tutto sembra mirato a stuprare timpani e scrostare intonaci, le voci sono ruggenti e cavernose, le chitarre abrasive e velenose e la sezione ritmica è un rullo compressore che avanza inesorabile come un carroarmato di acciaio inossidabile. L’evoluzione rispetto al primo disco è chiara, se la violenza è rimasta immutata nell’intensità, seppur arricchita da elementi progressive e in generale da parti meno ruvide e più ponderate, l’oniricità ha subìto invece un forte incremento. Nei pezzi sono disseminati rilassanti quanto meditativi momenti di eterei arpeggi e ritmiche lasche, funzionali a lasciare un po’ di respiro prima di rituffarsi a capofitto nell’inferno infuocato di riff rugginosi e onde quadre a cui i Magnitudo ci hanno abituati fin dal loro esordio. Non solo di violenza vive però questo 'Men Against Fire', c’è infatti un’importante componente culturale e di concetto che ci invita a riflettere e ad usare quello sconosciuto organo chiamato cervello. Mi riferisco in particolare alla citazione Orwelliana – ripresa nel titolo di uno dei migliori pezzi del disco – “Immagina uno stivale che schiaccia un volto umano per sempre”, potentissima incarnazione dell’idea secondo cui l’umanità è destinata a soccombere sotto il peso della propria ebrezza di potere in un mondo in cui l’individuo, vessato da doveri e svuotato di ogni propria personalità, esiste solo in funzione della collettività. Immagino legioni infinite di soldatini identici, con espressioni neutre e gli occhi bassi camminano in frotta verso le rispettive occupazioni, timbrano il cartellino, stanno alle loro postazioni, ripetono le medesime mortifere abitudini che lentamente consumano carni, pensieri e individualità. Solo quando gli stracci che portano addosso sono zuppi di sudore e incrostati di polvere, e quando ogni sinapsi è stata forzatamente scollegata e riprogrammata, gli è permesso di tornare alle proprie baracche fatte di niente, fatiscenti e standardizzate, in attesa solo di tornare al proprio lavoro. 'Men Against Fire' è quella voce interiore che spinge ad aprire gli occhi, a vedere e sentire che non ci sono solo ordini esterni ma anche una strada tracciata nell’anima che deve essere a tutti i costi percorsa a pena di unirsi all’infinito gregge di scimmie che altro non sanno fare se non acconsentire e sottostare. È forse questo il fuoco con cui l’uomo si deve scontrare, quello stesso fuoco che potrebbe spronare la mandria indefinita di soldatini a ribellarsi e riversarsi come furie nei propri posti di fatica per distruggerli e incendiare qualsiasi cosa possa ricordare la sensazione di soggiogamento che guidava le loro vite. Potrebbero usare il fuoco per ribaltare il potere trucidando nel sangue i propri ricchi governanti e radere al suolo la società marcia e impune per ripartire finalmente da zero a costruire un nuovo mondo. (Matteo Baldi)

