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mercoledì 1 ottobre 2014

Byzanthian Neckbeard - From The Clutches Of Oblivion

#PER CHI AMA: Doom Stoner metal, Iron Monkey, Electric Wizard, Shape Of Despair
C’è un teschio spiritato e barbuto sulla copertina bianchissima di questo 'From The Clutches Of Oblivion'. E nonostante la pulizia del packaging (digipack in edizione limitata), il debutto dei Byzanthian Neckbeard è sporco, grezzo e oscuro come poche altre cose sentite ultimamente. Il quartetto arriva da una sperduta isola britannica nella Manica, dove praticamente tutti allevano una razza pregiata di bovini. Curioso quindi, che da un luogo così verde, bucolico e tradizionalista arrivino questi quattro giganti barbuti, che suonano con accordature letteralmente sottoterra e parlano di cadaveri, occultismo, fine del mondo e allucinazioni. Lo stile si rifà ai grandi del doom metal / sludge britannico: Electric Wizard, Iron Monkey e in parte Orange Goblin. Riff serratissimi (splendide l’opening “Doppleganger” e l’intera “The Ganch”), arrangiamenti intelligenti che mi hanno ricordato certi Paradise Lost, bpm quasi sempre lenti e ossessivi (“Plant of Doom”) salvo poche, misuratissime sfuriate. La voce ha molto in comune con gli Shape Of Despair: un pesantissimo growl di impronta death, che rende tutto ancora più oscuro. Un lavoro che meriterebbe un voto altissimo, se non fosse per due piccoli difetti. Il primo: pur in alcune scelte stilistiche originali (in certi incastri basso/chitarra, ad esempio, o in alcuni repentini cambi di tempo), il disco non aggiunge nulla di veramente nuovo a quanto non abbiano già detto band più illustri. Il secondo: l’unico strumento davvero equalizzato bene è il basso – bello, rotondo, presentissimo, distorto al punto giusto: ascoltatevi l’intro di “Indoctrinate The Priestess”. Tutto il resto poteva essere reso meglio: le chitarre mancano forse un po’ nelle frequenze più basse nonostante l’accordatura, e la batteria a tratti è addirittura ridicola (ascoltatevi i piatti: poca coda, suoni taglienti, poco adatti ad un genere come questo). C’è da concedere ai Byzanthian Neckbeard il beneficio del debut-album: se la linea resta questa, sono certo che il prossimo disco sarà un capolavoro assoluto. (Stefano Torregrossa)

(Self - 2014)
Voto: 70

A Flower Kollapse - S/t

#PER CHI AMA: Punk, Math, Hardcore
Macina Dischi e Shove Records si sono accaparrate un'altra interessante band, gli A Flower Kollapse (AFK), un quartetto originario della provincia di Treviso. La band nasce nel 2004 e da allora ha partecipato ad alcune compilation e split, arrivando infine a questo terzo album. Loro stessi dichiarano che suonano un mix di punk, math, hardcore, noise e progressive, a cui io aggiungo una cattiveria e potenza inaudita. Suoni ruvidi, freddi e riff velocissimi, il tutto condito da uno screamo dilaniante, a cui l'ascoltatore può solamente soccombere oppure trarne beneficio. Nove tracce per un totale inferiore alla mezz'ora, ma sufficiente per farvi capire quali pensieri contorti possano insediarsi dentro la mente di un musicista alla ricerca della propria espressione. Il tutto è contenuto in un semplice digipack di carta riciclata senza nessun colore e i testi sono scritti in modo da essere illeggibili a causa di un errore in fase di stampa. Delirante e geniale allo stesso tempo. "All Nature is my Nature" è tutto e niente, pura sensazione. A qualcuno potrebbe dare il voltastomaco oppure causare una crisi epilettica, ma se ci si immerge a capofitto nel brano, si riesce a cogliere cosa si celi dietro tanta rabbia. Un urlo in difesa della natura bistrattata (forse, difficile cogliere le parole o leggere i testi), melodia strumentale sapientemente nascosta dietro riff apparentemente inesistenti e poi velocità, tanta velocità. Chitarre al limite dell' autocombustione e sezione ritmica pulita ed ossessiva, il tutto miscelato a modo con suoni altrettanto azzeccati. "Mud" inizia con degli scricchiolii che accapponano la pelle quanto le unghie su una lavagna e poi li subentra la devastazione. Chitarre che fanno sempre da padrone con riff ipnotici che si alternano tra sequenze meno roboanti e scatti d'ira strumentali. Malessere esistenziale ed ansia vengono trasmessi dalla dita ai strumenti, come una pesante e scomoda eredità da padre in figlio. Le corde e le pelli dei tamburi vengono scarnificati ad ogni nota o battuta, il sudore si mescola alle lacrime ed ogni traccia vi lascerà sfiniti e ansimanti. Grazie al cielo durano poco, altrimenti rischiereste un attacco apoplettico Decisamente un album che non può lasciarvi indifferenti, o lo amerete o vorrete disfarvene al più presto. Il rischio che venga inserito incautamente nello stereo da un vostro familiare e che poi dobbiate dare delle spiegazioni, è abbastanza alto. Desumo che gli AFK diano il meglio di se in live, quindi inizia la mia ricerca del loro prossimo concerto. (Michele Montanari)

