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sabato 9 aprile 2016

Sleepers’ Guilt - Kilesa

#PER CHI AMA: Groove Death, Soilwork, Dark Tranquillity, Megadeth
Iniziano col botto i lussemburghesi Sleeper's Guilt, che dopo un paio di EP, vanno a debuttare sulla lunga distanza nientedimeno che con un doppio album, 'Kilesa'. L'ambizioso lavoro conta dieci tracce nella sua prima parte e tre lunghi brani per trenta minuti nella seconda, il tutto sotto l'egida di André Alvinzi e Tony Lindgren, ai rinomati Fascination Street Studios in Svezia (Katatonia, Opeth, In Flames tanto per citarne qualcuno). La cosa che mi ha stupito immediatamente, dando uno sguardo al digipack, è il supporto ricevuto dal Ministero della Cultura lussemburghese per la realizzazione del cd, avanguardia pura! Iniziando ad ascoltare il disco, quello che si apprezza maggiormente, oltre alla pulizia (inevitabile) dei suoni, è il quantitativo esagerato di groove che risiede nel disco, che lo rendono decisamente accessibile, pur collocandosi nell'ambito di un death metal di scuola Soilwork. Qui però le ritmiche sono meno esasperate rispetto ai più famosi colleghi svedesi e buona parte del lavoro viene lasciato al cesello artistico delle due asce che contribuiscono nel forgiare splendide linee melodiche, elaborati orpelli chitarristici, resi ancor più interessanti dagli ottimi arrangiamenti orchestrali che contraddistinguono l'intero platter. Cosi è assai facile avvicinarsi alla opener "Sense of an Ending" (dove compaiono nelle sue linee melodiche anche un violino e un violoncello) o alla successiva "Two Words", dove tonnellate di granitici riffs vengono prodotti e confezionati a dovere, per essere dati in pasto ad una fetta assai ampia di pubblico. Il risultato è del sano e grondante groove (in stile Scar Symmetry) che riempie ogni singolo spazio del disco, soprattutto a livello solistico. Quando c'è da spingere il piede sull'acceleratore, il quintetto di Dippach non si fa certo pregare ("Scars of War"), con i risultati che si confermano sempre eccellenti, merito di una già acquisita maturità artistica, di un certo gusto compositivo e di una buona maestria strumentale. Gli Sleepers’ Guilt sanno mostrare anche il loro lato più gentile ("Angel Eyes") con una intro che sa quasi di ballad, prima di esplodere in una tonante fase ritmica in cui, oltre alle graffianti chitarre del duo formato da Chris T. Ian e Manu De Lorenzi (sembra esserci anche un po' di Italia nei nostri), è l'ottimo growl di Patrick Schaul ad emergere; da urlo poi l'assolo conclusivo. Se "I Am Reality" ha modo di strizzare l'occhiolino anche al djent dei Tesseract, con "The Mission" (e pure in "Dying Alive") i nostri si rilanciano nel costruire muri ritmici che compaiono peraltro anche nel nuovissimo disco dei Megadeth, il che dovrebbero indurre anche gli amanti di sonorità thrash e heavy progressive ad avvicinarsi a questo lavoro. Lo dicevo all'inizio, 'Kilesa' è un album che può aprirsi ad un pubblico ben più vasto di quello death metal, il tempo mi darà ragione, ne sono certo. Nel frattempo, le song si alternano con fortuna nel mio lettore: "Teardrop Bullets" ha un approccio assai catchy in un'altra semiballad che strizza l'occhiolino ai Dark Tranquillity di 'Projector'; "Supernova" continua a citare i gods svedesi del Gotheborg sound, mentre l'ultima strumentale "Not For Words", funge da chitarristico outro al disco. Menzione a parte per il secondo disco, contenente i tre lunghi brani che si muovono da "Kleshas" song presa in prestito a livello ritmico da uno degli album centrali della discografia dei Sepultura ('Chaos AD' o 'Roots') che però evolve dinamicamente verso ritmiche serrate alternate a frangenti etnici, il che si discosta dalla proposta contenuta nel primo dischetto. Tutta da decifrare poi la seconda parte del pezzo, con un assolo hard rock che spiazza non poco e un finale affidato a female vocals, per una songs indecifrabile stilisticamente quanto mai interessante a 360°. "Akusala-Mula", il secondo brano, è un altro concentrato di sonorità death grooveggianti che potrei ricondurre ad altre mille band (in ordine sparso, Meshuggah, Megadeth, Tristania), cosi come a nessuna e in cui a prestar la propria voce c'è un'altra gentil donzella (da rivederne però la prova). A chiudere il disco ecco il folk acustico di "Vipassana" che nella sua imprevedibile evoluzione, avrà modo di solcare i sentieri del death offrendo anche tiratissime ritmiche dal vago sapore black. Tanta carne al fuoco con i 13 brani totali di questa release che sicuramente non avranno modo di annoiarvi, ma anzi sapranno catturare i vostri sensi cosi come hanno fatto col sottoscritto). Bravi! (Francesco Scarci) 

(Self - 2016)
Voto: 75

The Shiva Hypothesis - Promo 2015

#PER CHI AMA: Black/Death
Arriva dai Paesi bassi questo quartetto agguerrito e dal sound tanto radicale, immerso nel soundblast più viscerale del black metal e vicino a certe realtà trasversali degli ambienti avantgarde metal. Il confine tra i due generi è sempre labile e molte volte viene oltrepassato, spesso sormontandosi a vicenda, donando sfumature e colorazioni diverse alla musica dei tre brani che formano questo demo autoprodotto. Ottima la qualità di scrittura, varia ed equilibrata, buona la produzione curata dal cantante MvS assieme ai suoi compagni. Tutti musicisti competenti e navigati che danno prova delle loro capacità sfornando tre suite di tutto rispetto, unendo raffinatezza, potenza, velocità e fantasia, nel nome di Dodheimsgard, Enthroned e Mgla, Voce maligna e ritmi incalzanti ad alto contenuto tecnico, strumenti ben amalgamati fra loro, momenti musicali in chiaroscuro dal risultato certo e gratificante, venature progressive, senza mai dimenticare una matrice al vetriolo di natura black/death e thrash metal nera come la pece. Venti minuti di puro cataclisma sonoro, curato e rivestito di oscura, agghiacciante, buia e profetica allucinazione (anche nel nome dei God Dethroned) a sostenere il significato di un nome dai richiami apocalittici com'è The Shiva Hypothesis. L'ipotesi di Shiva è una teoria scientifica esogeologica chiamata, in nome del dio della distruzione degli Hindu, che intende spiegare un apparente schema nelle estinzioni di massa causate da eventi di impatto (cit. wikipedia). Questo promo cd, uscito nel 2015, lascia ben sperare per il futuro e non deve passare inosservato, cosi come buona e inaspettata anche la cover dei Nasum fatta uscire su bandcamp a febbraio di quest'anno che rinforza le nostre speranze per l'avvenire di questa band. Aspettiamo il full length ora. (Bob Stoner)

