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martedì 17 maggio 2016

Skoll - Of Misty Fire We Are

#PER CHI AMA: Black/Pagan
Mi domando per quale motivo nessuno in Italia abbia dato una chance agli Skoll. Stiamo parlando di una band attiva nell'underground italico da più di vent'anni, fautrice di un black pagano che affonda le proprie radici nella tradizione folklorica nostrana. Che esce però per un'etichetta coreana e qui sta l'anomalia. Ci hanno comunque visto bene gli amici della Fallen Angels Productions a prendere sotto la propria egida l'act piemontese, che nella propria line-up vanta peraltro membri ed ex di Opera IX, Huginn e The True Endless, tanto per citare solo alcuni nomi. Il nuovo 'Of Misty Fire We Are' segue a distanza di tre anni 'Grisera', che ben aveva impressionato per il suo epico viking black. La sensazione con il nuovo disco è quella di immergersi nella desolata brughiera e li attendere, anche se non so cosa esattamente. E l'evocazione della opener "La Luna del Lupo", oltre a richiamarmi per mal celati motivi, 'Il Trono di Spade', è alla fine un epico e malinconico inno alla Luna e al suo essere in totale equilibrio con quanto di naturale stia sotto la sua luce. Il sound è quello di sempre, capace di miscelare un po' tutte le componenti black, pagane e vichinghe che da sempre contraddistinguono la band di M. e soci. "Into the Misty Forest I Go" è una tiratissima traccia di black thrash in cui a mettersi in luce è il martellare incessante del drummer Mayhem e a sorprendere invece una seconda parte dai forti connotati folk, sia a livello musicale che vocale. "Teutoburgo" è la narrazione di una battaglia, tra il fragore delle armi e le urla dei guerrieri, il tutto cantato rigorosamente in italiano (ma non è la sola traccia del disco ad utilizzare il nostro divin linguaggio), in un epico sound che può essere facilmente accostabile a quello degli Spite Extreme Wing. "Exercitus Antiquus" presenta invece un'importante componente atmosferica, fin qui tenuta in secondo piano, ma che qui assolve invece il ruolo predominante nell'economia di un brano che probabilmente per intensità emotiva, incedere doom e per il contenuto delle liriche, si conferma la più oscura del lotto. Non la mia preferita però, rappresentata piuttosto dalla successiva "Misty Mountains", con quel suo sound a metà strada tra Primordial e i Dimmu Borgir di 'Enthrone Darkness Triumphant', in cui la voce di M. si diletta tra l'evocativo e un growl sempre facilmente comprensibile. Arriviamo a "La Tempesta degli Elementi", il penultimo pezzo dei disco e non possiamo che rimanere piacevolmente colpiti dal suo incedere minaccioso, sorretto da sprazzi tastieristici che si contrappongono alle possenti trame ritmiche. A metà brano arriva anche il vento a sferzare con potenza l'aria, riuscendo addirittura a suggestionarmi e indurmi brividi di freddo, prima che il pezzo si infuochi nella sua seconda metà tra decadenti melodie e cupi fraseggi. A chiudere il disco ci pensa la breve ma efficace "Eternal Path" che in pochi minuti riassume l'epica e suggestiva strada imboccata dagli Skoll. Dei pagani! (Francesco Scarci)

(Fallen Angels Productions - 2016)
Voto: 75

https://www.facebook.com/BandSkollIta

domenica 15 maggio 2016

Дрём - 2

#PER CHI AMA: Funeral Doom
Bisogna ammettere che il funeral doom ha un fascino eccezionale, riesce a paralizzare ogni momento di ascolto rendendolo immediatamente eterno, divinizzando quel senso di caduta profonda, portando il nostro spazio/tempo in una dimensione astratta e riflessiva, tagliata in due tra romanticismo e malinconia, muovendosi lentamente, costantemente nell'ombra, permettendoci infine di esplorare parti buie e meritevoli oppure malate e dannose del nostro inconscio inesplorato. Il funeral doom lo si ama o lo si odia, nessun compromesso è lasciato al fato. Tutta questa poetica come premessa alla presentazione di un album stupendo uscito lo scorso anno per la solita Solitude Productions, release che non fa altro che confermare l'elevata qualità di produzione dell'etichetta russa. Questa one man band riafferma, qualora fosse stato necessario, la presenza nel mondo del doom e di una scintillante scena russa in grado di soddisfare anche i palati più sopraffini al genere. Pari a tante proposte conterranee, questo artista di nome Дрём (Dryom) sale in cattedra offrendoci un magistrale affresco funeral, dai tratti esasperati e decadenti, pesantissimi, con brani di lunga durata (per una media di 15 minuti), tastiere infinite e una voce sepolcrale ai confini della realtà umana che alla fine risulterà essere il vero protagonista di tutti i pezzi. Dissonanze, suoni atipici e perfino l'utilizzo di un marranzanu - tipico strumento a bocca del sud Italia ma in realtà originario dei paesi del nord Europa, poi importato dai Normanni in seguito alla loro permanenza nel sud del bel paese - una batteria drammatica e ossessiva, una chitarra distorta e tagliente come una frusta, su brani che non si ripetono mai, dotati di una certa propensione verso un suono metal sinfonico che fa da comune denominatore a tutte le quattro lunghe tracce del disco, per un totale di circa sessanta minuti di puro oblio cosmico. L'artwork di copertina è poi cosi affascinante, con immerso nell'oscurità, un paesaggio post atomico invernale carico di suggestione. Ascoltando questo secondo album del mastermind russo si corre seriamente il rischio di perdersi, adorando gli esercizi gutturali di quella magnifica voce spettrale, emarginata, malata e trasudante un senso di vuoto persistente, avvertendo la presenza, anche per soli pochi attimi, di una luce carica di speranza, disseminati tra una composizione e l'altra senza mai cadere nel plagio, e con un'originalità ottenuta scavando nell'anima. Un album da ascoltare con il fiato sospeso! Una vera perla! (Bob Stoner)

(Solitude Productions - 2015)
Voto: 90

sabato 14 maggio 2016

Otus - 7.83 Hz

#PER CHI AMA: Post Metal Esoterico, Isis, Cult of Luna
Pur non capendoci granché, devo ammettere di essere profondamente affascinato dalla simbologia, dai messaggi criptici e da ciò che non si vede eppure sai che è li e vuole dirti qualcosa. Prendere in mano lo splendido digipack dei capitolini Otus (peraltro il nome di un genere d'uccelli che include i gufi, e dietro a questo moniker a mio avviso si cela qualcosa di misterioso) è un viaggio tra gli oscuri anfratti dell'io introspettivo che mostra l'approccio più empirico e scientifico (piuttosto che religioso), volto a mostrare una possibile via per raggiungere le "Porte della Percezione". Ecco, scritto questo, mi sono già perso per il sentiero della conoscenza, sotto l'effetto della mescalina e delle sue susseguenti esperienze mistico-psichedeliche, che verosimilmente vivrete con l'ascolto di questo lungo concept album, diviso in tre capitoli ispirati alle esperienze dello psicologo Timothy Leary, che appunto provò l'effetto di funghi allucinogeni contenenti psilocibina e poi dell'LSD, coniando lo slogan "Turn on, tune in, drop out" ("Accenditi, sintonizzati, abbandonati"). Tralasciando gli ulteriori aspetti che si nascondono tra le tracce di questo '7.83 Hz' (che si rifà alla frequenza di Schumann di 7.83 hertz del campo magnetico terrestre, e in generale anche del "brain entrainment" relativo allo stimolare degli stati emotivi attraverso l'ascolto di alcune vibrazioni specifiche; ma lascio a voi un più dettagliato approfondimento) mi abbandono immediatamente all'ipnosi guidata dal mantra dell'opener "Avidya" e dal suo successivo incedere tra suoni sludge/postcore a la Cult of Luna, corredato da growling vocals e chorus sciamanici, nonché da una certa effettistica che ricorda la psichedelia dei The Doors. Psichedelia che ritrovo anche nell'intro della seconda "Last Of The Four", traccia che si muove lenta e sinuosa grazie al suo riffing possente e alle voci baritonali del vocalist. Quello che colpisce è la veste seventies che si materializza quando le tastiere salgono in cattedra per cui improvvisamente, vedo apparire al mio fianco Jim Morrison a sussurrarmi nelle orecchie cosa scrivere in questa recensione. Già stordito dai suoni ritual-esoterici degli Otus, inizio anche a provare le prime mistiche visioni mentre scorro il booklet del cd, ove mi pare di intuire che la realtà in cui viviamo è una distorsione dell'Universo, per cui non c'è un dritto o un rovescio della medaglia, forse non esiste neppure un bene o un male e tutto va letto in una visione che fino ad oggi mi era completamente sconosciuta. Il suono nepalese della terza "Echoes And Evocations" prova ad aprire i miei chakra e sbloccare il mio terzo occhio. Che diavolo succede, provo a ribellarmi a questa situazione, ma la musica degli Otus prosegue nel suo intento di mettermi in equilibrio con l'Universo sebbene l'utilizzo di un approccio non del tutto convenzionale qual è il post metal, le percussioni tribali di "Phurba" e del mantra che a metà brano prova nuovamente a catalizzare i miei sensi ormai in balia della proposta, corrosiva e mistica allo stesso tempo, del quintetto di Roma. È un viaggio si, lo confermo, a cui vi suggerisco di non sottrarvi, rischiereste di avere dei rimpianti. Meglio lasciarsi traviare allora dalle magnetiche frequenze sonore degli Otus, e dalle onde della meditazione, quelle che emergono dalla corrosiva "Theta Synchrony", che trova il tempo di curvare la sua arcigna proposta per sprazzi di suoni elettro-ambient che mi consentono di entrare quasi in trance spirituale. Ed ecco quelle fantomatiche frequenze irrompere nella title track, quasi a voler penetrare a tutti i costi il mio cervello che continua ad ostacolare gli accadimenti. Non c'è verso però, la musica degli Otus ottunde i miei sensi, attraverso il delicato arpeggio di "Black Lotus", sulla cui eterea melodia si staglia spaventosa la voce del frontman, mentre l'armonia musicale smuove gli spettri di Isis e Cult of Luna, in quella che è la mia traccia preferita dell'intero lavoro, cosi imperniata di sonorità post a me care, ma anche di un certo ipnotico refrain dal vago sapore orientale. Il flusso dinamico degli Otus prosegue attraverso la fase alfa della meditazione, quella della liquida "Alpha Phase". Parlavo in precedenza di percezione della realtà: la lisergica "Res Cogitans, Res Extensa" accorre in mio aiuto, citando il buon Cartesio e la sua distinzione tra realtà psichica, quella che possiede le qualità di inestensione, libertà e consapevolezza, e la realtà fisica, che è estesa, limitata e inconsapevole. Una song lunghissima che avrà modo di risvegliare i vostri sensi intorpiditi, come una gentile carezza sul vostro viso grazie alle sue splendide melodie psych/post rock. La musica degli Otus si ferma qui dopo un viaggio di oltre settanta minuti tra filosofia, misticismo, empirismo ma soprattutto tanta musica post di pregevole fattura. Esoterici. (Francesco Scarci)

