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sabato 9 febbraio 2019

Lunae Ortus - White-Night-Wropt

#PER CHI AMA: Symph Black, Carach Angren, Cradle of Filth
Sembra che il black sinfonico stia tornando in auge come un tempo, interessante però vedere come la nuova ondata di band non provenga da quella che una volta era considerata la Mecca della musica estrema, ossia la Scandinavia, ma la new wave è ora principalmente di estrazione mittle-europea o di origine russo/ucraino. I Lunae Ortus arrivano appunto dalla Russia e, pur essendosi formati nel 2005, approdano solo nel 2018 con il loro album di debutto, il qui presente 'White-Night-Wropt', proponendo un black sinfonico come i grandi del passato hanno saputo fare, e penso a Dimmu Borgir e Cradle of Filth. Nove i pezzi a disposizione del terzetto di San Pietroburgo, che vede tra le proprie fila membri, ex e turnisti di Grailight, Skylord e Arcanorum Astrum. Infilandosi sulla scia dei nostrani Fleshgod Apocalypse, sebbene quest'ultimi più inclini ad una vena death sinfonica, meglio ancora degli olandesi Carach Angren, i Lunae Ortus hanno modo di offrire la loro personale visione del metallo sinfonico, affrontando in questo lavoro, l'assedio di Leningrado durante la Seconda Guerra Mondiale che durò 2 anni e 5 mesi e rappresentò una delle più cocenti sconfitte nella guerra lampo di Adolf Hitler. A corredo di questo tema arriva il sound dei nostri, ribattezzato per l'occasione "Imperial Symphonic Black Metal", termine che ci sta alla grande per delineare la struttura imponente di cui è intriso il sound della band, caratterizzato da un'importante matrice sinfonica sorretta da splendide tastiere. E cosi nascono le song di questo disco, l'opener "The Woesome Famine", ove tra ritmiche mid-tempo e tenui screaming vocals, trovano spazio le maestose orchestrazioni di Sergey Bakhvalov. Le atmosfere orrorifiche di "Poltavian Battle" ricordano per certi versi le cose più gotiche di Dani Filth e compagni, con quelle notevoli galoppate che evocano fantasmi lontani e che scomodano altri paragoni con i nostrani Theatres des Vampires per feeling evocato, anche se i più importanti punti di contatto ci dicono che i tre russi devono aver amato alla follia 'Enthrone Darkness Triumphant" dei Dimmu Borgir, chi del resto non l'ha fatto? E allora meglio lasciarsi assorbire dalle funamboliche ritmiche di "Bronze Horseman", sempre cariche di melodie e di frequenti cambi di tempo. Più ritmata invece "Toward the Dawn", con quelle orchestrazioni cosi sature da richiamare un altro disco dei Dimmu Borgir, 'Puritanical Euphoric Misanthropia'; qui semmai da sottolineare è la presenza della più classica delle cantanti liriche, per un pezzo che sembra ammiccare anche a Therion e Arcturus, soprattutto per il lavoro al piano. Non sono certo degli sprovveduti i Lunae Ortis, ma questo era chiaro vista la lunga militanza nell'underground, comunque resta apprezzabile il lavoro dal mood electro-cibernetico di "Unquiet Souls Under Water", quasi a voler offrire variazioni ad un tema che rischierebbe di divenire troppo scontato. La song scivola via tra portentose accelerazioni di scuola Children of Bodom e melodie ruffiane, non un male. La cosa prosegue sulla falsariga anche nelle successive song (da sottolineare però la presenza di clean vocals in "New World of Light"), fino all'ottava, "Charlatan's Dance", ove accanto al classico sound dei nostri, va in scena un inusuale fuori programma dalle tinte humppa-folk (di scuola Finntroll). A chiudere il disco in modo egregio, arriva anche "Forests of Rebirth", forse la mia traccia preferita, quella che sicuramente è più vicina al metal classico e sembra essersi scrollata del tutto l'approccio, talvolta fin troppo pomposo, del symph black dei Lunae Ortus. In definitiva, 'White-Night-Wropt' è un album più che discreto, che se fosse uscito vent'anni fa, avrebbe sicuramente riscosso il successo che oggi faticherà maggiormente ad ottenere. (Francesco Scarci)

(Soundage Productions - 2018)
Voto: 75

https://lunaeortus.bandcamp.com/album/white-night-wropt

Thy Dying Light - Forgotten by Time

#PER CHI AMA: Black Old School
Originariamente uscito in cassetta ad inizio 2018 per la Death Kvlt Produtions, 'Forgotten by Time', compilation degli inglesi Thy Dying Light, è stata successivamente stampata su cd dalla Pest Productions. Il disco include il mini 'The Last Twilight' e il demo 'Thy Dying Light', entrambi datati 2016. Nove i brani per comprendere lo status underground di questo progetto capitanato da Hrafn e Azrael, due loschi figuri militanti in altre band più famose, 13 Candles, Nefarious Dusk e Ethereal Forest, tanto per citarne alcune. La proposta del duo di Barrow-in-Furness è tremendamente old-school, tanto da catapultarci agli albori del black metal, quando imperversavano le tape delle band scandinave. In soldoni, ecco quanto proposto da questi due malefici musicisti, nel cui sound nero come la pece, confluiscono sentori dei primissimi Bathory (quelli dell'album omonimo), oppure la versione black dei Darkthrone e ancora un che degli esordi di Immortal o Burzum. Song come "Fist of Satan" o "Carpathian Mountains", sembrano essere state scritte quasi trent'anni fa, grazie anche ad una produzione scarna e secca, alla presenza di lancinanti grim vocals e una melodia relegata davvero in secondo piano (anche se la seconda parte di "Kingdom of Darkness" ne concede fin oltre il dovuto). Poi solo ritmiche infernali, al limite del punk, urla sgraziate e poco altro. La differenza fra i due lavori qui contenuti, risiede essenzialmente in una registrazione più casalinga per il demo omonimo, ma anche per una linea di chitarra che sembrerebbe più melodica ed ispirata (ascoltare "Plague Rates Pt.II" per capire le differenze), nel caso della demo, come già ascoltato nella title track. Nebulose intonazioni sonore dai tipici tratti doom ("Tombs Of The Forgotten") completano il quadro di una release che francamente al sottoscritto dice ben poco, avendo vissuto la nascita e crescita del black, ormai trent'anni fa. (Francesco Scarci)

venerdì 8 febbraio 2019

As a New Revolt - TXRX

#PER CHI AMA: Rapcore, Rage Against the Machine, Nine Inch Nails
Non sono il più grande entusiasta quando si parla di rap, non mi ha mai trasmesso più di tanto a parte alcune rare eccezioni. Beh, gli As A New Revolt è una di queste! Si tratta di un disco abrasivo e pieno di disagio, le chitarre sono ruggenti e spigolose, la batteria è presente e martella come un treno in corsa, ci sono dei synth, unica reminiscenza dell’hip hop anni '90. La voce infine, pungente e penetrante completa un quadro sonoro che riesce a sbordare dai confini sia del rap che del rock, scavandosi un piccolo loculo tra le due grandi potenze. A me vengono in mente i Rage Against the Machine, ma anche gli Incubus e i Nine Inch Nails, 'TXRX' non è un disco felice o strafottente come la maggior parte del rap che mi capita di sentire, c’è molta intensità tanto che a volte le cuffie riversano delle urla efferate di gola (Manu stai attento che ti fai del male!), tanto da sembrare quasi che qualcuno stia subendo un'indicibile tortura ma che allo stesso tempo, stia lottando con tutte le sue forze per liberarsi da essa. La potenza espressiva di 'TXRX' coinvolge l’ascoltatore in un vortice di rabbia e di energia selvaggia, parole come lance immerse in un mare di frequenze malate e disturbanti sostenute da rimiche tribali ed imprevedibili. Un bell’esempio di come il rap non sia solo berretti di traverso, pantaloni larghi e frasi senza senso, bravi continuate così! (Matteo Baldi)

