Cerca nel blog

domenica 18 gennaio 2015

Rosàrio - Vyscera

#PER CHI AMA: Stoner/Alternative
I Rosàrio sono un quintetto padovano, Montagnana per l'esattezza, zona che concentra una particolare attività musicale grazie ad un live club/sala prove/studio di registrazione in continuo fermento (Circolo BAHNHOF) e l'etichetta In the Bottle Records, giovane ma già con ottimi lavori all'attivo. La band nasce nel 2013 e accoglie musicisti di altre band come Neither e Lorø, probabilmente alla ricerca di un progetto alternativo che permetta di sviluppare idee che altrimenti non troverebbero spazio nei rispettivi gruppi. 'Vyscera' segna l'esordio del gruppo e si presenta in un fantastico metal box contenente sette tracce dalla spinta crescente, un vero pugno in faccia dato dalle basse frequenze generate dal bassista Fabio e dal chitarrista baritono Riccardo che è venuto a dar man forte a Nicola. Il mix è aggressivo, stoner e psichedelia ben amalgamate tra loro con un tocco di sludge e doom che neanche chef Ramsay sarebbe stato di in grado di far meglio, culinariamente parlando. L'album apre con "Dome", song dai riff in classico stoner alla Truckfighter e Kyuss, potenti e decisi quanto una bordata. Il vocalist Alessandro si inserisce bene negli arrangiamenti e grazie al suo bel timbro non troppo profondo, arricchisce le tracce rendendole dinamiche. "Caravan Kid" non smentisce l'idea che ci eravamo fatti e continua sull'onda stoner, questa volta con una marcia in più visto che il batterista Stefano dà sfogo al suo bisogno incontrollabile di picchiare ad una velocità assurda, aggiungendo un breve break finale che permette all'ascoltatore di riprendere fiato. Brano che dura appena centocinquanta secondi, un peccato perché non appaga la nostra dipendenza da riff desertici, ma in questo modo i Rosàrio si differenziano dalla moltitudine di band che a volte ci affliggono con brani lunghissimi e ripetitivi. L'album chiude con il brano"Inner", caratterizzato dall'intro con didgeridoo, una valida alternativa al sitar ormai abusato per creare atmosfere tribali/folk. Dopo pochi secondi arriva l'esplosione dominata dai riff di chitarra che vengono accompagnati con forza dagli altri strumenti, per regalare un vero e proprio muro di suono. Nonostante l'album non brilli in termini di creatività e qualità di registrazione, ritengo che sia assolutamente da avere nella propria collezione. Inoltre regalatevi almeno un live dei Rosàrio, l'impatto sonoro sarà simile a quello dei Sunn O)))), quindi se non siete avvezzi, prendete contromisure adeguate adottando un qualsiasi dispositivo di protezione dell'udito o rischierete di soffrire di malessere, capogiri e nausea da elevato numero di decibel! (Michele Montanari)

