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lunedì 26 gennaio 2015

Milk - Core

#PER CHI AMA: Crossover, System of a Down, Sweet Lizard Illtet, Sparta
Uscito nel 2014 per la label indipendente Esquimaux records, il primo lavoro dei Milk dal breve titolo 'Core', arriva direttamente dalla terra del leggendario eroe William Wallace, la Scozia. Con questo EP di quattro brani, il combo della contea di Ayrshire, tenta di fondere sonorità diametralmente opposte, quali possono essere l'elettronica e il metal, riproponendo la formula che in un tempo ormai remoto, rese grande il crossover. Il problema è che tale formula è stata così abusata in passato che sotto qualsiasi prospettiva la si voglia leggere oggi, il risultato è sempre un sound che sa di già sentito. I nostri quattro bravi musicisti vengono premiati tuttavia da una buona qualità audio e un buon equilibrio tra gli strumenti. Quello che rischia di non farli emergere dalla massa è un gusto musicale alquanto discutibile, che unisce un cantato interessante (a cura di Peter Fleming) che offre sfumature a cavallo tra Tool, Sparta e System of a Down, con un cospicuo uso di elettronica anni '90, l'indie rock dei primi Manic Street Preachers, la composizione tipica dell'air metal anni '80 e chitarre pesanti a la Limp Bizkit (ovviamente niente rap!). Il risultato è un sound indefinito, sterile, con poche frecce al proprio arco seppur sia ben orchestrato e ragionato. Una sorta di suono diviso tra le atmosfere elettro/etno/metal di 'Bitter Potion' dei Thorn, scaricati della loro perversione, i System of a Down più orecchiabili, reminiscenze a la Primal Scream nell'innesto elettronico ed infine rimandi ai Godsmack. La fatica, la volontà e il sudore, vanno comunque riconosciuti ai Milk anche se questo lavoro non rende la dovuta giustizia alle loro idee e alla loro reale personalità. Viste alcune performance live, nei video della band sparsi per il web, direi che possono osare molto di più, che hanno tutte le carte in regola e molta più dinamite da far esplodere in un album! Magari irrobustendo il sound e l'aggressività nelle loro prossime uscite, senza perdere quel tocco alternative che almeno come attitudine li protrae verso le intuizioni stravaganti dei mitici Sweet Lizard Illtet, con i loro ritmi dance e quelle buone chitarre rumorose. Manca un pizzico di consistenza in più ma la direzione è quella buona se la si saprà rendere geniale! Premiato l'impegno e rimandati con tanta curiosità per le uscite future! (Bob Stoner)

(Esquimaux Records - 2014)
Voto: 65

sabato 24 gennaio 2015

Writhe - The Shrouded Grove

#PER CHI AMA: Post Black, Fen
I Writhe sono tra le band più interessanti che mi sia capitato di ascoltare nell'ultimo anno. Usciti, in realtà uscito (trattasi di one man band, a cura di John D. Reedy) con un EP di due pezzi, per la durata di 20 minuti, il mastermind inglese ha saputo sconvolgermi con un sound che mi ha lasciato senza parole, scosso emotivamente come era tempo che non capitava. Due tracce dicevo: "The Shrouded Grove" si scaglia con un minaccioso concentrato di post black atmosferico, cosi tanto malinconico da lasciarmi straziato e inerme, quasi con le lacrime agli occhi. Poderoso, epico e maestoso, non trovo altre parole per descrivere quello che ho respirato durante l'ascolto della opening track, soprattutto nel break centrale in cui le chitarre lasciano posto ai synth e al vocalizzo tristissimo di un presunto angelo caduto dal cielo. Poi di nuovo esplosioni repentine, squarci nel buio e lo screaming efferato che dilania le carni e distrugge lo spirito. La notte avvolge l'anima nella seconda e plumbea "The Slumbering Council", in cui il bravo musicista inglese si presenta con delicati tocchi di piano, vocals pulite e un sound che progressivamente va via via ingrossandosi, tornando a creare magistrali atmosfere e malinconiche melodie, e in cui le voraci e impietose chitarre black, ci seppelliscono sotto un tumulo d'ossa. Il ritmo forsennato nella seconda metà del brano mi schiaccia lo sterno: troppe e confuse le emozioni che vivo, e troppo complicate decifrarle. Rabbia, euforia, felicità e malinconia collidono tutte in un solo punto, che sia la fine o l'inizio di qualcosa mi è difficile stabilirlo. Provate anche voi allora ad ascoltare questo incredibile EP e dirmi se non vi avrà aperto la testa con le sue dolorose e oscure melodie. Peccato si tratti solo di due pezzi, altrimenti questo poteva dirsi un lavoro "monstre". (Francesco Scarci)