(Sand Music - 2018)
Voto: 75

https://www.facebook.com/asanewrevolt/

Frozen Dreams - Fallen in Dark Slumbering

#PER CHI AMA: Symph Black, Windir, Summoning, Bal Sagoth
I Frozen Dreams dovrebbero (il condizionale è d'obbligo perchè non ho trovato troppe informazioni in merito nè all'interno del cd nè in rete) essere una one-man-band svedese, capitanata da tal Weird (che per la cronaca in inglese significa strano). Il mastermind di Helsingborg giunge con questo 'Fallen in Dark Slumbering' alla sua terza release, però sapete che la cosa strana è non aver trovato traccia di recensioni dei precedenti due album? Sospettoso, mi metto all'ascolto degli oltre settanta minuti racchiusi in questa release, che si aprono con le suadenti note di "The Sleeping Death", una intro che sembra fungere da apripista all'intero album e ci accompagna con le sue magnifiche orchestrazioni alla prima vera song del disco, "Through Darkened Sky". La traccia mette in mostra subito una certa epicità di fondo nei suoi tratti che si coniuga bene con le magniloquenti e bombastiche melodie di chitarre, sulle quali si innestano le screaming vocals del factotum di oggi e i suoi magici tocchi di tastiera. È un black sognante quello dello strano musicista svedese, sicuramente facile da assimilare sin dal primo ascolto per quel suo notevole contenuto di melodie abbastanza ruffiane. Non un difetto sia chiaro, anzi un pregio che consente anche a chi non è avezzo a tali sonorità di avvicinarsi con una certa facilità alla proposta dell'artista scandinavo. Alla stregua di questa canzone, anche le successive si mettono in coda, sfoggiando melodie eteree, un approccio ritmico dal mood sinfonico e un riffing sempre mid-tempo. Lo dimostrerà "Rise Above All" e via via tutte le altre. L'unico problema che posso intravedere in questo lavoro, è probabilmente la durata, nel senso che lo svolgimento di ciascun pezzo poteva avvenire in metà del tempo, e anzichè trovarci fra le mani un disco estenuante, forse mi starei gustando un cd di presa ancor più immediata. Però che spettacolo abbandonarsi alle melodie concepite da questo fantomatico musicista, sembra quasi di avere a che fare con un ibrido costituito dall'epico sound dei Windir, miscelato alla magia dei Summoning e con il pagan dei Sojourner, nel bel mezzo di un mondo fantastico come quelli narrati nei dischi dei Bal Sagoth. Tra i miei pezzi preferiti, vi citerei "Madness of Life", potente, con una architettura ritmica formata da un rifferama profondo con le chitarre che vanno a braccetto con le pompose keys e lo screaming arcigno dello strano tipo alla voce, in un evolversi comunque classico. Manca probabilmente la giocata ad effetto per far decollare alla grande questo lavoro, perchè 'Fallen in Dark Slumbering' tutte le carte in regola per colpire nel segno le avrebbe anche. La title track ci va molto vicino, con quel suo piglio assai dinamico che chiama, per certi versi, in causa anche i primi Children of Bodom, tralasciando però la loro componente power. Ultima menzione d'onore per "Land of Frost" per quella sua forte componente folkish che si annida e permea la malinconica linea melodica delle chitarre. Estenuati, si arriva a "Flame of Winter", dove qui i richiami al fantasy di Summoning e Bal Sagoth si fanno notevolmente più importanti. In soldoni, quello di Mr. Weird e i suoi Frozen Dreams è un buon lavoro pur peccando di eccessiva prolissità musicale, di cui auspico una risoluzione nelle release future. 70 minuti sono tanti da digerire, meglio fermarsi ai canoni 45. (Francesco Scarci)

AERA - The Craving Within

#FOR FANS OF: Epic Black, Gorgoroth
Elaborating on its ambition with another drab album cover, AERA pans out from the flush foliage that made up a shroud of dark trees across nearly half of the black-contrasting-grey sky in order to reveal desolation as larger cloud formations impose themselves on shrinking bits of blackened earth. At first glance this enshadowed area is burned and gnarled, as though devastated by conflagration. However, this expanse of sky spans over the rolling hills and mists settle the gullies between. AERA has taken a step back to catch more light in its lens and now shows that even clearer in its latest offering.

With this clarity in an album cover comes a clarity in AERA's direction as well. Twisted and disturbing harmony expresses desolation through biting winds as “Skaldens Død” explodes with percussion sweeping up the treble as synth and screams become the second envelopment of a pincer on the razor sharp foreground. Crying frosty riffing swamps the atmosphere in “Frost Within” with a sound that could easily be accompanied by piano however it instead takes its tearing tone well into “Rite of Odin” keeping a flow together that reaches apogee and then succumbs to silence. While fury is the sound of the day in the first half of the album, ensuring that AERA's uncompromising black metal effect is just as palpable as it was in 'Of Forsworn Vows', the duo has now taken its time in a full-length to show a greater breadth in its music through the latter half that opens up the expanse to some color in this generally drab and flat presentation.

Establishing a new flow with a gruff chant, “Profetien” bears some martial characteristics similar to Gorgoroth's pummeling “Profetens Åpenbaring” before its march becomes blasted away with the airy shrieks and hammering blasting that fills its ethereal atmosphere with hints of Njiqadhha's relentless layering. Breaking into a quiet and somber chant to an acoustic guitar, the song turns from grief to vengeance as it resumes it marching pace. Slightly branching out with a new approach, “Profetien” shows that AERA is capable of creating a second movement within a song that thoroughly switches gears to bring more than one flat emotion to the forefront. Rage becomes supplanted with melancholy for a small sparkling interlude before Satyricon sawing comes through again to remind the listener of just how immersed into its space AERA remains, coming off again as bland and recycled rather than overwhelming, brutal, or evil. Just because the guitar is obnoxiously shrill in the mix, it doesn't make the music match up, especially considering this guitar still doesn't rise to the occasion of the shrillness of a Burzum or Demonaz album. Instead, this production ensures that its hazy sound is as flat as its delivery and the lacking bass end is just audible enough but still not very impactful. The only memorable things about “Profetien” are the pagan chanting at the beginning and the clarity of that almost Agalloch movement, the balls out black metal is boring with uninspired Satyricon scraps passionlessly and predictably performed, employed in strong formula but giving little reason for its application.

Luckily, an astute example of beautality comes in the vicious opening riff to “Join Me Tomorrow” before becoming a scramble of synth, searing cymbals, and shrieks climbing to an apogee of tension and harmony in its timbres to explore cavernous echo as well as a majestic landscape. Vocals as fierce and airy as Njiqadhha's, and an overall pace that shows some dynamism in AERA's approach rather than stagnates and stands in place makes this song hit much better than the samey opening songs while also providing a bit of commercial appeal to an album entranced with its esoteric ritual. The solo in “Join Me Tomorrow” comes through well erupting from the grain and the “wishing and hoping” screaming through the blast beating and wailing guitars calls to a bit of Gaahl era Gorgoroth while also calling to the album's title and elaborating on 'The Craving Within'. Though this song could be a great closer to the album, the zeal of “Norrøn Magi” keeps the album to a more folksy standard and ensures that the ethereal rise behind the fury reeks of Lustre and Alcest becoming beautality as it brings forth harmonious melody from the guitars, making them look to light and begin to stray from the searing tumult of darkness in tremolo ecstasy.

In a heartwarming turn of step, AERA has discovered an anthemic reach within the brutality of its very Satyricon inspired music. Reaching a new precipice in this combination of delicate melody accentuating its all-too-overt approach that has grown into flatness and insipidity has ensured an album balanced enough between its intense edge and its accessible accouterments to bring a meaningful menagerie of metal moments while enduring 'The Craving Within', a deep desire for some sort of inspiration that would make for a band actually worth an audience's time.

AERA knocked this album out of the park in a lot of ways. This is an album that is very bottom heavy in that its end tracks show off more personality and variety than the intense and atonally focused beginning, but that turn from the epic atmosphere and samey Satyricon tearing in “Skaldens Død” and “Frost Within” to the mid-paced and more anthemic sounds of “Profiten” and “Norrøn Magi” makes the album much more listenable and entertaining.

Still, AERA is nearly as dull as its album covers and though the band attempts a few bits of nuance in pagan chanting, clean interludes, a beautiful use of synth as it rises with the guitar in “Join Me Tomorrow”, and finally hits the right notes on “Norrøn Magi”, the finer points of the album are too little too late. The eternity of the first three tracks of near nothingness, the endless repetition of a basic and banal chord progression that was already cemented in 'Pure Holocaust' make for an album as derivative and repetitive as it is uninspired and annoying. AERA needs to become its own band because 'The Craving Within' is just so uncreative that it shows just how much of a hole black metal has dug for itself as all panache and flash is lost to stoically standing still holding a candelabra and pretending you're epic.

