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domenica 20 novembre 2011

Sedna - O

#PER CHI AMA: Post Black, Deafheaven, Altar of Plagues
Il nome della band romagnola si rifà alla tradizione mitologica presso gli Inuit, popolazione eschimese e alla loro dea del mare, in onore della quale venne dato il nome anche al presunto decimo pianeta (o forse asteroide) del nostro sistema solare anche se in molti credono che Sedna possa essere Nibiru, il "dodicesimo" astro menzionato nelle tavolette cuneiformi dei Sumeri. A prescindere dall’origine del nome, il quartetto romagnolo si rivela una talentuosa band di quello che ormai ho deciso ribattezzare come “post black”. E l’intro angosciante di “Oblio” preannuncia già quanto di malvagio è contenuto nelle note di questo inquietante “O”. Non mi sbagliavo di certo perché “Spiral” in un batter d’occhio spazza via ogni cosa con la sua furia distruttiva, un muro inerpicabile sorretto da una disumana sezione ritmica su cui si eleva lo screaming feroce di Alex, prima che il tutto sia messo in “slow motion” con un sound di derivazione sludge, che riprende ben presto la sua irruenza, con la tempesta annichilente di inizio brano, prima di sciogliersi in un finale drone. Sono annientato e al tempo stesso esaltato dalla performance dei nostri che con il loro umore, a cavallo tra il black di Wolves of the Throne Room, Altar of Plagues e gli ultimi geniali Deafheaven, miscelato con il post metal/sludge soffocante di Neurosis o dei nostrani Ufomammut, sfoderano una prova davvero entusiasmante. L’assalto brutale che contraddistingue anche “Taedium”, viene stemperato dall’utilizzo della chitarra arpeggiata in ambientazioni decadenti, con la voce che passa dal suo profondo e cattivo growling, a momenti in cui fa capolino addirittura un cantato pulito non ancora ben delineato e che appare come il vero punto debole della performance. Per un fanatico come me della pulizia dei suoni, c’è poi da sottolineare che la produzione fatta in casa, non sia proprio delle migliori, ma c’è anche chi apprezza notevolmente questo genere di registrazioni che preservano intatto il feeling malvagio che si cela dietro alla musica del quartetto di Cesena. A chiudere il mini cd, ci pensa “Rain of the Sun”, la song probabilmente che mostra una maggiore varietà di fondo e che palesa nel proprio sound, ulteriori apocalittiche visioni ed influenze, con la voce del buon Alex che, alternandosi tra gorgheggi growl, corrosive urla aliene e cleaning vocals, denota tutto il suo spessore, mostrato anche in sede live. Peccato che il cd si chiuda qui, ne avrei voluto ancora e ancora, per permettere alla mia anima tormentata di abbandonarsi all’oblio e alla disperazione contenute in questo controverso lavoro dal titolo “O”. Maledetti! (Francesco Scarci)

(Self)
Voto: 75

sabato 19 novembre 2011

Misery Speaks - Disciples of Doom

#PER CHI AMA: Death/Thrash teutonico
“Disciples of Doom” segna il traguardo del terzo cd per i tedeschi Misery Speaks, che già precedentemente avevano stupito piacevolmente la critica, con il loro “Catalogue of Carnage”, concentrato dinamitardo di musica assai incazzata. Forti dell’entrata nella band di un nuovo vocalist, Przemek Golomb, proveniente dai Seventh Seal Broken, la proposta del five pieces germanico, non si discosta più di tanto dal precedente lavoro, continuando con il loro sound all’insegna di un death/thrash, dalle tinte fortemente catchy. Dopo l’immancabile intro, le danze si aprono con “Burning Path”, song ritmata, carica di sfumature rock’n roll, per nulla scontata devo ammettere. Si prosegue con la più selvaggia “End up in Smoke” brano più contaminato da influenze metalcore e a seguire “A Road Less Travelled” e la title track, brani più cadenzati, contraddistinti da linee di chitarra malinconicamente melodiche. Quello che balza all’orecchio è una certa ricercatezza nei suoni da parte del quintetto di Munster: pur non essendoci infatti, nulla di originale nella proposta dei Misery Speaks, è da apprezzare comunque il continuo tentativo di proporre qualcosa che odora per lo meno di poco sentito. E cosi stupisce sentire i nostri alle prese con brani più lenti, quasi doom, mantenendo comunque una potenza di fondo costante assai apprezzabile. L’ugola di Przemek poi mi piace particolarmente, per quella sua versatilità nel passare da gorgheggi prettamente death ad uno screaming vetriolico (e a qualche accenno clean). “Black Garden” (la mia song preferita), inizia ricalcando il tema rockeggiante della prima traccia, ma poi nei suoi 8 minuti e più, passa in rassegna tutte le influenze che si possono ritrovare in questo cd: metalcore, doom, psichedelica, sludge, si susseguono in una danza tribale al limite dell’ipnotico. Bravi tecnicamente e forti anche di un’eccellente produzione, presso i Black Lounge Studios di Avesta, con il produttore Jonas Kjellgren (Scar Symmetry, Sonic Syndicate, Darzamat), i Misery Speaks colpiscono nel segno, rilasciando un album dalle ottime credenziali.