(In the Bottle Records - 2014)
Voto: 80

Merkabah - Moloch

#PER CHI AMA: Experimental Avantgarde/Jazz/Noise, Zu, Yakuza, John Zorn  
Album splendido e fantasmagorico, apoteosi della follia, invenzione divina e valchiria selvaggia del modo più libero di fare e intendere la musica, questo è 'Moloch' il nuovo album dei polacchi Merkabah. Un infinito di colori in musica, tecnica e genialità al servizio della pazzia compositiva, venata di jazz e post-core, la perfetta colonna sonora per un'opera tratta dal teatro dell'assurdo di Samuel Beckett. Tutto questo mi spaventa ma al tempo stesso mi commuove, rendendomi particolarmente felice di tenere tra le mani un cd cartonato dal digipack stupendo, dal nome e titoli illeggibili, con all'interno un ricco booklet pieno di foto astratte e nessun'altra notizia riguardante la band. Sentire con quale angelica irruenza e demoniaca violenza il suono si scaglia nell'aria, con quale energia ci rende alieni alla realtà che ci circonda, proiettandoci verso fughe mentali senza freni, caotiche e sconvolgenti, entusiasti di correre all'impazzata verso il nulla. Prendete il progressive rock dei Catapilla fino ad arrivare al metal d'avanguardia di Yakuza, unitelo alle stratificazioni dei Soft Machine nei migliori anni del Canterbury sound, gli Zu di 'Carboniferous', il progetto capolavoro 'Painkiller' a nome John Zorn/Bill Laswell/Mick Harris e avrete soltanto una lontana idea del cosa aspettarsi da questo capolavoro. Guidato da un sax che supera i confini della realtà, meno violento del più famoso Zorn ma più stralunato, nevrotico, psichico e ipnotico, sulle orme di un moderno James Chance (vedi James Chance and the Contortions), padrone assoluto della scena strumentale, che cavalca una schizzatissima onda sonora prodotta da un combo che suona come se i Napalm Death di 'From Eslavement to Obliteration' si trovassero alle prese con un brano dei King Crimson, il tutto con un suono naturale, raffinato e graffiante, caldo e avvolgente sulle coordinate soniche degli Anekdoten di 'Nucleus'. Licenziato nel 2014 via Instant records, 'Moloch' è un vero gioiellino da avere a tutti i costi. Otto tracce strumentali per perdere la cognizione del tempo e della morale, da "Reed Idol" fino alla conclusiva "Ah! Ça Ira" in un album altamente tossico che annienterà la vostra stabilità mentale grazie a una tecnica compositiva straordinaria unita ad una esecuzione magnifica. Non cercate di immaginare il solito album dai dogmi jazz prescritti e virtuosismi a go go inutili, questa è arte allo stato puro... ovvero l'Avanguardia per antonomasia. (Bob Stoner)

(Instant Records - 2014)
Voto: 95

sabato 17 gennaio 2015

Isa - Songs of the Dead

#PER CHI AMA: Black Folk, Summoning, Negura Bunget, primi Ulver 
Detto che nel web le informazioni circa questa band sono parecchio scarse e confuse, posso solo dirvi che il combo di oggi arriva da Novosibirsk, nel distretto siberiano della Russia. In internet si identificano col semplicissimo monicker I, Iza o Isa, che poi starebbe per ghiaccio (ice), ma in questo caso identificherebbe la runa ISA, che racconta l'impermanenza delle cose che come le forme del ghiaccio stesso, si sciolgono e svaniscono, simbolo del mondo interiore, della solitudine, dell'introspezione, ma anche della tristezza e della malinconia. I nostri debuttano con questo album, grazie alla Autodafeprod, interessante etichetta moscovita, offrendo del sofisticato e atmosferico folk black. Il platter si apre con la lunga title track, "Songs of the Dead" (titolo e testi ovviamente sono in cirillico), traccia che si muove su ritmi sognanti e i cui tratti black si limitano al solo cantato abrasivo di Alexandr. Tutto il resto invece ha un che di fatato con l'utilizzo di strumenti folk, flauto (a cura di Artem) e tastiere che rendono il tutto cosi lontano e fuori da ogni tempo. I due giovincelli russi strizzano l'occhiolino ai Summoning, velati da un tocco depressive, e come dargli torto, se poi la piacevole miscela sonora che ne esce dai solchi di quest'album, ha il grande pregio di nebulizzare i miei pensieri e farmi sprofondare in un mistico sonno. "On the Knife's Blade" prosegue inseguendo fantastiche creature mitologiche in paesaggi bucolici, dai colori accesi e non di questa terra. Summoning si, ma anche una versione dei Negura Bunget al rallentatore o i Burzum più meditativi, senza dimenticare Pazuzu e gli Ulver di 'Kveldssanger'. Delicate chitarre pennellano fatate melodie ancestrali, per cui si sarebbe facile e scontato immaginare la musica degli Isa come colonna sonora dei momenti più magici della saga de "Il Signore degli Anelli". Andando avanti nell'ascolto ci si imbatte nell'oscura atmosfera di "Harvest Glow", cupa ma dall'aura fiera in cui a tener banco rimangono le tastiere, che guidano il flusso emotivo dell'intero lavoro. "Back to Home (The Edge of the Earth)" abbassa ulteriormente i toni, neppure ce ne fosse stato bisogno, e con morbide melodie e voci sussurrate, si aggrappa dolcemente alla nostra anima, anche se il suono di corvi svolazzanti rivela un presagio di morte, che si materializza nella funesta melodia di sottofondo e nel cantato tagliente del vocalist. Lentamente (le tracce superano tutte gli otto minuti) ci avviamo verso la conclusione: chitarre, sempre in tremolo picking, aprono "Winds Brothers", brano in cui gli innesti di flauto dolce duettano con la voce e il suono tribale della batteria si avvinghia a quello di malinconiche tastiere e chitarre, qui leggermente più taglienti, per quanto voglia dire qualcosa questo aggettivo in un album, dove non c'è mail il benchè minimo accenno a velocità o pesantezza. "Memory of the Flooded Villages (Farewell)" è il pezzo in coda al disco in cui più forte è la componente ambient (che già si era ritrovata qua e là nel corso dell'ascolto di 'Songs of the Dead'), anche se poi l'intesità delle chitarre va via via aumentando, arricchendosi di ulteriori elementi secondari (suoni orientali) che rendono il tutto più complesso e catartico, ma regalandomi anche le ultime preziose emozioni di una release, apparentemente di facile approccio, ma alla fine non cosi facile da digerire. Sontuosi. (Francesco Scarci)