In spite of its fury early on and the anthemic turn toward the end of the album, 'The Craving Within' doesn't really ignite much of a passion resulting in an album that leaves as much an empty space as it joins the long list of bland bands that can tie a small interesting knot into another basic noose. (Five_Nails)

giovedì 7 febbraio 2019

AÎN - Stance I

#PER CHI AMA: Black/Death
Quella degli AÎN è una band francese originatasi dai Codex Inferis e come la band madre, è volta a suonare un black metal senza tanti fronzoli. 'Stance I' è il disco d'esordio che segue a tre anni di distanza, l'atipica scelta di debuttare con un live album. La proposta dell'oscuro quintetto di Metz è come dicevamo legata al black, in una sua forma sicuramente melodica, vicina al post black, ma anche ad un sound esoterico-liturgico, come già testimoniato nella seconda "I-II". Vivaci, feroci, furiosi ma con tutte le carte in regola per provare a dire qualcosa di non già scontato. Le sorprese sono dietro l'angolo infatti, bello farsi investire dalla furia distruttiva dei nostri ma altrettanto farsi accarezzare dalla poesia di una chitarra acustica posta in chiusura del secondo pezzo. La band ama l'approccio cerimoniale, era già chiaro in "I-II", lo è ancor di più nell'apertura di "I-III", una song che si snoda tra suoni e voci che stanno a metà strada tra death e black, e che trovano sfogo artistico in un altro ipnotico break che diviene vero e proprio marchio di fabbrica per la band transalpina, prima di un attacco ferale a chiudere. Invocazioni yoga aprono "I-IV", lunga ed inquietante song mid-tempo, con chitarre dilatate, un'interessante vena atmosferica e delle litaniche vocals in un incandescente finale post black. Ancora rituali mantrici in "I-V" ad acuire l'aura di mistero che già di per sè ammanta questo disco; la song sembra abbandonare il suo fremito black qui (fatto salvo per il minuto e mezzo finale), lasciando posto a suoni decisamente più raffinati e carichi di groove, che sembrano addirittura prendere il sopravvento nella successiva "I-VI", sebbene improvvisi rigurgiti di nero vestiti, si accavallino con una proposta che viaggia sui binari di un death metal ritmato ma pur sempre epico. Ammetto che la proposta degli AÎN sia affascinante, soprattutto quando i nostri si muovono nel versante black esoterico con quelle vocals evocative e spaventose ("I-VII") o quando le atmosfere si fanno più soffuse, o ancora quando le chitarre virano al post-metal ("I-VIII", la vera chicca del cd) e la song non può che giovarne, soprattutto poi quando i nostri ci infilano l'immancabile accelerata post-black. In chiusura, i dieci minuti di "I-IX", un'altra traccia davvero convincente, forse un po' troppo lunga, ma che comunque sostiene la credibilità del combo francese. Con le dovute accortezze e limature, sono convinto che i nostri possano arrivare lontano sebbene la concorrenza si faccia di giorno in giorno più che mai agguerrita. (Francesco Scarci)

(Pest Productions - 2018)
Voto: 75

https://pestproductions.bandcamp.com/album/stance-i

mercoledì 6 febbraio 2019

Down to the Heaven - [level-1]

#PER CHI AMA: Djent/Cyber/Deathcore, Meshuggah, Enter Shikari
Avete voglia di divertirvi, ascoltare qualcosa di moderno, carico di groove, con quel pizzico di ruffianeria che non guasta mai, senza dover rinunciare ad un bel po' di riff schiacciasassi? Beh, a prestarvi aiuto in tali richieste, ecco giungere dalla Polonia i Down to the Heaven, una band proveniente da Bielsko-Biała, che nel qui presente '[level-1]' fonde death metal, metalcore, arrangiamenti ben orchestrati, elettronica e djent, in un calderone di potenza e melodia davvero intrigante. Il tutto è testimoniato da "Catharsis" che segue a stretto giro quella che appare essere l'intro del disco, "Down to the...". Poi giù tante mazzate, con dei riffoni sparati a tutta velocità, ma con una componente melodica davvero vincente, che si muove tra influenze che chiamano in causa indistintamente Dark Tranquillity, Enter Shikari, Meshuggah, Coraxo, ...And Oceans e tanti altri, in un vibrante concentrato dinamitardo da sentire e risentire, meglio se sparato a tutto volume in automobile o comunque lasciato libero di fondervi le orecchie per il volume inaudito a cui dovrete sottoporlo. Stratosferico. Fenomenale, come la cavalcata furibonda che chiude "Unbroken", una song dal sapore esotico che da sola vale l'acquisto del cd. Per non parlare poi di quella cibernetica sensualità che contraddistingue le note iniziali di "No Vision", prima che l'arroganza elettrica prenda il sopravvento e ci delizi per quasi sei minuti di graffianti sonorità strumentali. Con "Kingdom of Delusion" fanno ritorno le vocals di Rusty in una song dai ritmi infuocati pur sempre carica di melodia, accostabile, molto più di altre tracce, ai Dark Tranquillity. Siamo quasi in chiusura, un peccato, a rapporto mancano però ancora "Tyrant's Fall", song debortante, che per quanto povera in fatto di originalità, ha comunque il merito di catalizzare l'attenzione per la pienezza delle sue ritmiche, le cyber trovate dei nostri che fanno da corredo ad una componente melodica sempre estremamente importante (qui si strizza l'occhiolino agli ultimi In Flames) e ad un finale sorprendentemente trascinante per intensità e profondità. "We Are" è una song dall'incipit rockettaro con un cantato che sembra quello del buon Chuck Billy, e un sound multiforme, psicolabile e che tocca vette brillantissime tra cyber metal, industrial e deathcore, a sancire l'eccelsa qualità dell'ennesima valida band proveniente dalla Polonia che ha davvero qualcosa da dire. (Francesco Scarci)

martedì 5 febbraio 2019

Sorrowful Land - I Remember

#PER CHI AMA: Death/Doom, Draconian
I Sorrowful Land non sono altro che la valvola di sfogo death doom di Max Molodtsov, leader degli ucraini Edenian, formazione dedita ad un gothic metal, dove 'I Remember' rappresenta il secondo capitolo del musicista originario di Kharkiv. "And Wilt Thou Weep When I Am Low?", l'opening track del cd che vede il featuring alla voce di Kaivan Saraei degli inglesi A Dream of Poe, ci consegna una band che paga pesantemente dazio, soprattutto a livello vocale, ai My Dying Bride. E come la band inglese, il buon Max si lancia in lunghi e nostalgici fraseggi di chitarra che chiamano in causa indistintamente altre realtà del panorama death doom e penso a Swallow the Suns e Draconian, con la sola differenza che in questa traccia il musicista ucraino non si affida al growling. La seconda "When The World's Gone Cold" vede innanzitutto la partecipazione alla voce di Daniel Neagoe (personaggio carismatico della scena doom mondiale, grazie alle innumerevoli band in cui suona: Bereft of Light, Clouds, Eyes of Solitude, Pantheist, Shape of Despair credo siano un ottimo biglietto da visita per il musicista rumeno) che presta il suo profondissimo growl per il malinconico incedere della song. La terza, "A Father I Never Had", non vanta invece alcuna guest star ad affiancare il bravo Max, pertanto si possono capire anche le doti vocali del mastermind ucraino in una song piuttosto lineare per il genere, pregna sempre e comunque, di un riffing oscuro decisamente classico. "Weep On, Weep On" può contare sulla partecipazione alla voce del bravo Evander Sinque dei nostri amici Who Dies in Siberian Slush e il risultato non può che essere positivo, vista la stima che nutro per la band moscovita. Altre partecipazioni illustri anche per "I Am the Only Being Whose Doom", in cui Max affiderà un epico e sofferto cantato a Vladislav Shahin dei Mounrful Gust e il conclusivo assolo di chitarra al bravissimo Vito Marchese dei doomster americani Novembers Doom. A completare lo stuolo di eccellenze, non poteva mancare il cavernoso growl di Daniel Arvidsson dei già citati Draconian, a cantare nell'ultima "The Kingdom of Nothingness", l'ultimo struggente atto di questo 'I Remember', un album che in fatto di originalità, sia chiaro, non porta nulla di nuovo al genere. Sembra piuttosto una parata di ospiti interessanti a dare lustro ad un amico che ancora si diverte nel proporre melodie terribilmente struggenti ma stra-abusate. (Francesco Scarci)