(Sepulchral Silence Records - 2018)
Voto: 75

https://magnitudo.bandcamp.com/album/men-against-fire

Kartikeya - Samudra

#PER CHI AMA: Djent/Deathcore/Death Progressive, Meshuggah, Melechesh
Ormai sta diventando quasi una moda, quella di unire la musica estrema, con forti riferimenti culturali e sonori, alla religione induista. Penso principalmente ai Rudra e da oggi anche ai moscoviti Kartikeya, che tornano a distanza di sei anni dal positivo 'Mahayuga', con questo nuovo 'Samudra', uscito per la Apathia Records il 27 Ashvina 5119 dell'era del Kali Yuga. L'approccio sonoro del sestetto russo mi ha evocato immediatamente quello di Ganesh Rao in quel meraviglioso video che fu "Empyrean", un bell'esempio di djent grondante tonnellate di groove. Qui a differenza del musicista americano, c'è però la presenza di vocals, in formato growl (e clean sul finire del brano) che completano alla grande la proposta dei miei nuovi idoli. L'opener, "Dharma - Into the Sacred Waves", la trovo a dir poco fantastica e rappresenta esattamente tutto quello che andavo cercando nel 2011 con l'esplosione del djent. Certo, qualcuno di voi potrebbe obiettare che siamo fuori tempo massimo, ma francamente me ne frego e mi godo tutte le innumerevoli sfumature che l'act russo riesce a inanellare nei primi sei minuti di questo lunghissimo album (oltre 70 minuti). "Tandava", la seconda song, è una bomba capace di coniugare un riffing in pieno Meshuggah style, con influenze death/metalcore, e quell'alone orientaleggiante che aleggia costante nell'aria e mi consente di essere traslato, almeno mentalmente, in qualche tempo indiano. Lo schizoide inizio di "Durga Puja" dice poi che i Kartikeya non sono affatto degli scopiazzatori delle top band del genere, ma che hanno una loro spiccata personalità e osano affiancando al djent anche suoni progressive e di scuola Melechesh. L'esito, come potrete intuire, è ancora una volta notevole e non fa altro che indurmi ad appassionarmi ulteriormente all'ensemble. C'è tecnica, un buon gusto per le melodie, una certa raffinatezza di fondo, una ricerca costante dell'effetto a sorpresa, e poi l'intrigante combinazione di suoni etnici con una bella dose di violenza; alla fine, tutti i palati ne dovrebbero uscire soddisfatti. Anche laddove è un techno death a farla da padrone ("The Horrors of Home") capace di massacrarci i timpani con un riffing serrato e iper-compresso, ecco che i nostri cedono a qualche coro un po' ruffiano per smorzare la veemenza che sembrerebbe affliggere qualche brano, ma anche ad un comparto solistico da urlo, ascoltare per credere, semplicemente da applausi. "Mask of the Blind" è aperta da splendidi arabeschi musicali prima di cedere il passo ad un riffing death iper-compatto che si lascia andare in altrettanto spettacolari break dal sapore esotico, e formidabili assoli a cura del funambolico Roman Arsafes. Davvero notevole, forse il mio pezzo preferito sebbene sia accostabile a qualcosa degli Eluveitie, ma alla fine sarà difficile scegliere tra ben 14 pezzi, vista l'elevatissima qualità compositiva. "The Golden Blades" è un altro bell'esempio di come combinare musica estrema con suoni mediorientali, che nelle parti più progressive sembrano evocare gli Orphaned Land e in quelle più etniche, gli Arallu. Quel che è certo è che qui non c'è modo di annoiarsi nemmeno un minuto, anche in quelli che sono interludi tra una song e l'altra. "We Shall Never Die" è un brano bello tirato, forse più convenzionale rispetto ai precedenti, anche se quel violino nel finale mi fa venire la pelle d'oca. "Kannada (Munjaaneddu Kumbaaranna)" sembra provenire direttamente dalla valle del Gange (visto il cantato indiano di Sai Shankar) sebbene una musicalità estrema (l'assolo è a cura di Karl Sanders dei Nile) che continua ad evocare la cultura indiana, mentre "Tunnels of Naraka" (che vede il featuring del compositore serbo David Maxim Micic) è un feroce attacco all'arma bianca che culminerà in un iper tecnico assolo conclusivo che scomoda ulteriori paragoni illustri. "The Crimson Age" riprende le sonorità djent alla Ganesh Rao, e i suoi tortuosi giri di chitarra sono miele per le mie orecchie. Si arriva nel frattempo alla lunghissimo gran finale, affidato agli oltre 13 minuti di "Dharma pt. 2 - Into The Tranquil Skies", un concentrato sopraffino di tutto quello che sono oggi i Kartikeya: una combinazione straordinaria di sonorità estreme, decisamente orecchiabili, che mostrano la perizia tecnica di questi notevoli musicisti, l'abilità nel creare criptiche atmosfere, combinare vocalizzi estremi e non, rilasciare una spessa coltre di groove, il tutto tenuto insieme dal minimo comune denominatore delle melodie orientali. Eccezionali. (Francesco Scarci)

