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mercoledì 31 agosto 2016

Faun - Totem

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Neofolk, Medieval, Orplid
A distanza di un paio d’anni dal precedente lavoro, 'Renaissance' (datato 2005), tornò in pista il quintetto teutonico dei Faun, con un nuovo affascinante album. Dopo una lunga intro di quasi quattro minuti, inizia un viaggio nel loro mondo ancestrale. 'Totem' è suddiviso virtualmente in tre capitoli: la prima parte viaggia su binari dark gothic, con le voci di Lisa e Fiona sempre in risalto e l’intrigante uso di strumenti folkloristici, come il bouzouki irlandese, l’arpa celtica, il didgeridoo e l’hurdy-gurdy, che conferiscono al sound dei nostri, le emozioni tipiche della musica classica, per la sua capacità di essere senza tempo. Si tratta di composizioni vellutate, estremamente rilassanti, che ci riportano con la mente a paesaggi incantati, con quell’uso delle chitarre acustiche che tracciano dolci linee melodiche e angeliche vocals femminile che declamano splendide poesie. Ciò che mi fa storcere il naso è come sempre il cantato maschile di Oliver Sa Tyr in lingua tedesca, e quella sua incapacità di fondo di risultare melodica. La parte centrale del disco è invece orientata a sonorità medievali: sembra di essere scaraventati indietro nel tempo di quasi mille anni nella lande scozzesi che hanno ospitato il film 'Braveheart', grazie all’utilizzo di strumenti “vetusti” quali mandolino, flauti, percussioni e cornamusa. La terza parte del cd infine, torna a ricalcare il sound posto in apertura di questo lavoro, con ambientazioni più oscure e ipnotiche, fatte di atmosfere evocanti antichi riti pagani ed una certa spiritualità che mostra la connessione dei nostri con la natura. 'Totem' non è certo un disco di facile approccio, ma se siete alla ricerca di musica di sicuro non banale, la proposta dei Faun, potrebbe sicuramente fare al caso vostro. (Francesco Scarci)

(Curzweyhl/Rough Trade - 2007)
Voto: 70

http://www.faune.de/faun/pages/start_en.html

martedì 30 agosto 2016

The Last Days of Jesus - Dead Machines’ Revolution

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Punk/Dark/Rock, Misfits, Devo
E questi da dove diavolo sbucano fuori? Partendo da un monicker non certo esaltante, questi The Last Days of Jesus mostrano cattivo gusto anche per ciò che riguarda la cover del cd, quanto mai orribile. E la musica? Beh, ho dovuto ascoltare e riascoltare un sacco di volte questo disco (addirittura il quinto e per fortuna l'ultimo della loro discografia, ma uno nuovo è in lavorazione), per capire se potevo salvare qualcosa e per comprendere anche in quale filone inserire questi pazzi slovacchi. Dopo svariati ascolti, faccio ancora fatica ad intendere e digerire il sound di questo quartetto, che dice di suonare un deathrock, ma di death e rock qui ce n’è gran poco. Mi sembra, più che altro, che ci sia una forte componente elettro-gothic di stampo teutonico, sulla quale i quattro psicopatici, inseriscono diversi elementi presi dal punk (Misfits), dalla musica dark (primi The Cure) e gotica, arrivando a creare un qualcosa da loro definito come neo-batcave-postpunk-goth-agrhlszjf (e non mi chiedete cosa vuol dire quest’ultima definizione). A me sinceramente pare che la release della band di Bratislava sia una presa per il culo per gli ascoltatori pertanto non mi sento assolutamente di consigliare questo bizzarro lavoro, che ha il solo pregio di essere altamente ironico e di saper creare delle atmosfere dannatamente noir. La band probabilmente da cui traggono ispirazione è quella degli americani Devo, che negli anni ’80 univano il punk rock al synth-pop: qui troviamo infatti strane sperimentazioni che disorientano non poco, ma dire che la musica di 'Dead Machines’ Revolution' sia piacevole, mi sembra pura follia. Se pensate che la vostra mente sia abbastanza aperta, potreste fare un tentativo e dargli un ascolto, verrete catapultati in una granguignolesca dimensione parallela. (Francesco Scarci)

