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mercoledì 5 settembre 2012

Eternal Deformity - The Beauty Of Chaos

#PER CHI AMA: Black Symph,/Avantgarde, Dimmu Borgir, Arcturus
Se potessi dare un voto virtuale alle etichette nostrane, beh il primo posto andrebbe sicuramente alla Code666, che da sempre, ha mostrato una certa propensione nell’andare a scovare band talentuose in giro per il mondo, lanciarle ed eventualmente lasciarle andare, a fronte di proposte di più grandi label. Se dovessi fare un paragone con il mondo del calcio, la Code666 sarebbe sicuramente come l’Udinese, club scopritore di fenomeni, pronti ad essere proiettati nel gota del calcio internazionale dai grandi club. Oggi mi spingo nel celebrare le gesta di questi polacchi Eternal Deformity, band dedita ad un black d’avanguardia, che ha ben poco da invidiare ai ben più famosi colleghi. Partendo da un sound all’insegna del death, il quintetto polacco convoglia poi tutta una miscela esplosiva ed intrigante di influenze che non fanno altro che rendere The Beauty of Chaos” accessibile alle grandi masse. “Thy Kingdome Come”, “Lifeless” sono pezzi che si impressionano immediatamente nel mio cervello, grazie ad una graffiante ritmica, melodie ruffiane (dove si odono echi alla Children of Bodom), aperture progressive (ben più palesi in “Pestilence Claims No Higher Purpose”), e vocals che si dipanano tra il growling, lo screaming e il pulito, con le tastiere che rappresentano alla fine l’elemento portante dell’album e che disegnano splendide atmosfere e sorreggono eccellenti armonie. A tutto questo c’è poi da aggiungere un’elevata preparazione tecnica dei nostri che si lasciano andare in brillanti assoli, strutture ritmiche assai elaborate, trovate avantgarde (di richiamo Arcturus), aperture black sinfoniche stile primi Limbonic Art o ultimi Dimmu Borgir, sfuriate al limite del power (ma non temete, nulla di grave) ed intermezzi acustici, che esaltano ulteriormente la prova del combo di Zory. In sostanza, la Code666 si conferma ancora una volta ottima etichetta in grado di lanciare talenti e gli Eternal Deformity, mostrano di avere le carte in regola per diventare dei fenomeni in chiave futura. Da monitorare accuratamente. (Francesco Scarci)

(Code 666)
Voto: 80

Edenian - Winter Shades

#PER CHI AMA: Gothic/Doom, Draconian

La casa discografica, la copertina del cd (una donna di schiena in un paesaggio innevato), la provenienza della band (Ucraina) e le note iniziali di questo lavoro (soavi tocchi di pianoforte), preannunciano già quello che mi devo aspettare dall’ascolto di “Winter Shades”. Lo avrete capito anche voi, ne sono certo. Gli Edenian sono gli ennesimi esponenti di una scena, che sta per esplodere per quanto sia intasata. Se qualche anno fa, il metalcore e suoi derivati avevano saturato il mercato con migliaia di uscite, ora è il death doom e derivati più estremi (funeral o depressive) ad andare per la maggiore. Devono essere fieri My Dying Bride, Paradise Lost e Anathema ad aver avviato un movimento che ha avuto cosi presa, a quasi vent’anni dalla sua nascita. E il combo ucraino in questione deve essere rimasto ammaliato dalla performance dei maestri inglesi, proponendo infatti un lavoro di death doom melodico, che oltre alle succitate band, si ispira anche alla seconda ondata di death doom band, Draconian e Swallow the Sun, avendo tra le sue fila (ma anche gli Anathema l’avevano) la componente “angelica” di una voce femminile, quella di Samantha Sinclair, che fa da canonico contraltare alle growling (e pessime cleaning) vocals dei due vocalist, Alexander e Volodymyr. Insomma tutti i clichè del genere sono racchiusi nelle note di “Winter Shades”, un lavoro che ha ben poco da chiedere in fatto di originalità. Per carità, gli amanti del genere, saranno contenti sapere che una nuova realtà in ambito death doom (e anche gothic, visti i chiari riferimenti ai Tristania) malinconico, popoli il panorama metal; io ne avrei fatto sicuramente a meno. Suggerirei infatti alla Solitude Productions e sublabel di dare meno spazio alla quantità, ma di focalizzarsi maggiormente sulla qualità, che nell’ultimo periodo è andata un po’ scemando. Ultima curiosità dell’album, è che il brano “The Fields Where I Died” si apre con la narrativa vocale di David Duchovny, “superoe” di “Californication” e in passato l’agente Fox Mulder di X-Files. Ma che diavolo ci fa in una release di questo tipo, mi domando. Per concludere, gli Edenian sono ancora una band acerba, che, se vorrà raggiungere determinati obiettivi, dovrà lavorare sodo per scrollarsi di dosso, le innumerevoli e palesi influenze a cui sono soggetti. Sufficienza risicata raggiunta, ma per il momento, niente di più. (Francesco Scarci) 



