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domenica 18 marzo 2012

Mors Syphilitica - Feather and Fate

#PER CHI AMA: Gothic, Darkwave
Andiamo parecchio indietro nel tempo, 2001 e al terzo lavoro per gli americani Mors Syphilitica, terzo progetto di Lisa ed Eric Hammer, già conosciuti come Requiem in White e The Order of N.C.S. Dopo l’omonimo cd d'esordio ed il successivo “Primrose”, i coniugi Hammer ci propongono questo “Feather and Fate” che, in linea generale, non aggiunge nulla di nuovo a quanto già fatto in precedenza, ma che si presenta come un album carico di tutta la bellezza malinconica tipica dei Mors Syphilitica ed ha forse un tocco ancor più delicato e seducente. La materia sonora sulla quale Lisa poggia con grazia la sua finissima voce è un insieme di emozioni che a tratti sorreggono le parti vocali e a tratti reclamano, invece, uno spazio di primo piano, fondendosi con la voce e creando un tutt’uno morbido e armonioso. Durante l’ascolto di “Feather and Fate” arrivo quasi a percepire visivamente la musica ed essa appare ai miei occhi come una materia malleabile in continuo movimento… ma credo che la musica dei Mors Syphilitica in fondo sia proprio questo, cioè un insieme di note in costante mutamento che si muovono sinuosamente negli angoli più bui dell’anima dando vita a sensazioni intense, a volte così fragili da sembrare oniriche. In un album di questo tipo, nel quale le canzoni formano quasi un tutt'uno inscindibile tanto sono ben amalgamate fra loro, è difficile sostenere che ve ne sia qualcuna che emerge sulle altre, ma non posso mancare di affermare che “How Long?” e “Only a Whirlwind” mi hanno colpito, turbandomi profondamente, forse per la maggiore carica emotiva che esse sprigionano. In realtà tutte le canzoni sono intrise della bellezza sensuale e del fascino triste che Lisa ed Eric riescono a conferire loro ed è questo ciò che rende i loro lavori unici. (Laura Dentico)

(Projekt)
Voto: 80
 

Lex Decimate - Seas of Endless

#PER CHI AMA: Darkwave, Elettronica, Ambient, Gothic
Lex Decimate. Ovvero "distruzione della legge". Secondo quanto riportano le note di copertina, il significato che Lee Duis attribuisce al monicker del suo progetto è collegato al rifiuto delle imposizioni sociali e al tentativo di liberarsi da ogni dogma che possa minare la nostra identità. Attraverso la sua musica, Lex Decimate vuole condurci in una dimensione lontana da tali restrizioni, un posto in cui nessuno soffochi la nostra esistenza stabilendo quali persone noi dovremmo essere o quali dovremmo amare. Se questo è l'intento dell'artista americano, diversa è invece la natura del concept affrontato in “Seas of Endless”, un album incentrato sulla descrizione di un mondo distrutto in cui solo una parte esigua del genere umano è sopravvissuta. I "Mari dell'Infinito" non sono altro che le emozioni dei superstiti, la loro rabbia, le lacrime del ricordo unite ai sogni di un nuovo mondo che, timidamente, tenta la strada della ricostruzione. Riguardo l'aspetto prettamente musicale, “Seas of Endless” si articola in undici brani caratterizzati da una discreta varietà stilistica, anche se l'ambito in cui si muove Lex Decimate rimane indubbiamente connesso alla musica elettronica e alle sue varianti più "ambientali". Attraverso le algide tessiture dei sintetizzatori e del piano, l'uso di beat felpati, l'alternanza tra una base ritmica morbida e la battuta controtempo negli episodi meno pacati dell'album, Lee Duis è riuscito a creare veri e propri soundscape sonori, dei paesaggi di assoluta desolazione che ben si sposano al concept lirico dei testi. A questo si unisce un'impostazione vocale a volte greve, a volte melodica, altre volte sussurrata e criptica. In ogni caso, una prova canora sempre perfettamente intonata con l'umore oscuro e drammatico che permea ogni singolo brano. Non tutta l'opera vive di momenti entusiasmanti, ma “Seas of Endless”, “One Breath Gone” e “Find Myself”, sono ottimi esempi di come si possa suonare elettronica in modo intelligente e professionale, senza l'appoggio di una grossa etichetta, senza riciclare i facili cliché che le mode del momento impongono e, soprattutto, affidandosi agli unici ingredienti necessari alla buona riuscita di un prodotto: talento, passione e buon gusto. (Roberto Alba)