(Macina Dischi/Shove Records - 2012)
Voto: 70

The Pit Tips

Don Anelli

Puteraeon - The Crawling Chaos
Space Eater - Passing Through the Fire to Molech
Death - Spiritual Healing remastered
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Francesco "Franz" Scarci

Eternium - Repelling a Solar Giant
Azure Emote - The Gravity of Impermanence
Seasons - Lotus
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Kent

Carcharodon - Roachstomper
The Goddamn Gallows - 7 Devils
Modest Musorgkj - Pictures At An Exhibition
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Stefano Torregrossa

Fu Manchu - Gigantoid
The Glasspack - Powderkeg
Killer Be Killed - Killer Be Killed
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Michele "Mik" Montanari

Thom Yorke - Tomorrow's Modern Boxes
Luna Vulgaris - Singles
Bachi da pietra - Quintale
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Alessio Skogen Algiz

Mayhemic Truth - 96 (demo tape 1996)
Nattvindens grat - Dar svanar flyger (demo tape 1995)
Sorg - Mina Drommars Dal (demo tape 1995)
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Mauro Catena

J Mascis - Tide to a star
Earth - Primitive and Deadly
Thee Silver Mt. Zion Memorial Orchestra - Fuck Off Get Free...

domenica 28 settembre 2014

Desert Lord – To The Unknown

#PER CHI AMA: Stoner Doom
Quante volte vi è capitato nella vita, di venire solleticati dall’idea del “dream team”, come concetto? Una squadra composta dai migliori giocatori di un determinato sport, una band che annoverasse tra le sua fila i milgiori musicisti di un particolare genere, un vero e proprio sogno, quindi. E quante volte vi è capitato, quelle poche volte che il sogno pareva come per miracolo materializzarsi, di rimanere realmente soddisfatti del risultato finale? A me, personalmente, pochine. Troppo alte le aspettative, o semplicemente troppo aderenti ad uno schema, anche elementare, ma evidentemente difficile da replicare nella realtà (lancio di prima all’ala, dribbling secco, cross perfetto, rovesciata, gol; oppure un pezzo con riff memorabile, strofa, inciso, un paio di assoli da brividi). Quante volte ho avuto tra le mani dischi sulla carta stratosferici, rivelatisi poi schifezze immonde o, ancora peggio, del tutto anonimi. Ecco, a me questo 'To the Unknown' dei finlandesi Desert Lord ha fatto l’effetto della realizzazione, perfettamente compiuta, di quello che avrei voulto ascoltare, a tredici anni, in un disco di una “dream team band”:
- nessun (ma proprio nessuno) elemento di novità o sperimentazione (anche se le cronache lo datano 2014, 'To the Unknown' potrebbe essere uscito in qualsiasi momento degli ultimi trent’anni);
- un amore viscerale per i Black Sabbath;
- l’incapacità di far durare un pezzo meno di 5 minuti, ma anzi la tendenza a sforare i 9;
- la capacità di sfoderare riff memorabili, forse un tantino già sentiti, ma comunque memorabili;
- la perfetta alternanza di riff, strofe, incisi, assoli di chitarra, strofe, assoli di basso, incisi, assoli di chitarra, arpeggi acustici, esattamente quando e come ce li aspetteremmo;
- il tutto suonato a volumi criminali, con quel suono di chitarra che riescono ad ottenere solo in Scandinavia, registrato in modo grezzo e sporco ma nemmeno troppo.
Per quanto sconosciuti, i Desert Lord sono un gran chitarrista, un gran bassista, un batterista pestone e un cantante a cui evidentemente piace il death metal. Questo loro secondo album racchiude in sole 6 tracce e circa 50 minuti, il sogno di un ragazzino, ovvero tanto hard fracassone (non proprio stoner, non ancora doom, non del tutto metal), oscuro, marcio, eccitante. Scusate se è poco. Per me è tantissimo. Pezzi migliori? Piú o meno tutti. Se devo fare nomi dico "New Dimensions", che suona come un nastro di 'Heaven and Hell' lasciato troppo tempo al sole, sul cruscotto di una Ford Sierra. Nera. (Mauro Catena)