(Drakkar Records)
Voto: 75

Malevolentia - Ex Oblivion

#PER CHI AMA: Black Symph, Dimmu Borgir
Francia, 2011: oggi mi sono convinto che lo scettro di nazione al mondo con più band valide a livello estremo è quella dei nostri cugini galletti. Dopo i vari Deathspell Omega, Blut Aus Nord, Alcest, Pensees Nocturne e Les Discrets, giusto per menzionare i principali gruppi, ritornano da Belfort, dopo ben sei anni di silenzio, i blacksters sinfonici Malevolentia, a rimpolpare l’orda di band che viene da oltralpe. Classica intro sinfonica e poi ecco liberarsi sui nostri musi “Serpent De La Corde”, dove il five-pieces libera tutta la propria furia distruttiva con un riffing estremamente diretto e secco, che di sinfonico ha ben poco, se non l’utilizzo delle keys, che cercano di stemperare la ritmica martellante dei nostri. Rimango del tutto annichilito da questa apertura mozzafiato, non me l’aspettavo, ritmica che persiste nel lacerare la nostra epidermide anche nella successiva “Martyrs”, dove l’unico momento di respiro è lasciato ad un brevissimo intermezzo di pianoforte, perché dopo esplode il panico, la follia, l’angoscia collettiva, dettata da delle tastiere che sembrano uscite dalla mente di un pazzo serial killer e da un killer riffs che esplode in una tempesta metallica al limite del grind. Mentre vengo investito dalle selvagge melodie di “A l’Est d’Eden”, mi metto a sfogliare l’elegante booklet del digipack e mi accorgo che le strazianti screaming vocals sono ad opera di una donna, Spleen, mentre un plauso nel finale della song va anche al pericoloso basso di Tzeensh. Le orchestrazioni della sinfonica e strumentale “Dies Irae”, riprendono pedissequamente i dettami dei Dimmu Borgir, prima di lasciare il posto a “Dagon”, song relativamente un po’ meno tirata rispetto alle altre (gli iper veloci blast beat sono ahimè ovunque) e con un’atmosfera perversa, ragionata, tenebrosa e disarmonica che decisamente la eleva a mia song preferita, soprattutto per la sua capacità di staccarsi dalle altre song di questo “Ex Oblivion”, anche se devo ammettere che mi disorienta quella sua parte centrale che di punto in bianco, passa da orchestrazioni da brivido ad un break thrash/punk, ma che comunque sa riprendersi nel finale con un chorus da brividi ed un climax ascendente che urla vittoria! Il cd prosegue rispettando i canoni delle prime tracce dell’album, facendo della velocità e della potenza i suoi baluardi, ma degli arrangiamenti orchestrali, delle oscure ambientazioni e delle ferali screaming vocals i suoi punti di forza. Certo, se avessero puntato maggiormente su uno stile più vicino a “Dagon” (o alla title track), carico di personalità ed intraprendenza, probabilmente sarei qui a parlarvi di un capolavoro, da avere assolutamente nella vostra personale collezione di cd; il fatto invece di aver prediletto maggiormente l’efferatezza della furia black a discapito dell’eleganza e dell’originalità che si riscontra in alcuni frangenti del cd, ha un po’ penalizzato la mia valutazione finale di un lavoro che tuttavia considero già maturo ed estremamente interessante. Un solo consiglio per il futuro: provare a rallentare un attimo l’esasperazione che rischi di condurre la band più verso lidi legati al brutal death sinfonico (leggasi i nostrani Fleshgod Apocalypse) piuttosto che verso il puro black sinfonico. C’è ancora molto da lavorare, e auspico che la band ne sia ben conscia, ma la strada intrapresa potrebbe essere quella giusta, ciò che è necessario incrementare ora è di certo l’audacia. Forza! (Francesco Scarci)