(Silencer Records)
Voto: 75

http://www.lexdecimate.com/

Umbra Noctis - Il Primo Volo

#PER CHI AMA: Black/Death Old School, Epic, Mahyem, Ancient
Cresce si, continua a crescere costantemente ed inesorabilmente, bisogna solo avere un pizzico di fiducia per una scena che, nonostante stia incontrando difficoltà di ogni tipo, ha la forza e la voglia di farsi largo. Sto ovviamente parlando dell’underground italico, luogo fecondo dove pian piano, stanno cercando di ritagliarsi il loro spazio entità oscure, provenienti dal sempre più florido sottobosco nazionale e quest’oggi, vede finalmente la luce, il primo full lenght (dopo tre demo, un EP e uno split) dei bresciani/mantovani Umbra Noctis, che prendono finalmente il tanto agognato volo. Ovviamente il titolo dell’album del quartetto lombardo si presta facilmente a simili battute; ora li attendo in studio nel Pozzo dei Dannati, per saggiare e discutere di persona del loro black old school. La musica dell’act nostrano è infatti un apparentemente tirato esempio di black metal efferato e senza compromessi, che fin dall’iniziale “In Superficie” (aperto tuttavia da una melodica parte arpeggiata), mostra il lato selvaggio dell’ensemble lombardo, contraddistinto dalle classiche chitarre ringhianti di matrice nordica, accompagnate da uno screaming a dir poco spietato. Il sound tagliente espresso dagli Umbra Noctis, si trasmette anche nella successiva “Solo”, ma è la terza song, “Oltre la Steppa”, a colpirmi maggiormente: il brano si apre (e chiuderà) infatti, con una sorta di rito liturgico, che lascia ben presto spazio ad un suono dalla vena punkeggiante, in stile Impaled Nazarene, che nella sua interessante evoluzione, trova anche il modo di assumere un connotato epico, a la Primordial; sorprendente ed eletta nello stesso momento del primo ascolto, la mia traccia preferita del cd. L’album procede violentemente su questo binario di crudeltà, non proponendo nulla di innovativo, sia chiaro, se non alcuni accenti a livello degli strumenti: un enfasi del basso nella parte finale della spietata “L’Attesa”, una criptica parte acustica posta all’inizio di “Rovine”, che vede tra l’altro l’utilizzo di un accenno di clean vocals, nella sua parte centrale. La rabbia, l’odio e l’aggressività della band si traducono in un riffing caustico, che trova inevitabilmente la sua fonte di ispirazione nei mostri sacri nordici, norvegesi, svedesi o finlandesi che siano. È la Scandinavia in toto quindi, a suggerire alla giovane band del bel paese, come muoversi in un territorio particolarmente minato e già ampiamente esplorato: il black metal canonico norvegese, quello di Mayhem o Ancient, si mischia alla velocità di quello svedese, prima di venire contaminato dall’epicità dei Bathory e dai suoni “grezzi” dei già citati pazzi finlandesi Impaled Nazarene. Qual è il surplus dato dai nostri alla loro proposta? Beh, in primis, il cantato in lingua madre, esperimento vincente già fatto recentemente anche dai Frangar e dai Veratrum (recensiti su queste stesse pagine); segue poi un accenno alle liriche, di stampo fantasy e la capacità di miscelare un malvagio black metal ad un corrosivo death. Per il resto c’è ovviamente ancora molto da lavorare, per poter ricercare una propria definita personalità, magari puntando su un più articolato songwriting e su una più intensa dimensione epico/rituale, che conferirebbe alla musica degli Umbra Noctis, una maggior freschezza ed interesse. Per il momento va bene cosi, ma i margini di miglioramento potrebbero essere ancora assai notevoli! (Francesco Scarci)