(Apathia Records - 2017)
Voto: 85

https://kartikeya.bandcamp.com/album/samudra

venerdì 18 maggio 2018

Phantom Winter - Into Dark Science

#PER CHI AMA: Black/Sludge/Crust, Neurosis
"Lasciate ogni speranza, voi ch'intrate". Dante e Virgilio dinanzi alla porta dell'Inferno, che mette in guardia coloro che stanno per entrare, me li immagino davanti a quella soglia, con una colonna sonora di fondo simile a quella che ascolterete in questo terzo disco targato Phantom Winter. Sperando che il buon Dante Alighieri non si rivolti nella tomba per questa mia eresia, posso dirvi che 'Into Dark Science' consta di sei malatissime tracce, che affondano le loro radici in un melmoso sludge black dalle tinte fosche a dir poco. L'impatto sonoro con "The Initiation of Darkness" è spaventoso: una song mefitica, in cui verrete spazzati via dalla totale assenza di luce, per sprofondare in un suono malsano, fatto di sonorità post-core, atmosfere doom, urticanti voci black, e di tastiere spettrali che sembrano burlarsi dell'ascoltatore, quasi fossero un fantasma che appare e scompare davanti ai nostri occhi. La proposta non è facile da assimilare per quanto si riveli estremamente affascinante da ascoltare. Nella seconda "Ripping Halos from Angels", l'aria si fa ancor più claustrofobica, nonostante l'incipit strizzi l'occhiolino al post-hardcore; poi sono di nuovo desolatissime ambientazioni, cosi cupe e al limite del minimalismo sonoro a prendere il sopravvento, prima dell'incandescente e iper-caustico finale affidato ad una scorribanda di black ferale, in cui a colpire, oltre alle disumane vocals, sono in realtà quelle malinconiche e ronzanti linee di chitarra che accompagnano le grida disperate e angoscianti dei due insani vocalist (qui appare anche un bel growl). Confermo, la proposta è di difficile digestione, si consiglia un antiacido già alla terza traccia, "Frostcoven". Per quanto questa cominci in modo decisamente compassato, con il dualismo vocale prodotto dai due frontman (uno dei quali è peraltro ex membro degli Omega Massif), la song sembra prepararsi ad una tempesta sonora senza eguali. Lo si avverte in quel rallentamento a metà brano che fa da preludio ad una ferocia, venata di una forte componente malinconica, che da li a poco prenderà possesso di questa song, impregnata di cotanta indicibile violenza. Fortuna nostra che l'inizio della lunga "The Craft and the Power of Black Magic Wielding" riveli alcune influenze post-rock per i nostri, che si squaglieranno però da li a breve, lasciando posto ad un rifferama monolitico, inquietante, dannato, con i lacerati vocalizzi che si vanno a sovrappore ad un tremolo picking che ricorrerà presto nei vostri incubi peggiori, sappiatelo. Forse per questo che continuo ad immaginarmi la musica di 'Into Dark Science' come l'ideale accompagnamento per la calata agli inferi del sommo poeta. Una furia dirompente divampa anche nel prologo della title track che mostra segni nei suoi solchi, derivanti da territori crust, e che nella sua seconda parte, tira invece il freno a mano, rallentando i ritmi vertiginosamente e proponendo l'ennesima visione apocalittica di questi musicisti teutonici. Le ultime ammorbandi visioni da fine del mondo fuoriescono dalla conclusiva "Godspeed! Voyager", la cui delicata intro preparatoria non è altro che presagio dei brutti sogni a venire frutto delle notti insonni di questi cinque ragazzi bavaresi. Complimenti a chi è arrivato a leggere o addirittura ad ascoltare l'album fino a questo punto, essere arrivati qui è come aver sconfitto il mostro finale di Doom. Paurosi. (Francesco Scarci)