(Self - 2016)
Voto: 85

The Haunting Green - S/t

#PER CHI AMA: Post-core, Neurosis
Li ho visti dal vivo, in compagnia degli Oranssi Pazuzu, mi hanno subito colpito. Sono arrivati dritti allo stomaco i The Haunting Green con il loro sound minimalista, aggrovigliandomi le budella, complici quei suoi umori stranianti e quell'aura sinistra che avvolge questo loro primo EP. Occhio però che il duo friulano non è di certo di primo pelo: Cristiano Perin, il vocalist nonché chitarrista e responsabile delle parti elettroniche del progetto, e l'affascinante Chantal Fresco (a sedere dietro le pelli) sono stati anche membri di uno dei più talentuosi e sfortunati ensemble della penisola italiana, gli A Cold Dead Body, che recensii su queste stesse pagine anni addietro, forse era il 2010, e che dopo quell'eccellente disco, se ne persero le tracce. I due musicisti tornano con un nuovo progetto di doom sperimentale che vanta puntatine nell'ambito del post metal, nell'ambient e nel drone. Quest'ultimo è già testimoniato dall'apertura "dronica" di "The Mournful Sons", traccia che delinea i contorni musicali dei The Haunting Green. La song ha una partenza contraddistinta da cibernetiche e soffuse atmosfere, che vengono mandate in frantumi dall'arcigno screaming di Cris, mentre la brava Chantal tocca sommessamente rullante e crash, in una traccia dai contorni melmosi, al limite dello sludge più ossessivo dei Neurosis. "Our Days in Silence" persiste nell'essere strisciante nel suo incedere, un po' come mettere in musica la classica immagine del serpente a sonagli che col suo movimento a fisarmonica, scivola nel deserto dell'Arizona. Il brano vira poi verso torbide e contratte atmosfere, prima di dipanarsi verso un lungo e acustico finale malinconico. Con "Eradicate" i toni si fanno ancora più caustici e pesanti, pur non essendoci alcuna vera e propria accelerazione a livello ritmico; quel senso di ansia è alla fine dettato da un sound di chitarra che si dirige verso malate spirali di distorsione che nel suo disarmonico suono, mi ha evocato qualcosa degli ultimi Ephel Duath. Un interludio noise drone, per cui sembra addirittura di udire il classico ronzio dei motori dei velivoli che ormai sorvolano comunemente i nostri cieli, ed è il tempo di "V", l'ultimo capitolo, peraltro strumentale, di questo disco. La song sembra però più un esercizio di stile di Cris, che si muove tra riffoni post metal, porzioni progressive (e jazz), per cui mi sento nuovamente in diritto di chiamare in causa gli Ephel Duath, e break acustici che convogliano il tutto verso l'apocalittico finale di questo interessantissimo EP. The Haunting Green: da tenere assolutamente sott'occhio e soprattutto vedere dal vivo. (Francesco Scarci)

(Self - 2014)
Voto: 75

Warchief - S/t

#PER CHI AMA: Stoner Rock/Sludge
Phonosphera Records ci sta viziando non poco: oggi parliamo di un altro interessante Lp dell'etichetta nostrana, il S/t dei finlandesi Warchief. Il 12 pollici è esteticamente una perla, partendo dalla cover art che raffigura un astronauta esausto che si lascia trasportare da un cavallo per una landa deserta dove sullo sfondo si stagliano arcaici edifici. Un'opera in stile sci-fi che ha lo scopo di attirare l'occhio e ammagliarlo con il suo look onirico. Il vinile è poi di un rosso brillante, quasi a raffigurare un sole incandescente che brucia alto nel deserto, in un cielo che potrebbe essere quello terreste in un prossimo futuro oppure quello di un altro mondo. Anche per i Warchief la stampa è stata fatta su 180 gr. di PVC, una garanzia di qualità per la lettura sul nostro fido giradischi. Il quartetto spazia tra sonorità stoner, sludge e rock, che unite alla loro buona attitudine, regalano quattro brani curati e dall'ottimo groove. Il disco inizia a girare, la puntina si abbassa sul fido piatto della Technics e la traccia di apertura, "Give", riempie la stanza. Un mid-tempo dal mood spirituale ed epico, dove i riff di chitarra sono una goduria per le mie orecchie, grazie anche a distorsioni grosse ma non troppo esasperate, il giusto per lasciar trapelare molte armoniche. Tramite il vinile sembra di accarezzare velluto di ottima fattura. Gli intrecci di basso e di batteria rispecchiano quanto di meglio l'hard rock abbia insegnato durante le decadi d'oro e i Warchief sembra ne abbiano fatto buon uso. La classica alternanza strofa-ritornello crea un ottimo equilibrio tra potenza e introspezione. Il cantato ha un ruolo molto importante nella song perché la sua cadenza e la sua timbrica regalano un non so che di epico, simile ad un canto primitivo che si alza per farsi udire da un dio che non ascolta. "Life Went On" è un'opera rock di nove minuti abbondanti, tramite la quale, la band attraversa varie evoluzioni stilistiche. La parte iniziale è caratterizzata da una ritmica lenta e ossessiva, con un soffice riff distorto di chitarra che cerca di ipnotizzarvi per portarvi nelle lande perdute del subconscio. L'esplosione non si fa attendere, con il vocalist che sale di tonalità fino a toccare le stelle, poi la calma torna improvvisa e si ricomincia daccapo con una variazione semplice ma efficace del tema. Mentre il basso tesse una trama di sub frequenze che smuovono il nostro io interiore, l'esplosione torna e ci investe, forse in modo un po' prevedibile. La psichedelia deriva più dalle ritmiche e dai semplici riff che dai classici assoli. L'influenza dei Truckfighters e affini si percepisce facilmente, ma il cantato e gli arrangiamenti aiutano i Warchief a scrollarsi di dosso questa pesante somiglianza. Il disco chiude con "For Heavy Damage" a cui è dedicato l'intera side b, quindi circa ventuno minuti che sembrano riprendere il tema della precedente traccia, quasi ad esserne essa stessa un'evoluzione. I riff si fanno più cadenzati e sporchi di sonorità blues, ma allo stesso tempo si sente parecchia influenza rock anni '70 che tanto sembra cara alla band. Gli stacchi e le riprese compongono i dieci minuti della prima parte e aiutano a non abbassare mai il livello di guardia, grazie ad allunghi che ci lasciano godere con calma ogni singola sfumatura prodotta dalla puntina del giradischi. Un assolo alla Electric Wizard ci dimostra che la sezione delle chitarre se le cava bene anche sotto quest'aspetto, poi il quartetto si fa prendere da un'isteria musicale e continua con la propria evoluzione. Il brano chiude con un campionamento vocale di qualche film di vecchia data, sempre di grande effetto, anche se un po' troppo di moda nell'ultimo periodo. 'Warchief' alla fine è un buon esordio che mette in chiaro le doti della band finnica, sebbene in un panorama musicale, lo stoner rock/sludge, decisamente affollato; credo tuttavia che grazie ad un ottimo cantato e all'ottima capacità compositiva, i Warchief saranno in grado di ritagliarsi la loro fetta di notorietà. Facile intuire, che questa crescerà proporzionalmente con l'impegno e il sacrificio. (Michele Montanari)