(BadMoodMan Music) 

Voto: 60

domenica 2 settembre 2012

Sleepmakeswaves - ... And so We Destroyed Everything

#PER CHI AMA: Post Rock strumentale
È ricominciata a pieno ritmo la stagione delle recensioni (le mie, il Franz non si è mai fermato) e come non iniziare con del buon post rock strumentale dall' Australia? Allora prendiamo quattro bei ragazzotti di Sidney, chitarre-basso-batteria-computer e tanto delay, mescoliamo e otteniamo gli Sleep-Makes-Waves. La prima canzone "To You They are Birds, to Me They are Voices in the Forest" ha un'eccezionale apertura epica che ad una prima impressione si stacca dal classic post rock, ma la successiva entrata della chitarra solista ci riporta a sonorità conosciute, ma allo stesso tempo innovative. Una track che regala spazio e respiro, nonostante la mancanza di un testo, si riesce ad immaginare un inno alla natura suonato all'ombra di grandi alberi in una sconfinata foresta. Otto minuti ben strutturati, con diversi cambi di ritmo e melodia. Bel colpo. "Our Time is Short but Your Watch is Slow" inizia con dei synth/chitarra molto alla Sigur Ros che si uniscono ad un loop ritmico, come a dimostrare che la tecnologia e la natura possono in qualche modo coesistere. Almeno nella musica. La track che prediligo è "A Gaze Blan and Pitiless as the Sun" perché riesce a fondere aggressività e delicatezza come poche volte ho potuto ascoltare. Infatti ritengo che il punto forte dei Sleep-Makes-Waves siano proprio gli arrangiamenti, mai banali e con un livello tecnico lodevole. La chitarra riesce a passare dal classico connubio delay-riverbero del genere ad uno stile più progressive con molta facilità. L'unico modo per non annoiare con una traccia da undici minuti? Unire molte linee melodiche differenti tra loro, che qualche gruppo avrebbe utilizzato per creare almeno tre canzoni differenti. Chiudiamo con l'ultima canzone che da il titolo a questo "...And so We Destroyed Everything"", intro di pianoforte minimalista e malinconico che lascia il passo ad un attacco chitarra-basso-batteria prorompente e intimidatorio. Poi tutto entra in un veloce vortice ritmico che passa da suoni puliti a distorti in rapida successione, dove la chitarra si ingrossa paurosamente verso i 4'12''. Meravigliosa. Un grande gruppo, questo perché gli Sleep-Makes-Waves si lasciano apprezzare per le piccole contaminazioni elettroniche che riescono a differenziarli da molti altri gruppi del genere, ma la verità è che la tecnica e la loro creatività musicale è sopra la media. Molto sopra, quindi teniamoli d'occhio. E speriamo tornino in Italia a breve. (Michele Montanari)