(Novecento Produzioni)
Voto: 75

Netra - Mélancolie Urbaine

#PER CHI AMA: Black, Ambient, Trip Hop, Sleepless
Sapete quanto io ami la sperimentazione, potrete pertanto capire il mio entusiasmo di fronte a questa affascinante produzione in casa Hypnotic Dirge Records. Ebbene, i Netra sono una one man band proveniente dalla Bretagna, capitanata da Mr. Netra, il factotum della situazione. La proposta musicale? Beh, sicuramente se non ci fossero state delle urla disumane a popolare tutti i sognanti pezzi inclusi in quest’album, avrei pensato che tra le mani, mi fosse erroneamente giunto un lavoro dei Portishead o dei Massive Attack. Si, avete letto bene, il letto su cui poggia la musica del losco act transalpino è infatti del puro trip hop. Che delizia per il mio esigente palato, che ora non riesce già più a farne a meno e soprattutto auspica che qualcosa possa presto bollire in pentola, dal momento che la storia contenuta in “Mélancolie Urbaine”, risale addirittura all’estate 2006, pur essendo stata rilasciata soltanto nel 2010. Sette splendidi e ispiratissimi pezzi, che ispirandosi alla oniricità del genere di Bristol (la città inglese che diede i natali ai Massive Attack), si disciolgono in liquidi passaggi che affondano le proprie radici in passaggi dub, psichedelia e post rock. Il sound dei Netra è lento e oppressivo sin dall’iniziale “City Lights” nella cui raffinatezza, sento riecheggiare inevitabilmente anche gli Ulver del monumentale “Perdition City”, anche se poi lo screaming (assai raro a dire il vero) del vocalist, ci riporta ad un più autolesionista suicidal black (unico residuo rimasto, nel sound introspettivo dell’act francese, del genere estremo suddetto). La musica di “Mélancolie Urbaine” è decisamente oscura, fatta di atmosfere retrò, passaggi eterei, divagazioni elettroniche e frangenti avanguardistici. L’eco dei Massive Attack, anche nel cantato ritorna tangibile in “Terrain Vague”, mentre la malinconia che traspira l’intero lavoro mi ha ricordato per certi versi la proposta di due band sciolte, gli svizzeri Sadness e gli Israeliani Sleepless, anche se il sound era decisamente più metallico. L’elegante ricerca musicale realizzata, le influenze jazz-blues, il calore che pervade l’intera composizione, la struggente emotività che impregna tutti i 42 minuti di quest’intrigante opera, l’alone shoegaze che aleggia intorno a tutte le song ivi contenute, ci consegnano un lavoro pregno di contenuti non solo musicali. Bella scoperta ho fatto oggi; con i Netra ho capito che c’è ancora speranza che il metal non venga risucchiato dal lento processo di involuzione a cui sta andando incontro da tempo. Rilassanti! (Francesco Scarci)

(Hypnotic Dirge Records)
Voto: 85

http://www.facebook.com/pages/netra/115486751822328

venerdì 16 marzo 2012

Rising Dark - Apocalyptic

#PER CHI AMA: Thrash Bay Area, Exodus
A me, questi quattro ravennati, piacciono. La band si forma del 2007, si da moltissimo da fare dal vivo e, nel 2011, dopo aver firmato per la SG Records, Michael Crimson (Voce e chitarra ritmica), Stanley Bleese (Chitarra solista), Freddy Blade (Basso e voce), Balzael (Batteria), danno alle stampe questo loro primo full lenght. L’influenza della Bay Arena si fa sentire, così come quella di gruppi come Exodus, tuttavia niente di preoccupante alle mie orecchie. Non si tratta di un lavoro puramente thrash; molti piacevoli innesti death spingono verso una direzione più violenta e arcigna, da me molto apprezzata. Difficile mantenere le dosi giuste con una tale scelta compositiva, infatti le tracce non sono sempre omogenee stilisticamente e in un album del genere rischia di sembrare un difetto. Niente di grave, ci mancherebbe, sono giovani e, d’altra parte, non si può non percepire il loro carattere e la loro passione infusi in questo primo LP. Sette canzoni complesse, con molte idee, varie e poco noiose. Un disco molto ben prodotto. Volete provare? Inserite il cd e premete “play”: si inizia con “Apocalyptic” un classico, ma sufficientemente funzionale, intro strumentale. Poi l’arrembante, tirata “Armageddon” ci fa capire con chi abbiamo a che fare, e ci toglie un po‘ di pensieri negativi (del tipo: ma non saranno flosci?). Quindi una song un po’ più calma, “This is War”. Si passa a “The Bofoid”, forse la traccia meno riuscita, potabile per carità, ma non a livello delle altre. Ecco, qui si nota in maniera decisa quella discontinuità stilistica di cui sopra. Più oscura, ma comunque travolgente “Yog Sothoth”. “Your Blood is on My Hands”, con una notevole introduzione di chitarra, è invece probabilmente la migliore: complessa, impetuosa, eseguita assai bene. La conclusiva “Phoenix” è un lentone che potrebbe non piacere a tutti. Personalmente non la trovo male; le tastiere e il piano aumentano l’effetto di una melodia particolarmente eterea, il che ne fa scaturire un certo contrasto con le tracce precedenti che mi intriga, non poco. Certo, proprio questo stacco potrebbe farla sembrare fuori luogo ad alcuni (de gustibus...), tuttavia questo pezzo mette in luce la capacità dei nostri di sapersi destreggiare con qualcosa anche di diverso dal thrash. Secondo me questi ragazzi ci sanno fare: solidi tecnicamente hanno nelle chitarre e nella parte ritmica il loro punto di forza; forse ancora un po’ acerbo il vocalist in alcune situazioni, si riconosce però una sua certa versatilità (ad esempio nella ballad “Phoenix”). Un buon album d’esordio, con buone promesse che possono essere mantenute se non con un lavoro di miglioramento compositivo e ovviamente con la ricerca di uno stile più peculiare. (Alberto Merlotti)