(Solitude Productions - 2018)
Voto: 65

https://sorrowfulland.bandcamp.com/

Blurr Thrower - Les Avatars du Vibe

#PER CHI AMA: Post Black/Doom
Francia, one-man-band, black obliquo, Les Acteurs de l'Ombre Productions. Tutti i tipici ingredienti del metal estremo sono racchiusi in quest'album dei Blurr Thrower intitolato 'Les Avatars du Vibe'. Due brani per 36 minuti di musica marcescente, ferale, insana, ma comunque attraente perchè assai spesso il male ha una capacità seducente sull'uomo. L'EP d'esordio dell'act parigino, pur non inventando nulla di nuovo, mette in scena un lavoro che appassionerà certamente gli amanti del post black o di sonorità comunque estreme, spazianti tra post e doom. Si perchè "Par-Delà les Aubes" nei primi nove minuti è un attacco all'arma bianca tra accelerazioni disarmanti, urticanti screaming vocals e ritmiche infernali, più vicine al cascadian black metal che alle deviazioni francesi di scuola Blut Aus Nord o Deathspell Omega. Nei successivi nove minuti, il mastermind transalpino si getta invece in un riffing di chitarra dal forte sapore ambient/post rock, a sparigliare le carte sul tavolo per acquisire nuovi consensi, di sicuro ha ottenuto quello del sottoscritto. Il finale è ancora uno spaventoso tornado black che ci conduce, attraverso un ipnotico rifferama e a dronici scenari, alla seconda song, "Silences". Qui, la situazione non cambia poi molto, con la classica tormentata ritmica post black ad aprire le danze in una lunga galoppata che non lascia troppo spazio all'immaginazione, tanto meno alla quiete se non in un angusto rallentamento centrale, che verrà poi spezzato ancora una volta dalle intemperanze sonore dell'oscuro musicista che si cela dietro a questi Blurr Thrower, di cui sono certo, sentiremo parlare molto presto. (Francesco Scarci)

(LADLO Productions - 2019)
Voto: 70

https://blurrthrower.bandcamp.com/releases

domenica 3 febbraio 2019

Altars of Grief - Iris

#PER CHI AMA: Black/Doom
La Hypnotic Dirge Records sta facendo un buon lavoro, fondamentalmente votato a scovare band interessanti in territori black doom senza sbracarsi troppo in innumerevoli uscite annuali. Lo scorso anno tra le release più interessanti dell'etichetta canadese, c'è sicuramente da annoverare quella degli Altars of Grief, quintetto originario di Regina, nel Saskatchewan. Il genere in cui è possibile collocare i canadesi è quello di un death doom emozionale che arriva a sconfinare talvolta nel black. Otto tracce per confermare quanto di buono i nostri avevano lasciato intravedere nel precedente 'This Shameful Burden', ormai datato 2014, anzi fare decisamente meglio. La mid-tempo "Isolation" apre il disco con una certa eleganza, proponendo appunto un death doom atmosferico, corredato da cleaning e growling vocals, che talvolta sfociano in grida dal forte sapore black, pur la traccia muovendosi in territori ritmati e assai melodici. Non si può dire altrettanto della funambolica "Desolation", violentissima nella sua estremissima ritmica black symph con una batteria sparata al fulmicotone, come se non ci fosse un domani. Solo delle evocative vocals provano a placare l'incedere tempestoso di una song dal sicuro impatto sonoro, che nella porzione solistica sembra lasciar intravedere delle reminiscenze progressive. La title track riparte là dove "Isolation" aveva concluso, con un sound decisamente più controllato e decadente, complici le liriche che, come spiegato dal vocalist, narrano di un padre che si ritrova incapace di connettersi e prendersi cura della sua giovane figlia, Iris, che si è gravemente ammalata. Spingendosi sempre più a fondo nei suoi vizi, e sentendosi respinto dalla nuova fede incrollabile di Iris, entra nella sua auto e decide di lasciarla indietro. Da qualche parte lungo la strada ghiacciata, perde il controllo del suo veicolo e perisce. Il suo purgatorio è guardare impotente mentre Iris soccombe lentamente alla sua malattia senza di lui. Tornando alla traccia, non manca neppure qui la forsennata ritmica che schiude a momenti più calibrati, di temperamento doom e linee melodiche dal forte tocco malinconico, spezzate però sempre da quelle intemperanze ritmiche che sembrano deviare notevolmente il corso del brano verso lidi più estremi o ancora far sprofondare il tutto in territori angoscianti in un'altalenanza ritmica davvero pericolosa. "Child of Light" è una song più classica che poco mi ha lasciato al termine del suo ascolto, se non una certa analogia con i grandi del passato. Decisamente più interessante "Broken Hymn" per il violoncello di Raphael Weinroth-Browne, che qui sembra assurgere un ruolo drammaticamente più importante nell'esibire quell'aura decadente all'intero album, in una traccia lenta e ritmata che trova comunque sfogo nelle ormai classiche e divampanti scariche black, contrastate solo dalle splendide vocals pulite del bravissimo Damian Smith, eccellente nella sua prova. "Voices of Winter" mi ricorda un che dei primi Novembre; gli archi di Raphael sono sempre preponderanti ma il corso del pezzo vedrà la proposta della band rallentare verso trame sempre più oscure e tenebrose che ci introducono alla drammatica "Becoming Intangible", dove un duetto formato da chitarra acustica e voce pulita (coadiuvate dal violoncello, qui più in sordina), colpiscono per l'enorme pathos messo in scena nella sua prima parte, prima di esplodere in un'ultima sfuriata black, prima della conclusione affidata al tiepido e nostalgico addio dell'epilogo finale. Davvero intriganti, da ascoltare ad ogni costo. (Francesco Scarci)

(Hypnotic Dirge Records - 2018)
Voto: 80

https://hypnoticdirgerecords.bandcamp.com/album/iris

sabato 2 febbraio 2019

Rostres - Les Corps Flottants

#PER CHI AMA: Post Metal Strumentale, Pelican, Pg.lost
Dai Pirenei ecco scendere i Rostres, duo proveniente da un piccolo villaggio rurale al confine tra Francia e Spagna, per proporre il loro sound strumentale all'insegna di un post metal dalle fosche sfumature post rock. Si rivela rischioso proporre un disco senza il minimo accenno di vocals, però voglio immediatamente spoilerarvi il finale: i due ragazzi di Pau hanno superato la difficile prova. Non era facile, perchè conoscete la mia allergia a sonorità interamente strumentali, che mi porta ad annoiarmi ben presto per quella che trovo essere una privazione fisiologica di uno dei più importanti strumenti di una band, la voce appunto. Eppure il duo transalpino s'impegna con una certa efficacia a portare a casa un lavoro pulito e convincente già con l'iniziale title track e i suoi otto minuti di oscure sonorità post metal, che tra tonanti riff di chitarra e sospese melodie dal sapore etereo, mi conquista sin dai primi istanti. Credo tuttavia che sia la successiva "Exorde" a cogliere in pieno tutta la mia attenzione: inizio quasi ambient, guidato da tocchi di basso, pizzichi di chitarra e sfioramento di piatti, per quella che sarà una vera progressione musicale atta a condurci all'estasi. Non servono voci se sei in grado di riempire gli spazi con una musica adeguata, qui a tratti quasi dronica, pur vantando una ritmica che potrebbe stare su un lavoro qualsiasi dei Cult of Luna. Si prosegue con la malinconica delicatezza fluttuante di "Méandres", una song che dipinge freddi paesaggi in bianco e nero, come quelli esposti nell'artwork del disco. La traccia avanza un po' ipnotica e paranoica almeno fino a quando ad innescarsi è la ritmica possente del duo formato da Alain e Lionel. L'attacco tribale di "118" invece entra e s'insinua nella testa, e da li non accenna a muoversi in un mantra evocativo evocante anche i Pg.lost. Sublimi, non c'è che dire dal momento che ho amato alla follia anche l'ultima release della band svedese. Più hardcore oriented "Glaire", figlia di un retaggio ruvido e genuino che in passato ha fatto parte del bagaglio musicale dei Rostres. Non mancano tuttavia nemmeno qui quei momenti di quiete in grado di stemperare il lato più arcigno dei due musicisti, azzeccatissimi e curati senza ombra di dubbio. Una semplicissima chitarra acustica apre la più lunga delle canzoni, "Au Faîte des Honneurs", una song che si dilunga forse un po' troppo nell'apparato introduttivo (circa tre minuti) per poi dare libero sfogo alla sua dirompente furia elettrica, spezzata solo da altri intermezzi ambientali, in un esperimento interessante ma a tratti interlocutorio e poco incisivo. Ancora scosse di adrenalina nel finale affidato alla corrosiva matrice ritmica di "Déversoir", gli ultimi cinque schizofrenici minuti di questo consigliatissimo 'Les Corps Flottants'. (Francesco Scarci)