(Epictural Production/Season of Mist)
Voto: 75


The Morningside - Treelogia – The Album as is Not

#PER CHI AMA: Death Doom, Agalloch, Saturnus
Quando ho visto recapitare nella mia cassetta postale il nuovo pacchetto promozionale della Solitude Productions, mi sono subito lanciato per verificare se al suo interno era racchiuso il nuovo EP dei moscoviti The Morningside, che ho già recensito su queste pagine e che da sempre mi affascinano per quel loro sound che richiama gli esordi malinconici e ormai andati dei Katatonia. E cosi, trovato il cd, infilato nel mio lettore, mi appresto ad ascoltare questa nuova fatica dell’act russo; tre tracce per quarantasette minuti che si aprono con una triste pioggia autunnale che ben presto viene rimpiazzata dalle pacate chitarre dei nostri e dal growling mai troppo esasperato di Igor. Non cambia di una virgola il sound death doom dei quattro di Mosca e sinceramente per una volta mi viene da pensare “molto meglio cosi”. Ho voglia di questo genere di sonorità, ho bisogno di lasciarmi incupire dai suoni deprimenti dei nostri, ho voglia di annegare in un mare di emozioni strazianti, nostalgiche, uggiose, insomma abbandonarmi in questo paesaggio decadente fatto di alberi con foglie rosse e cadenti, nuvoloni carichi di pioggia, e un vento sferzante i nostri visi. “The Trees Part One”, parte seconda e terza, riescono nell’intento di garantirmi tutto questo, senza dover mai ricorrere a scorribande velenose o ritmiche devastanti, anzi utilizzando in taluni frangenti, parti strumentali che prendono drasticamente le distanze dal death doom originario dei nostri, sfumando in ambientazioni post rock. Che questa sia la nuova frontiera della musica estrema, a me non interessa, fintanto che verrò avvolto da piacevoli sensazioni e il mio cuore tormentato verrà placato da siffatta musica, come se una coperta e un tè caldo mi venissero poste sulle spalle dopo aver preso un bell’acquazzone che ha inzuppato me e i miei abiti, è una bella sensazione no? “Treelogia” per me riproduce tutto ciò di cui ho bisogno e di cui i fan di band quali Agalloch, My Dying Bride o Novembre non dovrebbero lasciarsi sfuggire. Elegiaci. (Francesco Scarci)

(BadMoodMan Music)
Voto: 75

Heavy Lord - Balls to All

#PER CHI AMA: Doom, Sludge, Stoner
Verrebbe da dire: “Dall’Olanda con furore…”. Gli Heavy Lord, dopo il (troppo) tradizionalista “Chained to the World” del 2007, propongono sonorità rivisitate e molto più complesse. Ad un primo ascolto “Balls to All” non risulta un album di facile assimilazione. Sembrano troppe le devianze dalla direttrice heavy doom imboccata dalla band sin dal primo esordio, si rischia di abbandonare l’ascolto dopo le prime tre canzoni proprio per una mancanza di coesione e di stile. Stavo per fare anch’io questo errore, ma credetemi quando vi dico che l’energia di questa band è qualcosa di molto potente e comprensibile solo dopo una profonda immersione in questo sound sperimentale. Stilisticamente parlando, gli Heavy Lord si inseriscono nel filone del buon vecchio doom ‘andante’, quello a tonalità rock più veloci tanto per capirci, senza rifiutare qualche uscita in generi limitrofi come sludge e stoner. Più stoner che sludge. Vi sono numerose novità rispetto all’opera precedente. Dunque: la voce in growl si limita a qualche sporadica apparizione qua e là, mentre viene premiata una voce pulita indirizzata alle tonalità sudiste e missisipiane sulla scia (credo imitazione voluta) degli svedesi Devil’s Whorehouse di “Blood & Ashes”. Accenni ai riff maledettamente evocativi del buon vecchio Danzig e una pesantezza delle chitarre che non ha nulla da invidiare a quelle del progetto Down di Phil Anselmo. Nel corso delle otto tracce i pezzi lenti e quelli veloci si amalgamano in un insieme bene equilibrato di potenza e ricercatezza del suono. Onnipresenti sono i piatti della batteria; è un piacere tenere il ritmo. Purtroppo, l’unica nenia che non sono riuscito a sopportare in tutto l’album è proprio la title track, “Balls to All”: l’unica asfissiante melodia continua imperterrita e senza variazioni per tre interminabili minuti e mezzo. Poi però si apre l’eccellenza. “Fear the Beard” e “Drown” sono le preziose gemme verso cui gli Heavy Lord tendono per il futuro. Niente da dire. Sono davvero bravi questi ragazzi. Di sicuro sanno quello che fanno, e lo fanno con serietà. (Damiano Benato)