giovedì 17 maggio 2018

Major Parkinson - Blackbox

#PER CHI AMA: Cinematic Prog Rock
Elettroniche compresse e ossessive (sentite "Night Hitcher", costruita su un inverosimile pattern in 10/4 - poi ripreso nel finale di "Isabel" - che la fa rassomigliare a una "Under Pressure" come la interpreterebbero dei Nine Inch Nails morsi da uno zombie) ed un intreccio di voci ultraterreno (una sorta di eterea Linn Frøkedal contrapposta al terracrostaceo Jon Ivar Kollbotn) finalizzato ad accrescere la tensione narrativa del concept (e probabile che "Lover, Lower Me Down" vi sembri tipo una cosa degli Ulver cantata da Leonard Cohen e, uh, la sensazione si accentuerà nella successiva "Madeleine Crumbles") incredibilmente viranti nella direzione di un prog-pop dalle tinte scurissime (i Depeche mode sotto-il-cielo-elettrificato-di-Bristol di "Blackbox") e, saltuariamente, epicamente morriconiana (i finali di "Isabel" e soprattutto della title track) vs. certo progressive-nonmetal, alla Pain of Salvation, per intenderci. Saranno proprio le due lunghe epiche centrali, le più pirotecniche e creative: la pluricitata "Isabel" (una tuttologica cavalcata progressive attraverso vari suoni: il prog-folk elettrostatico, il finale spacey con tanto di typewriter che richiama il folle pattern di "Night Hitcher") e "Baseball" (un'accozzaglia di circensi quadriglie tra i Rondò Veneziano, gli Alan Parsons Project di "Silence and I" e i Pain of Salvation di "Spitfall" featuring, tra l'altro, il medesimo estratto di "Twisted Nerve" che piace tanto a Tarantino - l'avete sentito?), a ricordare a voi i P-O-S, appunto, e ai P-O-S che se continuano a pubblicare roba come 'In the Passing Light of Day' questi norvegesi qua gli fanno le scarpe in quattro album e quattr'otto anni di carriera. (Alberto Calorosi)

Deinonychus - Ode to Act of Murder Dystopia and Suicide

#FOR FANS OF: Black/Doom
Deinonychus is a quite well-known band in the black metal scene. The early inception of this band was founded in Brunssum (Netherlands) by Marko Kehrem, who is the only original member who still remains in the band, and Maurice Swinkels who is a member of the death/thrash band Legion of the Damned since its creation. As usual happens, there have been many line-up changes and currently the band consists of a trio, where Marko is accompanied by the former member Steve Wolz and Ulf Theodor Schwadorf, one of the members of the mighty band Empyrium. Deinonychus was pretty active during its first era, releasing seven albums until the band´s split-up in 2008. After years of silence, Marko has reformed the band, returning with an impressive new album entitled 'Ode to Act of Murder Dystopia and Suicide'. The new cd marks a new era for Deinonychus, though many elements contained in this album, could be recognizable if you listen to their previous albums. As many of you know, Deinonychus was initially a band firmly rooted in the black genre, though they evolved its sound to a more blackish/doomish metal sound, sometimes even with some degree of experimentation. In my opinion, this new opus brings back some elements from their earlier works, although it maintains the suffocating and depressing sound contained in their mid era albums. So, what is different this time? Well, 'Ode to Act of Murder Dystopia and Suicide' has a more dramatic, hypnotic and atmospheric sound. This more atmospheric approach is reinforced by some keys, courtesy of Ulf Theodor. The contrast between harness and atmosphere is evident from the first track “Life Taker”, which brings us the classic tortured and anguish vocals of Marko, and their trademark morbid guitars. The occasional keys increase the tenebrous and enthralling atmosphere of this track. Theodor´s work with the keys is awesome, he introduces simple but evoking melodies which shine every time they appear. Another fine example of this formula can be found in “The Weak Have Taken the Earth”, when the music suddenly stops and that piano simply freezes your soul with its dark beauty. This calm yet startling section is rapidly broken by Marko´s tortured vocals and some tremendously heavy and dark riffs. This song is simply flawless. The idea of mixing, sometimes at the same time, the keys with those agonizing voices is made a few times, mainly in the first half of the lp, and it is an idea that I really enjoy, being in my opinion a highlight of this album. The album has in general terms a quite slow pace, as we can expect from a black/doom album, fast paced sections are an exception like those we can find in the second half of “Dusk” and in the initial section of the closer “Silhouette”. This song summarizes perfectly the Deinonychus´s sound and its evolution. The track slows downs until the sound becomes crushingly slow, this is the moment where Marko´s desperate growls and shrieks sound more powerful than ever. A great way to finish this new work, the great return by Deinonychus, an opus that maintains a pretty good level from the beginning to the end, though I clearly prefer the first half where the keys appear mainly. I think Theodolf´s contribution is excellent and should be reinforced in the (hopefully) upcoming works. (Alain González Artola)