giovedì 25 settembre 2014

Seasons - Patriarch

#PER CHI AMA: Death Progressive/Djent/Metalcore, Opeth, Tesseract 
Il Pozzo lo seguono anche dalla Nuova Zelanda. Ecco quindi arrivarmi da Auckland il notevole cd dei Seasons, quartetto che si muove sulle coordinate stilistiche del djent/metalcore progressivo. Non vorrei però che queste mie etichette avessero una qualche valenza limitante per l'egregio lavoro fatto dai nostri. 'Patriarch' è un album di nove pezzi che dura la bellezza di 60 minuti. Un'ora che scorre via veloce come il vento, nonostante un genere come questo necessiti solo di una trentina di minuti per esplicare il suo effetto. 'Patriarch' no, richiede più tempo per essere assimilato, percepito, letto e gustato. Un po' come quando sorseggiate un ottimo rum invecchiato o un whiskey, 'Patriarch' lascia il suo forte retrogusto. L'intro ci inebria immediatamente con quel suo piacevole fare melodico ma deciso. Quando attacca "Eutopia" ho il timore che la song possa annoiarmi nel suo evolvere burrascoso. Nulla di più sbagliato: il brano esordisce con fare gagliardo e violento per poi imboccare una strada oscura, quasi drammatica, che prende le distanze da quel metalcore paventato all'inizio della recensione. Ci riprovano i nostri a spararci in faccia il loro armamentario metallico con "Nimbus"; all'inizio della traccia la band sembra anche riuscirci, ma poi ecco nuovamente che i nostri si avviano alla loro personale reinterpretazione del genere, cambiando mille volte il tempo, offuscando addirittura la mia mente con passaggi più plumbei, al limite del doom. I riffoni, quelli seri del djent, mica da femminucce, rombano pesanti in "Sunshine", con il bravo vocalist che ringhia a denti stretti il suo growling scorbutico e acido. La song, un po' come tutte, miscela furia metallica con una discreta dose di melodia, facendosi notare per l'elevato quantitativo di groove che si cela nei pezzi, che trovano addirittura il tempo di piccole divagazioni industrial e sfoggiano qualche tastierina stile primi Tesseract. Fenomenali. Per impatto e per perizia tecnica. Un po' meno per originalità, ma poco importa. Con "Odysseus" ci addentriamo ancor maggiormente nel sound intimista dei Seasons: un death metal illuminato, a tratti sperimentale, che saprà accendere l'anima inquieta che è celata dentro di voi. Non solo: estesi sprazzi post metal in un break di "tooliana" memoria che lascia vagare ampiamente la mente e inebria non poco i miei sensi. "Atlantis Rising" è un pezzo strumentale che ammicca ancora ai Tesseract più potenti e fantasiosi, con quelle belle chitarre polifoniche come i mostruosi Meshuggah insegnano ai propri adepti da più di vent'anni. Se avete per un attimo avuto il timore che i nostri avessero calato il tiro, niente paura, ci pensa la devastante "Lotus" a ripristinare il tutto con la sua verve, la pesantezza delle sue chitarre e l'eclettismo sonoro del suo drummer. L'eco dei maestri svedesi è forte più che mai, ma non stiamo certamente parlando di plagio, bensì di una rivisitazione alquanto interessante, che propone nuove soluzioni al tema, grazie all'inserto mai massivo di tastiere. Dopo 48 minuti di botte, sento che posso andare avanti e sfidare il limite dell'ora, dove molte volte la tensione tende a calare. I nostri non cadono nel tranello e anzi trovano il modo con "Flourish", prima di sfondarci il cranio con un ritmo infernale e poi di darci lo zuccherino con i passaggi più mansueti del cd, dove appaiono anche clean vocals e chorus ruffiani davvero azzeccati. Il suono del mare di "Marine Snow" ci accarezza per i cinque minuti finali di questo ottimo lavoro che mette in luce l'ottima prova canora del frontman in chiave pulita, un po' a rendere omaggio a Mikael Åkerfeldt degli Opeth, anche per quello che è l'aspetto musicale. Che altro dire di un album che ho incensato in lungo e largo, se non auspicare un vostro ascolto accurato. (Francesco Scarci) 