(Phonosphera Records - 2016)
Voto: 75

giovedì 12 maggio 2016

Malevolentia - Répvbliqve


#PER CHI AMA: Black Symph, Fleshgod Apocalypse, Dimmu Borgir, Xerath
Rappresenta la normalità per il terzetto di Belfort prendersi lunghi periodi di pausa tra un disco e il successivo: era successo con il debut album nel 2005, per cui dopo sei anni uscì 'Ex Oblivion' (recensito dal sottoscritto su queste stesse pagine nel novembre 2011) e finalmente dopo altri cinque anni di silenzio, ecco giungermi tra le mani 'Répvbliqve', sempre edito dalla Epictural Production. Che dire di nuovo dei nostri sinfonici blacksters? In realtà non molto, visto che la proposta dei transalpini riprende là dove si era interrotto con 'Ex Oblivion'. Probabilmente l'unica novità sostanziale è l'aver enfatizzato la componente orchestrale, mantenendo comunque inalterata la ferocia di fondo. Lo dimostrano i fatti: "Annuit Cœptis" è la prima selvaggia traccia che irrompe nel disco dopo la classica intro. Sicuramente da più parti si dirà che i Malevolentia vogliano emulare i maestri Dimmu Borgir (o i nostrani Fleshgod Apocalypse), e in parte potrebbe anche essere vero. Tuttavia quello che colpisce maggiormente nella nuova fatica di Spleen e soci, è la carica cinematografica che intride ciascun singolo brano di 'Répvbliqve', che lo rendono cosi maestoso e ricco di contenuti. E cosi in "Völuspá", accanto alle torve e malvagie vocals di Spleen, ecco accostarsi il cantato operistico di una gentil donzella (la si ritroverà lungo tutto l'album), con la musica che comunque prosegue la sua corsa sui binari di magniloquenti orchestrazioni che ben si sovrappongono a sinistre sfuriate black. Chiaramente le tastiere e le orchestrazioni assumono il ruolo cardine nella matrice sonora dei Malevolentia, ma il risultato è sicuramente di rilievo, che mi rincuora del fatto che il black sinfonico ha ancora ragione di vivere e di dire la sua. Cosi "Etemenanki", lungo il suo imperioso scorrere, mi fa venire i brividi per le sue straordinarie orchestrazioni (fortissimo qui l'influsso dei Dimmu Borgir, devo ammetterlo) e mi fa arricciare i baffi per la maligna aura che possiede. Un epico bagno di sangue che avrà modo di esaltare i vostri sensi anche attraverso la pomposità dell'intermezzo "Virtù & Fortuna", che prepara la strada alla maestosità di "Magnus Frater Spectat Te", un brano che mette in evidenza anche alcune linee di scuola death metal, su cui si stagliano cori ritualistici. Splendido poi il break centrale, che ha il ruolo di generare una fortissima suspence. Questa sembra infatti essere la ricetta dei nostri nel loro flusso sonico: creare una certa tensione emotiva, da cui scatenare poi la propria tempesta ritmica. Ovviamente non è tutto oro quel che luccica, e se dovessi cercare un difetto a 'Répvbliqve', lo andrei a identificare nell'eccessivo numero di brani, ben 14, che alla lunga potrebbe distogliere anche l'attenzione di chi ascolta con piacere questa monumentale opera di black sinfonico, che a livello lirico chiama in causa il clima di autoritarismo e oppressione descritto da Orwell, ma anche una certa occulta simbologia massonica, che si ritrova nella grafica del digicd, il tutto poi cantato rigorosamente in lingua francese. Che altro aggiungere se non invitarvi caldamente all'ascolto di 'Répvbliqve', nuova maestosa opera dei Malevolentia. Prossimo appuntamento? Speriamo un po' meno dei canonici cinque anni, mi raccomando, ci tengo! (Francesco Scarci)

(Epictural Productions - 2016)
Voto: 80

https://www.facebook.com/MalevolentiaBM

mercoledì 11 maggio 2016

Funeral - In Fields Of Pestilent Grief

REISSUE:
#PER CHI AMA: Death/Doom
Ho avuto il piacere di ascoltare una recente ristampa di 'In Fields Of Pestilent Grief', album del noto gruppo norvegese Funeral, risalente all'anno 2001. Si tratta del secondo full-length per i nordici veterani del doom metal, che negli anni hanno spaziato e sperimentato all'interno di diversi generi, perseguendo differenti strade stilistiche nel corso della loro carriera. Il disco in questione, appartiene alla fase doom melodica della band, che si era già assestata con il debut 'Tragedies'. La peculiarità di questo periodo è la presenza dietro al microfono di una voce femminile, Hanne Hukkelberg, che senza dubbio contribuisce enormemente a forgiare lo stile caratteristico dei Funeral. Voci acute e spettrali apportano infatti quel giusto tocco gotico al doom pesante dei norvegesi, che tuttavia mantiene anche ricchi passaggi e linee vocali (quasi) melodiche. Il muro sonoro creato da chitarre e basso pesantemente distorti pare infatti impenetrabile, salvo poi aprirsi in fraseggi e passaggi in cui aleggiano melodie taglienti, come nello stacco chitarristico dell'opener “Yeld To Me”, o addirittura sezioni acustiche e pulite. Fanno la loro comparsa persino degli intermezzi strumentali (la title-track e la chiusura "Epilogue"), completamente pianistico il primo, mentre nell'atto conclusivo si articolano orchestrazioni tastieristiche, che terminano l'opera con una leggera sfumatura, in un'atmosfera da brivido. Le ritmiche vengono mantenute lentissime ed inesorabili e il loro incedere straziante è ciò che origina la mesta atmosfera di decadimento e tristezza che pervade l'intero album. Questo trascinarsi di cupe emozioni è acuito anche dalle vocals acutissime e tetre, che sovrastano l'energia e la potenza dell'impianto “Funeraliano”: queste rappresentano il tocco finale, la ciliegina su quest'ottimo lavoro compositivo. Nonostante la monoliticità del genere esplicata attraverso tempi estremamente lenti possa indurre a una certa ripetitività, le notevoli abilità compositive della band fanno si che ciò non accada. Anche nelle situazioni che possono sembrare più monotone e scarne, si avverte come i Funeral riescano a garantire fantasia e varietà ad ogni passaggio, pure con estrema semplicità. Ricche variazioni sul tema sono apportate da molteplici elementi, dalle orchestrazioni cupe delle tastiere, dagli assoli melodici di chitarra, o dai fraseggi mistici ripetuti fino allo sfinimento, senza tuttavia mai annoiare. Basti ascoltare “The Stings I Carry“, in cui il tema chitarristico viene instancabilmente trascinato dall'inizio alla fine, come l'eco di un perpetuo lamento. Altro pezzo notevole è “When Lights Will Dawn” che ci dimostra appieno quanto appena detto: il suo tema onnipresente seguito dai chorus e dagli acuti della Hukkelberg, le ritmiche inesorabili, gli assoli conclusivi e quella costante atmosfera quasi epica, sospesa a metà, contribuiscono a donare una sensazione di ascensione dall'oscurità opprimente. Si tratta del brano più lungo del disco e sicuramente anche del più impegnativo e riuscito dal lato musicale-compositivo. Un brano un po' diverso dagli altri è invece la nona traccia, “Vile Are The Pains”. La definisco differente perché è l'unica dell'album a non essere cantata dalla brava Hanne, ma è eseguita interamente dal tastierista Ottersen. Al termine di questa special edition, si trovano due tracce bonus, altro non sono che le vecchie demo version dei pezzi “When Lights Will Dawn” e “The Stings I Carry”, anch'essi cantati da voce maschile in una versione alternativa davvero pregevole. Penso non serva aggiungere altro per descrivere un disco del genere, che sicuramente ha rappresentato un capitolo estremamente significativo nella storia dei Funeral, band simbolo per tutta la scena doom da vent'anni e più a questa parte. (Emanuele "Norum" Marchesoni)