(Self - 2015)
Voto: 70

Cult of Occult - Five Degrees of Insanity

#PER CHI AMA: Funeral Doom, primi Cathedral
Quando si dice "non è certo una passeggiata" mi vengono in mente le asperità che ho affrontato nell'ascoltare questo tormentato disco dei francesi Cult of Occult. 'Five Degrees of Insanity' è il terzo album dell'act transalpino, che in cinque brani raggiunge la considerevole durata di 70 minuti poco più. La band di Lione ha da offrirci il proprio malsano sound fatto di sonorità sludge doom a dir poco claustrofobiche, che hanno scomodato dalla mia memoria storica, i Cathedral di 'Forest of Equilibrium'. Già proprio dall'iniziale e delirante "Alcoholic", lo spettro sinistro di Lee Dorrian e soci dell'album d'esordio, è rievocato in un disco dal difficile approccio, ma che ha nelle sue corde, aspetti sicuramente intriganti e pregni di contenuti. L'incedere è mortifero e ipnotico, debitore sicuramente di act quali Black Sabbath e Saint Vitus, ma qui riletti in chiave ancor più asfissiante e apocalittica che si spingono quasi al limite del funeral. La durata poi del brano, quasi 15 minuti, non aiuta di certo un ascolto easy listening, in quanto è richiesta una totale immersione sonora nella criptica dimensione dei Cult of Occult e un ascolto, per ovvi motivi, attento, per non lasciarsi sfuggire sfumature e molteplici altri dettagli qui contenuti. Quando in cuffia ti senti montare poi il riffing marziale di "Nihilistic", puoi solo sentire i polsi tremare e farti sopraffare dalla pericolosità di atmosfere raggelanti e vocals demoniache. In realtà il brano non acquisisce mai velocità o pesantezza, continua lungo i suoi 12 minuti a tenere il passo con il suo monolitico riffing infernale. Ci penseranno invece i 16 minuti di "Misanthropic" a catapultarvi nei più profondi abissi infernali con un ferocissimo attacco black che dopo pochi frangenti preme violentemente sul pedale del freno, facendoci impantanare nel distretto delle sulfuree pozze del doom più melmoso e ossessivo. Qui l'asfissia dovuta allo zolfo si fa assai pesante e insopportabile e la necessità di trovare una bolla d'aria sempre più impellente per potere uscire dalle sabbie mobili di un sound che ha addirittura da offrire intermezzi psych-space rock. Non lasciatevi però troppo ingannare da queste mie parole, la proposta dei Cult of Occult continua ad essere ostica e neppure la più breve "Psychotic" sarà per noi la classica e piacevole "scampagnata" della domenica: i suoi dieci minuti infatti, continuano nella malsana direzione fin qui imboccata da questi misteriosi musicisti, che in questo caso arrivano a saturare il proprio psicotico sound doom anche di suoni drone, che echeggiano fino alla conclusiva "Satanic", quando finalmente ci troveremo al cospetto della bestia. Infernali! (Francesco Scarci)

(Deadlight Entertainment - 2015)
Voto: 70

mercoledì 6 aprile 2016

Pearls Before Swine – Lay the Burden Down

#PER CHI AMA: Grunge/Stoner, Alice in Chains
Se decidi di usare per la tua band lo stesso nome di un’oscura formazione di culto degli anni sessanta, devi accettare il fatto che, almeno all’inizio, ogni ricerca in rete relativa a quel nome restituisca nelle prime due pagine di risultati solo indirizzi relativi a quel gruppo. A questo punto, quindi, non rimangono che un paio di opzioni: o si cambia nome o si diventa molto piú famosi degli altri, come pensarono bene di fare i Nirvana (sfido infatti oggi ricordarsi degli altri Nirvana). Così, mentre “quei” Pearls Before Swine erano lo pseudonimo dietro il quale Tom Rapp celava le sue psicosi apocalittiche riversandole in dolcissimi dischi psych-folk dalle copertine che riproducevano Bosch e Bruegel, questi altri sono un trio proveniente da Münster, Germania, usciti sul finire dello scorso anno con questo loro secondo EP, ricco di spunti interessanti tanto quanto lasci intravedere ampi margini di miglioramento. Grunge e stoner gli ingredienti alla base di una ricetta che, se non brilla certo per originalità, si fa apprezzare per passione e sostanza. Se l’iniziale “Valar Morghulis” è uno strumentale piuttosto innocuo, la successiva “Misfortune Cookies” ci riporta immediatamente nella Seattle di metà anni 90, tra Alice in Chains, Screaming Trees e Mad Season, anche per via dell’impressionante somiglianza della voce del vocalist con quella di Layne Staley. Allo stesso modo in ”On My Own”, blueseggiante come potevano esserlo i Temple of the Dog, e nella conclusiva “Shattered Dreams”, dalla lunga intro orientaleggiante, i nostri pescano a piene mani da quello stesso florido bacino e lo fanno con il giusto rispetto, quasi timore reverenziale, riuscendo però a cogliere nel segno anche e soprattutto grazie a capacità di scrittura decisamente sopra la media, tanto che questi tre brani non sfigurano nel confronto con le fonti di ispirazione. Resta da dire di una “I, Jekyll” non proprio a fuoco nel suo voler essere troppe cose e nessuna, e di un artwork non proprio memorabile e forse anch’esso nostalgico degli anni '90. Al netto di qualche ingenuità, la stoffa è evidente, e personalmente sono molto curioso di assistere a sviluppi futuri. Attesi alla prova di un album intero, con l’augurio che possano in futuro comparire come primo risultato di una ricerca in google (per il momento, direi che Tom Rapp può dormire sonni tranquilli). (Mauro Catena)

(Self - 2015)
Voto: 70

martedì 5 aprile 2016

Black Reaper - Flames of Sitra Ahra

#PER CHI AMA: Black/Death, Dissection
Dalla Cina, Fujian per la precisione, arriva questo cd datato dicembre 2014 e firmato Black Reaper, giovane duo formatasi nello stesso anno, noto per essere la prima black/death metal band conosciuta in patria, che ha visto sfociare la propria ispirazione in un EP uscito sotto l'ala protettrice della formidabile Pest Productions, un album in perfetta sintonia con le atmosfere promosse dall'etichetta black/folk/dark metal di Nanchang. Suono tagliente, radicale, gelido e underground, sferragliante, primordiale ed essenziale, rude, reale e senza fronzoli. Si tratta di un evocativo black/death metal dalle tinte urticanti e violentissime, fatto di riff veloci e al veleno, espressi ad ogni battuta per una sequenza di quattro brani di media/lunga durata e notevole velocità, una produzione buona per gli amanti del genere trattato dalla label cinese, da evitare invece fuori dagli ambienti underground. 'Flames of Sitra Ahra' tocca buone vette di epicità e maleficio in alcuni suoi brani tra cui il secondo, "Marching Towards of Infinity" e il terzo, "Heavenless", dai toni thrash molto accesi, graffianti e ossessivi. Lo screaming incarna poi perfettamente il tipo di musica e la band sembra già in ottima sintonia. I due giovani musicisti certamente godono di una forte personalità, cosa che li porta a proporre come quarto brano una cover dei Dissection ("Soulreaper") e per assurdo un quinto brano che è una composizione classica scritta ed eseguita dal dinamitardo Kakophonix (vedi anche Hvile I Kaos, Empyrean Throne) con il suo violoncello infernale. L'aggiunta di questo brano finale spiazza un po' l'ascoltatore ma rende bene l'idea della linea anticonformista, che la Pest Productions e le sue band intendono mantenere per far convivere black, dark, folk e musica classica, tutti nella stessa oscura residenza. 'Flames of Sitra Ahra' non sarà un EP fondamentale ma di sicuro interesse. Un buon lavoro uscito per una etichetta assai rispettabile e coerente con le proprie indipendenti idee artistiche. (Bob Stoner)