(Self - 2014) 
Voto: 80 

Burzum - The Ways of Yore

#PER CHI AMA: Ambient
Burzum, 'The Ways of Yore'. Tremate. Abbandonate definitivamente le tendenze black metal, cosi come pure le velleità di commettere atti terroristici, il Conte torna dandoci in pasto al suo concentrato ambient. Assecondate i suoni accattivanti, vibrati, accostati a nuvole di fumo psichedelico ed ascoltate. "God from the Machine". "The Portal". Dimensioni oniriche, prismi dai cangianti velati, ostacoli duttili, ripetizioni reiterate per alienazioni lugubri, in cui la chitarra sfregia i pensieri ed il tempo involve in collisioni improbabili. "Ek Feller (I Am Falling)". Ora abbiate paura. Questo brano è sordo, lascivo, sospeso tra un cantato mortuale e pochi cenni strumentali che peggiorano un mood impossibilitato alla felicità. Se la serata vi ha lasciato con l'amaro in bocca, questo ascolto, potrebbe illuminare il vostro inferno. "Hall of the Fallen". Cristalli che si abbattono a terra. Incedere di voce ed elettricità dal pallido sentore musicale. Terrore. Ghiaccio ancora. Ossa spezzate dentro un turbine di sensazioni dall'incedere spettrale, invisibile, minaccioso. Lasciandovi trasportare, credetemi, rischiereste di venire a patti con l'anima. A vostro rischio. "Emptiness". Voluttà ripetute. Tortuosità appianate. Un basso che distoglie dal ritmo soffuso. Soffiate sull'orizzonte, ma sappiate che non se ne andrà il grigiore, malinconico, assente pensiero che questo album evoca con individualità allargate alla coscienza comune. Nel buio di questo metallo, emerge almeno un rincorrersi di suoni estatici e carnali, sino all'epilogo orientaleggiante. "Lady in the Lake". Perché non strofinarsi su pareti di ferro ruvido, lasciando che la pelle sanguini e l'anima segua strade sconosciute? Perché non alimentare la follia, prima che vincerla, lasciando che il tempo e la ragione diventino virtù d'altri? Perché non digrignare i denti e corroborare lo stupore con la piú nichilista tra le benzine alcoliche? Perdizione. Rabbia. Museo degli orrori. Benvenuti nel tripudio del black ambient. "Hell Odin". 3 minuti ed 11 secondi. Pensateci bene se percorrerli. Suoni ripetuti si fondono con la stessa improbabile frase che il titolo del brano rappresenta. Virtuosismi modulati calano il carico presto ed il brano è buono solo per un rave di bassa lega. "The Reckoning of Man". Suoni dalle metamorfosi metalliche. Voce dai toni pretenziosi. Virtù narrative corrugate dal volo raso terra della musica narrante e del testo ipotimico. "The Hel and Back Again". Mi chiedo perché Burzum cerchi di ripulirsi la coscienza con musiche zen. Mi chiedo perché una scia di rumori di fondo imprigioni quella coscienza riportandola nelle segrete della prigionia malsana. Mi chiedo, ma so che in questo album, nulla è come ce lo si aspetta... "Heil Freyia". Danze circolari. Movimenti psichici piú che corporei. Impossibile entrare in questo rituale. C'è un obolo troppo costoso da pagare. Accompagno un velo sugli altri brani. Lascio alla notte ed alle vostre inquietudini la scelta per continuare questo album, che mi ha lasciata sfatta di luce e sottesa al buio. Buon ascolto. Tremate. (Silvia Comencini)