Morso – Lo Zen e l'Arte del Rigetto

#PER CHI AMA: HC/Punk/Noise Rock
Il posto dell'hardcore nella penisola italiana è sempre stato di prima linea, un laboratorio underground di musiche estreme che spesso e volentieri fu poco considerato, vittima di esterofilia, bistrattato, dimenticato, ma a volte osannato, sicuramente dai fedelissimi tanto amato. I tempi cambiano e si va avanti, ci si evolve. Questo è il caso dei lombardi Morso, che rifacendosi in parte al titolo di un libro assai piacevole, hanno sfoderato un bel disco di musica tesa e moderna, cantato in lingua madre, veloce e convincente. Certo, le derivazioni ci sono ma non eccedono, quindi le mie lodi vanno ad un vocalist (Guido) di tutto rispetto, che si fa notare e che, a discapito di una lingua così difficile da accostare a questo tipo di sonorità, il tutto per farsi capire, adagia un canto così dinamico e potente che, canzone dopo canzone, si ha l'idea di essere davanti ad un disco ben studiato e soprattutto molto ispirato. La formula è un HC di nuova estrazione, con qualche spinta verso il metal, come fecero a loro modo i Negazione, combinata con l'isteria matematica dei The Dillinger Escape Plan sullo sfondo (anche se tecnica e cambi di tempo estremi non sono una priorità della band), il tono polemico tra urla e proclami alla Teatro degli Orrori (anche se qui manca quel lessico spinto, di ardore politicamente scorretto e i Morso inseguono tematiche decisamente più socio/esistenziali), e tutta una serie di richiami in ordine sparso a Marlene Kuntz, Afterhours, Contrasto, perfino i Subsonica, in piccole dosi nelle parti più melodiche (poche e mirate). Così, hardcore, noise e punk alternativo tirato e tosto vanno a braccetto (sarà la buona produzione suggerire un certo richiamo ai Jesus Lizard), suonati al fulmicotone, sparati in faccia all'ascoltatore per far male e toccarlo nelle ferite più vive, evocando un che degli RFT. Il disco vola e diverte, la sua carica esplosiva e il carattere oltraggioso e pessimista dei testi, che hanno la buona virtù di permettere a tutti di potersi rispecchiare (di questi tempi non è poco per la musica italiana in generale), fanno in modo che brani velocissimi come "Liberaci dal Male", "Glamour Suicide", "Il Fine Giustifica i Mezzi" e la favolosa "Ex" (con la sua E meneghina accentuatissima e splendidamente glam!), oppure la conclusiva "Sognavo di Essere Bukowski", diventino inni alla battaglia, inni alla resistenza per la sopravvivenza quotidiana. Alla fine questo album, licenziato via dischi Bervisti (piccola etichetta coraggiosa e piena di buon gusto musicale), è una gran bella sorpresa, un disco sanguigno e intellligente di musica estrema che potrebbe indicare una nuova via percorribile per il futuro della musica alternativa in Italia. (Bob Stoner)

(Dischi Bervisti/Cave Canem DIY - 2019)
Voto: 80

https://dischibervisti.bandcamp.com/album/lo-zen-e-larte-del-rigetto

Tarpit Orchestra - Songs About Dragons

#PER CHI AMA: Stoner/Hard Rock, Kyuss
Uno stoner alla Kyuss, primi Queens of the Stone Age, quello dei finlandesi Tarpit Orchestra: chitarre scure, riff pesanti, martellate su martellate. Gli arrangiamenti e le canzoni scorrono senza intoppi in questo 'Damn Dragon', anzi forse un po’ troppo senza intoppi. Mi spiego meglio. Senza dubbio, la band ha una tecnica e una capacità musicale superiori alla norma, tuttavia nel genere iper inflazionato dello stoner, è necessario essere più originali degli altri per spiccare fuori dalla bolgia di band ormai troppo similari tra loro. E in tutta onestà, i Tarpit Orchestra non sono riusciti in questo intento, almeno non completamente. Ora magari io sono abituato a suoni più estremi e a band più pazzoidi, tuttavia non voglio affossare un lavoro obiettivamente ben fatto, molto curato e tecnicamente non scontato. Un plauso va alla voce, sempre sporca al punto giusto e diretta nella sua semplicità, oltre che all’arrangiamento dei pezzi, molto ben architettati, e di cui segnalerei il trittico iniziale formato da "Dues", "Songs About Dragons" (con quel suo stile vocale vicino ai Baroness) e la fortemente grooveggiante "Engines", peraltro le uniche song ascoltabili sul sito bandcamp del quartetto di Oulu. Alla fine, 'Damn Dragon' rappresenta il disco giusto per chi ha voglia di sentire una band stoner cazzuta, qui non troverete sicuramente strane sorprese! (Matteo Baldi)

venerdì 1 febbraio 2019

Loneshore - From Presence To Silence

#PER CHI AMA: Prog Death Doom, Opeth
In Brasile, il Sole deve ormai aver ceduto il passo alle tenebre. Solo in questo modo si spiegherebbe la ragione dell'uscita funerea degli Helllight e ora di questi Loneshore, provenienti addirittura dalle spiagge assolate di Rio de Janeiro. Il quintetto di Rio però, a differenza dei più illustri colleghi dediti al funeral, offre un sound che, per quanto nelle propria struttura veda l'utilizzo di qualche partitura doom, ammicca principalmente agli Opeth di 'Blackwater Park', quale influenza primaria. La cosa è chiara fin dall'opener "The Quiet Visitor", undici minuti in cui i carioca giocano con fraseggi prettamente progressivi, pur mantenendo intatta una certa asprezza a livello ritmico e propinando un dualismo vocale tra growling e screaming vocals davvero intrigante. In tutto questo, non mancano alte dosi di melodia che si sprigionano attraverso le sei lunghe tracce contenute in 'From Presence To Silence'. Detto degli undici minuti iniziali dell'opening track, ne seguiranno altri dieci con l'oscura "Effigy", un pezzo che ben si muove tra riffoni tosti, strutture articolate, ma soprattutto dove il pezzo forte, oltre alle splendide melodie di chitarra, è rappresentato dalla comparsa di clean vocals che poggiano sui vari cambi di tempo che contraddistinguono il pezzo, un buon pezzo. L'arpeggio in apertura di "Winds Of Ill Omen" ricorda inequivocabilmente gli innumerevoli brani degli Opeth che furono, quelli che iniziavano brillantemente le loro canzoni in questo modo tra le melodie gentili di una chitarra acustica e le proseguivano anche meglio, in pezzi ben calibrati tra melodia e aggressività. E i Loneshore non sono tanto distanti dall'emulare le gesta del periodo di mezzo degli eroi svedesi capitanati dal buon Mikael Åkerfeldt, alla stregua di quanto fecero agli esordi gli statunitensi Daylight Dies. Questo per dire, che fondamentalmente la band brasiliana non inventa nulla di nuovo, ma quello che suona, non cosi facile da proporre, mostra comunque le qualità di una band già rodata e che vanta un buon gusto per le melodie, un'ottima preparazione tecnica e qualche idea non proprio da buttare. Se in tutto questo ci mettessero anche un pizzico di personalità, credo che mi ritroverei quei ad osannare 'From Presence to Silence' anzichè dire che di strada da fare per trovare un proprio stile personale ce n'è da fare ancora parecchia. Nel frattempo se siete dei nostalgici dei vecchi Opeth, e vi piacciono anche le accelerazioni post black (ascoltatevi la title track), beh credo che il lavoro dei Loneshore possa supplire egregiamente a questa vostra mancanza nell'attesa che prima o poi Mikael e compagni rinsaviscano. (Francesco Scarci)

(BadMoonMan Music - 2018)
Voto: 75

https://loneshore.bandcamp.com/releases

Rome In Monochrome - Away From Light

#PER CHI AMA: Gothic/Doom, Klimt 1918
A quasi un anno dalla sua uscita, ma per incolpevole ritardo, ecco giungerci fra le mani l'album di debutto dei nostrani Rome in Monochrome, 'Away From Light', rilasciato dalla potentissima label russa Solitude Productions nella sua sub-label BadMoonMan Music. La proposta del quartetto italico, ripercorrendo le orme di gente del calibro di Novembre e Klimt 1918, tanto per fare due nomi a caso, ma rifacendosi anche al loro stesso moniker, si muove nell'ambito di un doom malinconico in bianco e nero che chiama in causa anche un che dei Katatonia più alternativi. Certo, ho citato nomi importanti quindi le aspettative potrebbero essere elevate, vorrei però sottolineare che siamo ancora parecchio distanti dai maestri del genere, anche se i Rome in Monochrome potrebbero rappresentare una discreta alternativa agli originali. Otto le tracce a disposizione della compagine italiana per convincerci della bontà della loro proposta, che parte dalle soffuse atmosfere di "Ghosts Of Us", song dal flavour dark rock che solo nel finale rende più aspro il proprio sound per il solo fatto che un growl sostituisce un cantato pulito a dire il vero un po' titubante. "A Solitary King" ha un piglio più dinamico, sebbene le clean vocals del frontman non abbiano grossa presa sul sottoscritto, considerando poi una musicalità che si mantiene costante nel proprio lento fluire e che vede solo rare intemperanze alterare quell'incedere quasi etereo, che finalmente nella seconda parte del brano, ha modo di crescere ritmicamente e divenire più robusto e convincente. Convincente quanto "Paranoia Pitch Black", una song che poteva stare tranquillamente nell'esordio dei Klimt 1918, o in un disco come 'Arte Novecento' dei Novembre (ah peraltro in questa song, il cantato in scream è ad appannaggio del buon Carmelo Orlando, frontman dei Novembre stessi). La proposta della band laziale è interessante, ma c'è ancora qualcosa che non mi convince, sembra quasi che le manchi quel quid che le permetta di decollare. È il caso di "Uterus Atlantis", un brano semi-acustico, che potrebbe evocare un che degli Antimatter, però anche in questo caso, la band inglese la vedo ancora troppo superiore ai nostri. Il disco alla fine non ha troppi sussulti: forse la mia song favorita sarà "December Remembrances" che, se non è la traccia più aggressiva del lotto (e quell'aggressività la metterei fra virgolette), sicuramente risulterà tra le più lunghe, con i suoi abbondanti nove minuti di sonorità emotivamente rassegnate. Ancora qualche pezzo claudicante, per arrivare a concludere con "Only the Cold", dove il doom dell'act capitolino sprofonda nelle tenebre di una proposta che rivela una maturità artistica ancora non del tutto formata. Sicuramente ci sono buone idee, ma quello su cui lavorerei maggiormente io, è eliminare quella statiticità che permea ogni singolo brano, per questo poco caratterizzato ed elettrizzante. Per ora 'Away From Light' è solo un discreto esordio sulla lunga distanza, direi che c'è ancora da lavorare parecchio per ottenere ottimi risultati. (Francesco Scarci)