(Autodafe Prod - 2014)
Voto: 75

mercoledì 14 gennaio 2015

My Shameful - Hollow

#PER CHI AMA: Funeral Doom, Shape of Despair, Thergothon, Skepticism
Dagli amici russi della MFL Records, giunge tra le mie mani il nuovo lavoro dei finlandesi My Shameful, band che probabilmente ho già incontrato sulla mia strada in un passato assai remoto. Il trio scandinavo arriva con 'Hollow' alla sesta release in quasi 15 anni di militanza nell'underground (del 2000 i loro primi 3 demo), non scostandosi musicalmente di molto rispetto ai precedenti funerei lavori. 'Hollow' include otto tracce per poco più di un'ora di musica devota agli abissi profondi, senza dimenticarsi tuttavia di propinare violente sfuriate death. Ecco quanto accade già nella ritmata opening track, "Nothing Left at All", song dall'aura macabra e dotata di una certa atmosfera mefitica che rende la lugubre proposta dei nostri, più accattivante e meno ostica da digerire. Stiamo parlando di funeral doom quindi difficile attendersi una certa dinamicità di fondo, che trova modo di manifestarsi qua e là in selvagge galoppate che fanno da contraltare a laceranti e lunghi tratti di buio pesto, che ci fanno letteralmente sprofondare nelle tenebre. Marziale è l'incedere della title track, in cui la corrosiva voce di Sami Rautio, squarcia l'avanzare offuscato e dilatato del combo nordico. Le nuvole si addensano ulteriormente con "And I Will Be Worse", traccia che mostra un ottimo songwriting e buone soluzioni melodiche nelle linee di chitarra e che non disdegna nemmeno un paio di accelerazioni, ben assestate come un pugno nello stomaco. "Hour Of Atonement" si conferma pesante e claustrofobica più delle altre, offrendo anche una certa dissonanza di fondo a livello ritmico che già avevo percepito nella seconda traccia. Con i primi 3 minuti e trenta di "The Six" si continua su questo binario costituito da ritmiche ossessive e deprimenti; poi un intermezzo ambient mi consente di distaccarmi cerebralmente da quell'universo che lentamente mi stava inghiottendo e di ripartire con delle ritmiche un po' più ariose, passatemi il termine, e devastanti. Dopo due minuti di suoni lontani, attacca "Murdered Them All", brano dalla melodia definitivamente più catchy che in un disco funeral doom, magari stona un po', ma che in questo contesto consente di prendersi una bella boccata d'ossigeno, prima di inoltrarsi alla scoperta delle ultime due canzoni. "No Greater Purpose" è la settima song, lunga e deprimente, mentre la conclusiva "Now And Forever" ci concede gli ultimi catartici e strazianti minuti di un lavoro che certamente farà breccia tra i fan della band e tra gli amanti di un genere, non cosi accessibile alle grandi masse. Un macigno sullo stomaco. (Francesco Scarci)