(SG Records)
Voto: 75
 

Toundra - II

#PER CHI AMA: Post Rock Strumentale, God is an Astronaut, Mogway
I Toundra sono un quartetto post rock strumentale spagnolo, di Madrid per l’esattezza. L'avreste mai detto dal nome? Personalmente no, ma forse sto divagando e/o impazzendo, quindi andiamo per ordine. Il loro primo cd (“I”) è stato pubblicato nel 2008 su CD/vinile e la stessa sorte è toccata a questo “II”, uscito nel 2011. Sette sono i pezzi inclusi nel dischetto con l'artwork che risulta ben curato, anche se minimalista nel suo insieme. Il quartetto è caratterizzato da sonorità post-rock, decisamente ben bilanciate con suoni più classic-rock, percussioni ed archi che conferiscono un’eleganza non comune alle composizioni dei nostri amigos iberici. Vero che il binomio chitarra distorta-violino esiste da anni, ma dosarlo al punto giusto non è cosa semplice, si rischia di strafare oppure di creare degli sterili arrangiamenti, qui siamo nel giusto mezzo. Parlando a livello generale, la struttura dei pezzi è simile a quella dei God is an Astronaut e affini; effettivamente il genere non lascia grandi spazi alla creatività se si vuole mantenere lo standard inalterato. Quasi tutti i pezzi hanno una sezione più calma e mai cupa che poi raggiunge un apice, caratterizzato da maggior vigore strumentale. Queste sfumature permettono ai Toundra di avere una sorta di marchio di fabbrica, anche se ritengo che ci voglia ben altro per emergere dal marasma di band che popolano ora come ora il panorama post rock strumentale. Personalmente in una ipotetica compilation di gruppi dediti a questo genere, farei molta fatica a indovinarne una buona parte, data la scarsa capacità ad emergere con una proposta originale. Tuttavia, visto comunque l'apprezzamento da parte del pubblico e gli ottimi risultati che il quartetto sta portando a casa, non voglio certo fare la predica ai bravi Toundra, che però dovrebbero dimostrare una maggior maturità nel prossimo lavoro. Dite che si intitolerà "III"? (Michele Montanari)

(Aloud Music)
Voto: 70

domenica 11 marzo 2012

Smaxone - Regression

#PER CHI AMA: Suoni Sperimentali, Faith No More, Devin Townsend
Ecco un disco fresco che sconvolse la mia estate del 2005... Fu un bel colpo in casa Scarlet, l’aver messo sotto contratto questa band, side project di Michael Bøgballe (vocals) e Brian "Brylle" Rasmussen (batteria) dei Mnemic e Casper Skafte (chitarra) e Claus Lillelund (vocals) degli Elopa. Gli Smaxone si sono formati sul finire del 2003, grazie agli artisti sopraccitati, anche se tutte le tracks sono state scritte e arrangiate da Skafte, mentre gli altri musicisti si sono avvicinati alla musica degli Smaxone a livelli successivi. Beh, immagino che sarete curiosi, del perchè la proposta del combo danese mi fece tanto scalpitare? Allora fate una cosa, chiudetevi nella vostra stanza, spegnete le luci e ascoltate assolutamente il disco nelle cuffie per poter meglio apprezzare i minimi particolari di “Regression”. Questo è un album capace di miscelare la genialità dei Faith No More, con la follia di Devin Townsend e la rabbia cibernetica dei Fear Factory. Oltre ad avere una produzione esagerata ad incrementare l’impatto sonoro, quest’album ci mostra le doti eccezionali come clean vocalist di Claus, abile ad amalgamarsi con il cantato più ruvido di Michael, il tutto contribuisce a creare un’estrema varietà nel sound della band. Ma poi è la musica dei nostri a regalarci momenti emozionanti; non posso citarvi un brano in particolare perchè in complesso l’intero lavoro mi ha esaltato per la freschezza di idee apportate e per l’estrema semplicità con la quale riesce ad incollare l’ascoltatore alla poltrona. Rispetto ai gruppi visti sopra, gli Smaxone hanno sicuramente un approccio più soft-commerciale, ma per una volta lasciamo stare queste piccolezze perchè, quando un album vi garantisco che è valido lo è anche se a cantare ci fosse Ricky Martin (ok, ora ho un po’ esagerato). Quello che voglio dire è che se amate Devin Townsend, i Fear Factory, i FNM o il metal in generale in tutte le sue sfaccettature, dovete andare a pescare questo gioiello: riff metal, strabilianti atmosfere, samples elettronici, bellissime vocals rendono “Regression” uno dei lavori più interessanti degli ultimi anni!! (Francesco Scarci)