(The Birds’ Robe Records)
Voto: 75

sabato 1 settembre 2012

Kayleth - The Survivor

#PER CHI AMA: Stoner Rock, Psych/Doom Metal, Orange Goblin, Sleep
Il deserto è tornato. La sabbia sugli stivali, uno scorpione che si nasconde tra le rocce e finalmente la sagoma di una città che si staglia all'orizzonte. Miraggio, realtà, non importa. La gola arsa reclama un whisky ghiacciato e del buon fuzz. I Kayleth ritornano dal deserto per regalarci il loro nuovo lavoro e con l'obiettivo di bissare il successo del precedente "Rusty gold". “The Survivor” è un EP con cinque pezzi inediti e una cover (The Nile song), che inizia con un messaggio in codice Morse e subito lascia posto alla prima traccia "The Anvil". Di nome e di fatto, questi tre minuti si abbattono pesanti come granito e veloci come un treno senza controllo. La ritmica è infatti il pregio maggiore di questa canzone, con un paio di stacchi che comunque non rallentano la corsa forsennata e mi lasciano stordito. Bel pezzo. "Desert Caravan" è un brano meno veloce, ma dall'aggessività inaudita, con un 'intro che alterna una strofa cantata molto minimalista ad un'esplosione di chitarra grossa e arrogante (come solo il fuzz può fare), batteria e basso. La traccia continua poi sullo stesso tema, dove la voce di Wiko (tutto rigorosamente in inglese) urla al cielo tutta la propria rabbia. Passiamo alla mia song preferita, "The Survivor". Dopo una breve intro di synth, la batteria di Pedro scandisce uno dei ritmi doom più violenti che io abbia mai sentito negli ultimi tempi. Il Dalla (chitarra) e Zancks (basso) creano una trama all'unisono, con diversi assoli caratterizzati dall'immancabile delay, wah e phaser. Sembra quasi una ballata in onore al dio Cactus, con una bolgia di corpi che danza intorno al sacro totem del deserto che brucia nella notte più lunga. Psichedelia, doom e stoner fusi in un unico capolavoro, da assaporare lentamente, come il mezcal che scende giù per la gola e ci regala immagini oniriche. Piacevole anche la cover finale dei Pink Floyd, ottima reinterpretazione di un vecchio pezzo fine anni ‘60, quando la pantera rosa aveva altre sonorità. Quindi, procuratevi questo EP prima che diventi sold out e se vi capita, andate a vederli dal vivo. L'adrenalina scorre a fiumi e i volumi vi faranno ricordare di essere vivi. Bel lavoro ragazzi, complimenti. (Michele Montanari)

(Self)
Voto: 85
 

Heretoir - Existenz

#PER CHI AMA: Black Shoegaze
A dimostrazione che lo shoegaze non è un movimento esclusivamente francese e che il depressive non è tipico dei paesi scandinavi, arrivano i tedeschi Heretoir che prendono due piccioni con una fava, proponendo un sound a metà strada tra i due generi sopra elencati. “Existenz” è l’album di debutto dei teutonici, che hanno poi visto rilasciare un album omonimo in coda a questo. Le cinque lunghe tracce di “Existenz” si aprono con la strumentale “Erwachen im Dunkel”, sei minuti abbondanti di riffs glaciali intrisi da un feeling malinconico di scuola “burzumiana”, che creano decisamente le basi per potersi lasciar investire da questo freddo vento proveniente da nord. “Ein Schrey in Die Nacht” apre invece come un pezzo punk con delle terrificanti screaming vocals ad accompagnare l’iper veloce ritmica, che trova, fortunatamente, un po’ di pace in qualche break centrale, in cui è solo un glaciale riff di chitarra a dominare, prima che tiepide tastiere di matrice shoegaze facciano la propria comparsa a stemperare tutta l’irruenza di quest’opera prima. Peccato solo per la vetriolica voce, che fatico enormemente a tollerare, perché priva di espressione. Un breve intermezzo acustico, “Verblasst”, mi prepara psicologicamente all’avvento di “Ausgeburt”, che vede in primo piano l’utilizzo dei piatti, prima che vocals spettrali aleggino sulla deprimente base chitarristica, che non può che spingere a disperati e inconsulti gesti che pongano fine alla nostra sconclusionata esistenza. Non è decisamente musica per grandi masse quella degli Heretoir, il rischio di farsi del male con pensieri autolesionisti, è estremamente elevato, soprattutto dopo aver ascoltato anche la conclusiva e quanto mai desolante traccia conclusiva, “Weltenwandler”, che nei suoi quasi dodici minuti, ci regala anche quattro minuti di silenzio, forse per contemplare il nulla o per decidere che fare di noi e della nostra vita, dopo aver ascoltato questa release. Fortunatamente le soavi note di pianoforte della ghost track mi restituiscono un briciolo di serenità e ottimismo per il futuro, poca roba però, perché il secondo lavoro degli Heretoir mi sta già aspettando… (Francesco Scarci)