Ecnephias - S/t

#PER CHI AMA: Dark/Gothic, Moonspell, Paradise Lost, Type O Negative 
'Ecnephias' è il quarto album che vado a recensire dell'omonima band lucana. Potrete quindi intuire la mia conoscenza dell'act nostrano, l'aver potuto apprezzare la loro progressione musicale sin dagli albori, e averne pertanto individuato pregi e difetti nel corso di questi ultimi anni. Potrete anche immaginare quanto fosse elevata la mia attesa per ascoltare il seguito di 'Necrogod', lavoro che vide una leggera flessione rispetto al precedente 'Inferno', album che fino a oggi costituisce il mio preferito nella discografia della band potentina. Con questo nuovo lavoro, il quinto per Mancan e soci (oltre a due EP), credo che dovrò rivedere un po' le mie preferenze. 'Ecnephias' raccoglie 13 pezzi, che includono un'intro e un outro. "The Firewalker" è la song che presenta la musica targata 2015 del quintetto di Potenza e il ruggito di Mancan, conferma l'ottimo stato di salute dei nostri, che tornano con un dark sound mediterraneo, che strizza l'occhio indistintamente a est (Rotting Christ e Septic Flesh) e ad ovest (Moonspell), soprattutto facendo valere la propria caratterizzante personalità. Il brano si muove su ritmiche un po' più pesanti rispetto al lavoro precedente; non mancano di certo aperture ariose, cambi di tempo repentini e la voce del carismatico frontman si dibatte tra il suo inconfondibile growl e le altrettanto singolari clean vocals. Ottima la sezione solistica, con il finale che sale di intensità, nonostante possano spiazzare le minacciose ambientazioni horror. Mica male per essere la prima traccia. "A Field of Flowers" vede Mancan prendere a modello il compianto Peter Steele (Type O Negative), con la sua profonda tonalità vocale, in una traccia dai contorni meno roboanti della opening track, ben più meditativa e dalle linee melodiche più malinconiche, soprattutto a livello dei solo. "Born to Kill and Suffer" si apre proprio con le parole che ne formano il titolo in una song che a tratti potrebbe anche sembrare una semiballad, non fosse altro per i vocalizzi graffianti del sempre più bravo Mancan. E' proprio vero, il vino invecchiando migliora e cosi il sound degli Ecnephias si arricchisce ogni volta di nuove sfumature e influenze, che comprendono oltre ai sopracitati anche gli ultimi Paradise Lost. Gli Ecnephias sono maturati ancor di più con questa nuova release targata My Kingdom Music, e lo si evince anche dalle successive "Chimera", "The Criminal" e "Tonight", tracce dotate di ottime parti orecchiabili, squisiti arrangiamenti e un utilizzo di tutti gli strumenti quasi sublime. Fantasiosa la miscela chitarra/tastiere nella prima delle tre, con quel suo mood quasi orchestrale (qui la performance di Mancan è al top). Più spettrale la seconda e decisamente più intimista la terza. Mentre ascolto le canzoni però rifletto se l'utilizzo del growling di Mancan, talvolta con i volumi che coprono quello dei singoli strumenti, sia ancora adeguato a rappresentare la proposta musicale degli Ecnephias, che pur mantenendo una certa aggressività di fondo, vira il timone verso lidi più orientati al gothic/dark. Questa non vuole essere una critica per la band, anzi, potrebbe essere un nuovo punto di partenza per aprire la propria musica a masse più estese. 'Ecnephias' è un album che mi ha conquistato sin dal suo primo ascolto, coniugando alla perfezione quanto di meglio Moonspell, Paradise Lost e Rotting Christ hanno concepito negli ultimi anni, con le influenze dei nostri che si estendono poi alle tetre ambientazioni di Type o Negative o quelle ancor più tenebrose dei Fields of the Nephilim ("Wind of Doom" ad esempio, con quella sua magnetica linea di basso e il suo feeling psichedelico, bellissima). Nel frattempo all'ottava traccia, "Lords of the Stars", mi domando se risentirò più il cantato in italiano del vocalist baffuto. Eccomi accontentato "...alla corona dell'anno, nei giorni cadenti di ottobre, la luna d'ambrosia risplende, oscura, sinistra e potente e vengo a te o dio...". Se dovessi visualizzare la traccia nella mente, la immagino come l'ululato disperato di un lupo nella notte in fronte alla luna. La song la eleggo quasi d'istinto mio pezzo preferito, per suggestioni, suoni vellutati e sinistra magia. Anche nell'altrettanto notturna "Nyctophilia", viene utilizzato il cantato italico (e da qui fino alla fine), in una traccia dai forti richiami gothic anni '90. "Nia Nia Nia" già dal titolo rimanda a risvolti popolari, chissà poi se sarà vero. E infatti non sbaglio: le linee di chitarra che ne guidano la melodia e il cantato, delineano una song dal piglio etnico della tradizione lucana e qui nella mia mente si configurano feste di paese con gente che balla; poco importa poi se Mancan si mette a cantare in growl, ormai con la mente vago tra le feste paesane della bellissima regione che ha dato i natali ai nostri. Con "Vipra Negra", la traccia che ne ha visto anche il ciak video, riavverto quei sentori dei Litfiba primordiali che avevo già sottolineato in 'Necrogod' e che in questo lavoro, si avvertono indistintamente nelle chitarre. La song impreziosisce ulteriormente un album, che a tutti gli effetti definirei il migliore dell'intera discografia degli Ecnephias, anche grazie al simbolismo occulto esposto nella cover cd. 'Ecnephias', il cosiddetto lavoro della maturità per una band che merita tutta la vostra considerazione. (Francesco Scarci)