(Scarlet Records)
Voto: 90
 

Saltatio Mortis - Des Konigs Henker

#PER CHI AMA: Folk, Gothic, In Extremo
I Saltatio Mortis sono conosciuti per suonare musica “gothic medievaleggiante” con strumenti storici: cornamusa, flauti e corni fanno infatti, parte integrante dell’organico strumentale della band, andandosi a miscelare egregiamente con la componente elettrica. L’attitudine del gruppo tedesco è assai vicino a quello di band conterranee quali In Extremo e Subway To Sally e come accade per queste band, il cantato in tedesco paga un fortissimo dazio all’esito finale dell’album, a chi, come me, fatica a digerire la lingua germanica. La musica del combo tedesco non è affatto male, con quelle sue ritmiche heavy metal, su cui s’inseriscono interessanti parti elettroniche e i già citati strumenti popolari, di cui però alla fine se ne fa largo uso. Tra i lati negativi, c’è da rilevare una certa ripetitività nella struttura dei brani: strofa, coro, strofa, coro e bridge con l’inserto persistente e alla fine stancante della cornamusa, il tutto condito ahimé, dal classico orrido cantato in lingua madre, a dare la mazzata ad un disco che se non fosse per le liriche in tedesco, si farebbe tranquillamente ascoltare e apprezzare. I Saltatio Mortis sono, infatti, abili nel trasmetterci le loro impressioni di un tempo lontano ormai dimenticato, e bravi a fondere queste suggestioni con i suoni moderni, le schegge elettronico-futuristiche, i breaks malinconici e i momenti trascinanti vicini al pop rock. Nonostante le critiche, “Des Konigs Henker” è un album che merita sicuramente il vostro ascolto, se volete calarvi in una dimensione popolare d’altri tempi... (Francesco Scarci)

(Napalm Records)
Voto: 65

Frailty - Melpomene

#PER CHI AMA: Death Doom, primi Anathema e ultimi My Dying Bride
La band lettone dei Frailty fa parte dei nostri fedelissimi compagni d’avventura del Pozzo dei Dannati. Abbiamo recensito il primo cd, l’Ep omonimo, ed ora è la volta di “Melpomene”, che contiene le tracce mai ufficialmente pubblicate di “Silence is Everything”, Ep del 2010, oltre a cinque nuove song. Mi arriva direttamente dall’etichetta ucraina, Arx Productions, questo secondo lavoro e devo ammettere che all’ascolto della prima traccia mi ha istantaneamente disorientato; dove diavolo è finito infatti, il death doom atmosferico dei nostri? Mi è subito venuto in mente il cambio stilistico che i My Dying Bride fecero ai tempi di “The Dreadful Hours”, dove ampio spazio fu lasciato anche a feroci galoppate in territori black metal. Se non fosse per l’intermezzo acustico, posto a metà di “Wendigo”, penserei che il sestetto baltico possa aver cambiato decisamente genere, inasprendo di molto il proprio sound. Ci pensa però la successiva “Cold Sky” a ripristinare il tutto e a restituirmi la band che ho apprezzato più che altro, per l’incedere doomeggiante e pregno di vibrazioni malinconiche. Come scrissi per il precedente Ep, la musica dei nostri è in grado di solleticare il mio palato e i miei sensi, per quella sua innata capacità di riportarmi ai fasti del genere con l’esordio degli Anathema, quelli più oscuri e decadenti e i nostri ci riescono nuovamente con questa nuova release. La musica dei Frailty non è cambiata poi di molto e la terza traccia, seppur datata ormai 2010, ci ammorba con 14 minuti di lenti e pesanti riff di chitarra, accompagnati come sempre dai delicati e immancabili tocchi di pianoforte e dai vocalizzi animaleschi di Martins. “Underwater” è un bell’esempio di death doom ritmato, in cui trovano posto pletorici riffoni di chitarra, carichi di quell’eleganza mista a disperazione, che rappresentano un po’ il marchio di fabbrica dell’ensemble della piccola repubblica baltica. “Onegin’s Death” è un arpeggiato pezzo strumentale, in cui fa la sua comparsa anche lo spettrale suono di un violino nel bel mezzo di un temporale; la traccia fa da preludio ai quasi quindici minuti di “The Doomed Halls of Damnation”, che ci fanno sprofondare nuovamente in un minaccioso e tetro funeral doom, foriero di dolore, sofferenza e morte, soprattutto quando il sound rallenta paurosamente in versione super slow motion. Il nodo strozzatosi in mezzo al petto, viene subito spazzato via da “The Eternal Emerald”, song decisamente più andante, che vede anche le clean vocals di Edmunds, avvicendarsi a quelle di Martins e mostrare come le nuove composizioni siano decisamente meno claustrofobiche della precedente produzione targata Frailty. Non so se questo sia un bene o un male, dal momento che ho imparato ad apprezzare la band per quei suoni miscelanti angoscia ed eleganza, lenti, ossessivi e caratterizzati da pesanti ritmiche agonizzanti. Ecco, diciamo che li preferisco maggiormente in versione slow piuttosto che mid-tempo, anche se non posso negare che “Thundering Heights” mostri in chiusura un fantastico assolo che contraddice ogni mia parola. A chiudere ci pensa la strumentale, orientaleggiante e davvero notevole, “The Cemetary of Colossus”, che conferma quanto i Frailty si possano candidare ad essere tra gli alfieri del death doom in Europa, ma al contempo possano decisamente aprirsi ad altre sonorità più epiche e sperimentali. Da tenere accuratamente e obbligatoriamente sotto la lente di ingrandimento. (Francesco Scarci)

