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lunedì 13 giugno 2016

Wastage - Slave to the System

#FOR FANS OF: Thrashcore/Metalcore, Machine Head, Biohazard
One of the longest-running acts in the Slovak underground, Thrashcore/Hardcore group Wastage are just barely now getting to their full-length debut and it’s quite an enjoyable mesh of their styles. Taking the stuttering rhythms and rather heavy propensity for breakdowns that fuel most Hardcore bands with a more rousing Thrash Metal aesthetic when it comes to the straightforward rhythms and paces which is certainly an enticing enough mixture on paper. Offering a mostly mid-tempo chugging charge with an occasional faster charge alongside those other harder-hitting breakdowns featured together here keeps the material nicely enjoyable despite the fact that way too much of the album comes off as rather one-dimensional with the majority played way too much in a straight way. There’s little deviation to be found here and it really seems a little sluggish in the mid-section where it blends together throughout here. In the finale it gets a little better with some stronger tracks but the middle is where it holds this down somewhat. There’s some pretty enjoyable work here. Intro ‘Away From The Darkness’ immediately blasts through a thumping series of mid-tempo hardcore-styled rhythms and tight patterns holding the stilted rhythms along through the stellar series of thumping and pounding drumming as the chugging breakdowns continue on through the charging final half for a fine opener. The title track offers a rumbling bass-line and a thumping series of tightly-wound and charging churning riffing into a steady, breakdown-laden patterns leading into the brief solo section and on into the final half for a solid and enjoyable effort. ‘Game’ features throbbing rhythms and clanking patterns that stuttering along through a plodding, low-key pace with tight patterns swirling along throughout the thumping series of patterns leading along into the plodding finale for an overall disappointing and disposable effort. ‘No Way Out’ utilizes immediate thumping rhythms and hard-hitting patterns thumping along to the charging and hard-hitting pounding breakdowns along throughout the thrashing rhythms charging along to the twisting rhythms found throughout the final half for a solid enough effort. ‘Ham-let’ features swirling thrash rhythms and chugging mid-tempo paces with plenty of thumping breakdowns holding the tight, straightforward chugging patterns in a steady pace with a steady solo section and breakdowns flowing into the finale for a much more enjoyable track. ‘You Can’t Stop’ uses thumping mid-tempo series of charging breakdowns with quicker thrashing patterns with the harder drumming keeping the stylish, stuttering chugging riff-work bringing the blasting rhythms along through the final half for a solid, enjoyable highlight. ‘Right Now’ takes harder thrashing rhythms with soaring leads and thumping drumming along through the steady, mid-tempo pace with the full-on stuttering riffing leading through the solo section and leading through the chugging finale for another rousing highlight. ‘I Walk Alone’ utilizes thumping mid-tempo grooves with plenty of charging riff-work through a hard-hitting series of chugging riffing that brings the stuttering paces along through the steady swirling breakdowns with the steady thumping patterns holding on through the final half for a solid enough effort. ‘Nobody’ features a series of hard-hitting thumping rhythms and steady breakdown-laden chugging that moves through a steady series of swirling thrashing riff-work and pounding drumming that continually moves through the strong patterns leading into the finale for another strong highlight. ‘Let Me Go’ takes immediate thrashing patterns and plenty of stylish swirling riffing with plenty of steady thrashing alongside the few minor breakdowns chugging along to the steady, straightforward thrashing patterns holding on through the solo section and on through the blistering final af for another strong effort. Lastly, album-closer ‘Confidence’ takes intense rattling thrashing riffing and pounding drumming through a steady, intense series of up-tempo charging patterns that whip along into a steady series of swirling patterns full of hard-hitting leads and coming along into the utterly blistering finale for the album’s best track to really end this on a high-note. It doesn’t have enough wrong overall to really hurt it much at all. (Don Anelli)

martedì 7 giugno 2016

Dö - Tuho

#PER CHI AMA: Death/Stoner/Doom, High on Fire
Distruzione: questo il significato di 'Tuho', album di debutto, sulla lunga distanza, dei finlandesi Dö, che abbiamo avuto modo di conoscere esattamente un anno fa, in occasione della recensione su queste stesse pagine, dell'EP 'Den'. I nostri tornano con un lavoro di sei pezzi che dischiude un death stoner doom assai peculiare. Le chitarre si presentano ai blocchi di partenza, costituiti dalla lunga "Born Under Black Wings", come un'arma di distruzione chimica, asfissianti e elefantiache a macinare un riffing corposo e decisamente sludge, su cui si muovono a proprio agio, i vocalizzi growl di Deaf Hank (chissà se nel suo nome c'è qualche riferimento all'Hank Moody di 'Californication'?). Piacevole la possente linea di basso e il fuzzing delle chitarre a metà brano, prima che si sprofondi nei meandri di un pericolante funeral doom. La seconda "Everblast II (The Aftermath)" è più easy listening, in quanto dotata di un maggior dinamismo sonoro, con il rifferama che qui scomoda mostri sacri come gli High on Fire e obbliga ad un ascolto a volumi massimi. Energia, groove, stoner, clean chorus, ispirazioni seventies, confluiscono in una traccia davvero ben equilibrata che trova anche il tempo di sbizzarrirsi con un discreto assolo guidato da un basso alla Black Sabbath. Una traccia strumentale, "Ex Oblivione" (anche se qualche vocalizzo in background si riesce a percepire), è quel che ci vuole per sanare gli animi inquieti in un trip di oltre sei minuti di psych doom, con un arrembante finale southern rock da brividi. La downtuned guitar di Big Dog impressiona in distorsione, profondità e pachidermia nella quarta "Kylmä", la song più melmosa di quelle contenute in questo primo lavoro dei Dö e quella che a mio avviso rende la proposta del terzetto di Helsinki più in linea alle produzioni del genere; tuttavia un devastante finale black/death mi scuote dal torpore in cui stavo cadendo. Che botta ragazzi e che bravi i Dö, nel momento giusto, a virare il proprio sound da quanto di più scontato ci fosse, con un'improvvisa scarica adrenergica. Un inedito intermezzo costituito da chitarra acustica e clean vocals (un po' stonate a dire il vero) e si giunge a "Forsaken Be Thy Name", la degna conclusione di 'Tuho': un pezzo di 12 minuti che chiama in causa, come già fatto anche in occasione del precedente lavoro, Cathedral, i già citati Black Sabbath e un che dei Celtic Frost più oscuri, per una song dai ritmi cadenzati e sulfurei che vanta a metà brano il drumming militaresco di Joe E. Deliverance a dettare la marcia prima che di venir affiancato dal basso del vocalist e dalla sei corde di Big Dog a cui lasciare l'incombenza di un finale pirotecnico e indiavolato, ciliegina sulla torta per questo primo Lp dei finlandesi Dö. (Francesco Scarci)

lunedì 6 giugno 2016

Pugni nei Reni - Bello ma i Primi Dischi erano Meglio

#PER CHI AMA: Alternative Blues Rock
Pugni nei Reni è il nome di un duo bergamasco, chitarre e cassa, che si presenta con un disco di debutto dal titolo 'Bello ma i Primi Dischi erano Meglio'. Le loro canzoni sono scritte in un inglese molto primitivo, pressoché privo di significato ma anche in un italiano alquanto stralunato. Con queste premesse sarebbe facile collocare il loro album nel filone del rock demenziale ma sarebbe riduttivo, assai riduttivo. Nei nove brani inclusi nel disco, si respira una costante ricerca del giusto riff di chitarra come in "Babbuzzi", il brano d'apertura, con la musica che non è mai secondaria al testo; la voce poi viene trattata quasi fosse uno strumento aggiuntivo, filtrata, raddoppiata, con frequente ricorso al falsetto, talvolta anche sguaiata. I Pugni nei Reni sanno maneggiare bene stili espressivi molto diversi tra loro: in “Risposte_di_circostanza alle_domande_esistenziali_di_Jane_Fonda”, l’uso della voce e i battiti di elettronica low-fi ci portano in quelle terre esplorate da Thom Yorke nei suoi dischi da solista, mentre nella veloce “Il_Rock_’n’_Roll” la struttura del brano rimanda ai più scafati Skiantos, senza ruffianeria, condividendone semmai lo spirito ribelle. Al primo posto nella mia personale classifica metto sicuramente “Morning_Brunch” il cui ritmo, sostenuto da una bella chitarra funky, si dilata piacevolmente per quasi sei minuti, diventando quasi un mantra dance. A livello di post-produzione ho trovato poco convincente l’inserimento di alcuni dialoghi estratti da pellicole cinematografiche, l’effetto può sorprendere al primo ascolto ma non agevola i successivi. Molto bello invece l’artwork del disco, incentrato su una grafica old style da IBM Personal Computer DOS. Nel complesso le canzoni hanno le potenzialità per una carica live coinvolgente, cosi dotate di un buon groove e ruvide al punto giusto. I ragazzi sono originali, loro malgrado.(Massimiliano Paganini)