(My Kingdom Music - 2015)
Voto: 90

Asura - Radio Universe

#PER CHI AMA: Ambient/Elettronica, Jon Hopkins, Klaus Shulze
Charles Farewell aka Asura è un vero dominatore della musica ambient dai tratti eterei e sognanti. Un'autentica divinità se si considera quest'ultima fatica monumentale, uscita nel 2014 di ben oltre settantatre minuti di strumentale psichedelia siderale, glaciale e luminosa, licenziata via Ultimae Records. Padre di altri quattro full lenght e innumerevoli presenze in compilation, il nuovo album del compositore francese è perfetto come colonna sonora per un viaggio al Polo Nord, toccati da giochi di luce boreale multicolore, carico di evocazioni ancestrali, fluido e raffinato, cosparso di elegante musica elettronica dalle mille sfaccettature e dai mille richiami per un luogo disperso nell'infinito. Per spiegare le rotte stilistiche di Asura potrei citare un Klaus Shulze in veste chill out, i Banco de Gaia nei panni di guru in una new age music rarefatta e tecnologica, i Tangerine Dream dei seventies trasportati nel futuro oppure mi nasce il dubbio che Farewell sia un cugino nascosto di Jon Hopkins. Le sonorità di 'Radio Universe' fanno tornare alla mente anche un progetto parallelo nell'attività di David Sylvian dove sperimentava con l'elettronica sotto il moniker Undark. La leggerezza del canto dell'acqua è sempre presente con quel senso di purezza che pervade tutti i brani, quel sound cosmico e astrale figlio dei migliori Boards of Canada, che viene reso glaciale come fosse di vetro; il buio di Fennesz in Black Sea, i suoni profondi e cristallini che rapiscono l'immaginazione e ampliano gli orizzonti, drone music dalla forza irresistibile, riflessiva e cinematografica. Ascoltando "Ascension in Blue" sembra di essere sospesi veramente nell'aria, rinchiusi in un film di Wim Wenders, mentre quando parte il down tempo di "Farscape 7" (il solo brano cantato) con la voce stupenda di Ayten, si toccano vertici altissimi, cari al miglior sound di casa Bristol, un gioiellino per intensità ed emotività! Da questo brano i ritmi si estendono, si rinforzano e virano sulle coordinate elettroniche dalle sfumature etno/world dei Banco de Gaia con sequenze più ariose e solari che a tratti ricordano sonorità di ambient elettronica usate nell'esperimento (mai considerato abbastanza) fatto dagli U2 nel lontano 1995, sotto il falso nome di Passengers. 'Radio Universe' è un immenso flusso di emozioni destinato a perforarvi il cuore! (Bob Stoner)

(Ultimae Records - 2014)
Voto: 85

https://ultimae.bandcamp.com/album/radio-universe

Revival Hymns - Pauhu

#PER CHI AMA: Post Rock/Shoegaze/Slowcore
Il 2014 si è appena chiuso e io recupero in extremis quest'album dei finlandesi Revival Hymns, giusto in tempo per poterlo includere nelle classifiche dei migliori dischi dell’anno. Già, perchè 'Pauhu' rischia seriamente di finire nella mia personale top ten. Opera seconda del giovane quintetto, dopo 'Feathers' del 2011, 'Pauhu' è un gioiello di equilibrio e sobrietà che si muove in territori prevalentemente post-rock, shoegaze e slowcore. Lande già battute ed esplorate in lungo e in largo in passato, ma nelle quali i Revival Hymns riescono ad avventurarsi con l’entusiasmo e la freschezza dei neofiti. La musica di 'Pauhu' è in fondo semplice, costruita con pochi elementi e schemi ricorrenti, ma quello che fa la differenza sono la passione, la cura del dettaglio ed un songwriting di tutto rispetto. Troppo spesso, infatti, in questo ambito la forma canzone viene mortificata a discapito del lato prettamente strumentale, della ricerca dell’effetto sorpresa nell’alternanza piano/forte o dei lunghi crescendo emozionali. Qui invece, il tutto è dosato alla perfezione senza che un aspetto prenda il sopravvento sull’altro: ritmiche essenziali, chitarre che sanno ricamare tanto quanto improvvisamente erigere imponenti muri di decibel, e melodie azzeccate e sinuose interpretate da voci sottili e solo apparentemente fragili. Se dovessi definire la loro musica in due parole, direi che si tratta di una sorta di ibrido tra Gospeed You! Black Emperor e i Coldplay di 'Parachutes' (!), tanto riescono ad accostare i paesaggi sonori dei canadesi all’intimismo del primo album della band di Chris Martin, cui la voce del cantante tende ad assomigliare. E’ un disco che cresce con gli ascolti, insinuandosi piano tra le pieghe del quotidiano, per poi trovarsi a non potere fare a meno di brani quali la struggente "Diamondback Whales", con quell’accelerazione a metà brano che la rende indimenticabile, oppure la solida e incalzante "Rive Droite", che procede marziale e rumorosa. Ma è difficile trovare punti deboli nel corso di questi 50 minuti, aperti e chiusi da due strumentali: l’atmosferica "Consider the Lines" e la lunga "They Neither Toil Nor Spin", piú classicamente post rock. I Revival Hyms con questo disco avrebbero le potenzialità per affermarsi a livello internazionale, e pare incredibile che se ne sia parlato cosí poco. Non è mai troppo tardi, e allora non mi resta che invitarci caldamente all’ascolto. (Mauro Catena)
 