martedì 10 maggio 2016

Terrorfront - We Don't Come in Peace

#PER CHI AMA: Black/Thrash Old School, primi Bathory, Possessed
Con una cover cd che richiama inequivocabilmente 'Panzer Division Marduk' dei Marduk (l'affinità con la band svedese rimarrà limitata al solo artwork), andiamo a conoscere i Terrorfront, band nostrana proveniente dalle pendici del Vesuvio, Napoli. 'We Don't Come in Peace' dichiara apertamente la natura guerrafondaia del quartetto partenopeo, che in questa prima loro fatica, ci aggredisce con soli cinque pezzi (che includono l'intro e la feroce cover dei Bestial Mockery, "Necroslut"), dediti a un sound sporco e primitivo. "Human Decline", oltre ad evidenziare la natura decadente della nostra società e a presagire l'arrivo di una nuova apocalisse, mette in mostra la brutalità della proposta old school del combo italico, anche a livello di una produzione casereccia, di quelle che nascevano in una session con amici, registrata nello scantinato di casa. Se vogliamo anche la musica dei quattro teppisti campani scava nelle viscere del metal, scomodando mostri sacri del black thrash primordiale, come Possessed o i Bathory del primo lp omonimo, che si rintraccia nel riffing abrasivo di "The Sons of Radiations". Per chi è nato sotto il segno di queste sonorità scarne e corrosive, a cui aggiungerei anche i Kreator degli esordi e gli Aura Noir, non sarà certo difficile dare un ascolto a questo disco, sarà come un tuffo nel passato, avere l'impressione che gli anni '80 non siano mai conclusi, che 'Morbid Visions' dei Sepultura o 'Hell Awaits' degli Slayer girino ancora come tapes, nel vostro rude impianto hi-fi, privo mi raccomando, di un lettore cd. Per chi invece è abituato a produzioni cristalline, pompose e magniloquenti, nonchè di sonorità contaminate, all'insegna del post-qualcosa, avantgarde o similia, l'EP dei Terrorfront rappresenterà soltanto un'anarchia musicale da cui fuggire. Per pochi nostalgici. (Francesco Scarci)

(Lupus Niger - 2015)
Voto: 60

https://www.facebook.com/terrorfront666

Weird Fate - Cycle of Naught

#PER CHI AMA: Post Black/Avantgarde, Deathspell Omega
Bella scoperta i tedeschi Weird Fate, me li ero stranamente persi per strada, visto che 'Cycle of Naught' rappresenta già il loro secondo album, dopo l'esordio sulla lunga distanza nel 2012 e addirittura uno split datato 2008. I quattro di Rhineland tornano con sei pezzi di black ancestrale in cui convogliano diverse influenze: nell'iniziale "The Worthlessness of Striving", è impossibile non cogliere l'eco dei Melechesh nel saliscendi ritmico imbastito dai nostri nella prima parte del brano, che evolverà poi in un evocativo finale ritualistico, quasi da pelle d'oca. Con "Irretrievable" si cambia registro, conducendoci nei meandri di un funeral doom contaminato da sonorità post black. Ma con i Weird Fate non si possono certo dormire sonni tranquilli, visto che la loro proposta musicale si conferma costantemente mutevole con cambi repentini di tempo, di umori e pure di genere, per cui talvolta il rischio è addirittura quello di perdere il filo conduttore. Non c'è pertanto da stupirsi se in un preciso momento vi sembrerà di udire un che dei Behemoth per quelle sfuriate black/death, il secondo successivo cogliere l'epicità dei Bathory, un attimo dopo le scorribande cascadiane dei Wolves in the Throne Room fino ad arrivare al black "sconnesso" dei Deathspell Omega, tutto questo in otto minuti di totale delirio sonoro che ricordo essersi originato da suoni funeral. Tutto chiaro ora? No, perchè se avete ancora dubbi a proposito, sono certo che i nove minuti della folle "Inside the Sore", potrebbero schiarirvi le idee oppure incasinarvele ancor di più, data l'incredibile capacità del quartetto teutonico di buttare sul fuoco talmente tante idee da indurmi ancora una volta a faticare nel seguirne la proposta, non proprio lineare. Forti anche di un'ottima produzione e sicuramente di una preparazione tecnica di primo livello, i Weird Fate hanno modo di sparare altre significative cartucce nella post rockeggiante (si, avete letto bene) "Foreboding", una traccia che ha il merito di minare ulteriormente le mie certezze, mischiando un prologo post rock con un oscuro pezzo black. Un bell'arpeggio apre "Of Void and Illusion", ma è la classica quiete prima della tempesta, non fatevi ingannare pure voi. Il sound dell'act del Palatinato esplode in un dirompente black che ha modo di evocare nuovamente le ultime evoluzioni sonore dei Deathspell Omega, ma in grado anche di farci sprofondare nelle viscere della terra nel finale, in cui i suoni, ormai totalmente disarmonici, mi fanno pensare di essere in preda agli effetti di non so quale droga psicotropa. Il disco si chiude con la title track, che ci investe con gli ultimi deliranti minuti di questa band tanto incredibile, quanto ostica da approcciare, segno comunque di una forte e spiccata personalità. Coraggiosi. (Francesco Scarci)

lunedì 9 maggio 2016

Dominance - XX - The Rising Revenge

#FOR FANS OF: Death Metal, This Ending, Hackneyed
Always one to take their time when it comes to releases, the third full-length from Italian death metallers comes off as a wholly fine and enjoyable effort that brings along plenty of enjoyable elements for what it does. Taking a deep, churning groove alongside tight melodic flurries and plenty of blasting drumming with a series of Metalcore-influenced riffing and the odd breakdown, this is a somewhat more modern take on the classic death metal sound that gets displayed here and manages to get some wholly intriguing mash-ups here where this one generates a tight series of churning riff-work and thunderous rhythms alongside a series of breakdowns and cleanly-sung lyrics. Though the more traditional tracks end up overwhelming and outnumbering this style, there’s enough of an appearance there that it does feel quite novel and intriguing when it occurs though it’s still quite clear that this is only on select tracks and they remain the weakest ones here by just being so jarring and off-putting against the other tracks here. Still, for the most part the songs here aren’t all that bad. Instrumental intro ‘XX’ takes a light, melancholic droning riff with a gradual build-up series of rhythms and tight drumming that sets up proper first track ‘Journey to a New Life’ as the thumping drum-patterns and swirling riff-work continually pummel along through the tight, twisting riff-work charging along through the stuttering, breakdown-influenced sections leading to the tight, stylized pounding patterns into the solo section and running into the fine finale for a decent start here. ‘This Is War’ features swirling razor-wire riffing holding the frantic, stuttering riff-work throughout the tight rhythms leading to the strong series of thumping mid-tempo sections keeping the steady riff-work along throughout the frantic patterns and melodic rhythms in the final half for a stronger effort overall. ‘Into the Fog’ utilizes swirling melodic tempos and a steady mid-tempo series of gloomy rhythms that keep the stylish riff-work and pounding drumming heading along into Metalcore-inspired patterns in the main sections turning into stuttering rhythms heading into the melancholy finale for a solid enough effort. ‘Twisted’ features a thumping series of tight rhythms and plenty of pounding drumming keeping the heavy chugging riff-work and thumping mid-tempo patterns that begin charging along throughout the hardcore-inspired breakdowns and swirling melodic leads running into the tight final half for a wholly enjoyable offering. ‘Dear Next Victim’ takes a series of start-up riffing into a strong series of up-tempo drumming holding the steady rhythms along throughout the blazing patterns that continually drops off into rocking clean-sung lines with heavy grooves that continually whip along at a steady mid-tempo pace into the charging finale for a strong highlight offering. ‘Breathless’ uses a sampled intro to blast into utterly frantic drumming and tight, swirling riff-work blasting along at frantic full-throttle speeds with plenty of tight grooves holding the frantic riff-work along through the fiery solo section and on through the final half for another blazing highlight effort. ‘Just a Reflection’ gradually builds up from soaring melodic leads into a series of steady mid-tempo thumping with sterling melodic riff-work and plenty of frantic blasting drumming keeping the tight patterns along into the series of breakdown-inspired tempo shifts and melodic rock leading into the apocalyptic finale for a solid if unspectacular effort. ‘Time to Pay’ takes tight, thumping riff-work and plenty of steady melodic leads running along to the thumping mid-tempo patterns before turning into a rather frantic up-tempo series of rhythms running alongside the melodic leads twisting through the churning mid-tempo grooves throughout the final half for a solid enough offering. Lastly, ‘Rise Again’ takes a gradual intro building into a steady series of thumping mid-tempo riff-work churning along to the melodic trinkling alongside the churning riff-work with plenty of steady grooves keeping a blistering mid-tempo charge through the strong rhythms leading into the angelic finale for a highly enjoyable lasting impression. Though this is a fun album, there’s some troubling sections holding it down. (Don Anelli)