martedì 15 maggio 2018

Žen - Sunčani Ljudi

#PER CHI AMA: Kraut Rock/Math/Shoegaze/Indie Rock
La quarta uscita della band croata degli Žen, riafferma il valore intrinseco della musica proposta da questo ensamble sperimentale, tutto al femminile, devoto e dedito fin dagli esordi alla musica alternativa. Dal 2009, infatti le quattro croate si occupano di indie psichedelia, romantica ed oltreconfine, proponendola in varie forme audio-visive con messaggi umanitari non indifferenti (date un occhio ai loro video su Youtube). 'Sunčani Ljudi' è forse l'album più sognante e delicato della loro discografia, calcando a pieno la psichedelia di certi The Flaming Lips, senza rinunciare a qualche apertura math/post-rock da cui possiamo trarne la radice del loro suono, divagazioni shoegaze e il dream pop alla Cocteau Twins di 'Milk & Kisses'. Voci angeliche immacolate ed astratte, strutture sbilenche care al Rock in Opposition (una sorta di avant-prog/ndr) si mostrano in più di un'occasione, sonorità sempre al limite del post tutto, senza mai perdere il confine dell'orecchiabilità, della melodia e dell'estro allucinogeno più radicale. Il canto in lingua madre rende poi il tutto più interessante ed intrigante, dal bellissimo cantato a più voci alle atmosfere più epiche e malinconiche. Difficile stabilire quale sia il brano più caratteristico ma sono rimasto colpito dalla bellezza di "Četiri Tri Pet Dva", che ammalia con la sua atmosfera mistica, profondamente folk, frullata in un contesto ritmico contorto e colorato, veramente una traccia splendida. "Opet Gange" risuona come un miscuglio tra l'alternative rock e ancora il Rock in Opposition, mentre lo shoegaze alla Curve e gli indimenticabili My Bloody Valentine sono evocati in "Sonična Taktika", un ottimo brano lisergico, di forte impatto ma anche tra i più normali in fase compositiva di quest'album. Lo stile trasversale dei brani, mi spinge ad un paragone di tutto rispetto con le ragazze delle The Raincoats ed anche se qui non parliamo di post punk, l'attitudine e l'approccio alla musica appare il medesimo, per l'appunto, trasversale nei confronti dei vari generi musicali. 'Sunčani Ljudi' alla fine risulta come un lavoro altamente emotivo, carico di momenti ipnotici e sognanti, aperture post rock da manuale (leggi primi Mogwai) e un'originalità al di sopra della media. Oserei dire una fantastica e piacevolissima scoperta. Ultima menzione per "Lov Na Crne Tipke", una favola, che dal minuto 2:40 spolvera un'escursione cosmica degna del miglior Alan Parsons Project. Una gang di donne geniali di cui non ci si può non innamorare. Disco da avere! (Bob Stoner)