(Pest Productions - 2014)
Voto: 70

Black Vulpine - Hidden Places

#PER CHI AMA: Stoner/Doom, Queens of the Stone Age
Stoner-doom dalla Germania, precisamente da Dortmund. Solo che questa volta non si tratta di energumeni barbuti (non tutti, per lo meno), ma di un quartetto che vede alle chitarre e alla voce due ragazze di aspetto quanto mai gentile e pacato. Questi sono i Black Vulpine, e il loro esordio sulla lunga distanza, dopo un demo nel 2013, è uno di quelli che potrebbero (e dovrebbero) fare rumore. 'Hidden Places' è un bel disco di stoner fortemente influenzato dai Queens Of The Stone Age, senza disdegnare puntate doom psichedeliche, che colpisce per potenza, maturità e una certa originalità, non fosse altro per l’immagine pulita e quel senso di innocenza e fragilità che tanto contrasta con i watt sprigionati dal gruppo. I tour a supporto di band come i Kylesa, hanno permesso di cementare un’intesa e un suono che appaiono granitici, riuscendo a valorizzare al meglio la bella voce della cantante, allo stesso modo dolce, sinuosa e potente - senza essere urlata - e con un certo mood vintage. E se brani come l’opener “Twisted Knife”, una potenziale hit, seguono in maniera piuttosto fedele il canovaccio tracciato dai QOTSA (“Drowning in Lakes” potrebbe essere un’outtake di 'Rated R'), i Black Vulpine piacciono di più quando riescono ad affrancarsi dal modello, allentano la presa sulle briglie e tentano qualcosa di più personale, come le sortite psych di “Dark Glow”, la chitarra acida di “Mother of Pearl” o l’incedere vischioso di “Devil’s Blanket”, un terzetto di tracce in sequenza in cui sono più evidenti le vibrazioni occult doom che donano all’atmosfera un che di sinistro, contribuendo ad innalzare il fascino di un disco davvero di alto livello. Se proprio bisogna fare un appunto, si potrebbe denunciare un’eccessiva uniformità di atmosfere, che non è per forza un difetto, ma forse una maggiore varietà e alternanza di vuoti e pieni avrebbero giovato all’album, soprattutto alla lunga (sono 46 minuti ma sembrano qualcuno di più). Sono però dettagli, che non intaccano il giudizio su un lavoro di prim'ordine, in un genere dove è sempre più difficile avere qualcosa da dire. (Mauro Catena)

(Moment of Collapse - 2015)
Voto: 75

lunedì 4 aprile 2016

Onirism - Cosmic Dream

#PER CHI AMA: Black Symph, Limbonic Art, Bal Sagoth
Fatta esclusione per i Dimmu Borgir (che nel frattempo si sono un po' persi per strada), credo fosse da una decina di anni che non si sentisse in giro qualcosa dedito al black sinfonico. Emperor, Agathodaimon, Ancient Ceremony e Anorexia Nervosa si sono sciolti, i Limbonic Art hanno virato verso un altro genere, cosi come pure i polacchi Lux Occulta. Quella forma di black è ahimè morta. Ci prova la one man band francese degli Onirism a donare linfa vitale al genere, con il debut album 'Cosmic Dream'. Il disco non tradisce le aspettative sin dalla sua veste grafica con una cover cd che riporta a paesaggi intergalattici. I contenuti: un classico tappeto tastieristico (stile Summoning) introduce il disco per poi esplodere in "Beginning of a New Era". Come da copione sono splendide melodie sostenute da pompose tastiere e harsh vocals a guidare il sound di Antoine Guibert (alias Vrath), che si lancia in un'inebriante cavalcata in cui il mastermind francese arriva ad evocare anche lo spettro dei primi Satyricon e Ancient. Che tuffo di vent'anni nel passato. Più avanzo nell'ascolto e la sensazione che provo è quella di percorrere una galleria ove siano state riposte le statue di cera dei miei idoli degli anni '90 che proponevano quel genere. In "From the End to the Origins" ecco venir fuori 'Stormblast' dei Dimmu Borgir, nella etnica "Ephemeral World I" è l'eco di 'Under the Moonspell', piccola gemma arabeggiante dei lusitani Moonspell, ad emergere. Le barocche tastiere di "Ephemeral World I" rievocano il sound fantasy dei Bal Sagoth, mentre con le tonanti "The Curse of Ahriman" e "Weavers of Time" (quest'ultima peraltro vanta un ottimo assolo rock), andiamo a scomodare 'Moon in the Scorpio' dei Limbonic Art e 'Arntor' dei Windir (quest'ultimi richiamati in causa anche nella conclusiva title track). Tutti i grandi classici del passato convergono in 'Cosmic Dream' e questo probabilmente costituisce il vero limite di questa produzione, sicuramente ben suonata, ottimamente concepita e che ha da offrire tutti i cliché di un genere ormai scomparso da tempo e che forse ormai non ha più nulla da dire. Tuttavia, e spero sia il tempo a smentirmi, come l'Araba Fenice rinacque dalle proprie ceneri, auspico faccia altrettanto il black sinfonico, magari proprio grazie agli Onirism e al loro punto di inizio, 'Cosmic Dream'. Crediamoci fino in fondo! (Francesco Scarci)