mercoledì 30 gennaio 2019

Saint Sadrill - Pierrefilant

#PER CHI AMA: Neo Prog/Avantgarde/Indie/Psichedelia
Al primo ascolto sono rimasto folgorato da questo nuovo album dei transalpini Saint Sadrill, un ensable di musicisti atipici e geniali, in grado di generare un'infinità di emozioni, trasportandomi in un viaggio dai mille colori ed emozioni multiformi, attraverso i molteplici generi musicali rivisti in modo originalissimo e personale dalla band di Lione in questo 'Pierrefilant'. Mi sono perso nel guardare il loro splendido ed intimo "Live at Studio Rouge in Rivolet" del febbraio scorso, presente su youtube, dove il sestetto conferma la mia impressione di trovarci di fronte ad un super gruppo, con grandi capacità compositive, tecniche, canore ed espressive. L'album è uno spasso, per veri intenditori. Ci si sposta musicalmente con cotanta velocità e dimestichezza che mi risulta impossibile decifrarlo o definirlo a modo in poche righe. Potreste accostare un'attitudine elettro-minimalista con un appeal da composizioni cameristiche, una sensibilità soul grazie ad un canto in stile Antony and the Johnsons con la follia di un giovane Arthur Brown nel pieno di un sogno psichedelico; il post rock sofisticato e suadente proveniente dalla cristallina Islanda con la musica indipendente fatta di chiaroscuri emotivi degli Ulan Bator e ancora, la visione astratta e mistica del più fantasioso Terry Riley con il krautrock più ipnotico e meno convenzionale, i suoni space di Suzanne Ciani, con le vellutate sperimentazioni progressive di Steven Wilson, il tutto capitanato da un vocalist dall'estensione decisamente fenomenale. Sarebbe stupido descrivere ogni singolo brano come pure prenderne uno per dire che è il migliore, le canzoni sono cosi piene di vita, dai risvolti inaspettati, che partendo da un lato introspettivo, ci si può trovare a confrontarci con un coretto cantato alla maniera burlona del mitico Zappa o dal tono ecclesiastico del miglior alternative country, per continuare in un chitarrismo che ricorda le atmosfere dei Madrugada in 'Industrial Silence', o l'incedere moderno, intellettuale e neo prog dei The Pinneaple Thief, per finire nel jazz rumorista dei mai dimenticati meravigliosi Shub Niggurath, sempre in agguato ma nascosto tra le righe, di questi dieci brani dalla delicatezza infinita. Una rabbia dolce, sofisticata, sovversiva, fuori dal coro, capace di graffiare con il suo ammaliante potere di essere pop d'autore e avanguardia al tempo stesso, in un capolavoro fatto uscire dallo stravagante collettivo Dur & Doux, un disco che non merita di passare inosservato, un gioiellino da mettere sotto il cuscino e tenerlo stretto come un tesoro. Album geniale e ispirato. (Bob Stoner)

(Dur & Doux - 2018)
Voto: 90

https://saintsadrill.bandcamp.com/

martedì 29 gennaio 2019

Monolithes - Limites

#PER CHI AMA: Experimental/Jazz/Fusion
Francia, Francia, nient'altro che Francia. Sembra ormai che il panorama mondiale musicale sia dominato in lungo e in largo da band provenienti dal paese dei nostri cugini, e non sto parlando solo in ambito estremo. Quest'oggi infatti, abbiamo a che fare con quest'astrusa realtà prog jazz metal, i Monolithes, ensemble che ha peraltro vinto il concorso “Jazz de la Défense” nel 2017, e che in formazione non vede solo la classica batteria e chitarra ma addirittura vibrafono e contrabbasso, a segnare l'estrosa identità del quartetto di Nantes. Basta poco per accorgersi della complessità della proposta di questi quattro pazzoidi, che lungo i 72 minuti a loro disposizione (in sole sei tracce!) esplorano e spaziano orizzonti musicali alquanto indefiniti. Se l'opener "Ploton le Furieu" funge più da intro, nei suoi quasi cinque minuti ci dà un'idea della intenzioni musicali jazz/post rock che dovremo attenderci, facendoci però capire quanto sarà davvero ostico affrontare l'ascolto di 'Limites'. Questo lo si evince già con gli schizofrenici dodici minuti di "Limite les Rêves Au-delà", dove sarà chiaro quanto al quartetto francese piaccia muoversi nella più totale improvvisazione musicale tra ritmi etnici, noise e jazzcore, in uno dei brani più complicati ascoltati - sin qui - nella mia lunga militanza estrema (e sto parlando di oltre 30 anni!). La song è un susseguirsi di umori, suoni, note messe caoticamente in ordine dall'entropia musicale in costante aumento sprigionata dalla band. Letteralmente sfiancato da questa mini maratona, mi appresto ad una ancor più ampia fatica, con i sedici interminabili minuti di “Tears Point”, in cui sembra regnare, almeno inizialmente, il silenzio del vuoto cosmico, poi rumori alieni, spezzoni disarmonici di musica indecifrabile, scale ritmiche buttate giù casualmente in una caldera di stili musicali deprivati della classica forma canzone. È sperimentazione avanguardistica, fatta dalla fusione di molteplici stili provenienti da questo mondo e da uno dei milioni di miliardi di mondi extraterrestri. Al peggio non vi è mai fine se parliamo di durate, perchè c'è ancora da affrontare la psicotica "Panglüt" e i suoi infiniti 20 minuti, ove spiegarvi cosa si va a coniugare nelle sue note, diventa impresa assai ardua. Vi basti pensare alle classiche trame jazzistiche, aggiungeteci un pizzico di metal, prog, suoni etnici, drone, silent noise (quasi 10 minuti), ambient e qualsiasi altra cosa che abbia poteri destabilizzanti per la psiche umana, e il gioco è fatto. A completamento di quest'opera magna, ecco arrivare "Chasuble", una bonus track, neanche ce ne fosse il bisogno, stralunato come mi ritrovo ora, dopo aver prestato il fianco a quasi un'ora di musiche e pronto ad affrontare altri sedici minuti, in grado di sovvertire completamente ogni mio concepimento sonoro. Ma l'ascolto di quest'ultima traccia è cosa assai semplice, è meditazione buddista, rilassamento per la psiche, melodie cosmiche, pronte a condurci alla pura essenza del nirvana. Improbabili. (Francesco Scarci)

(Atypeek Music - 2018)
Voto: 75

https://monolithes.bandcamp.com/album/limites

domenica 27 gennaio 2019

The Pit Tips - Best of 2018

Francesco Scarci

Avast - Mother Culture
Entropia - Vacuum
Between the Buried and Me - Automata I-II

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Dominik
 

Funeral Mist - Hekatomb
Sargeist - Unbound
Eïs - Stillstand und Heimkehr

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Five_Nails

Birnam Wood - Wicked Worlds
Horn - Retrograd
Atlas - The Destroyer of Worlds

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Pietro Cavalcaselle
 

A Perfect Circle - Eat the Elephant
Denzel Curry - TA13OO
Kid See Ghosts - Kid See Ghosts

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Shadowsofthesun

Daughters - You Won't Get What You Want
YOB - Our Raw Heart
Manes - Slow Motion Death Sequence

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Alain González Artola
 

Bloodbark - Bonebranches
Mørke - Death Embraces You All
Antigone´s Fate - Insomnia