(Riku Records - 2014)
Voto: 80

Doomed - Our Ruin Silhouettes

#PER CHI AMA: Death/Doom
Doomed è il progetto di una mente oscura e geniale, tal Pierre Laube, che vive la sua vita terrena in Sassonia, precisamente a Zwickau. L'idea nasce nel 2011 e 'Our Ruin Silhouettes' è il terzo album da lui prodotto, recentemente disponibile anche in vinile e distribuito dalla Solitude Productions. La band si arricchisce di cinque elementi per l'esibizione live e precisamente i membri sono: Yves (Lead Guitar), Andreas (Drums), Frenzy (Bass) e Pierre (Rhythm Guitar & Vocals). Il progetto affonda le sue radici nelle tetre atmosfere doom e death metal, quindi ritmiche lente, pesanti e ricche di basse frequenze, riff oscuri e cantato rigorosamente in growl. Ad arricchire i brani si aggiungono campionamenti ambient provenienti probabilmente dai migliori film horror che dovete sperare di non aver visto mai (oppure si, se amate il brivido). Tutto ciò aumenta la già opprimente sensazione di ansia che si ha nell'ascoltare le sette tracce di questo 'Our Ruin Silhouettes'. L'album apre con "When Hope Disappears", titolo che anticipa già il mood del brano e che viene subito confermato dall' intro di campane ed oscuri cori liturgici. Da lontano si sente il crescendo della ritmica che esplode con la chitarra e basso. Il ritmo avanza lento e demoniaco per cinque minuti abbondanti, con il successivo inserimento di riff dissonanti e doppia gran cassa. Poi gli arrangiamenti aumentano di potenza e portano alla conclusione un brano che ha ottenebrato la nostra mente per quasi nove interminabili minuti. "The Last Meal" riprende la precedente struttura, aprendo con un'introduzione fatta di synth e dalla timbrica simil drone. La traccia si trasforma in pochi secondi in un lungo volo pindarico tra death e black metal, sempre intriso di atmosfere oscure e cariche di ansia. Verso la metà il brano cambia direzione con un break più lento e dal feeling epico, che fa quasi sperare in un ravvedimento dei Doomed. In particolar modo ho apprezzato "Revolt", dove le sonorità sono meno cupe e riprendono quelle già usate da band come i Katatonia. Il cantato alterna sezioni growl a parti quasi sussurrate, seguendo l'andamento della traccia che ne svela una doppia identità: la prima potente e tenebrosa, la seconda invece ricca di riff melodici e atmosfere più distese. Probabilmente l'idea era di rappresentare la duplicità della realtà. L'album è ottimamente registrato e l'utilizzo di campionamenti e loop ambient aumenta la profondità artistica di questo lavoro, regalando un chicca che verrà sicuramente apprezzata dagli amanti del genere. I suoni sono pressoché perfetti, i Doomed hanno fatto un gran lavoro e possono ritenersi soddisfatti, oltre al fatto che tecnicamente tutti i brani sono costruiti ed eseguiti in modo ineccepibile. Un album che mi sento di consigliare a tutti, Natale è passato e potete quindi tornar ad essere cattivi come prima. (Michele Montanari)