(Solitude Productions)
Voto: 75

lunedì 14 novembre 2011

Riul Doamnei - Fatima

#PER CHI AMA: Black Sinfonico, Dimmu Borgir, Cradle of Filth
Se i Cradle of Filth avessero avuto la crescita miracolosa occorsa ai Riul Doamnei nel corso di questi ultimi anni, probabilmente ad oggi avrebbero venduto centinaia di milioni di dischi, forse quanto Michael Jackson addirittura; invece la progressione della band inglese è stata assai graduale, con la fortuna dell’act britannico da sempre strettamente legata a quello del caratteristico screaming di Dani Filth, che ha sin qui condizionato anche la performance vocale di “Cardinal” Federico D.B., vocalist della qui presente band italica che oggi mi appresto a recensire. Tutto questo intricato preambolo per dirvi che nel frattempo, il bravo cantante dell’ensemble veronese è migliorato spaventosamente rispetto ai tempi di “Apocryphal”, prendendo largamente le distanze dal vecchio Dani, e con lui anche la performance globale degli altri membri della band; sicuramente complice è l’esperienza maturata in tour con mostri del calibro di Rotting Christ, Krisiun, Decapitated, Vader e altre straordinarie realtà del metal estremo, ma i Riul Doamnei, con questo nuovo lavoro possono dire la loro in ambito black sinfonico, a fianco della già menzionata band di Suffolk e dei norvegesi Dimmu Borgir, forse la realtà alla quale protende maggiormente il five-pieces di Fede e soci. Lavoro decisamente ambizioso quello dei Riul che ci presenta il nuovo controverso concept album basato sulla figura della Vergine Maria: dodici brani per una durata complessiva che sfiora l’ora, un’ora decisamente densa di emozioni, legate alle feroci scorribande in territori black, alle harsh vocals di Fede, alle maestose orchestrazioni di “Bishop” Giorgio M. e ai chorus sinfonici a la Therion. Partendo dall’enigmatica opening track, “13th Oct. 1917, Miracle and Apocalypse”, che rievoca il Miracolo del Sole presso Fatima, in cui un numero notevole di persone sostenne di aver visto il disco solare cambiare colore, dimensione e posizione per circa dieci minuti, veniamo immediatamente travolti dalla musica estrema dei nostri. La release, che ruota attorno agli accadimenti legati alle apparizioni mariane sforna, una dopo l’altra, delle eccellenti track, in cui emerge la classe dei cinque “ministri del male”. Riprendendo quanto già fatto nel precedente lavoro, i Riul continuano a sviluppare il proprio sound arricchendolo di fenomenali arrangiamenti di esplicita derivazione Dimmu Borgir (periodo “Death Cult Armageddon”), e per tal motivo un grande plauso va al bravissimo Giorgio cosi come pure menzione speciale al defezionario batterista “Friar” Enrico P., che al termine delle registrazioni ha lasciato la band dopo ben undici anni di militanza; sarà dura rimpiazzarlo con un altro drummer di altrettanto valore. Ma torniamo alla musica, che trabocca di eccelse melodie, epiche cavalcate black, screaming di assoluto valore ed eccezionali chorus (splendide “Bestiary of Christ” e “Sodoma Convent”). Un breve intermezzo e arriviamo a “Stigmatized Under Marian Grace”, song che palesa ancora una volta la “pericolosità” distruttiva dei nostri e che evidenzia la bontà del songwriting (assai migliorato rispetto il primo capitolo) e anche una nuova vena in fase solistica (finalmente) del bravo “Deacon” Maurizio S., anche se questo non è l’episodio in cui è maggiormente apprezzabile. L’inizio militaresco di “Of Misery and the Final Hope” (song in cui appare anche il buon Sakis dei Rotting Christ in veste di guest vocalist) mostra quanto i Riul siano migliorati anche quando le velocità non sono cosi sostenute e ci sia lo spazio anche per grandi quantitativi di melodia e inquietanti vocals femminili, con le chitarre in questo caso che sembrano più rifarsi allo swedish death dei Dark Tranquillity. Si, lo sento, la voglia di progredire e non stagnare c’è, è forte e i Riul sono alla costante ricerca della verità come i famosi “Guerrieri della Luce” di Coelho. La ricerca dei Riul prosegue fino alla conclusiva “The Fourth Daughter”, che parla della quarta figlia di Maometto, appunto Fatima, finendo per intrecciare quindi l’iconografia cristiana con quella della religione islamica, in quello che è probabilmente il quarto segreto, in una song dai chiari risvolti arabeggianti, che chiude in modo intrigante, affascinante e che non presagisce a nulla di positivo, quello che potrebbe essere lo scontro tra cristianesimo e islam. Ottimo ritorno! (Francesco Scarci)