(Strobelight Records - 2007)
Voto: 55

http://www.thelastdaysofjesus.sk/

Vert - Accepting Denial

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Emocore, Lost Prophets, Incubus
Dall’area di Wolverhampton (UK), nel 2007 saltò fuori quella che sembrava la new sensation del momento, i Vert. Francamente mi trovo di fronte ad una delle tante band che popolavano il mercato discografico in quel periodo, con il conseguente rischio di saturarlo, a causa della loro proposta musicale non del tutto originale. Il quartetto inglese, accostato più volte dai magazine ad Incubus e Lost Prophets, propina un sound energico e robusto fatto di chitarre non troppo pesanti, ma abbastanza veloci, cariche di una certa attitudine punk, che fanno il bello e il cattivo tempo, lungo le 10 tracce di questo 'Accepting Denial', primo e unico full length per la band britannica (nel 2009 lo scioglimento inevitabile). La voce di Steve Braund oscilla tra momenti malinconici ad urla cariche di rabbia. La musica dei nostri, mai troppo cattiva, anzi piuttosto ruffiana, paga dazio, in diversi pezzi, alle band succitate, come pure in alcuni frangenti sono udibili reminiscenze metalcore. Qui trovate dell’easy music che avrà fatto sicuramente la gioia degli amanti di sonorità nu metal/rock. Egregiamente prodotti ai MCC Studios da Andy Giblin (Slipknot, I-Def-I, Kill 2 This), i Vert non fanno altro che svolgere il loro compitino raggiungendo una stringatissima sufficienza, mixando sonorità catchy a vocals da MTV. Il disco non mi ha mai convinto appieno, però non è neppure da stroncare; mi è rimasta solo la curiosità di sapere dove i nostri potevano andare a parare in una successiva produzione. (Francesco Scarci)

lunedì 29 agosto 2016

Jet Banana - Master is the Enemy

#PER CHI AMA: Power Rock, Stones
Un rapporto piuttosto conflittuale, quello che mi ha visto alle prese con quest’album di debutto dei francesi Jet Banana. Conflitto cominciato dalle scelte grafiche del font e dell’artwork che sono quanto di più vicino possa esserci ad un pugno in un occhio, e continuato poi con le roboanti dichiarazioni della cartella stampa, secondo cui il suono del giovane quartetto sarebbe il risultato di un matrimonio tra il power pop, Stones, Dandy Wharlos, Eagles of Death Metal e AC/DC, da loro ribattezzato in modo alquanto pretenzioso “power rock”. Va dato atto ai Jet Banana di aver fatto le cose per bene, con tanta passione ed evidente spiegamento di forze (sempre più difficile, oggi, trovare un cd che contenga un libretto ciccione con testi e fotografie), per confezionare un lavoro di buon livello. Musicalmente siamo dalle parti di un FM rock molto facile e orecchiabile, discretamente fresco e coinvolgente, che guarda in modo abbastanza fedele ai modelli di riferimento dichiarati, a volte con un approccio un po’ scolastico, altre invece mostrando anche qualche buono spunto. Il problema, quando parliamo di questa musica, è che se non si hanno delle buone canzoni difficilmente ci si potrà far ricordare più di qualche minuto. Ed è qui che devono ancora lavorare sodo, i Jet Banana, sulla profondità e la solidità del loro songwriting, perché è grazie alle belle canzoni che siamo disposti a passare sopra ai riff troppo simili ad altri già sentiti mille volte o a suoni e arrangiamenti un po’ stantii, come delle vecchie giacche dimenticate troppo a lungo nell’armadio, che una volta indossate non sono ancora vintage, ma semplicemente fuori moda. Per ora, quindi, resta un disco sincero e divertente, suonato bene e con una bella energia, ma per lasciare un segno serve qualcosa di più. (Mauro Catena)