(Solitude Productions - 2014)
Voto: 85
 

lunedì 19 gennaio 2015

Metal Castle – The Battle for Metal Island

#PER CHI AMA: Folk metal, Korpiklaani, Pogues, Tenacious D
Progetto goliardico e burlone ben realizzato dalla band finlandese Metal Castle che al loro secondo album (a breve uscirà una già annunciata nuova assurda avventura musicale intitolata 'Tea Nation', già disponibile in preorder su bandcamp!), piazzano un lavoro autoprodotto di rara e inconcepibile genialità... Basato su una storia inverosimile che tratta la riconquista della propria isola (Metal Island) da parte di un popolo sottomesso ad uno oscuro signore. Chi si avventura all'ascolto del cd, entrerà progressivamente in un mondo musicale concepito come opera narrativa (per cui è difficile citare una qualche song in particolare, va ascoltato tutto di un fiato), scritta con i dettami del rock. L'album si muove su coordinate care ai film di Monty Pyton e trae spunto dalle fiabe per bambini, con l'aggiunta di una voce narrante (Peter “the Cake” Baker) che introduce e spiega le incredibili vicende dello strampalato esercito raccontato. L'album è illogicamente bello, poiché alle orecchie di un appassionato di metal moderno risulterà inascoltabile, mentre se visto con gli occhi comici di Tenacious D, risulterà irriverente, stralunato e fantastico. Il suono vintage e l'attitudine di non prendersi troppo sul serio la fanno da padroni. I nostri menestrelli non dimenticano mai di essere comunque dei buoni musicisti e lo dimostrano seminando qua e là assoli e chicche stilistiche molto ricercate, rendendo l'intero album un forziere d'oro tutto da scoprire. Il piano fantasy in cui l'album si muove, sembra essere imbevuto di una miscela folk metal, costellata di acidi ed LSD con un gusto particolare verso il concept stile progressivo degli anni settanta. La forma musicale è difficilmente spiegabile. Possiamo dire che la band finlandese sta al metal come gli Stranglers di 'Rattus Norvegicus' stavano al punk nei tardi anni settanta. Così troveremo un violino intrecciato con tastiere uscite da qualche film psichedelico dei 70's, con ritmiche metal dal suono aggressivo tanto quanto lo potevano essere gli Anvil, gli Iron Maiden del primo album e i Black Sabbath di un tempo, con spunti folk da osteria (vedi Korpiklaani) e un cantato splendido a metà tra Shane Mcgowan dei Pogues, Paul di Anno di "Prowler" e tanta sottile, geniale visionaria stranezza che li accomuna alla già sopra citata mitica band inglese (riuscite ad immaginare gli Stranglers in veste folk ?). Una strada musicale divertente e fatta per divertire, con ingegno e intelligenza, con quel taglio da film di serie B e novella per bambini metallari che ricorda con i dovuti paragoni e differenze di genere, la novella "The Angel and the Soldier Boy" dei Clannad. 'The Battle for Metal Island' è un album consigliato a metallari poco arrabbiati e in pace con se stessi, piacevolmente disturbati dalla sindrome di Peter Pan e per intellettuali amanti del rock in qualsiasi salsa esso venga proposto. (Bob Stoner)

(Self - 2014)
Voto: 75

Holotropic - Permeate

#FOR FANS OF: Progressive/Groove Metal, Meshuggah, Animals as Leaders
From the seemingly endless fertile grounds of Slovakia, this progressive-minded piece tends to wholly envelop the progressive side of their sound with a dense, multifaceted album that really has more going for it than it seems. Heavily influenced by both the Djent and Technical Death Metal realms while adding plenty of experimental marks, Middle-Eastern harmonics and just plain schizophrenic leanings, this collision of extremity results in some extremely off-the-wall arrangements here with the mixture at times never really sounding all that cogent to heavy metal styles yet that experimentation is the bands’ greatest strength here at being able to somehow mix all these different styles together into what does amount to a cohesive sound at times. This is really more of a songwriting tour-de-force than it is a performance record since this one does wonderfully show how to effectively change from all these different styles at once, though naturally the ability to effectively go there is what makes this work as well. Some of the songs are overall hit-or-miss, but the ability to keep this interesting and not descend into mindless meandering is a definite strongpoint. Intro ‘Judge’ opens with clanking folklore instrumentation before settling on ravenous riffing, dynamic rhythm changes and dynamic drumming that really sets the stage for the bands’ explosive attack to come. Likewise, ‘Scintillate’ again works the Middle-Eastern vibes into the fray before using the bands’ dexterous drumming and sweeping riff-work to create a finely-honed and dynamic attack that just seems lacking in urgency throughout here. The wacked-out ‘Rupture’ features jazzy lounge-music to open into djenty rhythms with plenty of chugging patterns, pounding drum-work and irregular riff-work to make for a veritable sweeping style that continually keeps shifting around into such different patterns that there’s a lot to like about how well this one integrates all the parts into a solid whole. The instrumental ‘Wysinati’ provides different echoes with moody guitar-trinkling and jazzy drumming while the buzzing bass-lines offer up their most full-on Djent-inspired release here, though if intended for a breather it’s certainly placed rather oddly this early into the track order. ‘Traveller’ offers dynamic Middle-Eastern rhythms against groove-filled drums-blasts, swirling chug rhythms and continues the Arabian influences throughout the different rhythms and arrangements that still remain rooted in their Djent-inspired background, effectively making this the album’s central highlight and greatest showcase of their overall styles. ‘Tantrums’ comes off like generic Meshuggah-inspired Djent/chugging with technical patterns and pounding drumming swirling throughout, much like ‘Filters’ though the former is a tad livelier than the latter and is a better effort due to that. The short instrumental ‘Hunch’ is another short breather with folklore-ish riffs and droning atmospheres which sets up the album’s massive epic, ‘Integral’ which is another outstanding piece of progressive-minded work by managing to incorporate clean vocals into their extreme sound as the deep chugging patterns, heavy Djent-influenced arrangements and long-winded arrangements sweep and soar through twisting, long-winded rhythms here that shift and turn into various dynamic patterns and keeps the bands’ penchant for challenging arrangements intact. This makes for an exciting conclusion that should help them expand and grow in the scene for years to come with this kind of innovation and extremity mixed effectively together. (Don Anelli)