(Axiis Music)
Voto: 85

domenica 13 novembre 2011

Sanctus Daemoneon - Nothingless Nothingness

#PER CHI AMA: Black Dark Ambient, Fields of the Nefilim
Un inizio inquietante (un colloquio fra un uomo e una bambina) in pieno stile Deviated Daemen apre questo EP di 5 pezzi dei danesi Sanctus Daemoneon, band dedita ad un black doom funereo. “Coma Tossing Elegance” è un vero incubo ad occhi aperti: sonorità cupe, tortuose, sofferenti, inesorabilmente lente e con una voce, palesemente influenzata da Attila Csihar, capace di rubare la nostra serenità. Il cammino prosegue con “Carnival of Pretend” e sinceramente non riesco a focalizzare ancora la proposta dei nostri: mi sembra di ascoltare una nenia per addormentarmi, interrotta solamente da harsh vocals e da un giro nebuloso di chitarre (e sega elettrica??) che penetra nel mio cervello insieme ad altri suoni di derivazione cibernetico-industriale, continuando ad obbligarmi a vivere questo incubo. “The Great Escape” è un altro esempio di dark rock funeral industrial doom, in cui la parte black è relegata esclusivamente alla componente vocale: una cortina fumosa di chitarre che sembrano riecheggiare i The Cure di primi anni ’80, con un’atmosfera sinistra alla Fields of the Nefilim con la vocals dei Mayhem, tutto chiaro no? Intriganti al massimo: sono completamente assuefatto a questi suoni che rimbombano come una catena di montaggio attivata dai neuroni all’interno delle pareti sinuose del mio cervello. Tocchi di pianoforte, una chitarra arpeggiata, mortifere vocals, parti ambient e synth di una malvagità spaventosa, costituiscono il tema portante di “Zero” prima della conclusiva “Destination Isolation” che sancisce la fine dell’inquietudine della mia anima. Paura è l’unica emozione che rimane nel mio corpo, ma poiché sono affascinato da questa emozione, sapete che faccio? Premo nuovamente il tasto play e rivivo queste terribili ma ammalianti emozioni. (Francesco Scarci)

(Dunkelkunst)
Voto: 75

sabato 12 novembre 2011

Blut Aus Nord - 777 Sect(s)

#PER CHI AMA: Black Avantgarde, Deathspell Omega
I francesi Blut Aus Nord (che in tedesco significa “Sangue dal Nord”) rappresentano i più grandi alleati dei miei incubi peggiori. Questo perché la musica del combo transalpino è quanto di più malsano, malvagio e spaventosamente malato, possa il black metal partorire in questo momento. Non sto parlando di velocità supersoniche o schegge di furia devastante, ma di sonorità cosi maledettamente paurose da popolare (o forse meglio, infestare) appunto i miei sogni notturni. Sei tracce, in cui la dissonanza totale a livello di riffing la fa da padrone e proprio questi suoni accompagnati da ambientazioni notturne, apprensive (ascoltare l’epilogo di “Epitome I” per capire il patema d’animo che può indurre un album di questo tipo) e a tratti lisergiche, ci regalano uno dei prodotti più sperimentali in ambito estremo, mai concepiti fino ad ora. I Blut Aus Nord sono dei maestri in questo e lo testimoniano le passate maestose e avanguardistiche release, “Memoria Vetusta 2” o “MoRT”, i cui suoni si incuneano nelle note di questo famigerato “777 Sect(s)” che precede di pochi mesi l’uscita del nuovo “777 The Desanctification”, atteso per metà novembre (e sinceramente non vedo l’ora di saggiare lo stato di forma del trio di Mondeville). “Epitome II” è il lasciapassare strumentale e sognante, che come il demonio Caronte ci traghetta oltre l’Acheronte, fino a giungere ad “Epitome III”, la cui brutalità esplode già dal suo riffing iniziale, che non può non ricordare lo stile dei conterranei Deathspell Omega e dominerà la song per quasi tutta la sua durata, se non per lasciare posto alla claustrofobia disarmonica del suo finale. La sensazione di gelo che pervade l’intero lavoro è tangibile, soprattutto quando il riffing (e le vocals) di Vindsval partono per caliginosi e angoscianti viaggi verso le tenebre come nella seconda parte di “Epitome IV”, dove echi di musica drone, industrial, psichedelica, si fondono tutti insieme in un finale che odora di morte. La furia distruttiva e cacofonica del combo della Normandia, ritorna più disturbante che mai nella quinta traccia, prima della conclusiva ossianica “Epitome VI” che sancisce la grandezza, genialità, cosmicità ma soprattutto osticità di una band che potrebbe tranquillamente produrre la colonna sonora dell’apocalisse. Terrificanti! (Francesco Scarci)