domenica 28 agosto 2016

Paramnesia - Ce Que Dit La Bouche D'Ombre

#PER CHI AMA: Cascadian Black, Addaura, Skagos
Non è il nuovo EP dei francesi Paramnesia questo 'Ce Que Dit La Bouche D'Ombre', bensì il vecchio lavoro uscito nel 2013 in CD-r, rimasterizzato e riproposto dalla label cinese Pest Productions. Due pezzi per un totale di 23 minuti che ci fanno conoscere le radici del male da cui trae linfa vitale il quartetto di Strasburgo. "I" segna inequivocabilmente il passo di un rozzo black cascadiano che si rifà, come influenza principale, agli statunitensi Addaura, grazie a ritmiche tiratissime e roboanti, vocals malvagie e qualche accenno di melodia (e malinconia) nei momenti più mid-tempo. Non mancano neppure frangenti più atmosferici anche se qui si rivelano merce assai rara, cosi come pure sorprende il finale parlato della prima traccia che introduce a "II", altri 11 minuti di suoni black primordiali che lasciano solamente trasparire le potenzialità dell'ensemble transalpino, con sprazzi di catartico post rock, che con qualche difficoltà erano emerse anche nel lacerante album omonimo, dove comparivano le tracce "III" e "IV". Per lo meno ora abbiamo capito il perché della progressione nei titoli di quelle due song. Speriamo solo che ora i Paramnesia si mettano alla ricerca di una propria meglio definita identità, per ergersi dalla sempre più affollata scena post black. (Francesco Scarci)

Third Island - Dusk

#PER CHI AMA: Post Rock/Post Metal/Shoegaze
A volte è un semplice artwork a conquistare i sensi ancor prima della musica. Cosi è stato per me con i Third Island, un amore a prima vista, che con quella loro copertina cosi essenziale ma anche cosi affascinante, hanno subito catturato la mia attenzione. Poi, avuto il digipack in mano, messo il disco argentato nel player e fatto partire il primo brano dei tre, rilassandomi di fronte alle atmosfere sommessamente post rock della opener, "Thawed My Skin". Undici minuti in cui il trio irlandese palesa la propria passione per sonorità darkeggianti, che combinano inequivocabilmente il post-rock con lo shoegaze in un incedere marziale, ripetitivo, oserei definirlo ipnotico, complici anche le tematiche che trattano i nostri, ossia disturbi del sonno e incubi annessi. Incubi che si materializzano nel corso della song con l'ingrossarsi delle chitarre che vanno quasi a sfiorare il post metal, ma anche nell'incupirsi di quella voce inizialmente cosi morbida e sognante. La band di Limerick prosegue con i nove minuti di "Come Now" e quelle pesanti gocce di pioggia che si odono nella parte introduttiva della song lasciano presto il posto alla litanica (ma anche malinconica) voce del frontman e una musica che via via sembra cadere in balia di un doom intinto in lisergiche pozioni magiche, in un sound che ha modo di evocare i Godflesh, ma anche Kowloon Walled City e una versione molto più soft di Neurosis e Isis. Ci dirigiamo inebriati verso la fine dell'EP con la terza e conclusiva "It's Moving", ulteriori undici minuti di sonorità post, vocals stralunate, atmosfere morbose e un lungo e asfissiante finale interamente strumentale. 'Dusk' alla fine è quello che si dice un buon biglietto da visita per una band agli esordi, che si è formata soltanto lo scorso anno. Insomma un altro ensemble dell'underground da appuntarsi nel proprio libricino degli appunti per futura memoria. (Francesco Scarci)