sabato 4 giugno 2016

124C41+ - Mörs/Ërde

#PER CHI AMA: Post Rock/Blackgaze/Ambient
I CentoventiquattroCquarantunoPiù (124C41+) non sono una band come tutte le altre: lo si evince da un moniker che chiama in causa lo scrittore di fantascienza Hugo Gernsback e il suo 'Ralph 124C 41+', un omofono della frase inglese "one to foresee for one". Lo si capisce ancor di più dalle loro uscite discografiche, ridotte all'osso per contenuti. Dopo l'EP omonimo e minimalista dello scorso anno, ecco tornare la band di Terni con un nuovo EP di due pezzi e soli sei minuti di musica. 'Mörs/Ërde' è un'altra uscita all'insegna di un ambient/post rock catartico, ma potrei allargare lo spettro musicale dei nostri al noise, drone, shoegaze e mille altre sfaccettature. Impressiona tutto ciò perché "Mörs" è solo un pezzo di due minuti scarsi, fatto di sonorità intense, cupe e drammatiche in cui, sui tocchi di un malinconico pianoforte, appare il cantato in screaming (in italiano) di Eugenio e Marco dei Die Abete, sorretto da una ritmica distorta ma intimista. Angosciante il testo... "Il diavolo è nelle grida di chi vuol vederci rientrare a casa. Svelto, s'è fatta sera. D'ora in poi avremo per sempre dodic'anni e sugli specchi d'acqua torva imprimeremo i nostri volti. Svelto. S'è fatta sera". Nichilismo totale invece per la successiva "Ërde", che supera i quattro minuti, ma con un tensione emotiva che dilania a dir poco l'animo: la song, completamente strumentale, cresce piano di intensità in un'atmosfera che definirei quella plumbea londinese di novembre. Suggestioni, pensieri e riflessioni si avvicendano rapide nella mia testa rimescolate come un cocktail nello shaker, fino a quando la batteria rimane l'unico strumento pensante a dettare gli ultimi battiti del mio cuore. Poi, solo silenzio e buio infinito. (Francesco Scarci) 

(DreaminGorilla Records/Stay Home Records - 2016)
Voto: 75

Intervista con Skoll

Photo Credit: Dawid Krosnia
Seguite questo link per riscoprire la storia delle antiche culture europee, in compagnia di M (the bard), mastermind dei piemontesi Skoll:

Krigere Wolf - Sacrifice to Valaskjàlf

#PER CHI AMA: Black/Death, Emperor, Dissection, Gorgoroth
Ormai la scena è cosi satura di band che inizio a far acqua da tutte le parti e scopro soltanto oggi che i Krigere Wolf sono una realtà nostrana, catanesi per la precisione, questo 'Sacrifice to Valaskjàlf', (Valaskjalf è nella mitologia norrena, il palazzo ove si trova Odino) inviatomi dalla loro etichetta coreana, è il secondo album e addirittura un terzo, 'Infinite Cosmic Evocation', è già uscito un paio di mesi fa. Che dire, se non fare un mea culpa e parlarvi intanto di questo capitolo della discografia dell'act siciliano, in attesa di aver fra le mani il nuovo cd. Nove le tracce qui contenute indirizzate verso un graffiante black scandinavo stile anni '90. Se "Towards the Black Mass" affonda le proprie radici nell'infernale calderone dei Gorgoroth, in "Disciples of Sacred Fire" convivono, in pacifico equilibrio, thrash metal, death e un raggelante black d'annata, con glaciali linee di chitarra (soprattutto a livello solistico) che mi avrebbero fatto propendere per origini nordiche della band, se solo non avessi saputo la realtà dei fatti. Il sound si fa ancor più martellante con la title track e la successiva "Blood to the Wolves", due schegge d'odio impazzite in cui le chitarre, minacciose e schizofreniche, osano in termini di velocità e acuminatezza, non disdegnando fortunosamente a qualche accenno di melodia ed epicità, soprattutto nella seconda song, la mia preferita. I ritmi costantemente indiavolati, trovano nuovi orizzonti con "Impaled Slaves", ove la brezza norvegese (scuola Ancient ed Emperor) soffia paurosamente soprattutto nella seconda parte del brano, scomodando l'immortale 'In the Nightside Eclipse' a livello delle chitarre. Il suono del basso, il soffio del vento e una voce evocativa, guidano la breve "The End Has a Beginning". Poi è di nuovo l'affilato suono delle sei corde e il drumming a mo' di mitragliatrice, a imperversare incontrastati in "Vision of Death", dilaniando le carni e maciullando le ossa con uno stile vicino al black/death svedese di Unanimated e primi Dissection. L'outro finale è spaventoso: grida di donne messe al rogo, con in sottofondo delle eteree tastiere per un contrasto davvero diabolico. Ultima chicca: il mastering è affidato a Magnus Andersson dei Marduk, a testimoniare la ferocia inaudita dei Krigere Wolf. Non credo vi serva altro per avvicinarvi alla belligerante proposta di questo squadrone della morte. (Francesco Scarci)

(Fallen Angels Productions - 2014)
Voto: 70

venerdì 3 giugno 2016

Love Frame - Forgiveness

#PER CHI AMA: Alternative Rock
Senza essere troppo pessimisti, se guardiamo il panorama musicale main stream italiano sembra francamente dura sopravvivere. Il rischio poi di incappare in jingle de lo Stato Sociale, Calcutta e simili durante l'ascolto della vostra compilation preferita su Spotify è assai elevato, da parte mia cerco di evitare il tutto come la peste o spoiler dell'ultimo episodio di 'Games of Thrones'. Mi riempie pertanto il cuore ricevere un bell'album che contiene musica ben fatta e studiata. Oggi vi presento (se non li conoscete già) i Love Frame, un trio milanese (il bassista è a chiamata) che ha esordito nel 2008 con un EP, poi qualche singolo fino ad arrivare a produrre questo 'Forgiveness', nel tardo 2014. Il sound della band è incentrato sull'alternative rock e sin dai primi minuti denota un'ottima cura nella ricerca dei suoni e una certa perizia in fase di registrazione/mix/mastering. Il cd si presenta poi in modo professionale anche a livello di packaging, con l'artwork che mostra un cuore apparentemente composto da radici tortuose di alberi, ma forse è solo la mia suggestione personale. All'interno trovate i testi delle canzoni, vecchia tradizione che apprezzo tutt'ora, dopotutto a molti piace sapere se sotto un mega riff di chitarra si sta parlando di una bella squinzia o di gare di rutti. L'ascoltatore troverà undici tracce in questo lavoro e l'onore di essere la prima, spetta ad "Halo", una scelta oculata perché non ha un tiro esagerato e permette di immergersi gradualmente nel mondo della band milanese. Il main riff ha il ruolo di essere ossessivo-compulsivo, mentre la suadente voce della brava vocalist ci apre le porte della loro club house. La sezione ritmica costituita da basso e batteria, inizia con un pattern cadenzato e per tutta la traccia ha un ruolo determinante, grazie anche ad alcune finezze stilistiche assai apprezzabili. Nel ritornello la melodia si apre, le note diventano più lunghe e si ha una sensazione fisica di distensione. Si va a chiudere con un assolo classico dotato di una bella accelerazione finale e la sana soddisfazione di dedicare le mie attenzioni a questa band. "Mine" parte subito dopo, come un giocatore di football americano vigoroso che vi placca senza tanti complimenti. La chitarra iniziale ricorda vagamente un famoso brano degli Offspring, ma l'ensemble lombardo cambia presto le carte in tavola grazie al lavoro alla sei corde di Laerte Ungaro, che non nasconde le sue ottime doti tecniche e dispiega tutto il suo armamentario sonoro. I vari passaggi e gli arrangiamenti convincono sin da subito e i brevi break (ottimo quando il bassista ci dà dentro al limite della rottura delle corde) conferiscono un sacco di dinamicità al brano. Giulia Lupica, la vocalist, convince sempre di più, con una timbrica fresca e decisa che, unita ad una gran padronanza tecnica, ripaga chi studia e canta con passione. Finalmente una voce poi che non ripiega sui soliti gorgheggi strampalati e vibrati ripetuti fino alla morte, inoltre scrive anche i testi, quindi una musicista veramente completa. Nell'album troviamo anche delle ballate, una su tutte "Blue", un buon momento per mettersi alla prova e prendere respiro dopo tanto sudore. Struttura classica con tanto di assolo (da manuale) che accompagna la crescita della canzone e la porta alla conclusione con grande dignità. Ci sono ancora molti altri pezzi da recensire, ma invece di annoiarvi con le mie parole, vi inviterei piuttosto ad andare ad ascoltarvi i brani in streaming, i Love Frame sono bravi e fanno ottime canzoni. Troverete qualcosa di innovativo in questi undici brani? Direi di no, ma se avete bisogno di buona musica per depurarvi dall'insano ciarpame che vogliono farci ascoltare e comprare per forza, qui non sbagliate. Affatto. (Michele Montanari)