(MFL Records - 2014)
Voto: 70

martedì 13 gennaio 2015

Release The Long Ships - Wilderness

#PER CHI AMA: Post Rock/Shoegaze Strumentale
Dall'Ungheria ecco arrivare il progetto Release The Long Ships, misteriosa one man band dedita a un post rock strumentale. Il disco si apre con “Mist Pillars”. Song magnetica, ingorda di attenzione. Abusa di chitarre che distorcono le melodie, facendole diventare ballerine ubriache dalle ritmicità distoniche. L’intercalare sussurrato, è solo una proiezione anterograda all’epilogo metal. “Snow”: per chi non è mai stato in Giappone, si tolga i vestiti e indossi un chimono e sandali di legno, preparandosi ad inchini beffardi d’innanzi a tocchi sonori che presto sconvolgono le atmosfere che profumano di pesco, per diventare belve inferocite, il cui pasto sono solo timpani vergini a tortuosità impreviste. Sotto al chimono, spero abbiate tenuto i vostri abiti dark che odorano di borchie e di pelle nera. Vi faranno sentire a casa. “So Murmured the Wide Seas”. Seguo questa traccia che è senza inizio e senza fine. Nessuno può trovare questa via, a meno che, non se ne voglia scoprire la mappa, tra rovine oceaniche e maledizioni così ben descritte dal fondale offuscato che dipana rumori, poi suoni, poi velleità, sino a tracciare con le ultime sonorità un manto che oltraggia il senso e l’equilibrio. Questo brano termina scostante, così come è iniziato. Trovarne il senso, sarebbe renderlo contro natura. Lo abbandono. “Aether” è estasi metallica, oscillante. I suoni divengono cavi d’acciaio vibrante, il sottofondo mescola un reiterare ritmicamente orientale. L’uscita di scena dei suoni è prematura, nostalgica. Viene da allungare le braccia per trattenere il più a lungo possibile questa essenza in musica. “I Am the Sun”. Non posso che ammansire le palpebre. Chiudere gli occhi. Cercare la provenienza dei suoni. Inutile. Le sonorità sono talmente eclettiche, da creare una dimensione sonora multipla, per poi, scemare. D’improvviso gongola la musica. Per un attimo ancora, romanza su se stessa la musica. Poi il gongolio e il romanticismo si fondono in destreggi metallari che ne salvano l’anima dark senza nessuna pietà per i pregressi. Colpi inflitti e mortali annientano ogni intenzione aliena dal metal. “The Heart of Mountain”. Questo brano è un baccanale di note che sembra calare come nebbia densa su terra arata. Scava la musica. Rimangono in superficie i pensieri. Si fondono i pensieri alla terra, come un ossimoro improbabile, che sublima come foschia in un cimitero di anime erranti. Chiude “I Have Never Seen the Light”. La premessa è di un requiem metallico, sospinto da eclissi sonore sospiranti. Respiri corti. Suspance come suoni. Attese contratte e poi destate da rivoli animosi mascherati in suoni suadenti. Contrazioni. Gorgheggi strumentali. Mescolanze afrodisiache. Nulla ora mi impedisce di perdermi e vorrei che il brano non finisse. Il compendio è silenzioso. I brani sono strumentali e troppo brevi. Bellissimi. Fossi in voi li aggiungerei nella playlist del Black Friday. (Silvia Comencini)

(Self - 2014)
Voto: 80

Haddah - Through The Gates Of Evangelia

#PER CHI AMA: Death/Thrash, Dark Tranquillity, Alligator
Inforcate le mie nuove cuffie Bose (un po' di pubblicità ogni tanto ci sta anche bene), mi metto all'ascolto degli Haddah, band lombarda, che dopo quasi 14 anni, un EP e un paio di promo, giunge finalmente a esordire anche sulla lunga distanza, grazie alla sempre più attiva Beyond Productions. 'Through The Gates Of Evangelia' si presenta subito come un album arrogante, non in senso negativo sia chiaro, ma in termini musicali si tratta di un selvaggio e arrembante esempio di death metal schizofrenico che si srotola lungo le nove scarnificanti tracce che arrivano a strizzare l'occhiolino anche al death/metalcore. Niente di nuovo musicalmente, se non belle sgaloppate, bei riffoni, un cantato che si divide tra il growling e lo screaming (ottima la porzione corale di "The War of Wars"), ritmiche sghembe di scuola Infernal Poetry, qualche sverniciata di stampo swedish, frequenti cambi di tempo e un sound comunque dotato di una buona carica di groove. Le tracce, tutte più o meno brevi (assestandosi sui 3.30 minuti), scivolano via che è un piacere, facendosi notare nella anthemica "Apostasy" o nella più Dark Tranquillity oriented (era 'The Mind's I') "Get Down All the Demons". In definitiva 'Through The Gates Of Evangelia' è un disco a cui non si può chiedere granchè, se non una mezz'ora di puro divertimento e devastazione. Rocciosi. (Francesco Scarci)