(Self - 2016)
Voto: 65

sabato 2 aprile 2016

Dancing Crap - Cut It Out

#PER CHI AMA: Alternative Electro Rock/Punk
Eccoci a parlare di una delle ultime produzioni targate Agoge Records, ovvero i funanbolici Dancing Crap. La band nasce intorno al 2012 dopo che il fondatore Ronnie ha concluso l'esperienza con il suo precedente progetto. Il quintetto laziale voce-chitarre-basso-batteria mette in mostra un rock intriso di contaminazioni in un album di debutto composto da dieci brani eclettici e che abbracciano influenze molteplici e ben definite. Grunge nostalgico e punk oltreoceano si insinuano negli arrangiamenti con una spruzzata di elettronica qua e la, mentre lo charme del vocalist cerca di ipnotizzare l'ascoltatore con la sua cadenza sensuale e irriverente alla Axl Rose. Le trovate iper tecniche sono lasciate da parte, infatti ogni singolo strumento punta ad amalgamarsi al meglio con gli altri, il basso è sempre ben presente e piacevole all'ascolto, come i pattern di batteria. La chitarra si prende il proprio spazio con riff semplici ma efficaci, sempre a conferma che i Dancing Crap puntano molto sul risultato complessivo. "Burned Down City Soul" è l'esempio lampante di una composizione dall'appeal sbruffone e scanzonato, compreso il fischiettare di Ronnie e i suoi vocalizzi a mo' di filastrocca. Un brano rock piacevole che fila via liscio senza sbalordire. "Sam" ricorda la scuola Ramstein per quanto riguarda il lead synth utilizzato per tutta la traccia che risulta ben sviluppata anche se qualche bpm in più l'avrebbe resa decisamente più incisiva e trascinante. Personalmente avrei scelto suoni di tastiere diversi, puntando sull'acidità della psichedelia o la morbidezza dell'ambient. La timbrica dance lascia un po' perplessi mettendo sul tavolo altre influenze che cozzano con l'incedere rockeggiante del brano. "Needless" è un'altra prova di forza del quintetto che non ha paura di mischiare nuovamente suoni electro con il rock, mentre la timbrica di Ronnie si arrichisce della drammaticità sofferente di Brian Molko. Verso i tre quarti di brano c'è un breve break, simil monologo teatrale, che permette alla branda di riprendere il riff principale e portare a conclusione la canzone. I Dancing Crap sono un buon progetto che mette in atto delle sperimentazioni credibili e tutto sommato piacevoli, forse una botta di vita in più renderebbe merito alla fiamma del rock che comunque imperversa nelle vene di questi ragazzi. Stiamo a vedere come evolverà il progetto, a questo punto sono veramente curioso. (Michele Montanari)

(Agoge Records - 2015)
Voto: 70

https://www.facebook.com/DANCINGCRAP/

Throat – Short Circuit

#PER CHI AMA: Noise Rock
È con piacere che accolgo il ritorno dei Throat (in un Ep ormai risalente alla metà del 2015), che già da qualche anno mettono a ferro e fuoco la Finlandia a colpi di noise rock brutale e malsano, contribuendo cosí, al pari di band quali Hebosagil e Baxter Stocktman, a sfatare il luogo comune secondo il quale dalla terra dei mille laghi provenga solo dark metal. Il sound del quartetto è intriso fino ai capelli dei miasmi che esalavano dalle prime storiche uscite di etichette quali Sub Pop, Touch & Go e American Reptile, di band quali Unsane, Melvins, Jesus Lizard e i Nirvana di 'Bleach'. Non ha molto senso in questo caso parlare di originalità della proposta, dacchè 'Short Circuit' si limita a mettere in fila una manciata di pezzi, per un totale di circa 25 minuti che, per chi ha amato quei suoni, hanno l’effetto dello zucchero su una fetta di pane per una mosca. Un corto circuito (appunto) emozionale che bypassa ogni razionalità. Semplicemente non si riesce a non ascoltarli a ripetizione, ad alto volume, infine convincendosi che gli anni '90 non siano mai finiti. Noise rock sporco, sgranato come una vecchia foto in bianco e nero, che non fa prigionieri con la sua sezione ritmica granitica, le chitarre affilate e urticanti, una voce in grado di scoperchiare il disagio e la rabbia. Difficile scegliere e non rimanere affascinati in egual misura da queste tracce, tanto dal riff caterpillar e le vocals torturate di “Houston Soup”, quanto dall’incandescente “Dog Wrestle Dog”, e ritrovarsi poi sconcertati a riconoscere, sotto uno strato di feedback e sax urlanti, una devastante cover di “Unjoy” di Björk. Niente di nuovo o rivoluzionario quindi, ma tanta sostanza. Sarà una debolezza mia, ma datemi un disco del genere al mese e farete di me una persona felice. (Mauro Catena)

91 All Stars - Retour Vers la Lumière

#FOR FANS OF: Metalcore/Hardcore, Dagoba, Trivium, All That Remains
Not usually known for it’s Metalcore scene, French proponents 91 All Stars offer up a decidedly fun and enjoyable variant here on their second release. Offering spindly, technical riffing with all the hallmarks of thrash augmented by the stuttering rhythms and breakdowns associated with most hardcore bands, it comes off rather nicely here as a straightforward variation on the style which oftentimes displays the kind of energy and enthusiasm needed for this particular style. Offering up pounding drumming and a fine series of vocal styles in accordance with the wide range of music, it’s all quite a dynamic offering that comes off rather nicely if formulaic. It’s all rather blended together for a rather disappointing amount of time this one spends with those same, familiar patterns featured for the majority of the songs which makes this somewhat drag on in the second half, despite featuring some good songs there. There’s still a lot to like here though with the tracks getting plenty to enjoy throughout here. The opening instrumental ‘Intro’ is a fine set of spic sound collages that sets up for proper first track ‘Omniscience’ which is a strong blend of swirling thrash riffing and stuttering paces alongside a fine series of breakdowns and clattering drumming that brings along plenty of tight rhythms throughout the final half for a rather engaging, enjoyable opening effort. ‘Mon Bien,Mon Mal’ is a lot more of a straightforward blend of swirling metalcore riffs with works within a fine up-tempo pace with plenty of breakdowns and thumping rhythms that bring along plenty of high-speed rhythms into the finale for another strong track. ‘Opprimés’ features deep technical chugging and swirling Metalcore rhythms with a more sprawling tempo that keeps this held back the sprawling riffs leading into a fine series of urgent, up-tempo riffing throughout the final half that makes this one of the few dynamic, varied tracks on here. ‘Richesse Humaine’ features plenty of tight, urgent rhythms with chaotic riff-work scattered throughout the tempered, stuttering rhythms alongside the chaotic breakdowns that brings along plenty of energetic riffing thrashing along through the final half for an impressive highlight. ‘Les Ombres De La Perdition’ blasts through intense and vicious drumming with plenty of swirling technically-proficient riff-work thumping along to rather energetic drumming carrying the rhythms along through the urgent patterns of the solo section and into the finale for another strong effort. ‘Eclipse éternelle’ blasts through tight rhythms and plenty of urgent mid-tempo riffing coming through the series of frantic, blasting drumming with a brief melodic section leading back through a frantic series of swirling blasts in the final half for an enjoyable enough effort. ‘L’ère Du Verseau’ uses a series of twisting Metalcore riffing with the tight, stuttering rhythms featuring plenty of breakdowns and a frantic blast of tight drumming carrying along through the series of frantic blasts before an extended flamenco guitar finale for a strong overall offering. ‘L’Aube Des Princes’ blasts through a series of choppy rhythms with plenty of tight riffing swirling through the technical rhythm patterns kicking into plenty of high-gear throughout the breakdowns leading into the strong final half for a decent if unspectacular effort. ‘Un Sombre Destin’ takes an extended intro with sprawling rhythms before turning into a steady series of mid-tempo riffing with plenty of swirling technical patterns full of sprawling mid-tempo paces leading into the plodding finale to leave a wholly unimpressive track. Lastly, the title track offers thumping rhythms and plenty of sprawling riff-work taking the more mid-tempo pace throughout with the light melodies coming along with the chugging breakdowns alongside the sprawling, grandiose rhythms throughout the final half to end this on another decent track. Still, it’s mostly enjoyable enough to make this a solid enough effort. (Don Anelli)