(Byelobog Production - 2014)
Voto: 70

The Pit of the Damned Compilation

A second official compilation will be issued by The Pit of the Damned by the end of 2014 with a content of death and black from the best underground bands around the world.

The Pit of the Damned Vol.2 will be available for download on Bandcamp® with a very small offer. Support us to continue our work and to review music!

How to submit your song to "The Pit of the Damned Vol.2" (only death and black music genres):

- n. 1 track in mp3 format 320 kbps. The song has to be free from any contract with labels, please send only your own music.

- n. 1 picture in high resolution of your band logo or line-up (no LP/CD/EP cover or similar).

- Biography of your band in English (1500 characters with spaces maximum).

Please submit your material within 31st October 2014 to: thepitofthedamned@gmail.com

Tenebrae - Il Fuoco Segreto

#PER CHI AMA: Prog Rock 
Da Genova, grazie alla Masterpiece Distributions, arriva dritto dritto nel mio lettore il lavoro dei Tenebrae (disco autoprodotto nel 2012 e uscito sotto House of Ashes nell'ottobre 2013), band dedita ad una sorta di “Art rock” (come loro stessi si definiscono nella lettera di accompagnamento al disco), ovvero, un progetto interdisciplinare che comprende varie forme d'arte: musica, recitazione, pittura, disegno e fotografia. Non a caso, all'interno del libretto si possono trovare alcuni esempi di queste arti, grazie alle bellissime illustrazioni di Sara Aneto, mentre per quanto riguarda la musica proposta, ora ci addentreremo più specificamente nell'analisi. Premetto che in questo caso di thrash o death metal scarnifica corpi, non vi è la minima traccia; e vi confesso che, almeno in questo caso, la cosa mi fa particolarmente piacere. Non conoscendo la band e non avendola sentita all'opera mai prima d'ora, non sapevo esattamente cosa aspettarmi, o meglio, avevo solo un'indicazione data dal flyer informativo: “Gothic Prog Metal”. Subito ho pensato a qualcosa di moderno, di ultrasulfureo e non particolarmente “allegro”, ma pigiando play per la prima volta, sono rimasto basito. Innanzitutto per la finezza e la classe del sound proposto, e poi perché mi è sembrato per un momento, di ascoltare i vecchi Lp prog rock di mio padre (grande fan del prog italiano anni '70), proposti con un suono e registrazioni decisamente moderne. Potevo aspettarmi di tutto, ma non una cosa del genere: un gruppo italiano che suona grande prog “classico” nel 2014? Ebbene si, c'è e lo fa alla grande. Poche “seghe” strumentali, il prog vero e proprio si trova nelle atmosfere, nelle linee vocali e nel timbro del bravo vocalist Pablo, nelle chitarre del fondatore Marco “May” Arizzi e nei synth e tastiere di Francesco Mancuso, senza tralasciare “Attila” alla batteria e Fabrizio al basso. Trattandosi di un concept (cosi come per il predecessore, essendo questo il secondo CD della band), i testi sono complessi e invitano a immedesimarsi nei personaggi della storia proposta, che risulta essere un “prequel” della storia narrata nel primo lavoro dei Tenebrae. I ritmi sono sempre piuttosto lenti e tendono ad assestarsi sui confortanti 4/4, che danno a tutto il disco un bel senso di solidità e sui quali i testi in italiano suonano da Dio. Dopo 5 ascolti completi posso sbilanciarmi e dire senza se e senza ma, che è dai tempi dei mitici IN.SI.DIA che non ascoltavo del metal cantato in italiano così valido. E' inutile e irrilevante parlare di influenze e “modelli”, perché i Tenebrae vanno ascoltati sulla fiducia di trovarsi dinnanzi ad un lavoro di grande portata, assolutamente. Un ottimo lavoro composto e suonato da grandi musicisti, a mio avviso penalizzati soltanto da una produzione non perfettamente all'altezza del calibro del gruppo (sul suono della batteria si poteva fare qualcosa di meglio, e quel rullante è alla lunga fastidiosetto). Per il resto davvero nulla da dire, un CD senza cadute di tono, di alto livello dal primo all'ultimo secondo; le mie canzoni preferite? Tutte in blocco le 9 tracce de 'Il Fuoco Segreto' contribuiscono a creare quello che per il sottoscritto entra di diritto tra i migliori ascolti del “Pozzo” del 2014 (anche se il platter ha quasi un paio d'anni). Non voglio aggiungere altro se non un calorosissimo invito a recuperare il cd, ascoltarlo e rendersi conto di quanto sia notevole. Sono sicuro che mi darete ragione e sono certo che adorerete i Tenebrae quanto me. Io non ne ho proprio potuto fare a meno. (Claudio Catena)