(Pest Productions)
Voto: 65
 

Mish - The Entrance

#PER CHI AMA: Alternative, Math, Post Rock, Tool
Di questa band non so assolutamente nulla, se non che proviene dall’Australia; pertanto la recensione si fa sfidante fin da subito, in quanto con nessuna informazione tra le mani, non posso far altro che trasmettervi in poche righe, quelle emozioni o descrivervi semplicemente quei suoni, che fuoriescono da questo “The Entrance”. Attacco arrembante con “Precocial”, che sembra un pezzo di math-core, con una ritmica serrata e affilata, che evolve lentamente in suoni più oscuri con delle vocals pulite in sottofondo. Al di là del sound massiccio, quasi in stile Meshuggah, è senza dubbio la tecnica chirurgica dei nostri a ben impressionare. Song dirette, orecchiabili e forse “Janitor” ne è l’esempio più azzeccato, con i nostri, dopo aver preso appunti a scuola dei Tool, ne ripropongono la loro personale versione, ed il risultato, ve l’assicuro, non è affatto male. A differenza dei maestri però, le canzoni qui sono sicuramente meno lunghe, non mostrano la complessità dei brani che si riscontra nelle release dei gods statunitensi, tuttavia sembrano seguire uno schema ben preciso, che si consolida a poco a poco dapprima nel cervello, per scendere poi più giù, fino ad imprimersi nell’anima. E cosi ecco scorrere splendide immagini, accompagnate da un’ottima musica che si muove all’interno dei confini di quello che possiamo semplicemente definire come musica alternative, per un risultato davvero sorprendente ed intrigante. Forse la voce di Rowland Hines non è ancora al meglio nella sua veste più squillante, tuttavia quanto confezionato dal nostro quartetto australiano, è sicuramente di pregevolissima fattura, anche con pezzi del tutto strumentali (“Resilience”), dove i nostri sembrano trovarsi maggiormente a proprio agio. Con “Fire Inside”, esploriamo la parte più intimistica dei Mish e mi rendo conto che forse dovrò aumentare di un altro mezzo punto la votazione degli aussie boys, in quanto ora è un certo post rock a penetrare nel tessuto musicale dei nostri e a rendere il risultato finale decisamente più introspettivo e ricco di significati. Ma “The Entrance” non cessa certo qui di stupire con le sue raffinate linee melodiche, l’originalità della proposta e la perizia tecnica dei propri strumentisti: “Altricial” sembra quasi un pezzo dei Primus, complice la presenza di un basso in prima linea; “Cosmo” è un lungo pezzo che abbina il post rock a suoni math-crossover-funky, per un risultato finale assai originale. Chiudono “Telepathic”, song tecnica e forse troppo ridondante nel suo giro di chitarra e la title track, una specie di outro del disco con una ritmica in stile Metallica e la presenza in sottofondo dei didjeridoo, lo strumento tipico degli aborigeni australiani, a decretare che i Mish sono un’altra eccitante realtà proveniente dal “nuovo continente”. Ottimi! (Francesco Scarci)