(Self - 2016)
Score: 80

http://91allstars.com/

Cyranoi - Exist

#PER CHI AMA: Progressive Metalcore/Djent, Fallujah
Io non sono un fan del metalcore lo sapete, eppure questo album l'ho voluto fortemente recensire, mi convinceva nell'architettura dei suoni, nelle partiture vocali e negli arrangiamenti. Sebbene sia l'opera seconda (un EP a dire il vero) che segue a distanza di sei mesi l'EP di debutto del duo finlandese, 'Challenger Deep', 'Exist' si dimostra già disco maturo sin dall'iniziale "Abiogenesis". La song si apre con ariosi synth, che non so per quale arcano motivo, mi hanno evocato Cynic e Fallujah; la song poi divampa in melodicissimi riff imbastiti da musicisti esperti, di certo non di primo pelo. La traccia è una escalation grondante di giri di chitarra, killer vocals (growl e scream) e una buona dose di synth. E sarà cosi per tutto il resto della durata del dischetto. "Pioneers" viaggia su ritmiche più tirate in cui vige l'alternanza vocale tra più forme stilistiche del frontman Joona Jaakola (qui anche in versione "ruffiano" pulita), mentre il mostro alle chitarre, alias Tomi Pohja, abbina una robusta ritmica di accompagnamento a un più vivace e grooveggiante riffing fatto di ricami chitarristici. In un batter di ciglia, ci ritroviamo a "Flesh and Mind", in cui forse l'eco dei Fallujah più meditabondi è verosimilmente riscontrabile in una song dal forte sapore rock, soprattutto a livello solistico, che vede l'apporto del virtuoso chitarrista scozzese (ma di chiara origine indiana) Sithu Aye in supporto dei nostri. "Avarice" è la penultima traccia del disco, decisamente più malinconica a livello di linee di chitarra e anche più assestata su un mid-tempo ragionato, senza però privarsi del marchio di fabbrica dei Cyranoi, ossia le due chitarre che vivono e lavorano in simbiosi. Con "Event Horizon" giungiamo anche ahimè alla fine del platter: qui l'ospite di turno è Niklas Turunen, l'ottimo chitarrista degli Assemble the Chariots (andateveli ad ascoltare mi raccomando), che in compagnia di Tomi, si lancia in una bella rincorsa tra sei corde. Insomma, i Cyranoi è un gruppo che sembra davvero saperci fare, ora non possiamo far altro che attenderli e valutarli sulla lunga distanza. (Francesco Scarci)

mercoledì 30 marzo 2016

Autumnia - Two Faces of Autumn

REISSUE:
#PER CHI AMA: Death/Doom
La Solitude Productions ha festeggiato nel 2015 i suoi primi dieci anni di esistenza e per regalo ai suoi devoti si è incaricata di ristampare tutta una serie di album che erano finiti nel cassetto delle rarità e che avrebbero meritato più visibilità e fortuna al momento del loro lancio. È il caso degli ucraini Autumnia che, come i compagni di scuderia, gli ottimi Fallen, si sono organizzati per riesumare i primi due album fatti uscire tra il 2004 e il 2006, in un doppio elegante digipack, ben curato nella sua grafica intrigante, intitolato 'Two Faces of Autumn'. La band, che nel frattempo ha fatto uscire anche un full length nel 2009, con quest'opera intende mostrare al mondo il proprio progresso artistico, mettendo a nudo un sound fin dalle sue origini, dark oriented e gothic metal, come potrete evincere dall'ascolto del primo cd dal titolo 'In Loneliness of Two Souls', per passare poi ai brani di 'By the Candless Obsequial', contenuti nel secondo dischetto, più arioso e aperto a nuove influenze, sempre impregnate comunque di glamour gotico ma più fantasioso e profondo come concezione e costruzione, con quel tocco malato che non passa mai di moda e crea sempre un'atmosfera apprezzabile in stile primissimi Crematory, Moonspell, Anathema e My Dying Bride. La voce cambia spesso registro e le aperture sempre più interessanti, tendono la mano a un doom atmosferico dai risvolti epici e funerei. Ovviamente bisogna tenere bene a mente che si parla di musica con circa un decennio di vita alle spalle quindi, anche se suonati benissimo all'epoca, questi due album portano i segni del tempo e certe soluzioni sembrano ormai obsolete e scontate, anche se indubbiamente ancora di buon valore. Entrambe le release si ascoltano volentieri, stracolme di tristezza e senso di decadenza, musica dai risvolti drammatici, lungo la cui infinita durata, sembra possa perfino produrre una buona dose di sperimentazione, soprattutto nel cantato, che in parte emula i francesi S.U.P. ma qui riproposto sempre in un'ottica prettamente ed esageratamente doom metal. "Bitterness of Loss" è il brano alla fine che tocca la vetta artistica più alta ed anche il mio preferito, con un ampio ed epico incedere intriso di cupa desolazione e dotata di un cantato teatrale, vario ed espressivo a dir poco straordinario. Ottima ristampa per ritrovare un altro pezzo di storia del doom metal più underground, dimenticata nelle stanze dei ricordi passati. Buon tetro divertimento. (Bob Stoner)