(Self - 2014)
Voto: 80

Homselvareg - Catastrofe

REISSUE:
#PER CHI AMA: Black Old School 
No, non stiamo parlando del nuovo album dei comaschi Homselvareg: 'Catastrofe' è infatti il loro secondo disco uscito nel lontano 2010 e riproposto per la Sliptrick Records lo scorso febbraio, dopo le evoluzioni di line-up intercorse negli ultimi anni che ne hanno stravolto completamente l'assetto, con i soli Plague alla voce e Bazzy alla chitarra, rimasti gli unici superstiti della formazione originale. Per chi non conoscesse la band lombarda, e immagino siate in molti, i nostri sono incalliti blacksters, assimilabili come sound, alla seconda ondata norvegese, con la peculiarità, abbastanza rilevante, di cantare in italiano. E allora, eccole scorrere le tracce di questo oscuro 'Catastrofe', dalla furibonda "L'Inizio della Fine" (che un po' fa il verso a qualche titolo, stile "The Beginning of the End", che imperversava negli anni '90) fino alla conclusiva "Solo Memoria", attraverso un sound caustico e malvagio, degno delle migliori produzioni nord europee. Si parte, dicevamo da "L'inizio della Fine" che vanta una lunga parte introduttiva affidata alle chitarre di Selvan e Bazzy, prima che a metà brano, entri finalmente in scena la voce torva, ma assai comprensibile, di Plague a vomitare tutto il proprio dissapore verso la razza umana, destinata all'inevitabile estinzione. Sembra abbastanza chiaro il messaggio che i nostri vogliono diffondere anche con la successiva "Senza Via d'Uscita", che sottolinea un approccio lirico all'insegna dell'odio nei confronti dell'uomo, e che a livello musicale palesa invece un riffing che per alcuni istanti mi rievoca addirittura i Windir; successivamente la ferocia degli Homselvareg mi trascina in un maelstrom infernale creato dal turbinio sonoro che non trova sosta neppure nella successiva "Terremoto", in cui a mettersi in luce è la mastodontica prova dietro alle pelli di Hell. Le chitarre macinano riff vorticosi, il drumming assume i connotati di iper energici blast beats, le vocals divengono più rabbiose mentre il basso urla come un lupo in una notte di plenilunio. Questa la fotografia di "Rogo", la quarta traccia, che ha modo anche di offrire un duetto vocale tra vocals mefistofeliche e pulite durante uno dei rari rallentamenti del cd. Un rifferama in stile Immortal introduce "Ultimo Lamento Umano", ove una tempesta di riff granitici e una tellurica sassaiola ritmica non lasciano scampo all'ascoltatore. E "Aria di Tempesta", parafrasandone il titolo, ha modo di dissipare violente correnti di putrido black metal che mi rievocano un gruppo italiano che seguivo una ventina di anni fa, gli Handful of Hate. Ci avviamo verso la conclusione del disco: "Inondazione" ha modo di regalarci, almeno inizialmente, un black mid-tempo maligno, prima che la torrenziale efferatezza degli Homselvareg riprenda là dove ci aveva lasciato e ci conduca nei profondi abissi della conclusiva "Solo Memoria" che chiude un album sicuramente intenso, decisamente diabolico... (Francesco Scarci)

(Sliptrick Records - 2016)
Voto: 70

martedì 31 maggio 2016

Nervovago - Il Clan Rocket

#PER CHI AMA: Alternative/Noise Rock
I Nervovago sono un duo pisano che nasce nel 2011 prima con una line-up completa con cui pubblicano un paio di lavori e in seguito, si consolidano nel 2015 come chitarra/voce e batteria. 'Il Clan Rocket' è prodotto da (R)esisto Distribuzione e contiene dodici tracce raccolte in un jewel case, anche se i titoli sul retro sono elencati per lato, come se si trattasse di un vinile. La grafica è semplice, tonalità rosa per l'artwork e un bel cono gelato spiaccicato in copertina. Questo ci lascia in effetti un po' interdetti su cosa andremo ad ascoltare, quindi non indugiamo oltre e cacciamo il cd nel lettore. La prima traccia è quella che conferisce il titolo all'album in cui salta subito all'orecchio il cantato, o meglio, un free stytle con una timbrica simile a quella di Salmo per capirci, mentre la sezione ritmica articola una struttura noise dal gusto leggermente sintetico. Le distorsioni ricordano quelle dei NIN, con una certa attitudine hardcore in salsa rock, ove si susseguono diversi break che permettono l'inserimento ripetitivo del riff principale. In centocinquanta secondi non rimane granché e cerchiamo risposte con le successive canzoni. "Breaking Bad" conferma quanto già sentito, questa volta con una ritmica più lenta, ma dal risultato assai simile. Dopo poco subentra una sensazione di noia dovuta alla mancanza di dinamicità sia a livello strumentale che vocale. Quest'ultima ha tra le mani le sorti del progetto Nervovago che, se limitato a chitarra e batteria, necessiterebbe di un elemento di spicco per catturare l'ascoltatore. Cerchiamo conforto altrove, tipo in "È Necessario" e qui lo troviamo: l'introduzione ci avvolge in un'atmosfera industrial che viene spazzata via dall'entrata delle distorsioni, potenti e suadenti allo stesso tempo. Sicuramente il pezzo migliore dell'album, in cui il testo corre via liscio, senza accelerazioni forzate per rincorrere la struttura musicale, inoltre le strofe coinvolgono e trasmettono un forte senso di ansia, rassegnazione, rabbia e voglia di redenzione. C'è posto anche per un finale con pianoforte che sembra arrivare direttamente da un qualche film horror. L'album chiude con "Il Casanova", in cui il duo toscano concentra un quantitativo impensabile di rabbia e potenza, la chitarra continua con il suo suono disintegrato e ricomposto a livello molecolare. Il testo è breve e stavolta viene lasciato più spazio agli strumenti, inoltre si aggiungono degli stralci di screamo che aumentano la rabbia dell'esecuzione, come i vari feedback di chitarra. Il duo italico mostra sicuramente delle buone intuizioni e personalmente li accomuno per attitudine ai Bachi da Pietra in salsa urbana. Per essere più appetibili però servirebbe un esercizio di stile per trovare una via di uscita che porti agli obiettivi prefissatisi dai nostri, che mirano per certo a ritagliarsi un pezzo di notorietà nell'ampio panorama musicale. Sono apprezzabili per la scelta dei suoni, alcune strofe e l'energia che mettono nella loro musica, ma chiaramente si può fare di più, molto di più. (Michele Montanari)

((R)esisto Distribuzione - 2016)
Voto: 65

https://www.facebook.com/nervovagoFanpage/

domenica 29 maggio 2016

Gort - Pestiferous Worms Miasma

#PER CHI AMA: Black Old School, Darkthrone, Mayhem
Abbiamo incontrato il buon Wolf recentemente nella recensione dei Terrorfront, lo ritroviamo qui con un'altra band partenopea, i Gort, il cui anno di fondazione cita addirittura 2002. Dopo quasi 15 anni di militanza, il quartetto di Napoli conta 4 demo all'attivo, 3 split album e due full length, tra cui il qui presente 'Pestiferous Worms Miasma', disco di otto pezzi, uscito qualche mese fa per la Lupus Niger. La proposta musicale dei nostri si rifà ad un black metal vecchia scuola, che scomoda per intensità i vecchi grandi del passato, da Darkthrone a soprattutto i primi Bathory e Celtic Frost. Le torrenziali e gelide chitarre di "Black Katharsis", coadiuvate dalle caustiche vocals di Lord Lemory (ex frontman dei Tenebra), ci riportano indietro nel tempo, grazie alle sue ataviche melodie e a quel feeling, tipicamente anni '80, abbracciato dai quattro musicisti campani. Non aspettatevi quindi una certa ricercatezza nei suoni, che a dire il vero spesso risultano scarni nel loro corrosivo incedere. “Old Bleeding Scars” esprime perfettamente quanto detto sinora, anche a fronte dei continui "Uh!" che si concede il vocalist, quasi ad omaggiare il vecchietto T.G. Warrior dei Celtic Frost. Stiamo parlando di musica che incarna i dettami in voga 30 anni fa e che qui viene riproposta nuda e cruda, senza tanti orpelli stilistici, lasciando che sia il solo suono tagliente delle chitarre a suggestionarci, a farci rivivere il mito delle registrazioni nelle foreste norvegesi, la follia dilagante delle chiese incendiate, degli inni a Satana o degli assurdi omicidi che falcidiavano la scena scandinava. Nel frattempo le song avanzano minacciose, turpi e sporche nella loro fangosa proposizione, sfoggiando rallentamenti al limite del doom nella mefitica "I Am Thy End", che vanta peraltro un bel basso posto in primo piano a guidare le belligeranti ritmiche dei Gort. Tracce di melodia si scorgono nell'incipit di "The Macabre Show of Life" prima che la furia guerriera divampi nelle linee impetuose di chitarra/batteria e basso, sorrette dalle sempre animalesche scream vocals di Lord Lemory, in quella che trovo essere la traccia più epica e battagliera dei Gort. Si prosegue verso la seconda metà dell'album e non c'è troppo spazio per variazioni al tema, sebbene "The Misanthrope" sveli un'epica voce che mi ha rievocato 'Vinterskugge' degli Isengard, un'altra delle diaboliche creature di Fenriz. Il sound della band italica continua con i suoi rimandi alla tradizione black scandinava, citando l'epicità degli Enslaved di 'Vikingligr Veldi', le sfuriate a la Mayhem, i tenebrosi richiami agli Emperor, il folklore dei Satyricon di 'Dark Medieval Times', l'ardore degli Ancient, senza dimenticare la crudezza dei Darkthrone o dei primissimi vagiti di Quorthon. Se vogliamo aggiungere poi che la band fa l'uso dell'italiano in "Odium Vincit Omnia", è facile accostare i Gort anche agli Aborym di 'Kali Yuga Bizarre'. Per farla breve, 'Pestiferous Worms Miasma' è raccomandato a tutti i nostalgici del black old school, ma anche a coloro, che per la prima volta, vogliono assaporare l'emozionalità di un genere che ha segnato il corso della storia nella nostra musica. (Francesco Scarci)