(Arx Productions)
Voto: 75
 

Klimt 1918 - Undressed Momento

#PER CHI AMA: Dark Gothic, Novembre
Cosa dire di questo album se non che si tratta di un lavoro perfetto! Potrà sembrare sbrigativo liquidare in questo modo “Undressed Momento”, eppure vi assicuro che l'album mi lasciò di stucco e fatico quasi a trovare le parole per descriverlo, tante sono le emozioni che mi travolsero durante l'ascolto. Avevo conosciuto i Klimt 1918 un paio di anni prima di questo lavoro (era il 2001!) con il loro demo “Secession Makes Post-Modern Music” e già in quell'occasione penso si intravedessero delle doti non comuni nel gruppo romano, ma è proprio con “Undressed Momento” che il quartetto dimostra tutta la sua bravura. La band infatti non si è limitata a seguire la lezione impartita dai propri gruppi ispiratori ed ha rielaborato certe influenze metal in una collezione di ottimi brani dallo stile personale e dai contorni definiti. Gli echi di Edge of Sanity e Novembre si fanno ancora sentire, ma questa volta rimangono latenti nel songwriting e si accompagnano a sfumature pop prossime a Tears for Fears e The Police. Ciò che vi colpirà immediatamente appena verrete a contatto con “Undressed Momento” è la maturità della proposta musicale, cosa che personalmente trovo stupefacente se ripenso che il gruppo era al suo debutto. Quella perfezione compositiva che una band come i Novembre ha raggiunto attraverso quattro album pare infatti sia già una ben affermata qualità dei Klimt 1918. Cito i Novembre perché le due band hanno più di un punto che le accomuna, senza poi dimenticare che proprio Giuseppe Orlando e Massimiliano Pagliuso appaiono come guest-musician nel cd. Mentre la musica dei Klimt 1918 si diffonde nella stanza, posso allora riconoscere le stesse deliziose vibrazioni che album come “Wish I could dream it Again” e “Arte Novecento” mi avevano trasmesso qualche anno prima. Parlo di melodie fragili e carezzevoli che, accompagnate dalla bella voce di Marco Soellner, descrivono gesti di intima delicatezza, parlo di chitarre vibranti, come morbidi cerchi concentrici che si propagano lentamente nell'acqua. Tutto in questo album porta ad uno stato di immobile attesa e di attonita contemplazione. Sono attimi interminabili, interrotti solamente dai sussulti di un cuore inquieto. Tra le sagome incerte di un dipinto scorgo i guizzi vitali della passione, gli inganni di un sentimento acerbo che si dissolve e la musica di “Undressed Momento” accompagna queste immagini prima con dolcezza... poi con veemenza. Rimango estasiato davanti alla sorprendente facilità con cui i Klimt 1918 sanno emozionare e lascio che i colori tenui della loro musica si diffondano attorno a me, a confortarmi nelle mie notti più solitarie. (Roberto Alba)

(My Kingdom Music)
Voto: 90

Debauchery - Continue to Kill

# PER CHI AMA: Brutal Death, Six Feet Under, Suffocation, Obituary
Non sono mai stato un grande fan della band teutonica, che a distanza di un anno dal rilascio del disco death'n roll, “Back in Blood” (che scimmiottava non poco gli AC/DC), propone il proprio quinto album, dal contenuto decisamente più brutal death splatter gore. Abbandonati i modernismi grooveggianti del precedente lavoro, “Continue to Kill” non fa altro che colpire, tramortire e continuare ad uccidere il povero ascoltatore, con il suo sound veloce, compatto, ma anche melodico. A mio avviso, il combo tedesco fa un passo in avanti rispetto al passato, abbandonando quell'eccletismo di fondo (se escludiamo le song 5, 13 e 14 che invece mantengono come matrice di fondo l'hard rock), che magari disturbava non poco, i puritsti del genere. Le tracce, come una contraerea nel cielo di Baghdad, scatenano una furia distruttiva, non sfociando però mai nel grind o nel chaos più totale. Da sottolineare la presenza della ferale "Angel of Death", cover degli Slayer, qui in versione rivista in chiave Debauchery. Gli altri brani viaggiano invece su mid tempos più ragionati e controllati, risultando però alla fine noiose. Le ritmiche sono violente con gli immancabili blast beat a dettare i tempi della mitragliatrice ritmica; un riffings affilato, con le growling vocals e lo screaming raro del vocalist, completano un lavoro, che ha il solo difetto di risultare al termine del suo ascolto, un po' troppo insipido e avaro di emozioni... (Francesco Scarci)