(Solitude Productions - 215)
Voto: 70

martedì 29 marzo 2016

Jimm - In(can)decence

#PER CHI AMA: Punk/Rock/Heavy/Alternative
Sarà una coincidenza, ma ultimamente le proposte che mi arrivano dalla Francia, sono di promettenti polistrumentisti alle prese con le più disparate proposte musicali; in questo caso, i Jimm (che altri non è che il nome del factotum della band), ci propongono il loro primo lavoro sulla lunga distanza, con testi in francese e un genere che presto andrò ad esporvi. Prima di entrare nel merito e nei particolari della proposta è giusto specificare che le 10 canzoni di 'In(can)decence' sono state interamente composte da Jimm, che ha suonato chitarra e basso oltre che cantare, avvalendosi unicamente dell'aiuto di un batterista, Fred Quota. Premetto di aver ascoltato il disco diverse volte, in un ristretto lasso di tempo, perché non volevo farmi sopraffare dai pregiudizi ma giudicare il lavoro nella maniera più distaccata possibile. Tutto questo perché la proposta qui contenuta, ad un ascolto distratto, potrebbe sembrare talmente anacronistica ed elementare da sembrare uno scherzo; ed invece questo disco, proprio così male non è. Sia chiaro, non è un capolavoro e non è il disco più innovativo del millennio, ma chi dice che un disco, per essere bello, debba essere a tutti i costi una novità assoluta? Io non l'ho mai sostenuto, e questo lavoro nel suo piccolo, ne è la dimostrazione. Partiamo col parlare dei suoni e della cura mostrata nel registrare il disco: i suoni sono ottimi, mai freddi, incasinati al punto giusto, bilanciati in maniera egregia, a dirla tutta, pagherei di tasca mia per sentire suonare dei dischi dei Megadeth così. Ecco, appunto, per fare il confronto ho preso probabilmente il gruppo più lontano dal genere dei Jimm, ma lo sapete, mi piace scherzare. Sì, perché all'interno di 'In(can)decence' possiamo trovare dal punk all'hard rock tradizionale, passando per il metal più spinto, ma possiamo addirittura toccare lidi mai pensati, una sorta di versione francese dei Litfiba di 'Terremoto'. Non so se ho reso l'idea, per lo meno avrò schiarito le idee per i fan italiani del gruppo toscano. A parte gli scherzi, qua dentro possiamo trovare influenze che vanno dai Bad Religion agli Accept, passando per i Gotthard fino ad arrivare all'alternative metal, quindi davvero, ci si può trovare un po' di tutto. E tutto questo, suonato e composto con un certo gusto e perizia, che trovano la loro maggiore espressione in pezzi come “Jour de Gloire”, “Occident Oxydant” e “Sur le Meme Modele”. Davvero una piacevole sorpresa questo lavoro, che pur senza toccare vette di eccellenza assoluta, si attesta su livelli capaci di far passare 37 piacevolissimi minuti a chi vorrà accostarsi all'ascolto. (Claudio Catena)

(Self - 2015)
Voto: 70

venerdì 25 marzo 2016

Ennui - Falsvs Anno Domini

#PER CHI AMA: Funeral Doom, Esoteric
Bene, ora posso confermare che ascoltare doom metal è un'arte e non una moda, il funeral doom è una filosofia e album come questo lo rendono credibile e condivisibile con un gran numero di palati fini e persone che considerano la musica un grande mezzo di divulgazione di idee e libertà. Gli Ennui sono georgiani e suonano funeral doom, intriso nel lisergico suono della psichedelia, cosparso di sentori black metal dai tratti avanguardistici. Le chitarre sono taglienti, l'incedere del disco è sinistro e oscuro, tutti i brani sono enormi e colmi di pathos ancestrale e luciferino, una sorta di Avalon buio e deprimente, rifugio per anime perdute ma coscienti, che esiste in un mondo di dignità, onestà e umanità aldilà di quello che tv, giornali, politici e potenti di turno, ci vogliono far credere. Da sottolineare immediatamente la prova esagerata dei due chitarristi, Serge Shengelia e David Unsaved, che donano un sound all'intero lavoro di assoluta qualità. Un suono corposo, acido, tagliente e gelido, potente, arricchito di lunghi tappeti di tastiere epiche e di una batteria ossessiva (Daniel Neagoc basso, batteria ed anche dietro al banco mixer), ultra tecnica, dal taglio molto black metal che divaga spesso in tempi atipici per il genere, creando un effetto contrasto con la musica, astratto e variegato, un tantino troppo black forse ma di sicuro interesse artistico. Bello l'artwork e tutta la lista di collaborazioni importanti che vanta membri di Esoteric, Evoken, Colosseum, Comatose Vigil. Uscito per la Solitude Productions nel 2015, 'Falsvs Anno Domini' è un lavoro carico d'infinito, fatto da persone molto preparate e puntigliose, musicisti innamorati del genere, compositori d'alto rango. Ottanta minuti circa di musica urticante, riflessiva e penetrante, un cd saturo di suoni metal estremizzati e devoti al doom più oltranzista. Per finire, le composizioni personalissime e intelligenti, non annoiano l'ascoltatore e lo accompagnano intense in un lungo viaggio emotivo ed estremo per cui come esempio segnalo il terzo brano in scaletta, "The Stones of the Timeless", che mette in risalto una band con tante cose da dire e ancora molte idee in cantiere per il futuro. Una bella prova di carattere e come viene descritto nella pagina bandcamp della band... "È come uno sputo in faccia a tutti i disgregatori miserabili e falsi pretendenti che guidano il nostro mondo verso il collasso". Adorabili, taglienti, pericolosi. (Bob Stoner)

(Solitude Productions - 2015)
Voto: 90

Evenline - Dear Morpheus

#PER CHI AMA: Alternative/Nu Metal, System of a Down, Alter Bridge
L’invocazione all’onirico è chiara nel nome del disco ma in realtà, oltre ai sogni, gli Evenline hanno una forte componente emozionale che è descritta in modo lucido, teatrale ed espressivo. La formazione parigina è composta da quattro elementi, voce chitarra basso e batteria, in attività dal 2009 e con alle spalle l’autoprodotto EP del 2010, 'The Coming of Life'. 'Dear Morpheus' esce nel 2014 ma quello che ascoltiamo oggi è la versione Deluxe che presenta, oltre ad un cd aggiuntivo, una copertina nera con un simbolo simmetrico dal sapore vagamente esoterico, che alla vista risulta elegante ed essenziale. La stessa cosa non si può dire a proposito della cover originale nella quale vi era un richiamo alla stanza, del film Matrix, ove Morpheus offre a Neo la scelta tra rimanere addormentato e venir catapultato in una realtà che molto probabilmente non sarà di suo gusto. Ora se il riferimento è effettivamente al film, è un buono spunto per chiedersi che pillola sceglieremo noi se ci venisse offerta la cover originale che somiglia piuttosto allo studio di un telegiornale. Ma ora è il momento di affidarsi totalmente al tasto play e lasciar andare i sensi. La musica inizia con il suono di un carosello antico, riesco quasi a vedere la ballerina giocattolo senza un occhio e con la gonna mezza staccata che gira mestamente. D'un tratto un assalto crossover mi risveglia dal sogno e mi trasporta all’esasperato e toccante ritornello di “Misunderstood”. A sentire le chitarre mi vengono in mente i Korn e i System of a Down, suoni propri del nu metal che contrastano in modo piacevole con le linee vocali di Arnaud, anche se spesso le melodie si avvicinano più alle linee degli Alter Bridge e Staind. Da sentire almeno una volta è la title track dove Arnaud dà prova della malinconica e decadente espressività della sue linee vocali. L’apice del brano tuttavia è raggiunto nella disperata invocazione di un qualcosa che sia in grado di liberare l’anima dal dolore, concretizzato nel verso “Purge my soul from this growing pain”. Questa breve parentesi tocca alte vette di piacere, una mitragliata di fango, liberatoria come nessun'altra nel disco. Il brano fa riferimenti alla natura e in particolare all'acqua ma anche ai ricordi, si percepisce un’aria di melanconia cupa e romantica, forse il sentimento che ha dato origine e che più è descritto in 'Dear Morpheus'. I testi sono una parte importante dell'opera che denota una forte predisposizione al cantautorato, con la voce chiara e molto presente per l'intera lunghezza del disco. Le immagini che le parole ci regalano sono eterogenee e non sempre collegate tra loro. A volte si sente che la lingua utilizzata nel cd non corrisponde a quella con cui sono stati pensati i testi: lo si può intuire dalla sintassi e dalla pronuncia che, seppur molto buona, lascia trasparire la bandiera dei quattro musicisti transalpini. Veniamo ora al secondo cd di questa Deluxe Edition che reca il titolo 'In the Arms of Morpheus'. Si tratta di una raccolta di canzoni presenti nella versione studio ma qui suonate dal vivo in un set acustico. Il primo impatto è che i pezzi in questa dimensione trovino una forma che meglio si addice rispetto all’elettrica. I testi hanno modo di stendersi e rendere le immagini in essi contenute più libere di prendere forma nella mente dell’ascoltatore. In particolare la versione acustica di “Hard to Breathe” è quasi più riuscita della versione elettrica: si tratta di un blues diabolico con un ritornello cristallino e lucente, trademark a cui gli Evenline ci hanno abituato. Nel set acustico, anche il basso suonato in slap e la batteria leggermente più tappata rispetto all’elettrico, riescono a sostenere i pezzi in modo da conservare quella spinta rock che li ha generati, ma allo stesso tempo non vanno a invadere i testi e le melodie; qui l’equilibrio viene sicuramente raggiunto. La chiusura del disco è affidata a “Already Gone”, voce e piano, un commiato da accendino acceso, lacrime e cuore infranto. Pare che qualcuno sia stato lasciato e che non riesca ad accettare la vita senza la sua metà. Triste si, ma non mi faccio troppo coinvolgere dalla malinconia, sono sicuro che grazie a questo pezzo Arnaud non avrà nessun problema a trovare un'altra ragazza! (Matteo Baldi)