(Beyond Productions - 2014)
Voto: 65

lunedì 12 gennaio 2015

Manilla Road - Out of the Abyss

#FOR FANS OF: Heavy/Epic/Power
I often rant about the undeserved fame of certain artists, whilst other, more worthy acts are left to fade away into obscurity. Thankfully, Kansas' Manilla Road never really 'faded into obscurity' - they just never received the recognition that they rightfully deserve and, even after 37 years, remain criminally underrated. Their 1988 classic "Out of the Abyss" is getting the remastering treatment soon, and though I don't think it needs any polishing, it may do the band good to boost the acknowledgement of such a phenomenal release. With regards to the remastering; the only aspect of this album which could be improved is the production quality. But remember, this was recorded 26 years ago, and the sound is certainly exemplary for the period. Well, what to say about this beast that hasn't already been said? It's a total all-out power/thrash assault. The epic scope of previous Manilla Road albums had been set aside (though not completely) to make way for a more grimy and evil timbre; the fantastical and ethereal lyrics substituted for a bit more blood and gore; and the music itself less melodic, more direct and definitely more thrash-oriented. Speedy numbers like "Black Cauldron", "Midnight Meat Train" and the title track display characteristics that would make the likes of Carnivore or Heathen blush, whilst showing more musical prowess than anything Slayer ever cranked out. The mid-paced stompers like "Slaughterhouse" and "Rites of Blood" are where the 'Road really shine. Mark Shelton's riffs get a lot more room to breathe and almost force the listener to bang their heads, especially in the former track (at the 2:01 mark). Speaking of Shelton: his vocals still have the vibrato and melodic shine that was so present on "Crystal Logic", but he now employs a far grittier scream where necessary - seriously contributing to the evil atmosphere this album exhibits. The real highlight of this album (which is almost worth the price of the album all by itself) is the utterly insane opener, "Whitechapel". This grotesque tribute to Victorian murderer Jack The Ripper is an 8-minute balls-to-the-wall thrash-fest. Keeping the energy level high, the drum rhythms blazing and the riffs vicious whilst remaining musically interesting for this length, is a feat one simply must behold. It remains utterly unjust how such a prolific band, who have released countless albums over their 37-year-career, can still be so overlooked in the metal community. However, Manilla Road have released quality material in their current state for aeons, so whatever their magic formula is, let's hope it does not waver. Now buy this album, you lowly peasant. (Larry Best)