sabato 27 agosto 2016

The Walk – Wrong Enemy

#PER CHI AMA: Alternative Rock
I The Walk sono un quartetto di Strasburgo, capitanato dal cantante e chitarrista, nonché autore di tutti i testi, Hervé Andrione, giunto oggi al debutto sulla lunga distanza dopo un paio di interessanti EP che già mettevano in evidenza uno stile piuttosto peculiare e personale, seppur non originalissimo. La musica della band si basa sulla chitarra bluesy (per lo più acustica, a volte slide, spesso distorta) e la voce di Andrione, il cui timbro ricorda a volte quello di Bertrand Cantat dei Noir Desir, cui fa da contraltare Nicolas Beck con il suo tarhu, uno strumento piuttosto raro, una sorta di violoncello inventato dal liutaio australiano Peter Biffin negli anni '80, ispirato dalla tradizione mediorientale ed in particolare al tanbur turco. Il suono dei The Walk si nutre di questo contrasto apparente, esacerbato da una sezione ritmica potente, precisa e di stampo decisamente rock. Quello che ne esce è una musica che trova forti riferimenti in quello che negli anni '90 si sarebbe definito come “alternative”, muovendosi in un ambito che spazia dai già citati Noir Desir (anche se qui si utilizza esclusivamente la lingua inglese) ai Deus, fino a Jeff Buckley, il Ben Harper più roccheggiante e più di una suggestione grunge. Se è vero che i brani più propriamente rock sono piacevolmente grintosi ma difettano forse di un po’ di impatto e personalità, i pezzi più riusciti sono, a mio avviso, quelli in cui si toglie un po’ il piede dal pedale dell’acceleratore e dove viene dato maggior spazio al dialogo tra chitarra e il tarhu, quindi piacciono “Stand the Truth”, con un accordion suggestivo, o la drammatica epicità buckleyana di "Words of Wisdom", o ancora le delicate “Until” e “Expanding Universe”, mentre la vetta viene toccata da “A Price to Pay” col suo arrangiamento d’archi e il poderoso crescendo finale. Altrove invece, le idee ci sono e sono buone ma è come se non siano state sviluppate a dovere: “Far From my Dreams” parte bene con le sue atmosfere avvolgenti che ricordano “Release” dei Pearl Jam ma poi si prolunga per 8 minuti, sembrando ripiegarsi su stessa senza davvero mai prendere il volo. L’impressione è quella di trovarsi di fronte ad un prodotto realizzato con grande cura del dettaglio, a partire dallo splendido artwork che ritrae i musicisti come stregoni africani, fino ad un suono curato e scintillante. Forse troppo, a dire la verità, nel senso che forse, sull’altare della pulizia sonora è stato sacrificato un po’ di quel sacro fuoco che sono sicuro animi le loro esibizioni live, ma si tratta comunque di dettagli in un lavoro che risulta già maturo e riesce a valorizzare le idee quanto la tecnica dei musicisti. Disco molto interessante e band da seguire con attenzione. (Mauro Catena)

Blerthrung - Blindvei

#PER CHI AMA: Raw Black Metal
Blerthrung è un duo black metal proveniente dalla ridente e solare Melbourne. Da diverso tempo non mi arrivava una elegante busta in plastica con un CD-R e un foglio di carta stampato in bianco e nero. Questo genere di cose solitamente viene visto come una scortesia ma in alcuni casi, come quello della musica che non ha interesse né verso il mezzo né verso gli altri, è benevolmente accettato (tra l'altro, visitando la loro pagina di facebook è annunciata la stampa di musicasette a cura della etichetta francese Wulfrune Worxxx). L'ascolto di questo debutto lascia un attimo disorientati al primo impatto, non riuscendo a capire la strada che voglia percorrere il gruppo a causa di troppi stili e direzioni diverse intraprese. "The Ground" ci accoglie con un accettabile, mesto e basilare depressive black, "The Black Plague" e "Their Virus" non sono classicamente veloci, e men che meno oscure e malefiche, anche se cercano di strizzare l'occhio al lo-fi scandinavo ricordandomi i primi demo degli Abruptum. Gli intermezzi e "Cracks In The Stone" approcciano arie melodiche e gothiche, con un cambio di sonorità poco piacevole. Le uniche tracce che mi ricordano piacevolmente, dal punto di vista concettuale, il black metal vecchia scuola sono le ultime "What We Have Grown" e "Ancient Wisdom", in cui finalmente si sente velocità, tiro e un po' di tenebra australe. La volutamente scarsa qualità sonora, l'estetica disperata, naturalistica e oscura non bastano a giustificare il genere e la sua esecuzione. A mio parere il gruppo australiano non ha sbagliato qualcosa nel ricettario del "voler essere black metal", ha semplicemente composto musica ancora acerba e senz'alcun impatto. (Kent)