(AFM Records)
Voto: 65
 

venerdì 9 marzo 2012

Warshout - Grœnlendinga Saga

#PER CHI AMA: Black Epic, Bathory, Amon Amarth, Primordial
Ero preoccupato della scomparsa dei Bathory di Quorthon, quando mi ritrovo addirittura vicino casa i suoi potenziali eredi, e che diavolo, possibile che non me ne sia mai accorto? Certo mai mi sarei aspettato che in provincia di Reggio Emilia si potesse parlare di tradizioni vichinghe o di Groenlandia, sapete com’è, mi sembrava un po’ fuori mano. Eppure quando ho inserito il platter dei Warshout nel mio lettore, e ho fatto partire “Banishment of a Race”, immediatamente due nomi sono echeggiati nella mia testa, i Primordial e i già citati Bathory, beh niente male come accoppiata. Certo non saremo ai livelli delle due mostruose band appena menzionate, ma il sestetto emiliano è sulla strada giusta per porsi come potenziale rivale dei fenomeni nordici, ai quali vorrei aggiungere anche gli Amon Amarth, dopo aver ascoltato la seconda “When the Longships Arrive”. Gli elementi chiave e vincenti nella proposta dei Warshout si possono ritrovare nell’epicità che permea la release dei nostri, che affida il proprio incipit ad un mid-tempo che affonda le proprie radici proprio nel suono pagano degli irlandesi Primordial, prima di premere sull’acceleratore e lasciarsi andare in una bella cavalcata black, come la tradizione insegna, sospinta da delle ritmiche ferali, su cui si staglia potente, lo screaming di Teo. Dopo la “amon amarthiana” seconda traccia, ci è concesso il tempo di rilassarci con delle melodie ancestrali. Mentre mi appresto a gustarmi la quarta “Greenland’s Aurora” e al tempo stesso, sfogliare il booklet del cd, leggere i testi, notare qualche influenza derivante anche dai norvegesi Einherjer, mi accorgo della peculiarità della band: avere due bassisti. Questo mi spinge ad mostrare un maggiore interessa nella componente tecnico ed esecutiva dei nostri e rendermi conto del differente lavoro effettuato da Alfred e da Beppe: l’uno a costituire la base ritmica in accompagnamento a chitarre e batteria, l’altro a ricamare interessanti orpelli stilistici, in quei momenti in cui sono più le parti acustiche a prevalere. Il risultato mi piace, anche alla luce dell’ascolto della conclusiva traccia, black progressive “From Brattahlid to Infinity”; tuttavia, ci sono ancora tante piccole sbavature da sistemare qua e là: la voce non è sempre all’altezza nella sua componente screaming (mi piace invece parecchio nella sua versione pulita e growling); le sfuriate epico-metalliche lasciano trasparire talvolta, qualche peccatuccio veniale nell’uso della batteria e il rischio di creare un certo caos sonoro fine a se stesso; i suoni sono ancora un po’ troppo pastosi, avrei preferito una produzione maggiormente cristallina. Non pensate che questi miei commenti implichino però che la proposta dei nostri sei vichinghi emiliani non sia buona, anzi, vuole solo essere uno incoraggiamento a fare molto meglio per poter stare al passo dei mostri sacri nord europei e anche per far crescere una scena viking italiana, perché no? D’altro canto, anche alcune zone della nostra penisola hanno subito l’influsso dei vichinghi, quindi nulla ci vieta nel narrare di Odino, del Valhalla o di altre gesta dei guerrieri nordici. Il carattere giusto per far bene c’è, ora affiniamo semplicemente la tecnica. Epici! (Francesco Scarci)