(The Birds’ Robe Records)
Voto: 85

Grisâtre - Esthaetique

#PER CHI AMA: Suicidal Black Metal, Burzum
Questa torrida estate vede fare la comparsa tra le mie etichette “amiche” anche la nostrana Dusktone, che mi propone gli ultimi suoi tre lavori. E allora iniziamo con l’analizzare quello che mi ha incuriosito di più, per stile e per nome, ossia il secondo album dei francesi Grisâtre, band capitanata da Rokkr e responsabile in questo “Esthaetique”, di suoni oppressivi, nichilisti, e di quel genere che viene etichettato come depressive suicidal black metal, che va tanto per la maggiore nell’ultimo periodo. Ebbene, dopo la breve intro, ecco gettare la mia residua felicità nel cesso, lanciarmi all’ascolto autodistruttivo di “L’Abstrait”, dove mi lascio fagocitare dalle maledette tristi melodie di Rokkr, che vedono lunghi tratti di epiche cavalcate annebbiarmi dapprima i sensi, stordirmi con visioni oniriche in bianco e nero, immagini che non hanno nulla di positivo da regalare, ma che sembrano essere solo un presagio di morte. Anche l’aria che respiro durante l’ascolto è pesante, quasi putrida, pronta a scandire l’ora del mio decesso. L’intorpidimento delle braccia e delle mie gambe, mi fa temere il peggio, ma è chiaro che ho solo perso il contatto con la realtà, cosi tanto assorbito dall’ascolto di questo lugubre lavoro, che vede tipicamente offrire una produzione scarna e sporca. L’eco del sound nord europeo si ritrova nella proposta del nostro Rokkr, l’ambient di scuola burzumiana aleggia come un’inquietante spettro nella musica dei Grisâtre, cosi come pure le chitarre zanzarose, che si lanciano in rari turpiloqui di ferale brutalità, rompono la monotonia del loro incedere. Il black doom della band transalpina viene poi squarciato dallo screaming selvaggio e sgraziato di Rokkr, ma si sa, queste sono le dinamiche di un genere sempre più in ascesa e di cui sentiremo sempre più spesso parlare. Se non volete rovinare la positività della vostra estate con la disperazione emanata dalle atmosfere dei Grisâtre, posticipate l’ascolto di “Esthaetique” in autunno; ma se anche voi, non avete paura ad affrontare le paure più recondite che si celano dentro alla vostra anima dannata, allora date una chance a questo lavoro. Funereo. (Francesco Scarci)

Ephel Duath - On Death and Cosmos

#PER CHI AMA: Avantgarde, Progressive
Qualche anno fa mi ero spaventato alla notizia che gli Ephel Duath potessero essersi sciolti, io che li avevo seguiti sin dal loro demotape di debutto, quando il loro sound era molto più vicino al black sinfonico dei norvegesi Limbonic Art. Da allora, di acqua sotto i ponti ne è passata parecchia e Davide Tiso ha nel frattempo raggiunto livelli di notorietà nell’underground davvero elevati (complice la sua nuova residenza californiana probabilmente), tale da poter reclutare tra le fila del proprio avanguardistico progetto, dei veri e propri mostri del virtuosismo metallico: partiamo dal menzionare il fenomenale Marco Minneman alla batteria, passiamo poi al funambolico Steve di Giorgio al basso, ed infine citiamo Karyn Crisis alle vetrioliche vocals, senza tralasciare comunque le doti notevoli di Davide alla chitarra. Ed ecco un assaggio di quello che sarà il full lenght della band di origini italiche, ma ormai di residenza statunitense: tre song che riprendono il discorso laddove era stato interrotto, in modo quanto mai indiscusso, in “Through My Dog’s Eyes”. I suoni sperimentali continuano ad essere l’elemento cardine degli Ephel Duath, che con impetuosi sali e scendi, ci fanno sentire sul più ripido e ubriacante rollercoaster americano, tale che, quando la giostra si ferma, persiste nelle mie budella, una specie di senso di nausea. Non è certo la velocità, ormai relegata in secondo piano, a scuotere cosi tanto i miei sensi, ma una proposta che sembra aver aumentato il livello di difficoltà esecutivo, visto incrementare la componente avantgarde e ha visto comparire nella sua matrice tissutale, anche una sottile patina post rock che si manifesta evidente nel malinconico feeling che permea la terza traccia, vera perla di questo interessantissimo antipasto. Insomma, saranno anche cambiati gli attori, ma il risultato in casa Tiso, non è mutato affatto, se non accrescerne ulteriormente il livello tecnico e il pathos emotivo. Ora l’attesa del full lenght si fa più vibrante nella mia anima, per capire in che modo il buon Davide e i suoi funambolici compagni, potranno scuotere il panorama mondiale, con la loro incredibile proposta musicale. (Francesco Scarci)