giovedì 25 agosto 2016

Magnitudo – Si Vis Pacem

#PER CHI AMA: Sludge/Psych/Post Metal
Un nome pesante per una musica ad alto peso specifico. I Magnitudo, direttamente da Bergamo, già dal primo EP riescono ad attirare l’attenzione su di sé tanto che la Sepulchral Silence, label britannica si è subito premurata di aggiungere questi ragazzi nel proprio roster. L’EP è stato registrato egregiamente dall’ottimo Danilo Battocchio, membro dei post-metallers torinesi Last Minute To Jaffna. Non solo il sound risulta potente ma anche il nome della band suggerisce forza, intensità e un buon grado di pericolosità perfettamente calzante con l’essenza della band. I Magnitudo si sono spinti fino a imprimere su disco la violenza e la portata distruttiva di un attacco all’umanità da parte di forze immemori e ancestrali che hanno come fine solamente la devastazione totale. Uno scenario che non in molti riuscirebbero a sostenere, è come guardare da una finestra a vetri la propria città che viene inghiottita da un gigantesco terremoto (mai immagine fu cosi attuale - RIP/ndr): voragini che si aprono ovunque, edifici che crollano, urla che echeggiano alte e disperate ed il sole offuscato per la troppa polvere sospesa nell’aria. 'Si Vis Pacem' la prima parte di un famoso detto latino: se vuoi la pace prepara la guerra. Difendere la propria posizione, fortemente ancorati alle proprie idee, pronti a combattere, uccidere e morire per esse. Le premesse ci sono tutte, anche l’ansia nel vedere le figure incravattate con la maschera a gas in copertina. Milioni di burattini identici che non sanno nemmeno più respirare, mossi dalla stessa brama di potere e che brilla rossa nei loro occhi. Ma ora basta fantasia, è giunta l’ora di far vibrare i timpani. Si parte senza foga ma con grazia: il primo pezzo, "Marjane", è una song orientaleggiante venata di rabbia che si trasforma in un ambiente ostile, senza ossigeno e senza via d'uscita. Un incipit ansioso e malvagio che ci traghetta alla seconda traccia in cui per la prima volta appare la voce distorta di Dario, e il cui suono ricorda quello di un titano sceso sulla Terra con intenzioni non propriamente di fratellanza. La musica si articola in bordate di accordi dissonanti, mitragliate di batteria e cambi di metrica accanto a molti spazi sonici nelle parti ritmicamente distese tipicamente doom sostenute da un rugginoso ribollire di valvole. La terza traccia "χορού Λάρισας" introduce la voce pulita, una scelta coraggiosa ma anche ben riuscita nel suo minimalismo, sembra quasi un lamento ma potrebbe anche essere un’invocazione ancestrale sacra, e questo probabilmente non lo sapremo mai. La canzone continua come un fiume in piena tra granitici riff e terremoti che flagellano un paesaggio ormai privato di ogni forma di civiltà umana. Con "T", brano di chiusura, torniamo alle sonorità dell’inizio ma con un’attitudine diversa, più disillusa e determinata. E ancora la voce di Dario ci guida sul sentiero della battaglia e ci esorta una volta di più a puntare i piedi e guardare la distruzione che ci si staglia davanti con lucida coscienza e una buona dose di cinismo. (Matteo Baldi)

(Sepulchral Silence Records - 2016)
Voto: 80