(Lupus Niger - 2016)
Voto: 70

The Pit Tips

Francesco Scarci

Fallujah - Dreamless
Novembre - Ursa
Convulse - Cycle of Revenge

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Kent

Zoviet France - A Flock Of Rotations
Культура курения - Некрофилия
Psychonaut 4 - Have A Nice Trip

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Don Anelli

Decrepit Soul - The Coming of War
The King Must Die - Murder All Doubt
Wormed - Krighsu

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Matteo Baldi

Converge - All We Love We Leave Behind
Cult of luna - Somewhere Along the Highway
Radiohead - A Moon Shaped Pool

sabato 28 maggio 2016

Scolopendra - Cycles

#FOR FANS OF: Death/Thrash, Legion of the Dead, Slaughterra
After several years between releases, French thrash/death metal group Scolopendra finally unleashes their debut offering, and manages to contain enough quality points to be a viable entry in the style moving forward. Basically making the whole affair a tight, crunchy thrash attack with the scattered deathly riff-work and vocals, this here is a lively affair full of dynamic rhythm changes and wholesale tempo shifts. The riffing here is capable of deftly maneuvering through these shifts with great ease, either at a generous mid-tempo gallop littered with steady, simple drumming, swirling thrash rhythms rattling along at a fine heavy charge or just bursting into full-throttle paces that explode with tight energy and frantic rhythms that allow their death metal roots the most opportunity to shine nicely here. Those are where the band really gets quite a lot of mileage out of this one, and showcase the most promise overall with their style generating it’s best work overall, though the fact that it gets quite so many chances is another story here since there’s a few too many tracks featured which manage to come off a little too bloated despite a shorter running time than expected here due to the shorter tracks on the second half which really comes into making this one quite so troubling. Beyond this though, there’s not a whole lot really working against it as the tracks here come off rather nicely. Instrumental intro ‘Dream Sequences’ takes a series of industrial noise riffing droning on into proper first track ‘Purity’ as the tight, crunchy riff-work and thrashy drumming work through a series of intense patterns with the razor-wire riffing working nicely alongside the furious drumming as the mid-section delves into a series of meandering melodic rhythms that charges back into the frantic blasting in the final half for a strong opener. ‘Awake Nightmare’ gradually works from light trinkling riffing that turns into a strong series of raging rhythms fueled by more frantic, full-throttled riff-work and pounding drumming that keeps building into the rather loose, bouncy rhythms rattling along through the finale for another rather strong and enjoyable effort. ‘Spartan Killer Instinct’ features tight, crunchy mid-tempo riff-work that explodes into utterly frantic and blasting patterns with plenty of charging up-tempo riffing bringing along the intense swirling riffing along throughout the solo section and bringing the stuttering, crunchy rhythms thrashing into the final half for an enjoyable and dynamic highlight. ‘Morbid Psychosis’ is another industrial noise collage offering a lead-in for next track ‘Mental Torture’ features swirling droning riff-work with plenty of plodding rhythms that carry on at a straightforward, simplistic chugging series of rhythms with hard-hitting-yet-simple drumming that picks up some energetic patterns driving along into the frantic final half for a decent enough if overall bland offering. ‘Psychic Paralysis’ features ravenous razor-wire riffing and plenty of blasting up-tempo drumming that settles on a frantic, up-tempo pace with a series of tight chugging riff-work alongside the more thunderous and savage pounding drumming that works through the tight finale for another rather blistering highlight. ‘End of Tunnels’ uses the sampled speech and chaotic noise to lead into next track ‘Pinhole of Diffraction’ as the savage swirling riffwork and pounding drumming burst through the chaotic opening before settling on a bouncy, mid-tempo paces with stuttering rhythms and pounding drumming that soon builds to a frantic finale for another strong effort. Bleeding through into follow-up ‘Pinhole of Diffraction (Part 2)’ with swirling stuttering rhythms with savage drumming taking the furious paces and tight riff-work alongside the savage, unrelenting drum-work that thumps along to rather enjoyable, bouncy patterns that work throughout the enjoyable finale for another rather enjoyable effort. ‘Psychotic Mass Murderer’ gradually fades into a thumping mid-tempo chug with plodding drumming and tight, stylish riffing with a light, sluggish rhythm holding loose swirling riffing into a mindless repetitive series of riffing throughout the final half for an overlong, unneeded and overall bland offering that doesn’t really belong here. Finally, album-closer ‘Soul Dissolution’ features distorted industrial noises and squealing effects driving into the classical piano notes alongside the deep droning sounds leading into the finale for another dull offering that really leaves this on a doubly bad impression. Still, there’s a lot more to like here that makes this enjoyable enough. (Don Anelli)

(Dooweet Records - 2016)
Score: 80

giovedì 26 maggio 2016

Ancst - Moloch/In Turmoil

#PER CHI AMA: Black/Hardcore/Crust
Con mia sorpresa, dopo aver infilato il full length di debutto degli Ancst (all'attivo però anche una distesa infinita di split ed EP) nel mio lettore, convinto di trovare le dieci tracce di 'Moloch', me ne sono ritrovate invece 23, perchè incluse nella mia versione, ci sono anche le 13 della compilation del 2013, 'In Turmoil'. E allora prepariamoci insieme a una scorpacciata di musica feroce, dritta in your face, che sfiora gli 80 minuti di musica. Un avvicendamento costante di brevissime song che oscillano tra i tre e quattro minuti di durata e che scorrono veloci, dipanandosi tra black, crust e hardcore. Si parte con la ferrea title track che apre il cd e mette in chiaro la sostanza dell'album: ritmiche killer, vocals graffianti in pieno stile hardcore, scorribande black, mini assoli e un discreto groove ad ammantare l'intera release. Questi gli ingredienti dell'intenso lavoro dei berlinesi Ancst (termine utilizzato per indicare il sentimento primario della paura). "Behold Thy Servant" ha un approccio più mid-tempo, ma non temete perchè la tempesta metallica ben presto si accanirà sulle vostre teste, soprattutto nella successiva "The Skys of Our Infancy", il cui incipit è di derivazione palesemente post black per poi mantenere, nel suo incedere sprezzante, una velata malinconia di fondo che la eleva immediatamente a mia song preferita dell'esteso lotto. Si torna a correre come assatanati con "In Decline", song micidiale e furibonda nella sua isterica cavalcata. Finalmente un attimo di pace, grazie al prologo più rilassato di "Strife", traccia che dischiude almeno inizialmente, derive post metal fin qui tenute celate; ovviamente il treno impazzito guidato dal quintetto teutonico riprende il suo turbinio sonoro tra violente accelerazioni (ove il suono della batteria non mi fa troppo impazzire) e momenti più compassati, su cui si stagliano le corrosive e arcigne vocals di Terston Bellafonte. Le scudisciate sonore dell'ensemble germanico persistono senza sosta alcuna anche con le successive "Devouring Glass", "Turning Point" e "Human Hive", presentando un sound ancor più infame e selvaggio, ideale per vomitare tutto il proprio dissapore per la società, relegando la melodia a puri sprazzi di spoken words e brevissimi bridge. L'irruenza dei nostri prosegue sugli stessi binari anche con "No More Words" prima che l'apocalittica "Lys" lasci intravedere antri ancor più bui in seno alla band. Esaurito l'olocausto sonoro di 'Moloch', ci addentriamo, un po' più superficialmente, nella compilation 'In Turmoil', che racchiude pezzi sparsi qua e là nell'estesa discografia dell'act di Berlino. Si parte con le spettrali atmosfere di "Ascetic", che mostrano un approccio più meditativo a cavallo tra black e post hardcore. Ovviamente è sempre meglio non lasciarsi traviare da simili manifestazioni, visto che con "Entropie" si torna a pestare sulla tavoletta con delle più consone cavalcate per i nostri, spezzate questa volta da inediti, almeno per il sottoscritto, break acustici, al limite del post rock, che mi fanno sobbalzare dalla sedia. Si picchia con crudeltà, non temete e un'altra folta schiera di tracce, mostrano tutta la veemenza di cui sono dotati questi ragazzi. Tuttavia non mancano le sorprese: l'inizio "cibernetico" di "The Faceless" ne è un esempio, cosi come il crust punk di "Patterns & Dreamers", le asfissianti ritmiche di "Seasons of Separation", il break di "Conditio Humana", la noisy "Howl", o l'intrigante finale affidato all'oscura "Peripheral", a dimostrare le varie facce della stessa medaglia rappresentata da questi baldi giovanotti tedeschi. Un lavoro sfiancante che ha evidenziato un sound molto più vario nella compilation datata 2013 a fronte di un disco più diretto, senza tanti fronzoli, qual è 'Moloch'. Laceranti! (Francesco Scarci)