(Sliptrick Records - 2016)
Score: 80

https://www.facebook.com/DominanceMetalBand

Nikki Louder - Trout

#PER CHI AMA: Noise Rock
Terzo album per il formidabile trio di noise-rockers sloveni e terzo centro. Dopo le scelleratezze sonore dei primi lavori, questo 'Trout' vede i Nikki Louder incanalare la loro energia in maniera più consapevole e meno caotica. In una parola: matura. E questo sembra essere 'Trout', il vero disco della maturità. Registrato in presa diretta in una sola serata, questo lavoro mette in fila una serie di brani davvero strepitosi, che mostrano sfaccettature nuove e mettono in evdenza ancora di più le qualità dei Nikki Louder come musicisti. Si prenda ad esempio la fenomenale accoppiata formata da "CV" e "Para Cargo", con la sua ritmica quasi free Jazz e le chitarre che urlano Sonic Youth ad ogni pie’ sospinto. L’assalto all’arma bianca dei dischi precedenti appare qui mitigato e quasi pacificato, l’aspetto ritmico e percussivo assume maggiore rilevanza e spesso predilige un approccio ipnotico, iterativo, a formare un tappeto su cui la voce, al solito straziata e tormentata come quella di un Eugene Robinson in stato di (ulteriore) alterazione, trova maggior risalto e vigore. Paradigmatica in questo senso è la title track, che cresce e monta di feedback e dissonanze, fino a sfociare in un magma sonico devastante tra Stooges, Can e Melvins, senza però mai dare l’impressione di perdere il controllo. Disco bellissimo, tra le migliori cose uscite di recente (è datato dicembre 2015) in ambito noise, con un solo, evidente difetto: 27 minuti sono davvero troppo pochi. Ascolto consigliatissimo, e lunga vita ai Nikki Louder. (Mauro Catena)

(Moonlee Records - 2015)
Voto: 80

https://nikkilouder.bandcamp.com/album/trout

Crafter of Gods - The Scarlet Procession

#PER CHI AMA: Black Symph/Power
Nati dalle ceneri dei Black Lotus, i Crafter of Gods si sono formati nel 2007 e in quasi dieci anni di vita hanno prodotto un demo, un promo cd nel 2010 e questo EP nel 2015, nonostante una stabilità nella line-up che perdura dalla loro fondazione. Il genere proposto da questi trevigiani è in apparenza un death gothic che, dalle prime note di "The Tempest Legacy", sembra chiamare in causa il binomio Lacuna Coil/Evanescence. Devo ammettere che ero già terrorizzato all'idea di dover recensire un prodotto cosi mainstream. Fortunatamente la band viene in mio soccorso, pensando bene di infliggere delle percosse ritmiche in stile black sinfonico (ricordate i tappeti tastieristici dei primi Limbonic Art?). Tuttavia, è fin troppo palese che il genere dei nostri volga il suo sguardo a sonorità ben più miti, data la decisione di affidare quasi interamente le vocals a Francesca Eliana Rigato, per carità brava vocalist, ma la cui presenza stona quando la ritmica si fa più incalzante e i nostri, nelle linee di chitarre, arrivano ad evocare addirittura lo spettro dei Cradle of Filth. Dei Crafter of Gods prediligo quindi il loro approccio più black oriented, anche se qui il black viene dosato con una certa parsimonia. Ben venga l'inizio di "In the Midst of Ocean's Infinity", cosi rabbioso nel suo growling; appena subentrano le female vocals però, la proposta della band si fa più orchestrale, e vado in confusione, non riuscendo ben a delineare il genere trattato. Probabilmente, questa difficoltà nel dare un'etichetta potrebbe anche rivelarsi vincente, ma attenzione perchè rischia di essere un pericoloso boomerang. La song si muove infatti tra leggiadre parti atmosferiche, ambientazioni arabesche, brevissime cavalcate black, ritmiche heavy power, assoli e cambi di tempo di chiara matrice prog, il tutto corroborato dalle eteree voci femminili di Francesca, a cui fanno da contraltare il growling e il cantato pulito dei due vocalist della band. Interessante lo ammetto, ma se non ben amalgamate tutte queste sfaccettature tra loro, si rischia di avere una certa difficoltà nel capire il prodotto finale, sebbene chi scriva sia uno che per forza di cose, è in grado di masticare un po' tutti i generi dello spettro metallico. "A Mirage of Hanging Moons" attacca nuovamente con una certa influenza black, sebbene in sottofondo ci siano delle tastiere barocche e il growling lasci ben presto posto a un cantato pulito maschile che stona in un simile contesto, facendomi inarcare paurosamente il mio sopracciglio sinistro, in tono di disapprovazione. Mi ritrovo ancora una volta proiettato in un luogo a me sconosciuto: ci sono ottime melodie, suoni pomposi, parti atmosferiche che si contrappongono ad altre più tirate, ma quelle clean vocals no, proprio no, non devono stare li. "In Silence of Death We March" apre con lo stesso canovaccio: chitarre e vocals black che da li a poco si tramuteranno in eteree voci femminili e ritmiche quasi power, per poi tornare a lanciarsi in infuocati pattern estremi, in una versione black degli Epica, che mi lascia francamente spiazzato. Arrivo alla coda del disco dove ad attendermi c'è "Celestial Breed, Treacherous Blood", il cui inizio tastieristico fantasy richiama i Bal Sagoth: poi la musica dei nostri si affida a una ritmica che lascia ampio margine di manovra alle tastiere, prima che Francesca intervenga e spegni definitivamente la magniloquenza delle linee di chitarra, lasciandomi titubante nella mia stanza. Sono quasi convinto che in 'The Scarlet Procession' ci sia troppa carne al fuoco e che gli ingranaggi della band non siano ancora ben oliati, sebbene l'ensemble veneto palesi buone idee e una certa padronanza strumentale. Tuttavia, questa mistura di generi potrebbe far felice chiunque cosi come nessuno, attenzione quindi. Da rivedere. (Francesco Scarci)

Presumption – Ancestral Rites

#PER CHI AMA: Stoner/Doom, Candlemass, Spiritual Beggars
Con un artwork più buio rispetto al precedente album del 2014, qui rappresentante una cattedrale gotica, desolata e decadente, i transalpini Presumption spostano il loro bersaglio sonoro ancor di più verso le gesta gloriose di Candlemass e Orange Goblin, tralasciando, anche se solo in parte, il tipico taglio hard blues per uno stoner rock/heavy doom più oscuro e granitico, spingendo oltremodo il suono, registrato al 99% in analogico, verso la storica genuinità di Motorhead e Black Sabbath, sempre in bilico tra aggressività, introversione, rudezza e "sporcizia" sonora. La verve della band non si è affatto dispersa, la tecnica è rimasta intatta, cosi come la forza della composizione e nei primi tre nuovi brani c'è il giusto appeal, il groove perfetto volto a creare quell'atmosfera sulfurea e diabolica, tipica di un orgia sonica, fatta di Pentagram e lisergico rock acido, batteria sferragliante e chitarre roventi, capitanate dalla consolidata performance vocale dell'ottimo frontman Moomoot che offre l'ennesima ottima prestazione, luciferina, alcolica e rissosa. I tre brani, di media lunghezza (sui 4 minuti), hanno il giusto tiro e la forza necessaria per dirottare la mia mente verso una psichedelia retrò, potente, figlia del buon rock trasgressivo dei '70s e di una certa oscurità mistica che si propaga tra titoli grigi come "Astral Death" e la stessa title track. L'EP, autoprodotto, contiene anche due titoli registrati live @ OTG Fest, che ci mostrano la band in salute e in buona forma esecutiva, "Dr Satan" e il già osannato "Albert Fish Blues", tratto dal precedente lavoro del 2014 (leggetevi pure la recensione di "From Judgement to the Grave"). Dal vivo la band suona dura e pesante, molto compatta ed heavy, sulla scia dei compianti ed eroici Cathedral e dei plurigettonati Orange Goblin, concludendo così la nuova raccolta in maniera fosca e allucinata. Forse tre nuovi brani sono pochi per valutare l'effettivo stato di salute della band, nonostante questo, ritengo i Presumption una band da seguire attentamente, carica di volontà, doti e buone idee, da tempo in costante ascesa. Niente di veramente nuovo in realtà sotto il sole cocente del panorama desertico, nessuna novità dal profondo della musica del destino, solo un disco carico di personalità (e non è poco!) che riesce a risvegliare la voglia di stoner rock che è in ognuno di noi! (Bob Stoner)