(Self - 2014)
Score: 85

domenica 18 gennaio 2015

Rosàrio - Vyscera

#PER CHI AMA: Stoner/Alternative
I Rosàrio sono un quintetto padovano, Montagnana per l'esattezza, zona che concentra una particolare attività musicale grazie ad un live club/sala prove/studio di registrazione in continuo fermento (Circolo BAHNHOF) e l'etichetta In the Bottle Records, giovane ma già con ottimi lavori all'attivo. La band nasce nel 2013 e accoglie musicisti di altre band come Neither e Lorø, probabilmente alla ricerca di un progetto alternativo che permetta di sviluppare idee che altrimenti non troverebbero spazio nei rispettivi gruppi. 'Vyscera' segna l'esordio del gruppo e si presenta in un fantastico metal box contenente sette tracce dalla spinta crescente, un vero pugno in faccia dato dalle basse frequenze generate dal bassista Fabio e dal chitarrista baritono Riccardo che è venuto a dar man forte a Nicola. Il mix è aggressivo, stoner e psichedelia ben amalgamate tra loro con un tocco di sludge e doom che neanche chef Ramsay sarebbe stato di in grado di far meglio, culinariamente parlando. L'album apre con "Dome", song dai riff in classico stoner alla Truckfighter e Kyuss, potenti e decisi quanto una bordata. Il vocalist Alessandro si inserisce bene negli arrangiamenti e grazie al suo bel timbro non troppo profondo, arricchisce le tracce rendendole dinamiche. "Caravan Kid" non smentisce l'idea che ci eravamo fatti e continua sull'onda stoner, questa volta con una marcia in più visto che il batterista Stefano dà sfogo al suo bisogno incontrollabile di picchiare ad una velocità assurda, aggiungendo un breve break finale che permette all'ascoltatore di riprendere fiato. Brano che dura appena centocinquanta secondi, un peccato perché non appaga la nostra dipendenza da riff desertici, ma in questo modo i Rosàrio si differenziano dalla moltitudine di band che a volte ci affliggono con brani lunghissimi e ripetitivi. L'album chiude con il brano"Inner", caratterizzato dall'intro con didgeridoo, una valida alternativa al sitar ormai abusato per creare atmosfere tribali/folk. Dopo pochi secondi arriva l'esplosione dominata dai riff di chitarra che vengono accompagnati con forza dagli altri strumenti, per regalare un vero e proprio muro di suono. Nonostante l'album non brilli in termini di creatività e qualità di registrazione, ritengo che sia assolutamente da avere nella propria collezione. Inoltre regalatevi almeno un live dei Rosàrio, l'impatto sonoro sarà simile a quello dei Sunn O)))), quindi se non siete avvezzi, prendete contromisure adeguate adottando un qualsiasi dispositivo di protezione dell'udito o rischierete di soffrire di malessere, capogiri e nausea da elevato numero di decibel! (Michele Montanari)

(In the Bottle Records - 2014)
Voto: 80

Merkabah - Moloch

#PER CHI AMA: Experimental Avantgarde/Jazz/Noise, Zu, Yakuza, John Zorn  
Album splendido e fantasmagorico, apoteosi della follia, invenzione divina e valchiria selvaggia del modo più libero di fare e intendere la musica, questo è 'Moloch' il nuovo album dei polacchi Merkabah. Un infinito di colori in musica, tecnica e genialità al servizio della pazzia compositiva, venata di jazz e post-core, la perfetta colonna sonora per un'opera tratta dal teatro dell'assurdo di Samuel Beckett. Tutto questo mi spaventa ma al tempo stesso mi commuove, rendendomi particolarmente felice di tenere tra le mani un cd cartonato dal digipack stupendo, dal nome e titoli illeggibili, con all'interno un ricco booklet pieno di foto astratte e nessun'altra notizia riguardante la band. Sentire con quale angelica irruenza e demoniaca violenza il suono si scaglia nell'aria, con quale energia ci rende alieni alla realtà che ci circonda, proiettandoci verso fughe mentali senza freni, caotiche e sconvolgenti, entusiasti di correre all'impazzata verso il nulla. Prendete il progressive rock dei Catapilla fino ad arrivare al metal d'avanguardia di Yakuza, unitelo alle stratificazioni dei Soft Machine nei migliori anni del Canterbury sound, gli Zu di 'Carboniferous', il progetto capolavoro 'Painkiller' a nome John Zorn/Bill Laswell/Mick Harris e avrete soltanto una lontana idea del cosa aspettarsi da questo capolavoro. Guidato da un sax che supera i confini della realtà, meno violento del più famoso Zorn ma più stralunato, nevrotico, psichico e ipnotico, sulle orme di un moderno James Chance (vedi James Chance and the Contortions), padrone assoluto della scena strumentale, che cavalca una schizzatissima onda sonora prodotta da un combo che suona come se i Napalm Death di 'From Eslavement to Obliteration' si trovassero alle prese con un brano dei King Crimson, il tutto con un suono naturale, raffinato e graffiante, caldo e avvolgente sulle coordinate soniche degli Anekdoten di 'Nucleus'. Licenziato nel 2014 via Instant records, 'Moloch' è un vero gioiellino da avere a tutti i costi. Otto tracce strumentali per perdere la cognizione del tempo e della morale, da "Reed Idol" fino alla conclusiva "Ah! Ça Ira" in un album altamente tossico che annienterà la vostra stabilità mentale grazie a una tecnica compositiva straordinaria unita ad una esecuzione magnifica. Non cercate di immaginare il solito album dai dogmi jazz prescritti e virtuosismi a go go inutili, questa è arte allo stato puro... ovvero l'Avanguardia per antonomasia. (Bob Stoner)