martedì 24 maggio 2016

Drakwald - Riven Earth

#PER CHI AMA: Folk Death, Ensiferum
Amanti di Korpiklaani ed Ensiferum fatevi sotto e godete anche voi della proposta dei francesi (si avete letto bene) Drakwald. 'Riven Earth' è il secondo disco della band di Tours che sorprende per la proposta di death pagano che strizza clamorosamente l'occhiolino alle band finlandesi sopra citate (a cui aggiungerei anche un che di Amon Amarth e Dark Tranquillity), ma soprattutto agli svizzeri Eluveitie. Si, perchè nella opener "Doomsday Argument" a far capolino, oltre al sapiente death melodico dei nostri, ci sono le cornamuse di Bertrand Renaud. La musica del quintetto transalpino è decisamente dinamico, con essenziali melodiche linee di chitarra che s'intrecciano con il sound inconfondibile della cornamusa, oltre all'utilizzo di flauti folklorici che inquadrano (e limitano) senza via di scampo, la proposta del quintetto. La musica dei Drakwald si muove quindi tra liriche fantasy, accelerazioni tipicamente death/thrash (il riffing serrato di "Chasm of Ignorance" ne è un esempio), contraddistinte dall'utilizzo di efficaci growling vocals (e spauracchi scream) a cura di Thibaud Destouches, aperture melodiche, epici cori ("Blood and Glory") e brevi assoli (date un ascolto a "Primal Dawn" o ancor meglio a "Never Rising Sun") a cui dovrete aggiungere tutto l'armamentario sonoro prodotto dagli strumenti a fiato, che alla lunga però finiscono di sfiancare, almeno il sottoscritto. Tra le altre tracce segnalerei "Despair of the Last Men", per quella sua capacità di combinare lo swedish death con un uso più personale della ormai famigerata zampogna, mischiando appunto la veemenza del death metal con la melodia della componente popolare, in un disco che peccherà alla fine solo la sua monoliticità sul versante folk. Gli amanti del genere avranno invece di che rallegrarsi nel sapere che una nuova realtà popola il sottobosco del melodic death folk metal. (Francesco Scarci)

(Self - 2016)
Voto: 65

https://www.facebook.com/Drakwald

lunedì 23 maggio 2016

Wyrding - S/t

#PER CHI AMA: Ethereal Funeral Doom, Decoryah
Più di vent'anni fa, venni ammaliato dalla musica di una band finlandese, autrice di due splendidi album e due EP; dopo il 1997 se ne persero ahimè definitivamente le tracce. Sto parlando dei Decoryah, un quartetto dedito ad un doom etereo, la cui impronta sonora ho ritrovato quando, per la prima volta, ho ascoltato l'album omonimo dei Wyrding. Non è il solito funeral doom quello che scorre nelle tracce di questo disco omonimo, c'è quasi qualcosa di ultraterreno che permea le song del quintetto del Wisconsin. Si percepisce nelle soavi melodie della opening track, "Poltergeist", cosi intrise di straziante malinconia, che lascia però intravedere un filo di speranza. La musica dei nostri è lenta, vibrante e solenne grazie ad un certo approccio corale che mette quasi in soggezione, come se stessimo entrando in chiesa e ci costringessimo al silenzio per non offendere chi è in preghiera. Tuttavia, lo psicotico video disponibile sul sito bandcamp dell'ensemble statunitense, non rende giustizia alle mie parole, dal momento che rischia di inquadrare erroneamente il quintetto come una black metal band. Per fortuna, ci pensa la poesia di "Longin's End" a palesare le qualità assolute dei Wyrding attraverso dilatati suoni doom e ispirate atmosfere decadenti. C'è gran poco nella musica dei Wyrding di quella matrice funeral che siamo soliti recensire su queste stesse pagine. I brani dei cinque di Antigo seguono la spiccata umoralità della band, senza seguire le regole definite impartite dal genere. La sensazione è, ascoltando la seguente "False Concept of Voyage" e in generale tutte le tracce ivi contenute, che i nostri si muovano senza schemi predefiniti, lasciandosi puramente guidare dall'istinto, da una emotività tangibile che qui fluisce tra anfratti oscuri in cui si insinuano le splendide e lamentose vocals di Troy, le suggestive linee di chitarra di Kyle e le introspettive keys di Bret (che si diletta anche nell'uso dell'organo), in un ritualistico lavoro senza tempo che trova la massima espressione in qualche assolo di chitarra (penso a "Ahold A Wren") che mi lascia senza fiato. Drammatici, eleganti e deprimenti, è difficile trovare aspetti ottimistici in un lavoro dai simili connotati; forse solo l'inedito artwork bianco, potrebbe smuovere pensieri positivi in un tale contesto liturgico, come il devastante strazio interiore che captiamo durante l'ascolto di "Impression II". Quello dei Wyrding è un album bellissimo, che implica un ascolto impegnato e impegnativo: in "Agony In Being I" ad esempio, collidono con il funeral semiacustico della band, altri due generi cosi diversi tra loro, il noise e il neofolk, in una traccia sicuramente più sperimentale, ma che innalza ulteriormente il livello di difficoltà nell'approcciare questo disco, lasciandoci in balia della conclusiva "Agony In Being II". Si tratta del pezzo più lungo del lp, e quello certamente più oscuro (non fosse altro per l'utilizzo del growling) sebbene interamente acustico, le cui ambientazioni dark doom raggiungono qui massimi livelli di delirante follia, in grado di condurci nell'abisso più profondo della coscienza umana. Incredibili, davvero! (Francesco Scarci)