(Dooweet - 2015)
Voto: 75

The Pit Tips

Emanuele "Norum" Marchesoni

Rhapsody Of Fire - Into The Legend
Rhapsody Of Fire - The Cold Embrace Of Fear -
Sunpocrisy - Eyegasm Hallelujah

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Francesco Scarci

Oranssi Pazuzu - Valonielu
Earth's Yellow Sun - The Infernal Machine
Novembre - Wish I Could Dream it Again...

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Matteo Baldi

The Eagles - Greatest Hits
Brian Eno - Before and After Science
Porcupine Tree - Fear of a Blank Planet

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Bob Stoner

Ottone Pesante - S/t
Follow the White Rabbit - Endorphinia
Anekdoten - Until All the Ghosts are Gone

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Stefano Torregrossa

Truckfighters – Hidden Treasures of Fuzz
Earth’s Yellow Sun – The Infernal Machine
Les Claypool’s Duo De Twang – Four Foot Shack

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Jeremiah Johnson

Under the Church - Rabid Armegeddon
Thunderheart - Night of the Warriors
Nervosa - Victim of Yourself

giovedì 24 marzo 2016

Seventh Genocide - Breeze of Memories

#FOR FANS OF: Post-Black Metal, Deafhaven, Sunbather
This second release from the Italian post-black metal collection, offers a rather strong if somewhat lackluster approach to the genre that’s mainly undone by it’s severe brevity. Based on long-winded patterns of folkish acoustic work with black metal-styled tremolo riffing at it’s center, there’s a rather strong sense of light melodies and blazing, furious black metal featured here that’s overwhelmingly addictive as it goes along with the long-winded sections weaving plenty of swirling tremolo rhythms. There’s just the fact that this one is based on only four proper tracks with the instrumental outro and it really doesn’t leave much of a chance for any kind of impressions here when it easily could’ve supported another extra few tracks tacked on with nothing really upsetting the flow of the album doing that as it’s somewhat short-sighted by the few tracks here. The opening title track takes a long-winded acoustic guitar intro with a turn into raging, pounding drumming and swirling tremolo riff-work relentlessly marching through the straightforward and intense rhythms with a light folk final half for a nice opening impression. ‘Be’ features light acoustic patterns into furious pounding rhythms lead by utterly ferocious drumming with plenty of rattling tremolo riffing swirling around the lighter folk melodies in the final half for an engaging if somewhat lighter black metal offering. ‘Behind This Life’ uses a brief folk intro before blasting into the furious pounding drumming and swirling tremolo riff-work running through a fine series of alternating patterns that shifts nicely from black metal to folk with the extended acoustic finale for a decided highlight effort. ‘Summer Dusk’ opens with fine mid-tempo riffing and plodding drumming working a decidedly weaker tempo as the swirling tremolo riffing bubbling under the main rhythms leading throughout the main sections as the rambling, extended folk-led finale for a disappointing effort going for more black metal than a straight-mixture. Lastly, instrumental album-closer ‘Il Lampo’ works a light acoustic intro with pounding drum-work swirling through a series of melodic buzzing tremolo patterns with plenty of rumbling drumming that settles on fine mid-tempo pounding alongside the folk elements through the final half for a decent enough finishing note. Overall, though this release still feels a track or two short of what it could’ve really been. (Don Anelli)

(Naked Lunch Records - 2015)
Score: 75

martedì 22 marzo 2016

Lutece - From Glory Towards Void

#PER CHI AMA: Swedish Black, Marduk, Dissection
Parigi, Francia. 2016. Le tenebre calano sulla capitale e il loro volto è impersonificato dai Lutece, act transalpino attivo già da un paio di lustri e con tre album pubblicati, di cui 'From Glory Towards Void' rappresenta la loro ultima produzione. Il nuovo album continua in linea con i precedenti lavori, offrendo un black dalle ritmiche serrate ("Let the Carnyx Sound Again"), ma anche dagli ampi respiri atmosferici ("Melted Flesh"), in cui continua a mantenersi forte una certa componente epicheggiante che rende il lavoro più accessibile del previsto, pur proponendo un genere estremo. Merito sicuramente delle chitarre, che mostrano un approccio che definirei heavy, anche se la ritmica si presenta comunque tirata e pesante, complice un roboante basso e un drumming che viaggia a velocità supersoniche con blast beat schizoidi, su cui si staglia lo screaming assai arcigno di Hesgaroth. Ma il riffing si conferma sempre e comunque melodico ("The Venom Within" e "Architects of Doom"), nella sua alternanza tra sfuriate black in stile scandinavo (Sarcasm e Dissection sono ben udibili anche nella title track) e ritmiche mid-tempo. Fatto salvo per qualche passaggio a vuoto ("Labyrinth of Souls"), in cui i nostri provano a ripescare i primordiali suoni dei Samael, 'From Glory Towards Void' alla fine è un album che si lascia ascoltare dall'inizio alla fine, pur non proponendo nulla di cosi innovativo. Quel che è rimane chiaro per l'intera durata del disco è che il quintetto transalpino non si lascia certo pregare quando c'è da inferire con riff che assomigliano più a colpi di rasoio ben assestati a livello della giugulare che semplice plettrate sulla sei corde; ne sono un esempio la ficcante "The Last Standing Flag" o la debordante "Living My Funeral". Tuttavia, dovendo esprimere la mia personale opinione, posso dire che preferisco la versione mid-tempo dei nostri, ossia quei momenti più ragionati in cui l'ensemble sembra aver più chiaro cosa fare e cosa dire (splendida a tal proposito "The Dance of Rolling Heads"), anche se le cavalcate black, in stile Marduk, non sono certo disprezzabili, anzi. Insomma per concludere, ho come l'impressione che questo terzo disco dei Lutece possa rappresentare un lavoro di transizione che conduca i nostri verso l'Olimpo del black metal di matrice svedese. Avanti cosi. (Francesco Scarci)