(Debemur Morti Prod.)
Voto: 85

Serj Tankian - Elect the Dead Symphony

#FOR FANS OF: Symphonic Progressive Rock
In the silence of a rainy morning, dim light coming out from the window, a stream of music came to envelop me. And slowly I realized that my heart beat was following the pulse of the music. That was the first time I heard the “Elect the Dead Symphony” by Serj Tankian. I mean, we all know him from System of a Down and I have always appreciated Serj for his uniqueness. But hearing this CD of 14 songs, re-orchestrated in order to be performed with the Auckland Philarmonia Orchestra, I was speechless. And that my friends, does not happen often to me! Starting with “Feed us”, Serj takes us into his magical universe. He has a voice that awakes the conscience and moves forward to the collective subconscious, disturbing the dormant hearts. You do not even perceive that there is a life audience, clapping and shouting. The magic continues throughout the whole CD. Constantly changing styles, without obviously being afraid of experimenting, Serj goes from oriental fairytales with “Blue” to war marches in “The Sky is Over”, to burlesque atmosphere with “Lie, Lie, Lie”. Serj really unravels his voice in this release, defending his title as one of the best vocalists of today and in the same time, he does not lack of condensed messages in every song. Politics, war, economy, environment and of course, love. You will find here the first played “Gate 21”, which for me is the top track of this CD, together with the lyric “Empty Walls”. In the end of the hearing, you will be left feeling like you are one of the crowd in Patrick Suskind’s novel “The Perfume”. You just want to tear him apart, to consume him, in the hope that you will make even a tiny piece of this musical genius, a part of you. Let him take you to that beautiful, heartbreaking, arousing journey of his. Listen to it without second thoughts and spread the word of Serj. You will thank me later, as I thank the one who first played this CD for me. Respect… (Sofia Lazani)