(House of Ashes - 2013)
Voto: 90

mercoledì 24 settembre 2014

Ever-Frost - Departing of Times

#PER CHI AMA: Melo Death, Sentenced, In Flames
Con grande piacere mi trovo ad analizzare un lavoro di una band italiana, più precisamente di Modena; gli Ever-Frost, grazie alla Beyond Productions, fanno arrivare il loro CD accompagnato da una curata lettera di presentazione, il che non guasta affatto. Attivi dal 2008 con questo nome, alcuni membri della band sono stati impegnati però fin dal 2003 in una cover band dei Sentenced, che risultano essere infatti una delle maggiori fonti di ispirazione per il nostro combo italico. Proponendo un solidissimo melodic death metal, con sfumature profondamente scandinave, questi ragazzi sfornano un bel CD senza fronzoli e particolarmente curato nei suoni e sotto il punto di vista grafico dell'artwork; devo ammettere che ho provato particolare piacere negli ascolti di questo 'Departing of Time', perché suonato e prodotto con grande perizia tecnica e, soprattutto, buonissimo gusto. Mai eccessivo, mai involgarito da vocals troppo gutturali o screaming al limite del decente, sempre piacevolmente misurato nel proporre un genere che troppo spesso propone cadute di stile. Un intreccio di riffs spaccaossa e linee di basso cristalline, rullate e doppia cassa asfissianti, clean vocals e parti più “decise” sotto il punto di vista del timbro, modellano un sound classico ma allo stesso tempo dannatamente moderno. Ascoltando il CD, si capisce benissimo che è un lavoro dei giorni nostri, ma con ben più di un riferimento ai tempi d'oro di questo genere, quando bands del calibro dei già citati Sentenced, Nevermore, In Flames e Machine Head, sfornavano disconi destinati a rimanere nel tempo. Cresce con gli ascolti, 'Departing of Times', col rischio ben accetto di potersi innamorare di questo lavoro; l'unico appunto che mi voglio arrischiare di muovere ai ragazzi, è quello di osare maggiormente per quanto riguarda l'originalità delle composizioni. Voglio essere chiaro, niente e nessuno potrà dire che questo non sia un disco valido, anzi, solo che quel maledetto alone di “già sentito” rischia di affacciarsi qualche volta durante i 52 minuti di durata del full lenght. E' solo un consiglio, che spero accettino di buon grado, perché per quanto riguarda il resto, davvero, fatico a trovare un punto debole (e per fortuna aggiungerei), e non posso fare a meno di citare le bellissime “The White Light Beyond the Wall”, dallo swedish sound assai spiccato e la mia preferita “Tear Down the Sky”, seguite a ruota dalla valida title track e da “Cosmic Evolution”. Una gradevolissima sorpresa per il sottoscritto che non conosceva la band, poiché da troppo tempo, purtroppo, non ascoltavo qualcosa di veramente interessante prodotto da gruppi nostrani; una bella sorpresa che si dovrà confermare e migliorare ulteriormente con il prossimo lavoro della band, che attenderò con la giusta trepidazione: pollice all'insù per gli Ever-Frost!!! (Claudio Catena)