(Agonia Records)
Voto: 75
 

mercoledì 29 agosto 2012

Necrovation - Necrovation

#PER CHI AMA: Death, Mithras, Morbid Angel
Quanta nostalgia stavo patendo nell’ultimo periodo, mi mancava la recensione di un qualche killer album, uno di quelli che dal primo all’ultimo secondo, non ti dà tregua, non ti consente di rifiatare un solo secondo, ti strazia i timpani con un riffing efferato, diretto e serrato. Ed eccomi accontentato, almeno in parte. Direttamente dalla Svezia, patria che ha dato i natali a Grave, Dismember ed Entombed, giusto per fare tre nomi a caso, ecco arrivare i Necrovation, il cui nome è certamente un programma. E signori, che album… Ebbene, non una pausa, non un attimo di quiete, ma solo l’incedere furibondo di chitarre, mai troppo pesanti a dire il vero, che, come un sasso rotolante nella sabbia, danzano al ritmo di mefistofeliche melodie. I primi nomi che mi vengono alla mente sono quelli degli inglesi Mithras e Ackercocke, ma per il pestilenziale feeling emanato, sicuramente i Morbid Angel, quelli di “Blessed are the Sick” e “Altars of Madness”, andrebbero citati al primo posto. Le song si susseguono veloci, una dopo l’altra, con delle durate che si assestano sui cinque minuti, in cui la band scandinava mette in mostra i muscoli, grazie ad una tecnica ineccepibile, ad un buon gusto per le melodie di vecchia scuola (anche gli Slayer andrebbero annoverati tra le influenze di questo lavoro omonimo) e per le cupe ed infernali ambientazioni che odorano di zolfo (“Pulse of Towering Madness” ne è un esempio), sfociando in taluni isolati casi, addirittura in territori doom. La cosa sconvolgente che rimane alla fine, è la disinvoltura con la quale i Necrovation si muovono all’interno di tutti questi ambiti, death, thrash o doom che siano, bravi, non c’è che dire. Ultima menzione a “The Transition”, sinistra traccia strumentale che vede il largo utilizzo anche di chitarre arpeggiate, una danza venduta al diavolo, in cambio delle anime dei dannati. Diabolici! (Francesco Scarci)