(Small Doses - 2015)
Voto: 85

http://wyrdingtheband.com/releases

domenica 22 maggio 2016

Soundscapism Inc. - S/t

#PER CHI AMA: Post Rock Acustico
Soundscapism Inc. è il progetto solista di Bruno A., ex membro dei portoghesi Vertigo Steps, un duo che aveva riscosso un discreto successo nella scena ambient-prog rock un paio di anni fa. Sulla falsariga del precedente lavoro, l'instancabile polistrumentista lusitano ha deciso di alimentare la sua inesauribile fiamma per la musica ambient/post-rock dando alla luce questo piacevole ed affascinante album. Il tutto è contenuto in un semplice jewel case dai colori tenui, dove in copertina si staglia l'immagine di una inquietante bambola rotta da cui escono degli alberi, una simbologia semplice ma forte allo stesso tempo. Le nove tracce sono la prefetta colonna sonora di un film onirico e surreale, come se Lars von Trier gli avesse commissionato l'intera produzione musicale di un suo film che racconta di spazi infiniti, dove cielo e terra sembrano non poter mai toccarsi, o quasi si trattasse di due amanti condannati all'infelicità eterna. La traccia di apertura, "The Breath Of Life And All Things The Sky Looked Upon", ne è l'esempio lampante. L'intro è una semplice armonia di campanelle che sembra uscito da un libro di fiabe e la sua precoce scomparsa viene rimpiazzata da un arpeggio di chitarra carica di riverbero e delay. Il tutto ricrea l'aura ricercata dall'autore, nel frattempo una voce parla (in tedesco mi pare) con un suadente tappeto di sintetizzatori ad arricchirne la trama che diviene via via più corposa, fino alla conclusione improvvisa, lasciandoci inebriati e allo stesso tempo un po' ansiosi per la repentina interruzione. "The Quiet Grand" fa proprie le sonorità tipiche dei The Cure, tra chitarre acustiche di accompagnamento e riff leggeri e melanconici, fino ad un totale di tre sovrapposizioni a riempire completamente lo spettro sonoro di questa traccia, sospesa tra ambient, post-rock e dark/new wave. Alcuni passaggi non sono ben definiti e rischiano di rubare sinergia al brano. Le tastiere fanno da filler e si arrichiscono anche di un leggero pianoforte, giusto per non farci mancare nulla, completando il tutto con la massima cura. "Sommerregen" cambia direzione: infatti è il primo brano dove si vede la collaborazione di un collega di Bruno alla voce, tal Flávio Silva, inoltre subentrano le percussioni, assenti in precedenza. Nota dolente è proprio la gran cassa che apre il brano, la timbrica è un po' troppo marcata per un brano di questa fattura, ma fortunatamente l'entrata degli altri strumenti ne attutisce il tono. Il brano alla fine è piacevole e l'innesto del cantato lo rende più pop, e potrebbe competere senza problemi con la attuale produzione commerciale, anzi, ne alzerebbe anche il livello artistico. Il vocalist cavalca le armonie e ne segue la corrente, si lancia anche in divagazioni alla Bono Vox, e se le può pure permettere visto che tecnicamente regge il confronto. Forse strizza troppo l'occhiolino alle sonorità dei primi album della band irlandese, comunque niente di illegale da segnalare. Il cambio a tre quarti si contamina di country/folk e la batteria (elettronica) ne rovina le atmosfere, questo a dimostrare che la scelta dei suoni è sempre la base di una buona produzione. Peccato per questo pugno nei timpani, davvero. Le altre canzoni si mantengono su un buon livello, anche se a volte la ripetitività negli accompagnamenti in acustico potevano essere sostituiti da altro più originale. Vorrei infine segnalare "Tomorrow´s Yesterdays", song che spicca per una salto notevole in termini di contenuto e atmosfere. Insomma quest'album di debutto è sicuramente da segnalare per gli amanti del genere, ma anche per chi si vuole concedere una pausa da sonorità più impegnative a livello uditivo. Ascoltato con cura si potranno percepire mille sfumature; per il futuro speriamo solo che Bruno cambi approccio per la sezione ritmica, allora sì che potremmo ritenerci soddisfatti. (Michele Montanari)

(Ethereal Sound Works - 2015)
Voto: 70

https://soundscapisminc.bandcamp.com/releases

Fading Waves - Catching the Phantoms

#PER CHI AMA: Post Rock/Post Metal
Da Rostov sul Don ritorna sulle pagine del Pozzo dei Dannati, il mastermind russo che si cela dietro al moniker Fading Waves. Dopo aver recensito positivamente il precedente EP ma soprattutto lo split album con gli Starchitect, riecco la band alle prese con un EP costituito da quattro pezzi usciti dalle sessioni di 'The Sense of Space' (risalenti al biennio 2010-2012), questa volta autoprodotti. Si parte con i riverberi chitarristici di "Zero Point", breve song che prosegue musicalmente quanto fatto in precedenza, enfatizzando qui le partiture più prettamente post rock. La musica continua ad esser guidata da una chitarra collocata in primo piano, con basso e batteria che assolvono al loro compito con una certa eleganza. La voce rimane invece più dietro alle quinte in un'espressione a metà strada tra il growl e l'etereo. Gli arpeggi squisitamente post rock, aprono anche la seconda "Nightmares", brano più complesso da ascoltare, grazie alle sue calde atmosfere autunnali. Ideale per una serata di lettura a lume di candela, la traccia, completamente strumentale, inasprisce la propria ritmica nella seconda metà, tracciando però il sentiero per quello che avverrà in "Distance", dove il sound decadente e malinconico della one man band russa, segue i dettami di gente del calibro di Explosions in the Sky, garantendo otto minuti di commoventi melodie ed esplosioni strumentali. Alexey Maximuk è un ottimo musicista, con idee interessanti, lo scrivevo all'epoca dello split album con gli Starchitect, lo sottoscrivo oggi ascoltando questo EP, peraltro esclusivamente digitale ma che troverete in download gratuito su bandcamp. A chiudere l'EP arriva la sensuale "Spin", la traccia più nervosa tra le quattro, ma anche quella che va alla ricerca di nuove strade di sperimentazione e in cui fa capolino l'angelica voce di Anastasia Aristova. Rimaniamo in attesa di ascoltare nuovo materiale per capire la direzione stilistica intrapresa nel frattempo da Alexey, se dobbiamo attenderci un disco completamente strumentale o se forse il sentiero tracciato dai Katatonia è stato finalmente solcato anche dai Fading Waves. (Francesco Scarci)

(Self - 2016)
Voto: 70

https://fadingwaves.bandcamp.com/

mercoledì 18 maggio 2016

Fight Cloud - We'll Be Alright

#PER CHI AMA: Noise/Math
Richmond (USA) rappresenta la terra natia dei Fight Cloud, l'ensemble di quest'oggi, già attivo dal 2012 e 'We’ll Be Alright' è il loro secondo LP, preceduto da due ottimi EP, 'Simple Structures' e 'Where’s My Shakespeare'. Con i nostri si va fin dentro al DNA, come vedere un seme dall’interno che lentamente si trasforma in un albero immenso. Difficile però inquadrare in modo definito il sound della band della Virginia, a cavallo tra noise, math rock, qualche slancio shoegaze fino a sfiorare il metal. La delicatezza della voce e le linee vocali sognanti si scontrano con le chitarre vetrose, brillanti e al limite della dissonanza, immerse in una ritmica singhiozzante a tratti, e a tratti fluida come il vento che soffia tra i rami freschi di rugiada al mattino. La sensazione di rassicurante speranza permea tutte le tracce, che si lasciano ascoltare senza tanti intoppi o noie, senza lasciare indietro la malinconia ineffabile di un sottobosco umido e avvolto dalla nebbia. I Fight Cloud suonano come un incidente aereo tra Mars Volta e A Perfect Circle, con un risultato finale davvero convincente. Alla prova del play infatti, la band risponde egregiamente con un violento inizio dettato dalle ritmiche del brano “Bath Method”, song intervallata da ambienti spaziali e parti matematicamente incastrate come rovi di spine. La traccia è seguita da “Poppyseed” che con il suo arpeggio compulsivo e schizofrenico esplora zone sconosciute dell’immensa foresta pluviale dalla quale i Fight Cloud sembrano provenire. Imprezioniscono l’opera alcuni interludi strumentali come il laconico “Long Live Zorp” e “A Rare Thing like Neon”. Degna di nota è “The Real Ricky”, dove scrosci di chitarre in palm muting, guidate da una ritmica serrata e tribaleggiante, aprono la strada ad accordi risonanti che sostengono una voce lontana e ancestrale. Non mancano nel brano alcuni passaggi propriamente math, tuttavia ben mascherati nel sound da non risultare, come spesso accade per il genere, frammentati, ma anzi mostrano una certa scorrevolezza pur mantenendo intatta la particolarità dei tempi scombinati e delle ritmiche scritte attraverso funzioni matematiche. Pur essendo un'opera di alto valore, si sente ahimé la mancanza di un brano che spicchi sugli altri, che possa trainare la proposta della band anche alle orecchie più esigenti. Il talento dei quattro giovani è evidente, l’originalità pure, ci sono le potenzialità per arrivare molto in alto. Ad ogni modo, un plauso è dovuto per la capacità di equilibrata commistione tra generi in sè molto diversi che nella musica dei Fight Cloud convivono in placida armonia. Il disco chiude con “Year of the Bold”, che mischia scenari aritmetici e compulsivi con ambienti incantati quasi da fiabe Disney, a riprova ancora una volta dell’estro del quartetto. Questo disco è un’esperienza: immaginate di percorrere un sentiero incontaminato e surreale con la sola compagnia di pioggia, foschia e vegetazione aliena; la meta sembra molto distante e il viaggio assai lungo, ma nessun timore potrà raggiungere il viaggiatore perchè... 'We’ll Be All Right'. (Matteo Baldi)