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Michele Montanari

The Ocean - Phanerozoic I: Palaeozoic
Spaceslug - Eye the Tide
Night Verses - From the Gallery of Sleep

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Bob Stoner

Pardans - Spit and Image
Voivod - The Wake
Sinistro - Sangue Cassia


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Stefano Torregrossa 

Sumac - Love in Shadow
Sleep - The Sciences
YOB - Our Raw Heart 

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Alejandro Morgoth Valenzuela 

Voices - Frightened
The Antichrist Imperium - Volume II Every Tongue Shall Praise Satan
Acathexis - Acathexis

sabato 26 gennaio 2019

Majestic Downfall - Waters of Fate

#PER CHI AMA: Death/Doom, Saturnus
Chissà se i Majestic Downfall avranno pensato di rivalutare la loro scelta di essersi spostati dal Texas al Messico, dopo tutte le tensioni generate dal buon Trump negli ultimi mesi lungo quel confine tanto contestato? Ovvio che si tratti di banalissime speculazioni atte a presentare il comeback discografico dei messicani Majestic Downfall, 'Waters of Fate', arrivato sugli scaffali grazie alla collaborazione tra Solitude Productions e Weird Truth Productions, dopo un silenzio durato tre anni. Al pari degli Helllight, mi fa specie sentire una band proveniente da un paese cosi solare, proporre un genere invece oscuro e deprimente fatto sta che, a differenza dei compagni di scuderia brasiliani, qui non ci troviamo al cospetto di funeral doom, bensì trattasi di un death doom, in grado di srotolare, lungo gli oltre 60 minuti, sei pezzi aggressivi, roboanti, che pescando da una tradizione più vicina ai primi Paradise Lost, faranno la gioia dei vecchi fan dell'act brasileiro, senza tuttavia avere l'ambizione di raccoglierne di nuovi. Al duo di Querétaro infatti sembra mancare quel fattore X in grado di fargli fare il vero salto di qualità. La musica non è male, lo dimostra la lunghissima "Veins" in apertura con i suoi saliscendi death doom, le vocals costantemente orientate al growl, qualche sfuriata al limite del black e il classico arpeggio acustico, tante cose carine ma stra-abusate negli ultimi anni. Non serve nemmeno fare il verso ritmico dei primi Cathedral nella title track per farmi dire che il lavoro ha un che di rilevante, lo trovo un po' piattino e privo della verve che altri dischi della label russa, invece possiedono. Ci sono ancora troppe cose scontate che mi fanno pensare di conoscere già la trama del disco. Apprezzabile il tentativo di trovare delle variazioni al tema, come l'utilizzo di intemperanze black nella già citata traccia che dà il titolo al lavoro. Purtroppo la sensazione forte è quella che la proposta dei nostri sia un po' lacunosa in più di una circostanza. Un peccato perchè poi i Majestic Downfall diventano più interessanti in pezzi come "Contagious Symmetry", song assai strutturata nel suo incedere inquieto e dotata di un buon solo. Più difficile da comprendere l'ultima "Waters of Life", lunga e rumoristico/dronica song che chiude un disco non certo tra i più memorabili rilasciati dall'etichetta là oltre la cortina di ferro. (Francesco Scarci)

(Solitude Productions/Weird Truth Productions - 2018)
Voto: 60

https://solitudeproductions.bandcamp.com/album/waters-of-fate

Helllight - As We Slowly Fade

#PER CHI AMA: Funeral Doom
Altro ritorno storico sulle pagine del Pozzo dei Dannati per i brasiliani Helllight, band che seguiamo sin dalle origini e di cui abbiamo recensito quasi tutti gli album. Mancava a rapporto l'ultimo uscito per la Solitude Productions, 'As We Slowly Fade', un altro, l'ennesimo, monumentale lavoro dei sudamericani. Chi è appassionato di funeral doom, sa di certo di quale preziosa entità flemmatica e funerea stiamo parlando, una band che per quanto provenga dall'assolato Brasile, è in realtà portatrice di un messaggio oscuro e di morte, e per questo divenuta una dei maggiori esponenti della scena funeral mondiale. E pure questo disco, costituito da sei lunghe tracce più intro, conferma quanto di buono il trio di Sao Paolo, produca da oltre vent'anni. E allora addentriamoci nelle viscere della bestia per scoprire le affascinanti trame chitarristiche di Fabio De Paula e compagni, che già con la title track impreziosiscono questa release con lente e strazianti melodie squarciate da decadenti assoli dal sapore progressivo. I quasi 12 minuti della song scivolano via che è un piacere tra growl terrificanti e drammatiche cleaning vocals che stemperano la pesantezza delle prime, mentre la porzione ritmica si mantiene su tempi dettati al rallentatore, soprattutto nella terza disperata e disperante "While the Moon Darkens", brano lento ma dalle keys magniloquenti nella sua seconda parte, che nuovamente si fa accattivante nella sua sezione solistica, vero punto di forza del combo paulista. Qualche anno fa dicevo come gli Helllight avrebbero rappresentato il punto di riferimento del funeral in futuro, oggi posso solo confermare che i nostri abbiano raggiunto quest'invidiabile status, grazie all'ispirato lavoro di chitarre e atmosfere creato nella splendida "The Ghost", in principio dinamica, ma poi sprofondante in territori di opprimente musica funeral. Le sorprese non terminano qui dato che "Bridge Between Life and Death" e "The Land of Broken Dreams" hanno ancora da regalare due putrescenti capitoli di inquietanti sonorità d'oltretomba, sicuramente evocative a livello canoro (a me l'epica performance di Fabio piace assai) quanto nel gigioneggiare a livello chitarristico con queste ardite scale ritmiche e i continui rimandi a sonorità prog rock. L'ultima "Ocean" riserva l'ultima sorpresa nell'ascolto di 'As We Slowly Fade', ossia la presenza di una gentil donzella a prestare la propria suadente voce a duettare con Fabio (qui a tratti non troppo all'altezza, a dire il vero, complici dei rimandi inopportuni agli Arcturus) e chiudere comunque con una certa eleganza questo brillante disco, mi sa tanto, il mio preferito nella discografia degli Helllight. (Francesco Scarci)

(Solitude Productions - 2018)
Voto: 80

https://helllight.bandcamp.com/

giovedì 24 gennaio 2019

Délétère - De Horae Leprae

#FOR FANS OF: Atmospheric Black
It´s time to return to one of the most prolific and respected black metal scenes in the world, the one of Quebec. This Canadian region is well-known due to its strong pro-independence movement. This time and contrary to other highly rated bands, I am reviewing a band with, as far as I know, no political connections at least, if we speak about the lyrical contents of their albums. The band is called Délétère and it was formed in 2009 by Atheos and Thorleïf, who have been the unique permanent members of this project, only accompanied by several musicians who helped them in the studio or on stage. Both members have previous experience in excellent bands like Forteresse or Utlagr, just to say they are strongly connected to the extreme metal scene of Quebec. Though the band exists for nine years, they have only released two albums, the excellent debut 'Les Heures de la Peste' and the new opus 'De Horae Leprae'.

The new effort has a similar concept as the debut album. The lyrics deal with medieval times, and specifically with death and mortal diseases. This time, the album´s concept seems to deal with leprosy, another disease very frequent in the medieval times. Musically speaking, Délétère continues with the tradition settled by other bands of the scene. The band plays a kind of aggressive black metal, focused on powerful riffs melodic and atmospheric. If I should compare the band´s sound to, for example, Forteresse, I would say that Délétère has a darker approach fitting perfectly well with the tenebrous lyrical concept the band develops. The second track, “Cantus II-Sagina Caedencis”, is a fine example of somber guitar chords, which open the song and later accompany the main guitar riffs. But it´s not the unique example of this somber tone as a song like “Cantus V-Figura Dysphila” has also some especially dark sections. Though the album has in general terms a very aggressive tone and was very focused on creating powerful riffs, the band adds, from time to time, some elements to enrich its musical offer. For example, the opening track, “Cantus I-Teredinis Lepra” or the fourth song, “Cantus IV-Inopia et Morbo”, have occasional keys sounding like an organ, which of course fits with the medieval concept behind the band´s music. This use is increased in the last track, “Cantus IX-Oratio Magna”, my favourite song, as it sounds more medieval and atmospheric than any other song of the album, mainly thanks to these organs. What about the vocals? Well, I can safely say that Thorleïf delivers as a vocalist. His screams are powerful and high-pitched, they are easily audible as the production is quite good, raw enough, but with the majority of the instruments and the vocals themselves, easily distinguishable. Vocally speaking, we also find tiny tries to add some variety as the band introduces some clean vocals, which sound like a dark choir, very medieval yet again, tough they are scarcely used in songs like “Cantus II-Ichthus Os Tremoris”. The album has overall a quite fast pace, though the drums have a healthy combination of blast-beasts and slightly slower sections, almost never really slow but something between fast and mid-paced patterns, which obviously help to create non-monorithmic songs.