(Shadow Kingdom Records - 2014)
Score: 90

domenica 11 gennaio 2015

Light – Cult of Light

#PER CHI AMA: Death/Dark Doom, Tiamat, Atrocity
I Light sono una band tedesca da venerare ed amare senza remore. Proprio come riporta il titolo del loro primo album, 'Cult of Light', questa band berlinese può divenire un vero e proprio culto. Uscito con l'aiuto della Black Warcult Productions nel 2014, questo scrigno di pesanti gioielli metallici potrebbe risultare uno dei migliori ascolti dell'anno appena passato. Il trio teutonico si descrive come un classico gruppo death metal old school ma i riferimenti della band, come da loro stessa ammissione, si trovano nei Tiamat, nei Celtic Frost, nei Samael e seppur in maniera molto personale, anche nel modo di suonare heavy psichedelia dei Monster Magnet. I Light hanno una marcia in più e suonano sì death metal ma con venature allucinogene che ne caratterizzano fortemente il suono, trasformandolo in veri e propri viaggi psichici con visioni metalliche futuriste e d'avanguardia, al pari di Voivod e Annihilator. Magari non sono viaggi di pura follia ed estasi come quelli del Kraut Rock ma sempre di musica cosmica si parla. La psichedelia virata in un versante metal dalle tinte fosche, dolorose e gotiche come quelle glaciali che resero i Type o Negative e gli Atrocity degli eroi. Devoti ossessivi ad un sound ipnotico, tagliente e pesante quanto lo era quello dei primi Isis nelle loro avventure post core, i tre musicisti tedeschi generano mostri sonori macabri, in continua evoluzione pur rimanendo saldamente ancorati alle radici storiche del death vecchio stile, sfornando brani compatti e catartici come pochi altri sono riusciti a fare negli ultimi tempi. L'album è folgorante, per certi aspetti piacevolmente accessibile e sempre in continuo movimento, e per cui segnalerei le song "Contrast", "Ceremony" e "Ritual" . Il metal come non te lo aspetti con richiami industrial in stile Misery Loves Co., rivisitati in veste lacera e drammatica, la claustrofobia musicale dei Bolt Thrower, il magnetismo dei Tiamat, interpretati da una stupenda voce decadente, micidiale e omicida. Sin dall'inizio il disco trasmette buone sensazioni, una sorta di idea cinematografica di un film horror ambientato nel cosmo, dove la presenza di qualcosa di letale sorprenderà e distruggerà i passeggeri all'interno della navicella che solca lo spazio infinito. Un album che abbatte i confini del death più classico per espatriare verso lidi futuristi, allucinogeni, violenti e modernisti. Una gioia per palati fini, amanti di thrash, death, gothic, alternative e psichedelia, il tutto tritato in un unico corposo cd, composto da undici brani deliziosi tutti da gustare ad altissimo volume. Una vera rivelazione! (Bob Stoner)

(Self - 2014)
Voto: 80

sabato 10 gennaio 2015

Stormhold - The Lost World

#PER CHI AMA: Melo Death, Arch Enemy, Dark Tranquillity
Devo sapere assolutamente una cosa: ma i tecnici del suono dell'est Europa hanno tutti le orecchie felpate o sono perdutamente innamorati delle produzioni simil-MIDI marchio di fabbrica del pop italiano anni '80? No perchè, in tutti (e dico tutti) i CD provenienti dalla ex Unione Sovietica che ho ascoltato recentemente, permane quel gusto vagamente kitch stile “Al Bano e Romina”, nei suoni ovviamente, così plasticosi da risultare ad un millimetro dall'orlo del baratro del ridicolo. Scusate lo sfogo, ma capirete...era dovuto. Bando alle ciance, parliamo di questo CD, debut album del gruppo Bielorusso degli Stormhold; composto da sette tracce per una durata totale di 36 minuti, i sei ragazzi ci propongono un Melodic Death Metal che abbiamo già sentito proposto da una miriade di altri gruppi (In Flames, Dark Tranquillity, Nevermore, Arch Enemy, At the Gates ecc ecc.). Diciamo che, la presenza massiva delle tastiere, invece che giovare all'economia delle composizioni, rende il tutto un po' troppo stucchevole anche quando una maggiore dose di aggressività non avrebbe guastato. Infatti la formazione sa stare sulle proprie gambe e lo fa anche piuttosto bene, ma sono proprio le scelte di dubbio gusto a “rovinare”, passatemi il termine, il lavoro. Non sono e non voglio di certo essere io a giudicare le decisioni del gruppo, ma da semplice ascoltatore alcune cose mi fanno davvero imbestialire. Questo perchè potremmo essere qua a parlare di tutt'altro disco, se solo fossero state fatte alcune valutazioni differenti dal solo punto di vista del “gusto” musicale. Le canzoni ci sono, ed alcune sono davvero belle, altre degne di nota, tuttavia nel complesso il disco non mi convince più di tanto. Punto primo: i suoni. Come diavolo si fa a produrre un disco, nel 2014, di una band sulla carta molto valida, con dei suoni del genere e mandare a rotoli il lavoro e la fatica di anni? Suoni freddi, slegati, volumi completamente sbilanciati, assoli di chitarra quasi da intuire. Ho ascoltato DEMO registrati meglio. Punto secondo: la scelta delle tastiere. A mio parere l'uso massivo delle keys fa perdere appeal all'intera proposta. Senza tastiere e con una produzione e dei suoni molto più aggressivi, ci troveremmo di fronte davvero a un disco davvero buono. Per questo, ho cercato di valutare le canzoni tralasciando gli altri aspetti, basandomi solamente sul valore delle stesse, per cui mi sento di consigliare senz'altro l'ascolto di “Wind of Freedom” e “Another Day”, oltre che della conclusiva e assai notevole “Inside My Mind”. Peccato, peccato, peccato!! Vorrà dire che vi aspetterò con ansia, miei cari Stormhold, alla prossima release: magari un po' più cattivelli, sotto tutti i punti di vista. (Claudio Catena)