mercoledì 4 maggio 2016

Decrepit Soul - The Coming of War

#FOR FANS OF: Black/Death Metal, Abominator, Bestial Warlust
With two albums released back-to-back like these, Aussie war metallers Decrepit Soul could’ve easily burnt themselves out before they started though luckily that is not the case on their second full-length. Like most such groups, this one is predicated around primal, savage-sounding blackened death metal riff-work filled with swirling tremolo rhythms and the occasional mid-tempo atmospheric sprawling section thrown in for the sake of diversity, that all comes from the playbook of the acts typified in the particular genre. The fast rhythms and utterly blasting, filthy drum-work is a dynamic, devastating attack that works really nicely at generating the kind of furious patterns that makes for that wholly fun experience here even with that overly familiar style which is only exacerbated by the main flaw in the overall brevity. This is where the quick turn-around somewhat hurts this as the short running time isn’t really offering the kind of opportunities to explore more here with this one giving it a rather uniform appeal over the short number of tracks. It easily could’ve used some additional tracks to help this one out. The tracks themselves aren’t all that bad. Opener ‘Awaken’ uses a sampled approaching-storm intro that turns into ravenous drumming and blasting, tightly-wound rhythms keeping the frenetic tremolo riffing scalding along through the savage tempo changes as the furious paces gives way to a mid-tempo sprawl leading back into the furious pounding in the final half for an impressive opening effort. ‘Feral Howling Winds’ features rattling tremolo riffing and steady drumming turning into a frantic burst of furious blasting and tight, intense rhythms carrying the swirling rhythms along into ravenous buzzing patterns leading into the swarming riff-work and intense blasting in the final half for a stellar highlight. The title track utilizes frenetic blasting drumming and swirling tremolo riffing into a frantic, intense blast full of blistering up-tempo paces carrying the buzzing tremolo riff-work alongside the blistering drumming as the screeching leads whip through the extended-noise finale for an impressive and dynamic if one-note offering. ‘Perished in Flames’ uses a slow-building intro with plenty of melodic rhythms through a fine mid-tempo buzzing riff-work leading into the tight, furious blasting and swirling tremolo rhythms firing through scalding tempos with frantic leads into the solo section and into the relaxing final half for a solid, enjoyable effort. ‘Piscatorial Death’ takes the storm-cloud intro before gradually coming into the frantic, furious blasting with charging patterns and plenty of swirling tremolo riffing leading along through the sprawling mid-tempo sections filled with the tight rhythms along the finale for another solid track. ‘Black Goats Breath’ uses immediate blasting drumming and steady mid-tempo rhythms running along to the swirling tremolo patterns along the chaotic drumming with the frantic riffing leading through the tight leads with the buzzing patterns holding the intensity throughout the final half for a solid highlight. Lastly, album-closer ‘Storm of Steel’ features an extended melancholic intro with the change-over into tight blasting drumming and furious mid-tempo rhythms holding the tight, frantic patterns along with furious buzzing tremolo riff-work and blasting drumming running through the steady frenetic paces into the extended fade-out finale for an explosive and charging lasting impression. For the most part the songs work, it’s the brevity that holds it back. (Don Anelli)

(Iron Bonehead Productions - 2016)
Score: 80

https://www.facebook.com/decrepitsoul

Bernays Propaganda – Politika

#PER CHI AMA: Synth Wave, New Order
Se non è sempre vero che le difficoltà portano ad un miglioramento, di sicuro fortificano chi le attraversa. Quando un paio d’anni orsono la loro sezione ritmica ha detto addio, i macedoni Bernays Propaganda – già incontrati da queste parti con il loro precedente 'Zabraneta Planeta' – hanno dovuto riflettere sul proprio futuro, meditando se sciogliersi definitivamente o proseguire, e in che modo. Oggi, il loro nuovo album 'Politika' ne sancisce il ritorno con non poche novità, che non si limitano a quelle puramente di formazione. Abbandonate le incandescenti atmosfere post-punk del passato, qui si registra un deciso cambio di rotta verso sonorità decisamente più influenzate dalla synth wave dei primi New Order o Depeche Mode, sterzata stilistica che ricorda in qualche misura quella effettuata dai tedeschi Notwist all’altezza del loro capolavoro 'Neon Golden'. Se all’inizio non si può che rimanere un po’ spiazzati, dopo un po’ il nuovo suono dei Bernays Propaganda finisce per piacere, in virtù di un’atmosfera un po’ più rilassata e meno barricadera. Sulle barricate rimangono invece i testi della band, sempre tesi alla critica della società, tanto a livello locale quanto globale. Peccato solo che il fatto di essere tutti rigorosamente in lingua madre (rinnegata quindi anche la scelta di usare ogni tanto anche l’inglese) finisca per limitare fortemente la fruibilità della loro proposta al di fuori dei confini nazionali. Al di là dell’effetto straniante provocato dalla lingua macedone, è infatti indubbio che brani quali “Armija”, “I Dvete”, “Lazi Me, Lazi Me” risultino fascinosi e accattivanti, anche grazie alla voce di velluto di Kristina Gorovska e alle chitarre di Deni Krstev, che ben si integrano con la matrice elettronica che costituisce l’ossatura di un suono completamente ridisegnato. Se è vero che la dimensione in cui la band si è sempre espressa al meglio è quella live, con questo album la loro musica assume nuove sfumature che sarei curioso di vedere traslate sul palco. In definitiva un disco interessante, che potrebbe aprire una strada nuova per il gruppo, anche se l’ortodossia linguistica potrebbe rappresentare un’ostacolo non indifferente. (Mauro Catena)

Behold! The Monolith - Architects of the Void

#PER CHI AMA: Sludge/Doom
Il vuoto cosmico primordiale, l’assenza di gioia o dolore, la catarsi mistica come in ammirazione di un uragano che con le sue spire distrugge una città in pochi secondi: questo è l’effetto che fa 'Architects of the Void'. Questa è la terza fatica dell’act Californiano edita per Arctic Forest Records e prodotta dal leggendario Billy Anderson, già al mixer per Eyehategod, Neurosis, Melvins e molti altri mostri sacri. L’artwork, curato da Dusty Peterson, rappresenta magnificamente il contenuto dell’opera, un demone guardiano con una spada che osserva la valle infuocata degli inferi, senza paura, perchè nulla lo può scalfire. I Behold! The Monolith sono una band preparata e consapevole delle proprie capacità. A cominciare da Jordan Nalley frontman della band che, con la sua timbrica vocale degna dei peggiori demoni alati, è in grado di ipnotizzare gli astanti e trascenderli in un’esistenza parallela fatta di tenebre e oscurità. Anche gli altri musicisti non sono da meno: alla chitarra Matt Price dispensa bordate di distorsione e cattiveria senza lasciare indietro schizofrenici assoli e parti lead allucinate, perfettamente sostenute dagli imprevedibili colpi di batteria di Chase Manhattan; completa il quadro il profondissimo e ruggente basso di Jason "Cas" Casanova. Chi scrive ha avuto la fortuna di vedere i Behold! in concerto ed una sola parola mi sovviene: monolitici. In sede live viene esattamente riprodotto 'Architects of the Void': già la magnifica intro, “Umbral Vale”, fa capire in che girone dell’inferno siamo capitati, in una traccia sospensiva, che sembra non avere né fine né inizio, ma che è in grado di tracciare un chiaro sentiero nella valle di fuoco che andremo ad attraversare. La sensazione è quella di varcare la soglia di un’antica città aliena, abbandonata da tempo immemore. Il paesaggio è incredibile, nessuno crederà a quanto ho visto e non potrò condividere l’estasi della visione desolata delle rovine, rimarrà un’esperienza esclusivamente mia. La lama del filosofo, la seconda traccia, forse la più emblematica e immediata del disco, libera un’immensa quantità di energia oscura, come se il demone in copertina entrasse in azione ed inizi a vibrare fendenti con la sua spada nera, nulla può fermare la sua avanzata, tutto viene travolto dalla sua furia. L’iniziale ritmo tribaleggiante, accompagnato da immense note di chitarra, si tramuta in una frazione di secondo in un riff compulsivo così grosso da far pensare ad un esercito di fantasmi in groppa a neri cavalli lanciati al galoppo in un’ultima gloriosa carica verso il nemico. Approdiamo a "Mithirdist", un pezzo mistico con ambientazioni a tratti oniriche, a tratti pesantemente ciniche e disilluse. Qui, oltre a godere di una grande prova di Chase alla batteria, vi segnalo una parte tra le mie preferite, ossia quello stacco in blast beat che ritroviamo più volte nella song per cui sembra quasi mandare il tutto fuori tempo ma in realtà è assolutamente perfetta nello scorrere della musica, come se il demone guardiano subisse per la prima volta qualche colpo di arma nemica che lo fa tentennare ma subito reagire con il doppio della potenza. "Lord of Bones" descrive le tormentate distese degli inferi con un incedere iniziale lento e spezzettato per arrivare ad un delirio finale di rara violenza della lunghezza di quasi 4 minuti. Un ultimo respiro si prende con l’intermezzo drone ambient “Black Days of..” per poi arrivare all’immenso finale con i due conclusivi pezzi “Between Oder and the Vistula”, massima espressione di rabbia del disco, e l’imponente title track, un concentrato di creatività, sperimentazione, esalazioni sulfuree e potenza allo stato puro. Ascoltare quest’opera dei Behold! The Monolith è un’esperienza che non lascia indifferenti, la carica di energia che ne deriva è così potente da distruggere qualsiasi ostacolo che la vita può presentare. L’ascoltatore può attingere forza dallo spirito invincibile di quel demone che vigila sull’intera opera, per difendersi dagli attacchi delle forze negative che minacciano la nostra esistenza reale. (Matteo Baldi)