(Beyond Productions - 2013)
Voto: 75

Disharmonic – Il Rituale dei Non Morti

#PER CHI AMA: Doom Progressive, Death SS, Paul Chain, Antonius Rex
Questa band italiana, nata nel lontano 1998 a Pordenone, dopo alcuni lavori e cambi di formazione, è riuscita nel corso di questo anno a dar vita a un 12” EP (uscito anche in cd) molto interessante, dato alle stampe dalla Beyond Productions, che fa seguito all'album del 2012 dal titolo 'Carmin Mortiis'. Il batterista Lord Daniel Omungus e il chitarrista Sir Robert Baal, con l'aiuto alla voce del Profeta Isaia e al basso del Barone Von Hayden, riescono nell'impresa di raccogliere l'eredità di band futuristiche un tempo ed ora divenute storia del dark metal e del prog italiano come Goblin, Antonius Rex e Death SS, senza dimenticare la vena psichedelica e cosmica del mostro sacro Paul Chain e un certo doom stile Skepticism. L'incanto è servito! Loro lo definiscono "Ritualistic Dark Doom Metal Opera" e mostrano un sound stregato carico di suggestioni macabre, prevalentemente dai ritmi rallentati e circondato da ombre e figure orrorifiche. In queste sole tre composizioni (per la durata circa di un quarto d'ora) vi è molta devozione verso una certa cinematografia horror vintage di serie B ma anche è l'amore per i sopraccitati miti del rock italiano e doom internazionale si sente un po' ovunque nel platter. I Disharmonic mostrano di aver imparato a dovere la lezione donandoci questa insana vetrina di suoni e umori noir che trovano un apice d'armonia tra lo spettro di uno splendido sax e il teatrale, maligno recitato (in lingua madre) del brano che conclude l'opera. Infatti, 'Il Rituale dei Morti' è una suite ritualistica divisa in 3 atti, dedita all'invocazione dei defunti, quindi non esitate a resuscitare facendovi aiutare da questo EP di gran classe. Progetto stravagante e di nicchia, ma splendidamente realizzato. Da ascoltare. (Bob Stoner)

(Beyond Productions - 2014)
Voto: 80

domenica 21 settembre 2014

The Matador - Destroyer

#PER CHI AMA: Post Metal/Hardcore
Il primo aprile 2013 parlai di questi ragazzi australiani come dei potenziali fuoriclasse nel filone post rock - metal. A distanza di quasi un anno e mezzo, eccoli tornare con un nuovo EP, dal semplice titolo 'Destroyer', che vede la band impugnare i propri strumenti e aumentare le frequenze della propria proposta. Del post rock - metal di 'Descent Into the Maelstrom' è rimasto solo il post, perchè oggi parlerei dei nostri come di una realtà più orientata sul versante post-hardcore. Per carità, molte volte il confine tra questi generi è assai labile, però è evidente quanto nei solchi di questo secondo lavoro, emerga la nuova strada imboccata dai nostri, pur non rinnegando il passato, sia chiaro. A fronte di una registrazione un po' più scarna, la band scatena immediatamente la propria frustrazione, senza tanti giri di parole, con "Rodinia", un pezzo che rimane in bilico tra richiami al passato e una nuova tendenza hardcore. Le chitarre ululano acidi e vertiginosi riffoni mentre il bravo Nathan alla voce, si dimena tra urla feroci e qualche raro profondissimo growl. Il sound è arricchito da una discreta dose di groove, ma è palese che qualcosa sia cambiato in seno alla band di Brisbane. La title track conserva quelle atmosfere cupe e ossessive del passato ma è innegabile come il sound dei The Matador si sia imbastardito, abbia perso un po' in profondità e calore, a servizio di una maggiore espressione della rabbia che verosimilmente era repressa nel precedente disco. Nella title track comunque c'è anche spazio per un breve break dai richiami a la Isis. "Ur" è il classico intermezzo che ci introduce a "Vaalbara", song che mostra il lato meditativo che maggiormente apprezzo del combo australiano: atmosfere più soffuse, vocals pulite che si incrociano con lo scream abrasivo di Nathan, senza ripudiare le scariche nevrotiche fin qui espresse. Ma è la maggior presenza di melodie in questa song mid-tempo a renderne un più facile approccio, soprattutto anche per una migliore cura a livello di arrangiamenti; poi il break post rock posto in mezzo alla traccia è miele per le mie orecchie. Con "Nuna" si ritorna sul binario dell'hardcore anche se le chitarre in taluni frangenti ricordano il passato amore dei nostri per Cult of Luna e Isis. A chiudere il lavoro (per ora solo digitale, aspetto fortemente il cd) ci pensa "Pangaea", brano dall'incedere assai ritmato che si interrompe in un break dal sapore notturno, in cui i nostri prediligono linee di chitarra malinconiche. Insomma 'Destroyer' è un lavoro che conferma quanto di buono ascoltato in passato ma che per quanto mi riguarda, segna un leggero passo indietro rispetto a 'Descent Into the Maelstrom' che tanto mi aveva ben impressionato in quel fantomatico primo aprile 2013. Da risentire con una nuova release, per capire quale sarà la definitiva via intrapresa dai The Matador. (Francesco Scarci)