(Moonlee Records/Un Records/Vox Project - 2017)
Voto: 80

https://xzen.bandcamp.com/album/sun-ani-ljudi

Indicative - III _ awake | existence | decline

#PER CHI AMA: Post Hardcore/Post Rock strumentale
Si muovono tra gli Shellac, i My Sleeping Karma e i Tool questi Indicative, formazione palermitana post math rock, attiva dal 2010. Arriva a noi il disco 'III _ awake | existence | decline' grazie alla Qanat Records, realtà che si occupa di scovare e conservare le perle musicali dell’underground palermitano e alla Pistacho, label indipendente anch’essa attiva sul territorio palermitano. Quest'ultima prova in studio ha le sembianze di un flusso di coscienza ruvido e intenso, pochi spiragli di luce filtrano da un cielo di nuvole bianche che ondeggiano sornione spinte dalle correnti d’aria. È come un collage di paesaggi sonici, accostati per forma, colore e sensazione e intervallati da sporadici interventi di sample vocali e registrazioni di parlato. Gli ambienti più dilatati possono sembrare quasi free jazz come nella ben riuscita "We Get What We Deserve", mentre le parti più intense possono arrivare a cavalcate stile crossover a ricordare i Deftons e gli Incubus come in "Human Consciousness". Anche se il progetto è strumentale, una menzione merita l’utilizzo delle voci a supporto delle canzoni: principalmente si tratta di suoni eremitici di stampo mistico, oppure delle sbraitate piene di dolore a disturbare l’armonia delle epiche composizioni degli Indicative che ne guadagnano in varietà sonora ed espressività. Le chitarre sono aggressive e taglienti e il ruolo del basso è quasi a sostituzione della voce solista mancante; le ritmiche invece sono forse le più variegate a livello creativo, non si risparmiano tempi dispari, sincopi e doppio pedale. Il pezzo più interessante per quanto mi riguarda è "Dissolution" che vede l’utilizzo di ritmiche elettroniche, oltre alle suddette voci e al metodo compositivo a “landscape”, caratteristico della band. Siamo di fronte ad una realtà valida e collaudata, formata da elementi caparbi e prolifici, convincono le skill tecniche e compositive della band seppur creda che gioverebbe una contaminazione più pensante con altri tipi di strumenti, magari che non ricadano nei canoni del post rock, come in parte già fatto nel disco, per arricchire i già variegati soundscapes e renderli ancor più unici. In conclusione, gli Indicative sono una band italiana che può distinguersi e far parlare di sé, vi consiglierei di tenere gli occhi aperti nel caso doveste vedere locandine che riportano il loro nome; vivamente consigliati agli amanti del post rock e progressive atmosferico. (Matteo Baldi)

lunedì 14 maggio 2018

Mormânt de Snagov - Depths Below Space and Existence

#PER CHI AMA: Black/Death
Terzo album dal 2010 a oggi per i blacksters finlandesi Mormânt de Snagov, quartetto originario di Turku, messo sotto contratto dalla label rumena Pest Records. Chissà se c'è una qualche correlazione tra il monicker proprio in lingua rumena che sta per "la tomba di Snagov" (dove Snagov è la città rumena che ospita le spoglia di Vlad Tepes) e la scelta dell'etichetta di assoldare questi paladini del black. A parte le mie digressioni mentali, andiamo a commentare questo 'Depths Below Space and Existence', nuovo capitolo di una discografia che vanta anche un paio di split album, un EP e una compilation. Beh, chi come me si aspettava una forma di black originale, date le origini della band, verrà un po' deluso, visto che la proposta dei nostri è in realtà piuttosto convenzionale, con otto brani diretti e veloci che sembrano essere influenzati dal black di stampo svedese (per ciò che concerne linee di chitarra taglienti e screaming vocals), sbecchettato da attacchi di death assai aggressivo di scuola americana (la ritmica in stile Suffocation di "Stories Untold" lo dimostra) e da contaminazioni più sperimentali ("Resist" e la stessa "Stories Untold" nel suo break acustico centrale, ma anche nelle sue schegge impazzite di jazz). Poi il resto del disco scivola su pezzi tipicamente black, con uso e abuso di blast beat, chitarre in tremolo picking, qualche fortunosa variazione al tema, come la doomish "Battle Neverending", il mio pezzo preferito, cosi carica di atmosfere spettrali e la conclusiva "The Roots of Grief", un altro brano in cui le velocità non sono fini a se stesse e che mi danno una visione dei nostri più distaccata dagli stilemi e dai cliché tipici del black made in Sweden. C'è certamente ancora tanto da lavorare, ma idee buone, sparse qua e là nel corso di questo 'Depths Below Space and Existence' ce ne sono, basta solo cercarle con attenzione e assoluta cautela. (Francesco Scarci)