(Warner Bros. Rec)
Rate: 85

Irisblind - Archaeopteryx

#PER CHI AMA: Brutal Death, Avantgarde, Ved Buense Ende, Akercocke
Questo tiepido autunno, mi sta regalando delle interessantissime uscite discografiche: cosi dopo Deafheaven e Stielas Storhett, mi ritrovo a recensire l’elegante release della one man band inglese Irisblind, anche se si tratta in realtà di un lavoro uscito nel dicembre del 2010 e che solo ora giunge sulla mia scrivania. La direzione stilistica del combo inglese? Non è cosi facile da definire, in quanto dopo un intro alquanto inutile, si mette a viaggiare sui binari di un death avantgarde, che può rifarsi ai mostri sacri Ved Buens Ende, sporcato dalla malvagità del black metal e dalla brutalità del death made in UK. L’ideatore di tutto ciò? Tale Jonathan Mizzi, di chiare origini italiane, che fin dall’iniziale “The Beating of a Billion Locust Wings”, ne combina di tutti i colori per disorientare l’ignaro ascoltatore, con un sound che fa della disarmonia e delle trovare estemporanee, il suo vero punto di forza. E cosi mentre ritmiche brutal techno death (in stile Akercocke/Mithras) aprono “Spark The Nebula”, ci ritroviamo dopo pochi istanti ubriacati da un riffing nervoso, schizofrenico e dissonante, disorientati ancora una volta da una breve apertura ambient, dove un eco angelico corre in sottofondo, e la voce di Jonathan mischia un growling non troppo convincente a delle clean vocals altrettanto poco riuscite. Ma poco importa, perché quello che davvero sorprende è comunque il sound altalenante e frastornante di una band che probabilmente non ha ancora messo a fuoco il proprio obiettivo, una band dotata di enormi potenzialità, ma non ancora in grado di convogliarle nella giusta direzione. “Vacuum Decay” pesca il proprio disturbante suono da un death doom primitivo, aprendo poi con un favoloso e fluttuante intermezzo acustico, che si rifà inevitabilmente al sound degli Opeth di “Damnation”. Probabilmente in ambito estremo è rimasto ben poco da inventare, ma se utilizzare l’influenza dei vecchi maestri e riadattarlo in chiave moderna, può essere una strada, ben venga percorrerla. E cosi gli Irisblind giustamente fanno, muovendosi su coordinate di sicuro non cosi facilmente assimilabili, ma che comunque hanno il grande pregio di inoculare in chi ascolta un certo interesse. E se in alcuni frangenti si ha la sensazione di ascoltare un inusuale mix tra Morbid Angel e Opeth, in altri si fa largo lo spettro della tradizione British death doom che si unisce con l’avantgarde norvegese, un vero e proprio casino insomma! Peccato solo che la batteria sia frutto del cibernetico programming di Jonathan e che la produzione non sia proprio all’altezza, altrimenti il voto sarebbe stato senza ombra di dubbio, maggiore. Da sottolineare infine che il cd esiste in edizione limitatissima (240 copie), un digibox in tre differenti colori. Da seguire con attenzione l’evoluzione della band! (Francesco Scarci)


(Self)
Voto: 75

Root - Heritage of Satan

#PER CHI AMA: Black'n' Roll
Continua la politica infernale della polacca Agonia Records, dopo le release di Svarttjern e Acherontas ed in attesa di ascoltare il nuovo apocalittico cd degli Aborym, ecco tornare sulle scene i cechi Root, band storica del panorama metal europeo (la fondazione risale addirittura agli anni ’80), da sempre snobbati e sottovalutati dalla stampa. Ed ecco arrivare questo “Heritage of Satan”, che si apre con una voce narrante in un contesto da film horror, estremamente atmosferico ma da incubo. A ruota segue “In Nomine Sathanas”, song di 2 minuti che ha un che degli ultimi Samael e nel suo tribale finale, palesi riferimenti alla ritmica dei Rotting Christ. Dopo questo inno a Satana, rimango ancor di più spiazzato con la seguente “Legacy of Ancestors”, pezzo retrò che puzza clamorosamente da birrerie tedesche e di sonorità black’n’roll (avete presente i Phazm?), con una chitarrismo solista ispirato, ma tipico degli anni ’80; non mi piace l’atmosfera da bar che si respira, ma il lavoro delle chitarre mi fa impazzire, cosi come pure in “Revenge of Hell”, dove quello che ascoltiamo sembra più un heavy/glam piuttosto che black metal, se non fosse per quei vocioni gutturali accompagnati da un ridicolo chorus baldanzoso. Un finale acustico ci introduce a “Darksome Prophet”, finalmente una song con i controcoglioni, capace di spaccare le ossa per il suo incedere al limite tra thrash e black: peccato solo che il problema della band sia a mio avviso a livello del cantato, non che non mi piaccia la voce di Big Boss, ma non tollero il suo modo di cantare, cosi obsoleto, cosi teutonico, cosi retrò. Va beh, proseguo e mi imbatto in “Fiery Message”, la song che stravolge il voto al ribasso che volevo dare all’album: aura magnetica, atmosfere ipnotiche, chitarre soliste da urlo e finalmente delle vocals che mi catturano e non mi infastidiscono, si decisamente il mio pezzo preferito che rivaluta enormemente questo “Heritage of Satan”. Dopo l’esaltazione, il livello qualitativo del disco si assesta su dei livelli medio alti, anche se in “Son of Satan”, non capisco che cosa ci stia a fare la voce baritonale; ma si sono bevuti il cervello? Nonostante le ritmiche viaggino ai mille allora, la band ha pensato bene di piazzarci delle vocals che centrano ben poco nel contesto musicale. Si va verso la fine di questo controverso lavoro ed è lecito attendersi ulteriori sorprese, non lo nascondo e cosi è in effetti perché “His Coming” ci mostra il lato più doomish della band della Repubblica Ceca, con un risultato davvero notevole, mentre “Greetings from the Abyss” pur aprendosi come un uragano grind, sembra più un pezzo punk che altro, che casino. Giungo alla fine di questo cd, che sono frastornato dalla quantità di materiale messo in piazza dai Root, segno che la band dopo decenni di gavetta, ormai fa quel diavolo che vuole, fregandosene di tutto e tutti e “The Apocalypse”, l’ultima track del disco, riassume esattamente lo spirito di questa nuova release, infarcendo la song con tutto quanto di pazzo e sconsiderato abbiamo ascoltato fin qui. Arrivo alla fine dell’ascolto del cd e non so neppure come giudicarlo questo lavoro, tale e tanto incasinati sono i suoi contenuti; se anche voi siete dei ribelli come i Root, questo potrebbe essere il disco che fa al caso vostro. Chi ha coraggio di rischiare si faccia avanti, gli altri vigliacchi girino i tacchi perché come si chiude il cd “Ladies and Gentlemen: Here come His Dark Majesty, Satan”, ci troviamo al cospetto di su maestà, Satana. Pericolosi! (Francesco Scarci)