(Total Metal Records - 2014)
Voto: 65

https://www.facebook.com/pages/Stormhold

Grisâtre – Paroxystique

#PER CHI AMA: Blackgaze, Burzum, Nortt
Terzo full lenght per la one man band francese Grisâtre, attiva sin dal 2006. Uscito per la Dusktone Records sul finire del 2014, l'opera al nero dell'artista transalpino Rokkr non lascia dubbi sulle sue intenzioni. Carico di forza emotiva sulla falsariga degli Alcest, si apre con un mid-tempo, "Meditation", dalle atmosfere decadenti e gotiche, chitarre lievi, epicità e tanta malinconia, song che merita in grande stile questo titolo. Cambiano i toni in "Contemplation", pezzo che mostra i suoi muscoli pur mantenendo una certa originale eleganza, la stessa che marchia a fuoco lo stile della band per tutta la durata del cd. Batteria in accelerazione, ritmo veloce e suono maestoso, screaming violentissimo, chiaro scuri notevoli e cambi di tempo per una performance di oltre diciassette minuti, a confermarsi come un lungo viaggio introspettivo e decadente, pieno di insidie e buie emozioni. Infinito e devastante. Drone music, degna del gran maestro Klaus Shulze sul calare del terzo brano, contornato da synth profondissimi e arpeggio cristallino appena accennato, per un momento di intimità sonora di tutto rispetto prima della drammatica discesa nei meandri più disperati dell'anima di "L'Astre Gris", inno glorioso al black metal d'atmosfera di oltre diciotto minuti con influenze classicheggianti che fanno echo ai primi Dimmu Borgir e alle intuizioni mistiche dei grandissimi Nortt, passando sempre per quell'oscura, vorticosa, gelida e minimale espressività del miglior Varg Vikernes. La chiusura dell'opera è affidata al brano che regala il titolo al disco: un lungo romantico e tenebroso assolo lo apre e si riappropria delle atmosfere più fosche e grigie espresse fin qui dal polistrumentista francese, che ne fa a ragione il suo cavallo di battaglia. Ampliando in questo brano gli orizzonti della sua musica, mescolando le carte, focalizzando il suo modo di vedere e comporre. In 'Paroxistique' il sound si fa rarefatto e più umorale, i chiaro scuri si infittiscono condensando tutti i canoni delle sue capacità compositive in un pezzo di struggente e commovente espressività. Un salto nel buio, il vuoto che riempie, la ricerca di una dimensione onirica inattaccabile, il rifugio perfetto per un'essenza superiore. (Bob Stoner)

(Dusktone Records - 2014)
Voto: 80

https://www.facebook.com/pages/Grisatre

giovedì 8 gennaio 2015

Cepheide - De Silence et De Suie

#PER CHI AMA: Black Depressive/Cascadian, Panopticon
'De Silence et De Suie' è il demo cd dei parigini Cepheide, che hanno esordito nel 2014 con questo 4-track di black depressive dalle tinte atmosferiche, che sembra rifarsi al sound degli australiani Woods of Desolation. Quattro song dicevamo, che si aprono con la desolante melodia di "A La Croiseue Des Aimes", dove urla lontane e chitarre malinconiche inquadrano immediatamente la proposta dei nostri. Devo essere sincero, il primo titolo che ho accostato ai Cepheide è stato il debut album degli In the Woods, 'Hearth of the Ages', vero capolavoro black. Poi, a poco a poco vengono fuori altre influenze che finiscono per arricchire e non poco, la musica del trio di Parigi. Un pizzico di blackgaze, sfuriate cascadiane a la Panopticon, e la voce, inequivocabilmente suicidal black, delineano in soldoni le caratteristiche principali della band transalpina che è già matura per approdare alla Pest Productions, la scuderia cinese orientata a questo versante sonoro. "Là Où Les Idoles Demeurent" parte piano con un'angosciante melodia di fondo (ideale per il suono di un carillon), prima di lasciar posto a un funesto e caotico attacco black, in cui a (con)fondersi nel marasma sonico ci sono chitarre (in tremolo picking), un drumming impazzito (opera di Orkham) e uno screaming lancinante, con la ritmica forsennata, che corre e deraglia dai suoi binari. La registrazione casalinga aiuta a mantenere un approccio totalmente raw all'intero lavoro: ne è testimone l'infausta "L’Homme Ruin" in cui la voce, totalmente indecifrabile, si infrange negli angusti anfratti chitarristici del duo formato da Destresse e Spasme (quest'ultimo anche vocalist), creando un'ambientazione che lascia il fiato corto, che preme sullo sterno e genera un'ansia spaventosa. La song, sconfortante al massimo, ci prepara ai conclusivi otto minuti di disperazione, offerti da "Deluge", song che strizza l'occhiolino al sound dissonante dei Deathspell Omega; una musica esangue che poco spazio concede alla melodia, ma che si concentra solo alla macerante decadenza di questi ragazzi. Morenti. (Francesco Scarci)