(Instant Records - 2014)
Voto: 95

sabato 17 gennaio 2015

Isa - Songs of the Dead

#PER CHI AMA: Black Folk, Summoning, Negura Bunget, primi Ulver 
Detto che nel web le informazioni circa questa band sono parecchio scarse e confuse, posso solo dirvi che il combo di oggi arriva da Novosibirsk, nel distretto siberiano della Russia. In internet si identificano col semplicissimo monicker I, Iza o Isa, che poi starebbe per ghiaccio (ice), ma in questo caso identificherebbe la runa ISA, che racconta l'impermanenza delle cose che come le forme del ghiaccio stesso, si sciolgono e svaniscono, simbolo del mondo interiore, della solitudine, dell'introspezione, ma anche della tristezza e della malinconia. I nostri debuttano con questo album, grazie alla Autodafeprod, interessante etichetta moscovita, offrendo del sofisticato e atmosferico folk black. Il platter si apre con la lunga title track, "Songs of the Dead" (titolo e testi ovviamente sono in cirillico), traccia che si muove su ritmi sognanti e i cui tratti black si limitano al solo cantato abrasivo di Alexandr. Tutto il resto invece ha un che di fatato con l'utilizzo di strumenti folk, flauto (a cura di Artem) e tastiere che rendono il tutto cosi lontano e fuori da ogni tempo. I due giovincelli russi strizzano l'occhiolino ai Summoning, velati da un tocco depressive, e come dargli torto, se poi la piacevole miscela sonora che ne esce dai solchi di quest'album, ha il grande pregio di nebulizzare i miei pensieri e farmi sprofondare in un mistico sonno. "On the Knife's Blade" prosegue inseguendo fantastiche creature mitologiche in paesaggi bucolici, dai colori accesi e non di questa terra. Summoning si, ma anche una versione dei Negura Bunget al rallentatore o i Burzum più meditativi, senza dimenticare Pazuzu e gli Ulver di 'Kveldssanger'. Delicate chitarre pennellano fatate melodie ancestrali, per cui si sarebbe facile e scontato immaginare la musica degli Isa come colonna sonora dei momenti più magici della saga de "Il Signore degli Anelli". Andando avanti nell'ascolto ci si imbatte nell'oscura atmosfera di "Harvest Glow", cupa ma dall'aura fiera in cui a tener banco rimangono le tastiere, che guidano il flusso emotivo dell'intero lavoro. "Back to Home (The Edge of the Earth)" abbassa ulteriormente i toni, neppure ce ne fosse stato bisogno, e con morbide melodie e voci sussurrate, si aggrappa dolcemente alla nostra anima, anche se il suono di corvi svolazzanti rivela un presagio di morte, che si materializza nella funesta melodia di sottofondo e nel cantato tagliente del vocalist. Lentamente (le tracce superano tutte gli otto minuti) ci avviamo verso la conclusione: chitarre, sempre in tremolo picking, aprono "Winds Brothers", brano in cui gli innesti di flauto dolce duettano con la voce e il suono tribale della batteria si avvinghia a quello di malinconiche tastiere e chitarre, qui leggermente più taglienti, per quanto voglia dire qualcosa questo aggettivo in un album, dove non c'è mail il benchè minimo accenno a velocità o pesantezza. "Memory of the Flooded Villages (Farewell)" è il pezzo in coda al disco in cui più forte è la componente ambient (che già si era ritrovata qua e là nel corso dell'ascolto di 'Songs of the Dead'), anche se poi l'intesità delle chitarre va via via aumentando, arricchendosi di ulteriori elementi secondari (suoni orientali) che rendono il tutto più complesso e catartico, ma regalandomi anche le ultime preziose emozioni di una release, apparentemente di facile approccio, ma alla fine non cosi facile da digerire. Sontuosi. (Francesco Scarci)