(Agonia Records)
Voto: 75

*Shels - Plains of the Purple Buffalo - English

#FOR FANS OF: Post Rock, Progressive, Tool, Isis, Mogway
I was waiting for them, I do not hide it. The *Shels are certainly one of the most interesting truths within the worldwide post rock and with this "Plains of the Purple Buffalo," they come brilliantly to finish their second album, after the excellent results of "Sea Of The Dying Dhow" and the fantastic EP "Laurentian's Atoll", not to mention the almost impossible to find "Wings for Their Smiles". Yes, in short, I start not being very impartial, I realize that, but when I hear certain sounds echoing from my stereo, I cannot wait and I feel the obligation to tell to the world that they are missing something beautiful, yes beautiful, very banal word, but here with a certain impact. The new CD of these crazy (Anglo)Californians contains pure poetry in its notes and in the 76 minutes contained in this release, they will catapult you into another planet, a world hidden even in the wonderful cover of the CD, where a herd of purple buffalos, run on a stylized background. Brilliant, I can not find other words to describe the proposal of this U.S.’s band. And the music, you'll wonder, as I continue to write about everything and more, leaving out the most important part of this product, how is it? Vibrant since the initial notes of "Journey to the Plains," which opens the journey in dreams dyed purple, of these kids. And then, a crescendo of emotions, a progression of sounds that, starting from the tradition of post-rock sacred monsters such as Godspeed You! Black Emperor, stretches its proposal through 13 succulent chapters, consecrating the * Shels, between the musical entities of the most remarkable personality and originality. The music, as in other works, has the lion's share, with long, sometimes very long cavalcades, where the psychedelic merges with post-rock ('70s-derived), rarely exploding in a more metal outburst, where even the wildest voice manages to find space. But soon, an ambient interlude or an acoustic piece will enable you to catch your breath, to lay back on your chair and to relax again, with sounds typical of the genre, here constantly of considerable thickness, enough to push me so high with the voting. If your minds are gifted with a musical flexibility, you have to grab this rare pearl, which might otherwise be confused in the chaos of useless record releases that are destroying the planet. Give up buying a disc of thrash or death for one month and for once, put yourselves at stake, put your musical tastes at stake, your beliefs and surrender to the overpowering collective creativity of this remarkable artists, you will not be disappointed those of you who listen to black metal, progressive, thrash, or gothic. The content of «Plains of the Purple Buffalo» is something that goes beyond the normal conception of music, and only the great artists are able to conceive. Wanting to make a comparison with the previous proposal of the combo, their sound, retains its fundamental strength, however, abandoning the unnecessary escapes in metalcore. Here you will only find crystalline class, an industrial quantity of instrumental parts, where the voice is left in the single instruments (and for someone like me who do not particularly like the lack of voice, I guarantee you that it was a big surprise), splendid vocal performances. Difficult to describe a song rather than another, I would like to tell you that I like them all, from the mad title track (part 2) to the melancholic "Vision Quest", the work presents super attention to detail, in the arrangements, in the technical expertise, in taste for the melodies, in the dreamy parts and in the more dark and angry parts. *Shels, the breath of fresh air that I was waiting, a shock to the metal world trapped in quicksand, a push to all the useless trends of the moment, an incredible journey into unexplored yet territory in rock music. Unique and inimitable! (Francesco Scarci - Translation by Sofia Lazani)

(Shels Music)
Rate: 90