mercoledì 9 maggio 2018

Gigantomachia - Atlas

#PER CHI AMA: Epic Death Metal, Bolt Thrower
"La Tauromachia" inneggiava un De Luigi un bel po' di anni fa quando impersonava il cinico Guastardo. Perché questo incipit? Perché leggendo il monicker di questi italiani, ossia Gigantomachia, il primo assurdo pensiero che mi è venuto in mente è stato quello del comico italiano a Mai Dire Gol. Certo il significato dei due termini è piuttosto simile, nel primo caso si riferiva al combattimento tra bovini e uomini, nel secondo a quello dei Giganti contro gli Dei dell'Olimpo. Me ne rendo conto, sto digredendo e sottraendo tempo prezioso ai frusinati Gigantomachia che arrivano al loro debutto grazie al supporto dell'Agoge Records, attraverso un disco potente di death (piro)tecnico, epico e potente, volto a raccontare la rivolta dei Giganti contro gli Dei. 'Atlas' apre con un'intro che ci conduce proprio a questo tema, "Rise of Cyclop", e che prepara il terreno alla prima tempesta affidata all'oscura "Eye of the Cyclop", una traccia arrembante che mette in mostra le caratteristiche del quintetto di Alatri: ritmica pesante ma dotata di un discreto pattern melodico, la coesistenza tra growling e screaming vocals, una cupa atmosfera di fondo creata da ottimi arrangiamenti. Si passa a "Liberate the Titans", song spigolosa, complice una matrice ritmica il cui suono è assai vicino a quello del cingolato di un carro armato. La traccia è pachidermica nel suo incedere, sebbene i cambi di tempo dovrebbero aiutare a renderla più leggera, niente da fare, è solo l'assolo finale a sollevarci per una ventina di secondi dalla monoliticità di un suono davvero pesante, che per certi versi sembra richiamare quello degli inglesi Bolt Thrower. E che continua ad essere pesante e minaccioso anche nella successiva "Immortal", in cui il giro di chitarra iniziale si rivelerà piuttosto ipnotico e ridondante almeno fino a quando strali di luce nella notte (le chitarre) prendono il sopravvento e rompono ancora una volta una proposta che rischia di peccare in eccessiva coriaceità. Più convincente "Aldebaran", un po' più dinamica e carica di groove, e comunque sempre brillante in fase solistica. "Leviathan" è un'altra song che evidenzia suoni solidi e pesanti, che peccano ancora un pochino in fase costruttiva ma che nella fase solista, trovano invece ottimi spunti. La title track è decisamente più compassata, anche se il riffing "panteroso" conferisce una certa verve al brano che comunque non travalica mai in fatto di velocità. Ultimo plauso per la conclusiva "Scylla & Cariddi", ove ancora una volta, la mitologia si mette a disposizione della musica per un'ultima cavalcata di progressive death dalle tinte epico-sinfoniche che sigilla una performance più che soddisfacente da parte di questa neo band italica. (Francesco Scarci)

Confine - Incertezza Continua

#PER CHI AMA: HC/Punk/Grind, Negazione, Napalm Death, Rostok Vampires
Dieci canzoni in poco meno di 15 minuti? O è grind in stile 'Scum' dei Napalm Death o poco ci manca. Quello proposto dai Confine in questa 'Incertezza Continua' è un bell'esempio di hardcore italico, di quello che richiama i Negazione di fine anni '80 ("La Favola di Dio"), di quello cantato in italiano e che vede scorrere nelle vene una bella dose di punk ("La Tesi" mi ha peraltro ricordato i teutonici Rostok Vampires) e che non si nega nemmeno una qualche scheggia grind in tributo ai paladini inglesi di Birmingham (ascoltare "Pargolo" per capire) o che evoca un certo thrashcore marcione (tipo nel riffing corposo di "Franco"). La band veneziana alla fine cattura la mia attenzione con quei pezzi brevi, diretti, talvolta anche carichi di una buona dose di groove (leggasi il chorus di "Infamia" o "Magone"), sprigionando tutta la loro rabbia attraverso testi incazzati e ritmiche coriacee o al fulmicotone ("Maurizio IV" e "Pozzo Strada"), non disdegnando poi nemmeno momenti più ritmati ("La Mia Recita" o la conclusiva title track). Al termine dei dieci brani, la sensazione è quella di essermi ascoltato un disco di durata normale (diciamo sui 40 minuti), complice un'intensità e densità di fondo sorprendente e invece no, non siamo andati oltre al quarto d'ora. Incredibile. (Francesco Scarci)