(Agonia Records)
Voto: 75

lunedì 27 agosto 2012

The Ocean - The Grand Inquisitor

#PER CHI AMA: Post Metal
I The Ocean non li scopriamo certo oggi, non starà certo a me infatti dirvi chi sono o cosa hanno fatto, mi limiterò semplicemente a dire che cos’è questo “Grande Inquisitore”, ovvero un EP di quattro tracce uscito esclusivamente in vinile, in 302 copie (andate esaurite in pre-order), in ristampa ed in uscita ad ottobre (in 250 limitatissime copie), ancora una volta con due differenti artwork. Le prime tre tracce qui contenute, figuravano già in “Anthropocentric”, mentre “Exclusion From Redemption”, unreleased track (anche se appare in una qualche edizione limitata), va a completare il concept tematico dei primi tre capitoli che si riferiscono ai “Fratelli Karamazov” di Fëdor Dostoevskij. Quindi una vera e propria mossa commerciale della Pelagic Records, che per cavalcare l’onda del successo della band berlinese, rilascia questo EP, che sinceramente mi sento di consigliare esclusivamente ai collezionisti o a quei fan che dei The Ocean vogliono avere tutto, ma proprio tutto. La musica del “Collettivo” la conoscete fin troppo bene, non c’è nulla di nuovo qui dentro per cui valga realmente la pena spendere qualche parola. Il lavoro rimarrà senza voto, un bel 4 invece alla label tedesca, assai vogliosa di spillarci i residui quattrini. (Francesco Scarci)

(Pelagic Records)
Voto: S.V.

http://www.theoceancollective.com

sabato 25 agosto 2012

Vampillia - Rule the World/Deathtiny Land

#PER CHI AMA: Metal a 360°
Quando ci si imbatte in opere di questo calibro, bisogna togliersi il cappello e inchinarsi, non ci sono parole per spiegare tanta genialità in un unico cd dalla durata di 25 minuti con 24 brani tra cui il più lungo dura 3 minuti e 11 secondi!!! I Vampillia vengono da Osaka e sono stravaganti come tante band che vengono da quelle parti (vedi Dir En Grey o Malice Mizer). Sono un collettivo di 11 elementi tra cui tre cantanti, violino, piano , un dj, un combo metal etc... Loro si definiscono una “Brutal Orchestra” e vi spiegherò il perché brano per brano. L'album è come un concept e si divide in due tracce che danno il titolo al cd, anche se in realtà le tracce sono 24 all'interno del dischetto e tutte insieme ci raccontano di un uomo che ha l'ambizioso sogno di dominare il mondo per mettere in pratiche le sue folli e poco convenzionali intenzioni. Si apre il sipario e troviamo subito due suite per violino e piano che ci devastano di tristezza; anche la terza traccia si apre sulle note di archi, violino e pianoforte ma come per incanto in sottofondo un caos calibrato crea il panico con una doppia cassa velocissima e una chitarra super thrash che si colloca su vocalizzi lirici di voce femminile e growl violenti e folli ci percuotono per la bellezza in neanche due minuti. La quarta traccia calca ancora la mano e sulle note disperate di un violino vagamente gitano ecco porsi un pianoforte da film muto anni '30, ancora lirica e growl animaleschi e un tiro in sottofondo che ricorda i Die Apokalyptischen Reiter in salsa noir. La quinta traccia è più lunga della prima e dura 1 minuto e 57 secondi e qui tutto come nella prima traccia, solo che le partiture si complicano e si sposano con una scrittura da musica classica, maestosa e potente con finale corale che ricorda vagamente le arie epiche di Verdi. Il sesto brano ha il ritmo di una polka e unisce la follia dei Boredoms con il sound di Uz Jsme Doma (storica band di rock in opposition dalla repubblica ceca), il tutto in soli 15 secondi. In 16 secondi riescono a fondere follia canora da camera con il miglior brutal intellettuale. Nel minuto e quindici successivo evocano la tristezza dei My Dying Bride, magistralmente cantata con voce spudoratamente clonata al miglior Tom Waits e poi cori lirici, e voci sghembe e via di pesante metal sinfonico e claustrofobico per un finale epico. La prima metà della traccia nove potrebbe essere un esperimento degli ultimi Death in June e poi tanto violino così si entra nella track10 che mescola gli strani ritmi post rock dei June of '44 con gli Alboth più taglienti e sperimentali con innesti di lirica, voce sussurrata alla Marylin Manson, growl e screaming devastanti. La track 11 cambia i toni, mostrando una piega doom subito tradita dalla track 12 che tramuta i Vampillia in una costola dei mitici Naked City del grande John Zorn in soli 20 secondi. La tredicesima traccia dura 4 secondi! E chiude la precedente! Traccia 14 e 15: un piano ricco di pathos per un totale di 1 minuto e 85 secondi. La track 16 mostra ancora il fantasma gotico dei My Dying Bride e ci introduce al brano più lungo della compilation, ovvero 3:08 di tristissima, estrema sperimentazione in chiave metal che riprende il tema d'inizio album. Con la track 18 si entra in un'atmosfera surreale, tagliata da un'assurda virata in stile ska ala Specials, per concludere in pompa magna teatrale. Inizio metallico per il diciannovesimo pezzo ma in stile decadente, devastante e cabarettistico in puro stile Vampillia. Una maratona. Siamo al ventesimo brano che in 22 secondi ci frusta il cervello con un metal psicotico da sballo. Il 21 continua la follia mentre il ventiduesimo sembra una cover di qualche colonna sonora di quei film russi di una volta... Penultimo e ultimo brano, qui la follia imperversa a dirotto; siamo a metà strada tra certa new wave di fine anni '70 e le deviazioni canore della migliore Nina Haghen. Non posso aggiungere altro: so che i Vampillia non hanno un contratto e solo questo lavoro è uscito per la Code666 e che nel frattempo hanno registrato un nuovo split/cd con i Nadja. Ci sono tantissimi gruppi al mondo ma quando si trova un lavoro così ci si ferma a pensare se non valga la pena almeno per una volta essere veramente pazzi!!! Un album da 110 e lode!!! (Bob Stoner)