martedì 17 maggio 2016

Dimlight - The Lost Chapters

#FOR FANS OF: Gothic/Death Metal, Crematory, Atrocity
The third full-length from Greek dark/death metal unit Dimlight offers even more to like here with the bands’ take on symphonically ornate gothic overtones with death metal ferocity. As can be expected here, lush, grandiose keyboards swirl around throughout the majority of the work here which makes for an over-the-top display of orchestral work here from the keyboards being accompanied rather nicely with the operatic vocals being featured. Mixing the striking clean female soaring vocals with the raspy male counterparts may seem like Gothic metal basics but it works here with the slow, pounding rhythms at the forefront of the bands’ other attacks. Coming complete with pounding drumming and the occasional deluge into romantic arrangements within the rest of the music here, it’s all quite fun and dynamic here with this one mostly utilizing the up-tempo work and offering plenty of Gothic-tinged symphonics to put a lot of enjoyable work on display here. The band does tend to fall into minor trouble with the fact that there’s nothing really unique or creative about this kind of symphonically-charged Gothic/Death Metal as it’s pretty basic and by-the-numbers styled work generating all the rather familiar notes here with one-note blistering drumming, up-tempo riffing and orchestral-styled keyboards offering a bombastic symphonic undertone. They’re clearly competent and cohesive enough but not without a lack of identity to really stand out here even if the songs themselves are enjoyable. Instrumental intro ‘The Inception’ features a deep droning noise intro with a spoken-word storytelling set-up that leads into proper first track ‘Spawn of Nemesis’ featuring blistering drumming amidst grand orchestral keyboards charging along into a frantic series of symphonic flurries while keeping the Gothic rhythms at the forefront with the over-the-top keyboards and drumming continue swirling along into the light choppy rhythms throughout the final half for a fun overall effort. ‘Shattered Idols’ uses grandiose symphonics over blazing drumming and tight riff-work carrying along simple rhythms while keeping the over-the-top symphonics buzzing along through the series of thumping patterns with the extended instrumental interlude carrying the symphonics throughout the finale for a dynamic highlight. ‘Invoking the Hunter’ features a dark, haunting swirling series of riffing alongside the sweeping patterns and pounding drumming into a steady mid-tempo attack as the swirling rhythms lift for romantic keyboards and soft riffing that off-sets the quiet energy throughout the final half for a decent enough effort. The instrumental mid-album breather ‘Dark Things of the Desert’ simply uses a brief storyline segue to lead into next track ‘Children of Perdition’ with swirling riff-work and a blistering series of orchestral symphonics alongside utterly raging drumming that soon settles into a mid-tempo series of meandering rhythms and light melodic work carrying through the slight variances in tempos throughout the finale for a solid if unspectacular effort. ‘Torrents of Blood’ takes a swirling operatic intro with the symphonic keyboards leading into blasting drumming and sweeping riff-work leading the tight chugging riff-work and light symphonics plodding along to a slow, sluggish pace with plenty of sweeping orchestral work in the final half for another overall solid-if-unspectacular offering. ‘Fear of Heavens’ uses strong swirling symphonic keyboards alongside blasting drumming with plenty of tight riff-work that flows into a steady mid-tempo series of chugging symphonic patterns with blasting drumming carrying the bombastic keyboards along into the charging symphonic-led finale for a strong and impressive offering. ‘Clash of Immortals’ features light, soft romantic patterns before exploding into furious drumming alongside sweeping majestic symphonic keyboards and light gothic riff-work that deviates nicely between several strong tempos with sweeping orchestral work coming through into the spoken-work final half for an overall fun effort. Lastly, ‘Fields of Carnage’ takes epic symphonic keyboards and haunting melodic notes to gradually build into crushing drumming blasting throughout the sweeping majestic keyboards that turns into driving mid-tempo symphonics with plenty of tight rhythms and ornate symphonic orchestral movements leading throughout the grandiose finale for a solid lasting impression. It’s mostly all about the lack of identity with this one that keeps it down. (Don Anelli)

(Five Starr Records - 2015)
Score: 80

https://www.facebook.com/Dimlighttheband/

Skoll - Of Misty Fire We Are

#PER CHI AMA: Black/Pagan
Mi domando per quale motivo nessuno in Italia abbia dato una chance agli Skoll. Stiamo parlando di una band attiva nell'underground italico da più di vent'anni, fautrice di un black pagano che affonda le proprie radici nella tradizione folklorica nostrana. Che esce però per un'etichetta coreana e qui sta l'anomalia. Ci hanno comunque visto bene gli amici della Fallen Angels Productions a prendere sotto la propria egida l'act piemontese, che nella propria line-up vanta peraltro membri ed ex di Opera IX, Huginn e The True Endless, tanto per citare solo alcuni nomi. Il nuovo 'Of Misty Fire We Are' segue a distanza di tre anni 'Grisera', che ben aveva impressionato per il suo epico viking black. La sensazione con il nuovo disco è quella di immergersi nella desolata brughiera e li attendere, anche se non so cosa esattamente. E l'evocazione della opener "La Luna del Lupo", oltre a richiamarmi per mal celati motivi, 'Il Trono di Spade', è alla fine un epico e malinconico inno alla Luna e al suo essere in totale equilibrio con quanto di naturale stia sotto la sua luce. Il sound è quello di sempre, capace di miscelare un po' tutte le componenti black, pagane e vichinghe che da sempre contraddistinguono la band di M. e soci. "Into the Misty Forest I Go" è una tiratissima traccia di black thrash in cui a mettersi in luce è il martellare incessante del drummer Mayhem e a sorprendere invece una seconda parte dai forti connotati folk, sia a livello musicale che vocale. "Teutoburgo" è la narrazione di una battaglia, tra il fragore delle armi e le urla dei guerrieri, il tutto cantato rigorosamente in italiano (ma non è la sola traccia del disco ad utilizzare il nostro divin linguaggio), in un epico sound che può essere facilmente accostabile a quello degli Spite Extreme Wing. "Exercitus Antiquus" presenta invece un'importante componente atmosferica, fin qui tenuta in secondo piano, ma che qui assolve invece il ruolo predominante nell'economia di un brano che probabilmente per intensità emotiva, incedere doom e per il contenuto delle liriche, si conferma la più oscura del lotto. Non la mia preferita però, rappresentata piuttosto dalla successiva "Misty Mountains", con quel suo sound a metà strada tra Primordial e i Dimmu Borgir di 'Enthrone Darkness Triumphant', in cui la voce di M. si diletta tra l'evocativo e un growl sempre facilmente comprensibile. Arriviamo a "La Tempesta degli Elementi", il penultimo pezzo dei disco e non possiamo che rimanere piacevolmente colpiti dal suo incedere minaccioso, sorretto da sprazzi tastieristici che si contrappongono alle possenti trame ritmiche. A metà brano arriva anche il vento a sferzare con potenza l'aria, riuscendo addirittura a suggestionarmi e indurmi brividi di freddo, prima che il pezzo si infuochi nella sua seconda metà tra decadenti melodie e cupi fraseggi. A chiudere il disco ci pensa la breve ma efficace "Eternal Path" che in pochi minuti riassume l'epica e suggestiva strada imboccata dagli Skoll. Dei pagani! (Francesco Scarci)

(Fallen Angels Productions - 2016)
Voto: 75

https://www.facebook.com/BandSkollIta

domenica 15 maggio 2016

Дрём - 2

#PER CHI AMA: Funeral Doom
Bisogna ammettere che il funeral doom ha un fascino eccezionale, riesce a paralizzare ogni momento di ascolto rendendolo immediatamente eterno, divinizzando quel senso di caduta profonda, portando il nostro spazio/tempo in una dimensione astratta e riflessiva, tagliata in due tra romanticismo e malinconia, muovendosi lentamente, costantemente nell'ombra, permettendoci infine di esplorare parti buie e meritevoli oppure malate e dannose del nostro inconscio inesplorato. Il funeral doom lo si ama o lo si odia, nessun compromesso è lasciato al fato. Tutta questa poetica come premessa alla presentazione di un album stupendo uscito lo scorso anno per la solita Solitude Productions, release che non fa altro che confermare l'elevata qualità di produzione dell'etichetta russa. Questa one man band riafferma, qualora fosse stato necessario, la presenza nel mondo del doom e di una scintillante scena russa in grado di soddisfare anche i palati più sopraffini al genere. Pari a tante proposte conterranee, questo artista di nome Дрём (Dryom) sale in cattedra offrendoci un magistrale affresco funeral, dai tratti esasperati e decadenti, pesantissimi, con brani di lunga durata (per una media di 15 minuti), tastiere infinite e una voce sepolcrale ai confini della realtà umana che alla fine risulterà essere il vero protagonista di tutti i pezzi. Dissonanze, suoni atipici e perfino l'utilizzo di un marranzanu - tipico strumento a bocca del sud Italia ma in realtà originario dei paesi del nord Europa, poi importato dai Normanni in seguito alla loro permanenza nel sud del bel paese - una batteria drammatica e ossessiva, una chitarra distorta e tagliente come una frusta, su brani che non si ripetono mai, dotati di una certa propensione verso un suono metal sinfonico che fa da comune denominatore a tutte le quattro lunghe tracce del disco, per un totale di circa sessanta minuti di puro oblio cosmico. L'artwork di copertina è poi cosi affascinante, con immerso nell'oscurità, un paesaggio post atomico invernale carico di suggestione. Ascoltando questo secondo album del mastermind russo si corre seriamente il rischio di perdersi, adorando gli esercizi gutturali di quella magnifica voce spettrale, emarginata, malata e trasudante un senso di vuoto persistente, avvertendo la presenza, anche per soli pochi attimi, di una luce carica di speranza, disseminati tra una composizione e l'altra senza mai cadere nel plagio, e con un'originalità ottenuta scavando nell'anima. Un album da ascoltare con il fiato sospeso! Una vera perla! (Bob Stoner)