(Autodafe Prod - 2014)
Voto: 75

mercoledì 14 gennaio 2015

My Shameful - Hollow

#PER CHI AMA: Funeral Doom, Shape of Despair, Thergothon, Skepticism
Dagli amici russi della MFL Records, giunge tra le mie mani il nuovo lavoro dei finlandesi My Shameful, band che probabilmente ho già incontrato sulla mia strada in un passato assai remoto. Il trio scandinavo arriva con 'Hollow' alla sesta release in quasi 15 anni di militanza nell'underground (del 2000 i loro primi 3 demo), non scostandosi musicalmente di molto rispetto ai precedenti funerei lavori. 'Hollow' include otto tracce per poco più di un'ora di musica devota agli abissi profondi, senza dimenticarsi tuttavia di propinare violente sfuriate death. Ecco quanto accade già nella ritmata opening track, "Nothing Left at All", song dall'aura macabra e dotata di una certa atmosfera mefitica che rende la lugubre proposta dei nostri, più accattivante e meno ostica da digerire. Stiamo parlando di funeral doom quindi difficile attendersi una certa dinamicità di fondo, che trova modo di manifestarsi qua e là in selvagge galoppate che fanno da contraltare a laceranti e lunghi tratti di buio pesto, che ci fanno letteralmente sprofondare nelle tenebre. Marziale è l'incedere della title track, in cui la corrosiva voce di Sami Rautio, squarcia l'avanzare offuscato e dilatato del combo nordico. Le nuvole si addensano ulteriormente con "And I Will Be Worse", traccia che mostra un ottimo songwriting e buone soluzioni melodiche nelle linee di chitarra e che non disdegna nemmeno un paio di accelerazioni, ben assestate come un pugno nello stomaco. "Hour Of Atonement" si conferma pesante e claustrofobica più delle altre, offrendo anche una certa dissonanza di fondo a livello ritmico che già avevo percepito nella seconda traccia. Con i primi 3 minuti e trenta di "The Six" si continua su questo binario costituito da ritmiche ossessive e deprimenti; poi un intermezzo ambient mi consente di distaccarmi cerebralmente da quell'universo che lentamente mi stava inghiottendo e di ripartire con delle ritmiche un po' più ariose, passatemi il termine, e devastanti. Dopo due minuti di suoni lontani, attacca "Murdered Them All", brano dalla melodia definitivamente più catchy che in un disco funeral doom, magari stona un po', ma che in questo contesto consente di prendersi una bella boccata d'ossigeno, prima di inoltrarsi alla scoperta delle ultime due canzoni. "No Greater Purpose" è la settima song, lunga e deprimente, mentre la conclusiva "Now And Forever" ci concede gli ultimi catartici e strazianti minuti di un lavoro che certamente farà breccia tra i fan della band e tra gli amanti di un genere, non cosi accessibile alle grandi masse. Un macigno sullo stomaco. (Francesco Scarci)

(MFL Records - 2014)
Voto: 70

martedì 13 gennaio 2015

Release The Long Ships - Wilderness

#PER CHI AMA: Post Rock/Shoegaze Strumentale
Dall'Ungheria ecco arrivare il progetto Release The Long Ships, misteriosa one man band dedita a un post rock strumentale. Il disco si apre con “Mist Pillars”. Song magnetica, ingorda di attenzione. Abusa di chitarre che distorcono le melodie, facendole diventare ballerine ubriache dalle ritmicità distoniche. L’intercalare sussurrato, è solo una proiezione anterograda all’epilogo metal. “Snow”: per chi non è mai stato in Giappone, si tolga i vestiti e indossi un chimono e sandali di legno, preparandosi ad inchini beffardi d’innanzi a tocchi sonori che presto sconvolgono le atmosfere che profumano di pesco, per diventare belve inferocite, il cui pasto sono solo timpani vergini a tortuosità impreviste. Sotto al chimono, spero abbiate tenuto i vostri abiti dark che odorano di borchie e di pelle nera. Vi faranno sentire a casa. “So Murmured the Wide Seas”. Seguo questa traccia che è senza inizio e senza fine. Nessuno può trovare questa via, a meno che, non se ne voglia scoprire la mappa, tra rovine oceaniche e maledizioni così ben descritte dal fondale offuscato che dipana rumori, poi suoni, poi velleità, sino a tracciare con le ultime sonorità un manto che oltraggia il senso e l’equilibrio. Questo brano termina scostante, così come è iniziato. Trovarne il senso, sarebbe renderlo contro natura. Lo abbandono. “Aether” è estasi metallica, oscillante. I suoni divengono cavi d’acciaio vibrante, il sottofondo mescola un reiterare ritmicamente orientale. L’uscita di scena dei suoni è prematura, nostalgica. Viene da allungare le braccia per trattenere il più a lungo possibile questa essenza in musica. “I Am the Sun”. Non posso che ammansire le palpebre. Chiudere gli occhi. Cercare la provenienza dei suoni. Inutile. Le sonorità sono talmente eclettiche, da creare una dimensione sonora multipla, per poi, scemare. D’improvviso gongola la musica. Per un attimo ancora, romanza su se stessa la musica. Poi il gongolio e il romanticismo si fondono in destreggi metallari che ne salvano l’anima dark senza nessuna pietà per i pregressi. Colpi inflitti e mortali annientano ogni intenzione aliena dal metal. “The Heart of Mountain”. Questo brano è un baccanale di note che sembra calare come nebbia densa su terra arata. Scava la musica. Rimangono in superficie i pensieri. Si fondono i pensieri alla terra, come un ossimoro improbabile, che sublima come foschia in un cimitero di anime erranti. Chiude “I Have Never Seen the Light”. La premessa è di un requiem metallico, sospinto da eclissi sonore sospiranti. Respiri corti. Suspance come suoni. Attese contratte e poi destate da rivoli animosi mascherati in suoni suadenti. Contrazioni. Gorgheggi strumentali. Mescolanze afrodisiache. Nulla ora mi impedisce di perdermi e vorrei che il brano non finisse. Il compendio è silenzioso. I brani sono strumentali e troppo brevi. Bellissimi. Fossi in voi li aggiungerei nella playlist del Black Friday. (Silvia Comencini)

(Self - 2014)
Voto: 80