DSW - Dust Storm Warning

#PER CHI AMA: Stoner, Kyuss
Ecco un'altra band stoner che ho potuto apprezzare con la fantastica 'Desert Sound compilation' del portale Perkele.it, fucina instancabile di band stoner/doom italiane. I nostri quattro eroi provengono dal profondo deserto pugliese (Lecce) e hanno iniziato l'avventura nel 2010. Dopo alcuni EP, hanno firmato per l'instancabile Acid Cosmonaut Record e da allora è iniziata la scalata al grande olimpo della scena stoner. Questo 'Dust Storm Warning' (ormai datato 2012) consta di undici tracce e si presenta in un bel digipack completo di libricino e relativi testi. Anche la grafica risulta curata e piacevola, con utilizzo di caratteri che richiamano memorie psichedeliche. Appena "Outrun" scandisce poi le prime note, subito si gode del timbro delle chitarre, proprio quello che ci piace tanto. Tante frequenze basse che fanno pompare i woofer come dovessero aspirare sangue dalle profonde vene della madre terra, il tutto ben supportato dal basso che nello stoner ha un ruolo determinante e fin troppo sottovalutato per dare la giusta botta sonora. Ritmo forsennato per oltre quattro minuti gentilmente offerto dal batterista che non si risparmia e concentra potenza e velocità per assolvere al suo dovere. Il vocalist sfoggia un timbro maturo e potente, alla John Garcia per intenderci ed in effetti l'influenza della Kyuss-school è palpabile in tutti i cinquantasei minuti del progetto. "666.1.333" parte con una risata che si tramuta in eccesso di tosse per poi dar sfogo ad un brano meno forsennato e più evocativo, quanto un canto indigeno gridato a squarciagola verso il cielo. Suoni sempre all'altezza della band, arrangiamenti e fraseggi impreziosiscono il tutto. Lo stacco a metà traccia rompe il precedente schema e lascia spazio all'assolo di chitarra che guida la traccia verso la fine. "Dune" viene introdotta da un riff psichedelico di basso che evoca una notte senza luna, profonda e accogliente allo stesso tempo, come unica salvezza dal torrido sole del deserto. Quasi otto minuti che mettono nero su bianco tutti i colpi a disposizione del revolver chiamato DSW. 'Dust Storm Warning' è un calderone rovente di bei suoni vintage sapientemente catturati a livello di registrazione e masterizzanti altrettanto bene. A chi chiede se i DSW fanno qualcosa di nuovo rispondo no, ma almeno fanno qualcosa di già sentito in maniera più che egregia. Album da avere anche in vinile IMHO. (Michele Montanari)

(Acid Cosmonaut Records - 2012)
Voto: 80

https://www.facebook.com/dswband