(Arctic Forest Records - 2015)
Voto: 90

https://beholdthemonolith.bandcamp.com/

martedì 3 maggio 2016

Deadly Carnage - Chasm EP

#PER CHI AMA: Shoegaze, Alcest
Ecco un'altra delle band che seguiamo qui nel Pozzo sin dai loro esordi. Sto parlando dei romagnoli Deadly Carnage, che quest'anno per festeggiare il loro decennale di attività, hanno deciso di regalare ai propri fan un EP in formato 7". Due soli brani costituiscono 'Chasm', il cui sound prende chiaramente le distanze dal contenuto del precedente album, 'Manthe', che tanto mi aveva impressionato, per i suoi echi ai primi Katatonia, Primordial o Shining. Qui, la proposta della band riminese è stravolta, visto che le sue sonorità ammiccano ora pesantemente allo shoegaze degli Alcest. E "Night was the End" apre con i suoi riverberi lontani e malinconici, quasi a richiamare un che degli An Autumn for Crippled Children, ma soprattutto la band di Neige e soci, per via di quelle sue melodie eteree e per l'uso delle vocals, qui completamente pulite, seppur assai sofferenti. "Hole of Mirrors" è il side B del disco e anche lo straziante video che vi invito a guardare su youtube: il flusso sonico si fa ancor più decadente e le linee di chitarra si rivelano ancor più disperate nel loro vibrante incedere emotivo, per un suono che nella seconda metà del brano diventa più cupo e deprimente. Non so esattamente se questa sarà la nuova strada che la band nostrana percorrerà nel futuro, però è da apprezzare la sperimentazione che i nostri stanno mettendo in atto nella evoluzione del proprio sound, ora portavoce anche di elementi post rock, post punk e dark. Bella mossa ragazzi! (Francesco Scarci)

domenica 1 maggio 2016

Persona - Elusive Reflections

#PER CHI AMA: Power Symph
Il debut album dei Persona, band attiva dal 2012, ci arriva direttamente dalle desertiche lande della Tunisia. La terra dell'antica e splendente Cartagine non è di certo un ambiente molto battuto dalle band metal, ma anzi decisamente esotico per questa scena musicale. Per questo mi trovo a guardare (e ascoltare) questo disco con un occhio/orecchio piuttosto sorpreso. Questo esordio si apre subito come ci si aspetterebbe: atmosfere orientaleggianti vengono subito evocate grazie al sitar nell'intro e proseguono poi per tutto il pezzo con tempi e ritmiche davvero sahariane. Si nota infatti come “Somebody Else” riesca subito a calarci nella giusta atmosfera, fatta di sogni onirici e miraggi, immagini sfuggenti che ci avvolgono, magari dentro una tenda o intorno ad un fuoco, in un accampamento di Tuareg del deserto. Lo stile dei Persona si identifica come un power solido, con chitarre piene e un sound potente su una doppia cassa aggressiva e onnipresente, anche quando le ritmiche si fanno più blande. Le tastiere si ricavano ampio spazio all'interno dei brani, insistenti ma non eccessive, e vengono spesso coinvolte in sezioni strumentali e ricchi assoli, intrecciandosi con le chitarre. Un buon esempio può essere il brano "Blinded", in cui l'alternanza keys-guitars nella seconda parte del pezzo, apporta un tocco epico davvero suggestivo. A completare il quadro si aggiungono le vocals acute di Jelena Dobric, che perdurano fino alla fine sulle studiate linee melodiche (rafforzate anche da qualche sovrincisione qua e là). Unica eccezione la ritroviamo nell'interessante traccia "Monsters", in cui è presente un passaggio in growl . Brano particolare all'interno dell'album, che si distingue innanzitutto per le sue continue variazioni ritmiche e stilistiche, senza però uscire dal tema e mantenendo la sua solidità e compiutezza. Basti pensare al continuo cambio in ¾ (tanto amato dalla band tunisina) nei ritornelli, o al caratterizzante passaggio centrale che evoca sonorità desertiche ed arabeggianti, prima di passare alla sezione più aggressiva del brano, vicina a sonorità death. Altro punto di forza del pezzo l'ottimo e articolato assolo chitarristico sul finale, a sottolineare ancora una volta le buone doti tecniche dei musicisti. Il pezzo successivo, dai tempi più smorzati ,“He Kills Me More”, si apre con una forte linea di basso, che si rende protagonista fino alla conclusione. Infine, a chiudere questa prima fatica dei Persona, incontriamo la semiballad “The Sea Of Fallen Stars”, rigorosamente in ¾ ed accompagnata dal solito guitar-solo, questa volta più ricercatamente melodico. Dalle solide fondamenta di quest'album i Persona possono cominciare a modellare e rifinire il proprio stile, che per il momento si sofferma sui canoni classici del genere. Buono il livello tecnico della band, che seppur impeccabile nell'esecuzione, manca ancora di quel “guizzo” che sappia far emergere pienamente le proprie qualità. Per ora infatti, la band sembra non voler “osare” particolarmente oltre a questi orizzonti limitati, con l'unica eccezione di alcuni buoni elementi, come i passaggi e le sonorità orientaleggianti, che riescono a conferire una minima caratterizzazione al lavoro dell'ensemble tunisino.(Emanuele "Norum" Marchesoni)

Cyclocosmia - Deadwood

#PER CHI AMA: Gothic Symph., Tristania
I Cyclocosmia sono una band londinese, concepita inizialmente come solo project da James Scott nel 2011, a cui si sono progressivamente uniti altri membri più o meno stabili. In primis Lorena Franceschini, la vocalist venezuelana, entrata in pianta stabile a prestar la propria voce, poi Draven Gray (piano), Pete Hartley (violino) e Sebastian Cure (chitarra), come ospiti, a dare una mano per completare questo debutto. 'Deadwood' è il risultato di anni di lavoro, un disco costituito da 10 lunghe song, influenzate, in ordine sparso, da The Gathering, Lacuna Coil, Tristania, The 3rd and the Mortal e Trail of Tears, tanto per citare qualche nome. Avrete pertanto capito che siamo al cospetto di una band dedita prettamente a una forma di gothic metal, ovviamente grazie alla soave voce di Lorena, che si staglia su un tappeto sinfonico, che ogni tanto ha modo di sprigionare anche una carica di energia e violenza, grazie a backing growling vocals. Dando un occhio alla playlist, vediamo un po' quali sono le song che più mi hanno colpito: sicuramente la opener "Marionette", che traccia subito la direzione sinfonica dell'act inglese, la cui pomposità iniziale (quasi un tributo ai Dimmu Borgir), mi aveva quasi ingannato. La voce di Lorena prende infatti il sopravvento, ricordandomi per timbrica Anneke van Giersbergen, pertanto emozionandomi non poco, mentre il buon James ogni tanto piazza i suoi possenti growl, in una traccia che poteva stare tranquillamente in uno qualsiasi dei dischi dei Tristania. "Wither", per la sua vena malinconica, invece mi ha fatto ripensare a 'Tears Laid in Earth' dei The 3rd and the Mortal, con i vocalizzi di Lorena che ricalcano, se mi consentite il paragone, quelli magici di Kari Rueslåtten. La ninna nanna "Ubasute", sebbene la magia del violino, non mi convince per tre quarti, almeno fino a quando la ritmica non pigia sull'acceleratore, rendendo la song decisamente più viva. Una chitarra acustica accompagna la voce della brava cantante sudamericana in "Season of Regret", ma è la parte solistica a sorprendermi questa volta con un bel tracciante scaturito dalla 6-corde di James. "Little Girl Lost" è una lunga traccia di oltre nove minuti, in cui la costruzione del brano presenta costantemente una prima parte assai mansueta, in cui regina è la bella voce di Lorena, a cui segue, nella seconda metà, un irrobustimento nel sound del combo albionico, le cui linee di chitarra confermano sempre una spiccata dose di malinconia. La seconda metà del disco è a mio avviso un po' più deboluccia: interessante la nostalgica "...Y Dolor En la Tierra", anche se troppo melliflua per i miei gusti. La forte vena malinconica è però presente in tutto il disco, legato verosimilmente alla perdita della madre di James nel 2015 e forte è questa emozione nella drammatica "Aftermath". Insomma, 'Deadwood' alla fine è un buon debutto, seppur parecchio derivativo e a più riprese richiami questa o quell'altra band, d'altro canto, il gothic non è certo un genere nato oggi, ma che in oltre 30 anni di onorata carriera, ha partorito davvero pietre miliari della musica rock. (Francesco Scarci)