(Self)
Voto: 70
 

Crown - The One

#PER CHI AMA: Drone, Sludge, Post Metal
Un autentico muro sonoro, un flusso di emozioni, un mare di lava che lento e minaccioso si muove nell’improvvisato letto che si è creato, l’universo che si espande costantemente seguendo l’effetto Doppler, un tumore che si propaga metastatizzando tutte le cellule che lo circondano. Ecco, l’inaspettato effetto che il sound iper dilatato dei francesi Crown, ha suscitato in me, dopo il suo primo famigerato ascolto. Sono allibito e frastornato al tempo stesso, dall’irriverenza sonora creata da questi due loschi figuri posti alle chitarre di ques band transalpina, coadiuvati solo dalla quanto mai calda, drum-machine. Il duo di Colmar, località più famosa per l’abbigliamento sportivo che per altro, ci cinge fin da subito con la propria miscela sonora costituita da suoni industriali, drone, sludge, doom, post e chi più ne ha più ne metta, ma sicuramente sempre melodici. Si inizia con “Cosmogasm” e l’ensemble francese ci mostra immediatamente il proprio lato più ispirato, quello alle sonorità drone d’oltreoceano. La successiva title track ha un effetto ipnotico, come se mi fossi sparato dei barbiturici direttamente in vena, ma credo piuttosto che sia l’utilizzo della voce cibernetica, che si accompagna egregiamente ad un fantastico possente growling, o più probabilmente il campionamento del drumming, che finisce per creare delle atmosfere crepuscolari, ad avere tale effetto su di me. Le ambientazioni diventano molto più tenebrose e lente nella successiva “100 Ashes”, song tra l’altro intrisa di un profondo velo di malinconia. Arriviamo alla velocità della luce alla quarta “Mare”, song che esordisce in versione ambient, ma che sfodera ben presto un riffing corposo in tipico sludge/post style; un altro inquietante giro nei meandri più intimi degli abissi della nostra mente. Non mi è dato sapere di cosa trattano i testi, ma se li avessi scritti di mio pugno, di certo avrei parlato degli effetti del LSD sulla psiche. Un suono tribale apre invece la lunga e conclusiva “Orthodox” e il battito del suo drumming, il suo incedere marziale e ossessivo, lo sento vibrare nel mezzo del mio petto, soffocante, penetrante, allucinante e alla fine delirante. Mi sento a disagio, le immagini rimangono sfocate davanti ai miei occhi, la fronte madida di sudore; solo il risveglio improvviso dai miei incubi peggiori mi riporta alla realtà e alla tanto agognata calma del mio cuore completamente impazzito. Ragazzi, che diavolo mi sono fumato ieri sera, non ricordo più nulla, se non i suoni schizoidi di un duo francese; ah si ora ricordo, i Crown, peggio dei funghi allucinogeni! Sperimentali… (Francesco Scarci)

(Superstrong)
Voto: 85
 

mercoledì 7 marzo 2012

Waning - The Human Condition

#PER CHI AMA: Black Progressive, Blut Aus Nord
Nuova etichetta discografica per gli svedesi Waning, e nuove sonorità che prendono le distanze da tutti i trend estremi del momento. Il quintetto di Gothenburg non guarda di certo in casa propria e non si lascia infinocchiare dalle sonorità della propria città e si lancia invece in estremismi sonori che trovano nella più vicina (ma sarebbe alquanto limitante) definizione di post black, l’etichetta che più si potrebbe appioppare alla brillante proposta del combo scandinavo, formato tra l’altro per 4/5 da ex membri degli Slaughtercult. In casa Antonym Records ci hanno visto alla grande, decidendo di puntare su “The Human Condition”, come loro primo lavoro. Una release decisamente moderna, al passo con i tempi, competitiva al massimo, che di sicuro farà la gioia di chi come il sottoscritto, si ciba quotidianamente di sonorità estreme, ma pur sempre dotate di eccellenti melodie, il tutto, già ampiamente constatabile, dalla opening track, “Beneath a Septic Sun” o dalla selvaggia e più diretta, ma pur sempre melodica, “End Assembly”. Diciamo che il punto chiave della proposta dei nostri è la ritmica, sorretta da chitarre che assomigliano piuttosto ad acuminati rasoi che ad altro, che viaggiano costantemente in territori di disarmonia avanguardistica; la produzione non è troppo bombastica, ma ben si allinea con la musica espressa, gracchianti le vocals maligne di Robert, mentre la ritmica infine, si mostra abbastanza secca e nevrotica (complice anche un basso delirante), capace di lasciare dietro a sé, una sensazione di inspiegabile illogicità. La band crea decisamente un qualcosa di fresco ed innovativo, ricco di energia, un sound irrequieto, talvolta straripante, che cerca di trovare la propria valvola di sfogo nel suo incedere palpitante. Splendido il refrain di “Continuum”, song peraltro avvolgente per il costante senso di angoscia che è in grado di emanare, vicino come atmosfere ai suoni degli ultimi lavori dei Blut Aus Nord. Ma non lasciamoci ingannare da dei nomi messi qua e là, giusto per provare a configurare il sound di questi Waning, citando solo delle improbabili influenze. L’act svedese ha delle idee abbastanza chiare, variopinte e talvolta geniali, che di sicuro devono ancora trovare una propria ben definita espressione o esplosione; black, doom, suoni industriali-cibernetici, post, trovano tutti un loro angolino nelle note di questo quanto mai inatteso e stravolgente “The Human Condition”. Da citare a tal proposito, la title track, in cui il pout pourri musicale, si fonde uniformemente in un unico ammaliante sound, attraverso un riffing suonato con la tecnica del tremolo picking. Il disco si chiude che ne vorrei ancora per capire al meglio le potenzialità, a quanto pare enormi, dell’ennesima band proveniente dalla sempre più prolifica e sorprendente Svezia. (Francesco Scarci)

(Antonym Records)
Voto: 80