(Disimpegno Records/Dischi Bervisti - 2018)
Voto: 70

https://confinehc.bandcamp.com/album/incertezza-continua

Emphasis - Black Mother Earth

#PER CHI AMA: Post Metal/Post Rock
Giusto per confondere, la introduttiva "Muna" erompe con discrezione carsica, successivamente conturbata da un coro femminile ultraterreno, invero collocabile tra goth, doom e il coro delle voci bulgare per come abbiamo imparato a conoscerlo nel pippero. La tavolozza post rock inzaccherata di stilemi mostrata invero con una evidente baldanza, in "Captains of North" rivela invece pregi e difetti di una composizione sì consapevole (le tinte epiche di "The Quiet Roads" sono indiscutibilmente efficaci), senz'altro trascinante (è il caso, ammettiamolo delle progressioni black-imperatoriali di "Black Slit", poi convergenti asintoticamente verso la successiva "Rivers Unders", assieme alla quale compone una sorta di mini-suite) eppure solo saltuariamente originale. Semplicemente disdicevoli le due voci: un growl pre-adolescenziale la prima e una specie di gorilla con una cassaforte sulla pancia (la stessa timbrica del Fantozzi antifrastico che che esclama "Ma com'è umano lei...", se avete modo di ricordarvela), la seconda. L'album, eminentemente strumentale, sarebbe una sorta di messa in scena musicale delle atmosfere dell'omonimo romanzo dello scrittore croato Kristian Novak, conterraneo della band, e sarebbe stato realizzato nientemeno che col contributo del Ministero della Cultura croato. E sti cazzi non lo vogliamo aggiungere? (Alberto Calorosi)

martedì 8 maggio 2018

Misanthropic Existence - Death Shall Be Served

#PER CHI AMA: Death/Black Old School
Altro "ripescaggio" da parte della Aesthetic Death che ripropone un disco degli inglesi Misanthropic Existence uscito originariamente autoprodotto nel gennaio 2017. Ultimamente però le scelte dell'etichetta britannica non mi stanno del tutto convincendo e la riproposizione di questo lavoro bestiale, la trovo francamente superflua. Come mai sono cosi tranchant nei confronti di quest'album? Perchè 'Death Shall Be Served' non aggiunge assolutamente nulla ad una scena davvero stantia come quella estrema: 64 minuti sparati a mille, votati ad una violenza primordiale che un tempo faceva clamore, notizia e forse destava un bel po' d'interesse, ma che oggi, in tutta sincerità, trovo obsoleta, old-school e alquanto noiosa. Se il disco fosse durato una mezz'ora, probabilmente sarei qui a parlarvi di una promettente band proveniente da Worchester che ha provato ad emulare col loro debut, gente del calibro di Slayer o Marduk, nelle loro opere più famose e decisamente dalle brevi durate. Invece mi ritrovo a commentare un lavoro monumentale di death/black/grind della durata che supera di gran lunga l'ora, no grazie è troppo. Mi limiterò a dire che il sound del terzetto inglese è ignorante in tutte le sue 11 tracce incluse. Sono estremi, blasfemi, marcescenti, probabilmente anche beceri nei testi che sembrano orientati al più ovvio e scontato dei temi, il satanismo. Le velocità sono sparate ai mille all'ora, sovrastate nel loro caos sonoro da uno screaming indiavolato che non lascia scampo. Difficile identificare un brano piuttosto di un altro, data la monoliticità in toto di un cd a dir poco brutale che affonda le sue radici nel death metal svedese di metà anni '90. Potrei dirvi solo che sorbirsi pezzi come "War-Torn Earth and Blood Soaked Skies" (che va oltre i 12 minuti) e "Humanicide" (quasi 8) è impresa non indifferente. Only the braves! (Francesco Scarci)