To sum up, Délétère has released a very good sophomore album which I wouldn´t define as a masterpiece, but a very enjoyable black metal album with some nice touches, which make it an interesting listen. Very recommendable if you follow the excellent black metal scene of Quebec. (Alain González Artol)

(Sepulchral Productions - 2018)
Score: 75

https://www.facebook.com/inopiaetmorbo

Borghesia - Proti Kapitulaciji

#PER CHI AMA: Electro/Post-Industrial/Darkwave
Risulta molto difficile catalogare i Borghesia, band di Lubiana che opera in ambito sperimentale ed elettronico fin dal 1982. Industrial, darkwave, trance-dance s'incrociano con un ambient cinematografico (cosa che il gruppo conosce bene visto la loro forte dedizione verso le colonne sonore), la rumoristica ed il post punk elettronico degli anni novanta e duemila. Un'ottima produzione poi dà il giusto appeal ad un lavoro sicuramente intrigante ed intellettuale, di non facile approccio, peraltro cantato in lingua madre, sui versi del giovane poeta Srečko Kosovel, morto di meningite all'età di soli 22 anni. La militanza antifascista, parte del lato artistico della band a cui si aggiunge una visione cupa relativa al declino in cui riversa il mondo di oggi, è sempre padrona della scena. Una scena musicale che è un meltin pot variegato, tra Disciplinatha, Falco, Skynny Puppy, Kraftwerk, Palais Shaumburg, Kirlian Camera, Malaria, un certo art rock/pop/dance, riproposto alla maniera storta dei Chumbawamba, con l'attitudine tipica di una post punk band rumorista, giunta direttamente da Berlino (vedi le analogie di produzione con il recente 'Lament' degli Einstürzende Neubauten). Canti nostalgici , sperimentazione, folk ed elettro-rock vanno a braccetto per tutto il tempo del disco, rilasciando, nel proseguo dell'album sentimenti di tristezza e amarezza, profondità ed introspettiva che prevalgono sull'impatto sonoro in "Europa Umira" e "Razočaranja I", che emergono per ingegno compositivo e delicate atmosfere. L'intento sonoro è comunque di unire ritmiche attraenti, melodie incalzanti e l'uso del cervello, per pensare a cosa ci riserverà il futuro. Anche la techno (quella intelligente) è spesso citata nel sound della band, come in "Moj črni Tintnik", brano che si pone il compito di unire il lato dance dei nostri ad echi in sintonia con la famosa colonna sonora di 007 e con la song tanto discussa ed icona di un'estate di tanto tempo fa, dal titolo, "Da Da Da" della pop wave band Trio. Nello srotolarsi dei brani, alla fine ci si immerge spesso in carrellate di word music e ambient trip hop dal taglio etnico ovviamente dell'est Europa, campane come intro su "Radovnik" e spazio al classicismo per le arie della conclusiva "Blizu Polnoči". Un album 'Proti Kapitulaciji', che ha bisogno di essere assimilato lentamente (perchè quindi non sfruttare il download gratuito su bandcamp?), un lavoro complicato e studiato nei particolari con gusto e dedizione, un lavoro che cerca di emancipare la cultura sonora elettro-industriale di venti/trent'anni fa senza renderla retrograda o insignificante, ridonandole lustro e significato. Disco che non è per tutti, ma che mostra molte potenzialità espressive. (Bob Stoner)

mercoledì 23 gennaio 2019

Self-Hatred - Hlubiny

#PER CHI AMA: Death/Doom, Saturnus
Prosegue la nostra esplorazione nell'ambito della musica del destino là, nell'infinito mondo creato dalla Solitude Productions. Questa volta l'etichetta russa ci accompagna in Repubblica Ceca, alla scoperta dei Self-Hatred. Come s'intuiva dalla mia apertura, ci troviamo al cospetto di una band death doom, che di primo acchito mi ha ricondotto a 'For the Loveless Lonely Nights', splendido EP dei Saturnus. Non chiedetemi perchè o per come, ma questo è quanto ho percepito dall'ascolto dell'opener "Konec". Forse un'affinità vocale, un mood malinconico come solo Saturnus e pochi altri sanno trasmettere o chissà, fatto sta che io ci ho sentito questo e l'ho apprezzato non poco. C'è poi chi storce il naso quando ci si muove in territori assai derivativi, ma d'altro canto che altro si può inventare in questo genere? Andare sempre più lenti è già stato fatto, essere più pesanti pure, tanto vale godersi qualche buon pezzo di musica emozionale, atmosferica, insomma del buon death doom (cantato peraltro in lingua madre), come quello sciorinato in "Odraz", una song diretta, melodica che va dritta al punto e alla fine dell'ascolto ti dici anche soddisfatto. Più lenta la title track, ma decisamente efficace nella sua linea di chitarra melodica. Ci si riprende alla grande con "Střepy" e la successiva "Vzplanutí", due song dinamiche dove la band di Plzen si discosta dai dettami del genere lanciandosi in pezzi più movimentati e brevi (tra i 5 e i 6 minuti, sebbene i dettami vogliano durate più importanti e ritmi più lenti). In "Apatie" è lo spettro dei primissimi Novembre a far capolino, con una ritmica (e delle vocals sussurrate) che per certi versi mi hanno ricordato alcune cose contenute in 'Wish I Could Dream It Again...'. A chiudere le danze di 'Hlubiny' arriva la strumentale "Epitaf" che chiude timidamente la prova dei Self-Hatred, una band da tenere sicuramente sotto stretta osservazione. (Francesco Scarci)

(Solitude Productions - 2018)
Voto: 75

https://self-hatred.bandcamp.com/

martedì 22 gennaio 2019

Taur-Im-Duinath - Del Flusso Eterno

#PER CHI AMA: Black, Umbra Noctis
Se Cristo si è fermato ad Eboli, proprio da qui parte la proposta dei Taur-Im-Duinath (che in lingua "tolkeniana" sta per foresta fra i fiumi), one-man-band di F., già membro dei Pàrodos e live session degli Scuorn. 'Del Flusso Eterno' è il full length d'esordio del musicista campano che affronta in queste otto tracce, il tema del viaggio spirituale, teso ad abbracciare la circolarità dell'Universo e le sue forze di creazione e distruzione. Temi filosofici interessanti che si accompagnano a quelli altrettanto delicati della condizione umana, sorretti da un sound votato ad un black metal epico e feroce, il tutto rigorosamente cantato in italiano. Scelta azzeccata, un po' controcorrente rispetto ad un monicker che si rifà invece alla tradizione elfa, ma niente da obbiettare sia chiaro, solo un pensiero ad alta voce il mio. Si parte con la classica sognante intro e poi spazio a "Rinascita" e ad un black secco ed essenziale, forte nell'epicità delle sue chitarre, un po' meno nel minimalismo artificioso della drum machine. Ottime le vocals, graffianti, e sempre intellegibili, che ci permettono di seguire le liriche del factotum italico. "Cosi Parlò il Tuono" irrompe selvaggia, con un sound che potrebbe ammiccare ai Windir per epicità, ma anche agli Emperor e ai nostrani Umbra Noctis, sebbene non manchino momenti più doom oriented, soprattutto nella parte conclusiva del brano che segue peraltro uno splendido assolo dal forte sapore rock che attenua una ritmica incessante, di nero sentore post-black. La title track è una traccia più classica, legata a schemi canonici e derivativi dalla fiamma nera: chitarre zanzarose, il classico screaming, buone melodie mid-tempo e apparentemente poc'altro. La song cattura l'attenzione infatti per un malinconico break centrale di chitarra acustica e delle voci sussurrate, e per una conclusione finalmente accattivante. Un mini break di quasi due minuti per prendere fiato e ripartire dalla primordiale "Il Mare dello Spirito", una song che miscela il black ad una sempre più sentita vena malinconica. Un intro di un minuto e mezzo prepara "Ceneri e Promesse", song dal piglio solenne, strisciante nel suo incedere, quasi al limite dello sludge, che sembra prendere le distanze dalle altre song del lotto. Insomma, gli ingredienti per fare bene ci sono tutti, sebbene un certo ancoraggio a sonorità del passato un po' troppo abusate e a certe leggerezze a livello di produzione. Peccato poi per un outro francamente inutile, avrei optato per qualcosa più in linea con la proposta della band. Considerato lo status di debutto, 'Del Flusso Eterno' è comunque una release positiva, per cui auspico una maggior cura nei dettagli nei lavori a venire. (Francesco Scarci)