(Code 666)
Voto: 110

http://www.vampillia.com/

Kausalgia - Farewell

#PER CHI AMA: Death/Black con venature Dark, Thy Serpent, Black Sun Aeon
La cura per il caldo torrido di quest’estate? Trasferirsi in Finlandia ovviamente, oppure trasferire la Finlandia a casa nostra ed ecco che i cinque membri dei Kausalgia potrebbero fare giusto al caso nostro. Da Uusimaa ecco giungere tra le mie mani l’EP di debutto dell’atmosferico quintetto finnico, che ha da offrire quattro brillanti tracce di black death, spruzzato da venature darkeggianti. Si parte con “Reincarnated”, song che immediatamente richiama i conterranei Thy Serpent, quelli più melodici, occulti, oscuri e lenti, che possono etichettarsi come black, esclusivamente per le harsh vocals del suo frontman, Markus Heinonen, in quanto poi la musica dei nostri viaggia su binari alquanto tranquilli. “The Drug” però, ci desta dal torpore in cui eravamo sprofondati con la opening track, sprigionando tutta la sua energia attraverso una ritmica tirata, in cui in sottofondo si evidenziano intriganti (ma poco invadenti) tastiere, che indicano la strada da seguire alle chitarre, spesso assai ispirate, come a metà brano, dove si concedono il lusso di un’apertura acustica, seguita da un piacevole bridge. L’alone mistico e la vena malinconica che permea i testi dei nostri lapponi, si riscontra anche nelle gelide atmosfere di “Lupaus” per un esito finale a dir poco coinvolgente e pieno di spunti vincenti, per una band che, nata dalla ceneri degli Hypotermia, dimostra di avere talento e voglia di incantare gli amanti di sonorità invernali. Eccolo il fresco che arriva da nord, a ritemprare questa infernale estate; sta tutto nelle note di “Farewell”, un lavoro che gioca attorno a goduriosi mid-tempo che potranno indurre diversi paragoni, con i connazionali Black Sun Aeon o i Before the Dawn, ma che in realtà vanno a collocare i Kausalgia accanto alle suddette band, anzi a dischiuderne la strada verso una potenziale brillante carriera. Ah dimenticavo, la conclusiva title track racchiude nei suoi 12 minuti anche una splendida ghost track in cui il roboante suono del basso (accompagnato da vivaci tastiere e chitarre) sembra addirittura arrivare direttamente dall’immortale “Heaven and Hell” dei Black Sabbath. Meritevoli della vostra attenzione. (Francesco Scarci)