(Solitude Productions - 2015)
Voto: 90

sabato 14 maggio 2016

Otus - 7.83 Hz

#PER CHI AMA: Post Metal Esoterico, Isis, Cult of Luna
Pur non capendoci granché, devo ammettere di essere profondamente affascinato dalla simbologia, dai messaggi criptici e da ciò che non si vede eppure sai che è li e vuole dirti qualcosa. Prendere in mano lo splendido digipack dei capitolini Otus (peraltro il nome di un genere d'uccelli che include i gufi, e dietro a questo moniker a mio avviso si cela qualcosa di misterioso) è un viaggio tra gli oscuri anfratti dell'io introspettivo che mostra l'approccio più empirico e scientifico (piuttosto che religioso), volto a mostrare una possibile via per raggiungere le "Porte della Percezione". Ecco, scritto questo, mi sono già perso per il sentiero della conoscenza, sotto l'effetto della mescalina e delle sue susseguenti esperienze mistico-psichedeliche, che verosimilmente vivrete con l'ascolto di questo lungo concept album, diviso in tre capitoli ispirati alle esperienze dello psicologo Timothy Leary, che appunto provò l'effetto di funghi allucinogeni contenenti psilocibina e poi dell'LSD, coniando lo slogan "Turn on, tune in, drop out" ("Accenditi, sintonizzati, abbandonati"). Tralasciando gli ulteriori aspetti che si nascondono tra le tracce di questo '7.83 Hz' (che si rifà alla frequenza di Schumann di 7.83 hertz del campo magnetico terrestre, e in generale anche del "brain entrainment" relativo allo stimolare degli stati emotivi attraverso l'ascolto di alcune vibrazioni specifiche; ma lascio a voi un più dettagliato approfondimento) mi abbandono immediatamente all'ipnosi guidata dal mantra dell'opener "Avidya" e dal suo successivo incedere tra suoni sludge/postcore a la Cult of Luna, corredato da growling vocals e chorus sciamanici, nonché da una certa effettistica che ricorda la psichedelia dei The Doors. Psichedelia che ritrovo anche nell'intro della seconda "Last Of The Four", traccia che si muove lenta e sinuosa grazie al suo riffing possente e alle voci baritonali del vocalist. Quello che colpisce è la veste seventies che si materializza quando le tastiere salgono in cattedra per cui improvvisamente, vedo apparire al mio fianco Jim Morrison a sussurrarmi nelle orecchie cosa scrivere in questa recensione. Già stordito dai suoni ritual-esoterici degli Otus, inizio anche a provare le prime mistiche visioni mentre scorro il booklet del cd, ove mi pare di intuire che la realtà in cui viviamo è una distorsione dell'Universo, per cui non c'è un dritto o un rovescio della medaglia, forse non esiste neppure un bene o un male e tutto va letto in una visione che fino ad oggi mi era completamente sconosciuta. Il suono nepalese della terza "Echoes And Evocations" prova ad aprire i miei chakra e sbloccare il mio terzo occhio. Che diavolo succede, provo a ribellarmi a questa situazione, ma la musica degli Otus prosegue nel suo intento di mettermi in equilibrio con l'Universo sebbene l'utilizzo di un approccio non del tutto convenzionale qual è il post metal, le percussioni tribali di "Phurba" e del mantra che a metà brano prova nuovamente a catalizzare i miei sensi ormai in balia della proposta, corrosiva e mistica allo stesso tempo, del quintetto di Roma. È un viaggio si, lo confermo, a cui vi suggerisco di non sottrarvi, rischiereste di avere dei rimpianti. Meglio lasciarsi traviare allora dalle magnetiche frequenze sonore degli Otus, e dalle onde della meditazione, quelle che emergono dalla corrosiva "Theta Synchrony", che trova il tempo di curvare la sua arcigna proposta per sprazzi di suoni elettro-ambient che mi consentono di entrare quasi in trance spirituale. Ed ecco quelle fantomatiche frequenze irrompere nella title track, quasi a voler penetrare a tutti i costi il mio cervello che continua ad ostacolare gli accadimenti. Non c'è verso però, la musica degli Otus ottunde i miei sensi, attraverso il delicato arpeggio di "Black Lotus", sulla cui eterea melodia si staglia spaventosa la voce del frontman, mentre l'armonia musicale smuove gli spettri di Isis e Cult of Luna, in quella che è la mia traccia preferita dell'intero lavoro, cosi imperniata di sonorità post a me care, ma anche di un certo ipnotico refrain dal vago sapore orientale. Il flusso dinamico degli Otus prosegue attraverso la fase alfa della meditazione, quella della liquida "Alpha Phase". Parlavo in precedenza di percezione della realtà: la lisergica "Res Cogitans, Res Extensa" accorre in mio aiuto, citando il buon Cartesio e la sua distinzione tra realtà psichica, quella che possiede le qualità di inestensione, libertà e consapevolezza, e la realtà fisica, che è estesa, limitata e inconsapevole. Una song lunghissima che avrà modo di risvegliare i vostri sensi intorpiditi, come una gentile carezza sul vostro viso grazie alle sue splendide melodie psych/post rock. La musica degli Otus si ferma qui dopo un viaggio di oltre settanta minuti tra filosofia, misticismo, empirismo ma soprattutto tanta musica post di pregevole fattura. Esoterici. (Francesco Scarci)

(Self - 2016)
Voto: 85

The Haunting Green - S/t

#PER CHI AMA: Post-core, Neurosis
Li ho visti dal vivo, in compagnia degli Oranssi Pazuzu, mi hanno subito colpito. Sono arrivati dritti allo stomaco i The Haunting Green con il loro sound minimalista, aggrovigliandomi le budella, complici quei suoi umori stranianti e quell'aura sinistra che avvolge questo loro primo EP. Occhio però che il duo friulano non è di certo di primo pelo: Cristiano Perin, il vocalist nonché chitarrista e responsabile delle parti elettroniche del progetto, e l'affascinante Chantal Fresco (a sedere dietro le pelli) sono stati anche membri di uno dei più talentuosi e sfortunati ensemble della penisola italiana, gli A Cold Dead Body, che recensii su queste stesse pagine anni addietro, forse era il 2010, e che dopo quell'eccellente disco, se ne persero le tracce. I due musicisti tornano con un nuovo progetto di doom sperimentale che vanta puntatine nell'ambito del post metal, nell'ambient e nel drone. Quest'ultimo è già testimoniato dall'apertura "dronica" di "The Mournful Sons", traccia che delinea i contorni musicali dei The Haunting Green. La song ha una partenza contraddistinta da cibernetiche e soffuse atmosfere, che vengono mandate in frantumi dall'arcigno screaming di Cris, mentre la brava Chantal tocca sommessamente rullante e crash, in una traccia dai contorni melmosi, al limite dello sludge più ossessivo dei Neurosis. "Our Days in Silence" persiste nell'essere strisciante nel suo incedere, un po' come mettere in musica la classica immagine del serpente a sonagli che col suo movimento a fisarmonica, scivola nel deserto dell'Arizona. Il brano vira poi verso torbide e contratte atmosfere, prima di dipanarsi verso un lungo e acustico finale malinconico. Con "Eradicate" i toni si fanno ancora più caustici e pesanti, pur non essendoci alcuna vera e propria accelerazione a livello ritmico; quel senso di ansia è alla fine dettato da un sound di chitarra che si dirige verso malate spirali di distorsione che nel suo disarmonico suono, mi ha evocato qualcosa degli ultimi Ephel Duath. Un interludio noise drone, per cui sembra addirittura di udire il classico ronzio dei motori dei velivoli che ormai sorvolano comunemente i nostri cieli, ed è il tempo di "V", l'ultimo capitolo, peraltro strumentale, di questo disco. La song sembra però più un esercizio di stile di Cris, che si muove tra riffoni post metal, porzioni progressive (e jazz), per cui mi sento nuovamente in diritto di chiamare in causa gli Ephel Duath, e break acustici che convogliano il tutto verso l'apocalittico finale di questo interessantissimo EP. The Haunting Green: da tenere assolutamente sott'occhio e soprattutto vedere dal vivo. (Francesco Scarci)

(Self - 2014)
Voto: 75