Aes Dana feat. Miktek – Far & Off

#PER CHI AMA: Trance/Ambient
Vincent Villuis e Michalis Alkaterinis, in arte Aes Dana & Miktek, hanno confezionato in questo inizio di 2016, e via Ultimae Records quest'ottimo album, ispirato ed evoluto, sia sotto l'aspetto compositivo che a livello emozionale. Ho apprezzato molto lo spesso booklet interno, costellato di belle foto, dentro al quale troviamo una lunga prefazione all'album, dove Vincent scrive “... rimuovere me stesso dalla turbolenza in corso e puramente svanire...” riferendosi alla vita frenetica e alla sua dannosità, alla volontà di fuga che esiste in ognuno di noi, una emozione/sensazione che spesso, per molteplici motivi, dobbiamo sopprimere, abbandonare, rifiutare e alla fine finiamo per soccombere alla frenesia del tempo moderno. Detto questo, le premesse sono ottime per un ascolto intenso, liberatorio, frutto di un lungo periodo di isolamento e ricerca a contatto della natura, con elementi naturali, come si può ben notare dalle foto. Il sound è ultra moderno, figlio della trance più sofisticata, astratta e riflessiva, completata da ritmiche frastagliate, nude, un drum'n bass scarnificato, minimale, criptico. Una forma cinematica che trasporta, un confine labile tra malinconia, tristezza, realizzazione e orgoglio, la fatica di vedersi liberi, umani in un mondo (forse non più) umano. Questo è ciò che trasmette nel suo insieme 'Far & Off', un disco animato da composizioni nuove e brani usciti anche in vinile come "Cut", traccia fantastica che rievoca atmosfere care a David Lynch, sospesa tra realtà irreale e fuga da brivido attraverso il sogno, e che insieme ad "Alkaline", "The Unexpected Hours", forma una cortina fumogena contro la forza annientatrice di questa vita moderna, contro l'annullamento dei nostri reali desideri più intimi. Trance dal taglio gelido, dub destrutturato, elettronica minimal, peculiare ambient music super tecnologica (la versione digitale su bandcamp è disponibile a 24bits), shoegaze cristallino ed effimero, rumore bianco, drone music, un pizzico di Alva Noto e Fennesz. Il brano "Small Thing Matter" sembra un outtake di 'Quique' (1993) dei Seefeel risuonato con tecniche hi-fi di ultima generazione per un ascolto inebriante, rigenerante. Un lavoro notevole di grande sforzo compositivo, sentito e appassionato, coinvolgente che trasferisce notevole intensità al suo ascolto. Un inchino agli autori, lo meritano davvero! (Bob Stoner)

(Ultimae Records - 2016)
Voto: 90

https://ultimae.bandcamp.com/album/far-off-2

Musicformessier - The Pleiades

#PER CHI AMA: Ambient/Post Rock
È una notte fatta di luna che si accontenta del suo ponente. È una notte rotta dal sussurro del vento. È un buio che si fregia del satellite sempre vivo in un imbrunire primaverile. È una premessa che giunta l'ora, sposta l'attenzione sugli ungheresi Musicformessier (inequivocabile il tributo all'astronomo francese Charles Messier, anche per quanto riguarda i titoli dei brani che richiamano i nomi delle stelle che compongono l'ammasso stellare delle Pleiadi). Non vi chiedo alcuna cordata d'insieme. Piuttosto vi invito a disgregare i vostri ascolti condivisi. Ora. Se avrete ascoltato il mio consiglio, sarete pronti a salire su questo velivolo spaziale. L'intro siderale è affidato a "Pleione". La seconda traccia suona come miele che cola su pane caldo nero tostato. "Maia". Dopo avere mangiato, preparatevi a sentire i vostri sensi scossi in una centrifuga di arancia, limone, zenzero e disinteresse. Lasciate che la musica faccia da padrone. Mentre siete ancora predati dalle nuvole agrumate, lasciatevi trasformare in ritmo ripetuto e ipnotico. "Elettra". Occhi serrati. Sensi all'erta e graffi acustici. Il trapasso non è così lontano. "Merope" è vitale, suonata con dita che si sentono scorrere sul metallo della chitarra, è carnale senza chiedere piacere. Diversa è invece l'impronta di "Atlas". Subliminale. Secca. Virtuosa. Pretenziosa. Per lasciare alla vita gli intenti, aspetto "Taygeta", "Alcyone" e "Celeano". Tre pezzi, tre. Suadenti. Graffianti l'estro subliminale dell'anima. Intensamente strumentali. 'The Pleiades' chiude con il duo costituito dal post rock di "Asterope" e dall'enigmatica "Pleiadians". L'ultimo brano, ove le note di speranza sono ormai assenti. Chiudo gli occhi. Apro l'anima. Abbandono la terra. Lievito. Sublimo la musica trasformandola in suoni puri. Chiudo l'album senza accorgermi che ho veleggiato tra ossigeno e suono, immersa in un oblioso ambient celestiale che mai mi ha fatto pensare. Voto? Il più alto! (Silvia Comencini)

(UAE Records - 2015)
Voto: 90

venerdì 29 aprile 2016

Rince-Doigt – Plinth

#PER CHI AMA: Math/Indie Rock
Ep d’esordio per questo trio belga, che si muove in maniera piuttosto interessante tra spire math e post-rock, con una freschezza davvero difficile da trovare anche nei lavori di formazioni ben più scafate. Folgorati sulla via del DIY, i tre ragazzi di Bruxelles giungono a questa pubblicazion dopo aver condiviso il palco con altre band più o meno balsonate come Mutiny on Bounty o Delta Sleep. Tutte rigorsamente strumentali, queste sei tracce si muovono agili nel minutaggio, frizzanti nella costruzione e dimostrano idee valide e buone capacità di realizzarle. La formazione classicissima chitarra-basso-batteria va dritta al sodo, spogliata di qualsiasi orpello o lungaggine, dimostra di conoscere bene il linguaggio indie, e mentre flirta da lontano con il math senza concedere nulla a inutili tecnicismi, cede alle lusinghe del miglior rock strumentale, con un suono asciutto e nervoso. Sostanza più che forma, quello che colpisce, come è giusto che sia, è la struttura dei brani più che il loro impatto sonoro. Non si cercano soluzioni ad effetto o distorsioni esasperate, ma il risultato si raggiunge attraverso una qualità compositiva magari acerba ma già evidente. È sempre un buon segno quando, mettendo assieme pochi elementi semplici quali ritmiche sincopate, chitarre pensanti e linee di basso precise, si riescono ad ottenere brani piacevoli e freschi come "Latéral Coup" ed "Pied o Dinosaurs". Sia quando fanno il verso al math piú tecnico ("Giboulée de Cobras"), sia quando si rivolgono all’indie americano ("No-Win Situation"), i Rince-Doigt lo fanno con gusto, ironia e una levità di tocco che ispira simpatia. Quello che manca, ancora, è un po’ di spessore e profondità in più. Qualcosa che renda i pezzi memorabili e non solo piacevoli. Ma i tre giovani belgi hanno tutto il tempo per crescere anche sotto questo aspetto. (Mauro Catena)

Khasm - Fenris

#PER CHI AMA: Hardcore/Thrash Old School, primi Entombed
Diavolo, dodici miseri minuti di musica mi fanno girare le palle e non poco. Tanto dura infatti 'Fenris', EP di debutto dei transalpini Khasm. I quattro energumeni di Colmar ci sparano in faccia la loro mistura fatta di thrash old school e hardcore, sintetizzata al massimo nelle quattro tracce ivi contenute. I motori si accendono con il basso pulsante della title track e vanno a scaldarsi con le chitarre di supporto. Un grido, in stile primi Entombed, e si inizia con il sound sporco dei nostri che scomoda proprio l'ingrombrante figura della band svedese come principale fonte di influenza. Il drumming va giù dritto che è un piacere, picchiando come un forsennato. Avrete modo di apprezzarlo soprattutto nella successiva "No More Justice", dove un fabbro a confronto vi sembrerà un pivello. La svolta inaspettata sta però in un break mid-tempo che inchioda il rmartellante incedere dei nostri, ma che riprenderà da li a breve, con ritmiche dirette, semplici, senza fronzoli e che nulla hanno da chiedere a nessuno. Qui troverete solo l'essenza di un certo death/thrash anni '80-90 che avrà modo di iniziarvi ad un pogo feroce, da cui probabilmente farete fatica ad uscirne vivi. Spettrale è invece la terza "Nightwatch", song che vede la presenza come guest star, di Per Nilsson, ascia degli Scar Symmetry che qui si concede per un assolo chitarristico tagliente come la lama di un rasoio, mentre i nostri continuano imperterriti a schiumare rabbia e produrre riffoni di scuola primi Entombed, mentre le liriche evocano 'Il Trono di Spade' e l'inverno che incombe ("Winter is Coming" nel chorus). Siamo già ai titoli di coda con "Turmoil" (il cui chorus inequivocabile, continuerà a ricordarvi il titolo della song), l'ultima traccia che si assesta sui due minuti e mezzo di suoni e che ha modo di scomodare anche gli Slayer di 'Season in the Abyss', vi sembra poco? In attesa di ascoltare il full length, non posso altro che dire che le premesse sembrano davvero buone. (Francesco Scarci)