(Self - 2014)
Voto: 70

mercoledì 7 gennaio 2015

Lelahell - Al Insane... The (Re)Birth of Abderrahamane

#PER CHI AMA: Death/Black, Pestilence, Nile
Quando mi è arrivato questo CD per l'ascolto, ho subito analizzato la copertina e non ho avuto dubbi riguardo il genere di composizioni che mi si sarebbero presentate: musica pesante e veloce, quel che si dice un bel disco “mazzata”. Questo perché il logo dei nostri riporta agli standard di certe band gore/death e, perché no, anche ad alcuni lavori di black melodico. Aprendo il libretto faccio però una scoperta alquanto inattesa: il gruppo proviene infatti dall'Algeria, ed alcuni testi sono scritti addirittura in lingua araba. Personalmente, è la prima volta che mi capita di ascoltare un gruppo algerino, che suona un genere così “europeo”, per non dire quasi prettamente “scandinavo”. Sorpreso, ma senza alcun tipo di preconcetto, mi appresto all'ascolto e vengo subito assalito, dopo una breve intro strumentale, da una pioggia di doppia cassa e blast beat che per un momento mi lasciano a dir poco stordito. Mai mi sarei aspettato una furia simile: i richiami a gruppi tipo Nile e Pestilence sono ben presenti, i ritmi sono serratissimi e noto anche qualche rimando a gruppi black metal storici (Mayhem e Marduk su tutti). Strumentalmente i tre algerini viaggiano a mille, le capacità ci sono e non si perde occasione per mostrarle. Il growl è a volte furioso e poco comprensibile, in altre occasioni invece si riesce a capire qualche parola (ci sono anche testi in francese, oltre all'inglese e alla lingua madre). I suoni risultano cristallini, netti, non troppo freddi e questo sicuramente è un punto a favore della band, perché posso affermare tranquillamente che la produzione risulta essere ottima, ad un passo dalla perfezione assoluta (ascoltare la traccia "Hypnose" per credere). Il ritmo viene tenuto costantemente altissimo, solo l'intermezzo strumentale "Imzad" ci concede di riprendere fiato; l'ascolto, ve lo anticipo, non sarà dei più semplici, poiché la proposta è davvero estrema. La già citata pulizia della produzione però rende il tutto più digeribile, anche se serviranno non meno di una decina di ascolti per cogliere le sfumature di questo lavoro, che merita tutta la vostra attenzione. Nonostante in qualche punto si venga colti dalla sensazione di già sentito, i valori ci sono e vengono a galla senza troppa fatica: i ragazzi sanno il fatto loro, sanno suonare, sanno cosa suonare e cercano di farlo con una perizia che raggiunge il maniacale in quasi tutti i passaggi del lavoro. Non posso fare a meno di consigliare l'ascolto di “Al Intissar”, “Voices Revealed”, “Hypnose” e la notevolissima “Am I in Hell?”. Lavoro che tutti gli amanti del genere non dovrebbero lasciarsi sfuggire, in quanto come per il sottoscritto, sarete piacevolmente sorpresi da una nuova scoperta in ambito estremo. Buonissimo lavoro, da scoprire scendendo all'inferno con i Lelahell!! (Claudio Catena)

(Self - 2014)
Voto: 75