Lazenby - S/t

#PER CHI AMA: Pop Rock
Ascoltare il disco dei Lazenby (il cui nome richiama l'attore George Lazenby, che vestì i panni di James Bond nel 1969) ti riporta alla dimensione paesana della musica: una festa di fine estate con una band di amici che si esibisce sul palco. Claudio, Roberto, Mauro e Massimiliano sono un quartetto che si divide tra Varese e Lugano, che propone un mix musicale fatto di sonorità pop (guidate dalle tastiere di Roberto) e cantautorato italiano (trainato dalla voce e dagli ottimi testi di Mauro). La band raccoglie in questo EP omonimo, sei pezzi estratti da un notevole serbatoio di brani già scritti (sembrerebbero addirittura una settantina). I Lazenby si presentano come degli ottimi esecutori ma, purtroppo, ad un'analisi più approfondita, non aggiungono nulla a quello che tanti, prima di loro, hanno già cantato e suonato. Più volte durante l’ascolto dei brani infatti, ho avuto l’impressione di aver già sentito quella canzone, che rimandasse a qualcosa di già ascoltato. La voce di Mauro in alcuni brani viene a mancare e non si fonde a pieno con la musica come, a mio parere, dovrebbe fare. Non sto dicendo che questo sia un brutto disco, ma che forse non lasci molto nella testa di chi ascolta. I brani si succedono in sequenza, senza prevalere l’uno su l’altro: una nota di merito va sicuramente alla bluesaggiante "Dove Finisce la Ferrovia" e all’arpeggio di "Ottobre", ultima traccia dell’album, ove per un attimo si spera in un guizzo finale, che ahimè tarda ad arrivare. Un peccato perché a mio avviso, le potenzialità ci sono tutte e dal vivo probabilmente, i nostri potrebbero davvero sorprendere. (Daria Burla & Francesco Scarci)

Parqks - S/t

#PER CHI AMA: Shoegaze/Post Rock
I francesi Parqks sono un trio nato nel 2010, originario di Limoges. Dopo il demo del 2012 (peraltro suonato interamente live), i nostri hanno prodotto la loro opera prima nel 2015, questo 'Slow Ascent Melancholia'. Si tratta di un album strumentale contenente sette tracce che mescolano eteree melodie shoegaze ("Siberia") ad aperture post rock più robuste ("Nubla 93") che sfociano spesso e volentieri, in tappeti sonori distorti ("Shade Is A Light That Faded"). Con "Say Goodbye & Goodnight" invece, a farla da padrone sono flebili attimi di pura malinconica atmosfera, che ha il merito di allentare l'atroce scandire del tempo. Non sempre è scontato trovare in canzoni strumentali una struttura che preveda strofa e ritornello, tuttavia il terzetto transalpino ci riesce degnamente nella opener "The Evening Was Cold But We Felt Warm Inside", ove la mancanza del cantato scompare di fronte a una composizione di questo tipo. In questo caso, le vocals sarebbero addirittura di troppo, grazie all'utilizzo di due chitarre e una batteria, e al fatto che la band non disdegni neppure l'uso di synth, come l'MS20 della Korg, per farsi accompagnare con pad e vari soundscapes. Direi proprio una scelta azzeccata vista la qualità timbrica dei suoni prodotti. Personalmente auspico che i Parqks continuino nella loro evoluzione sonora per poter imboccare nuove strade di sperimentazione sonica. Ho l'impressione infatti che si divertirebbero molto e i loro fans con loro. (Alessio Perro)

(Self - 2015)
Voto: 70

https://parqks.bandcamp.com/

domenica 20 marzo 2016

Hyling - Decimate The Human Race

#PER CHI AMA: Black Scandinavo, Mayhem, Dark Funeral
Il verso della civetta, i suoni e i rumori del bosco nella notte, aprono l'oscuro viaggio degli Hyling (e altri ci accompagneranno tra un pezzo e l'altro) in quello che è il terzo lavoro in 15 anni per l'act veronese. 'Decimate the Human Race' è un disco che se fosse stato partorito in Svezia, sarebbe balzato agli onori della cronaca metal come una bomba in ambito black. Essendo stato concepito invece in quel della città di "Giulietta e Romeo", mi sembra sia passato un po' più in sordina, sebbene sia stato decantato da diversi web magazine. Non posso far altro che accodarmi a quanto scritto dai colleghi e dire che gli otto pezzi qui contenuti, possono rappresentare un buon viatico per i nostri verso una maggiore visibilità internazionale. Nel frattempo ascoltando il disco, vorrei soffermarmi su alcune caratteristiche vincenti di questo 'Decimate the Human Race', i cui contenuti lirici ci conducono all'oscuro decadentismo in cui è sprofondata la razza umana: innanzitutto, partirei dall'ottima prova vocale di Patrik Carlsson, vocalist degli svedesi Anachronaeon. Per lui una timbrica a metà strada tra Attila Csihar e Emperor Magus Caligula (ex frontman dei Dark Funeral), che ben si amalgama con la proposta estrema degli Hyling. Secondo punto di interesse è la presenza dietro le pelli di Enrico "Il Rosso", preso in prestito dai Riul Doamnei, uno che quando c'è da picchiare in modo violento ed ultra tecnico, non si tira certo indietro. Tra i punti di forza aggiungerei poi quel riffing acuminato di matrice scandinava che sicuramente riuscirà a metter d'accordo i fan di Mayhem, Unanimated, Immortal, Darkthrone, Marduk, Dark Funeral, Sarcasm, Gorgoroth, Dissection e Setherial, tanto per confinare a qualche nome della scena, l'ambito in cui i nostri si muovono. Per concludere, non sottovalutate neppure i contenuti lirici del disco, evitando di soffermarvi in modo superficiale al titolo provocatorio del platter. Detto questo, lasciatevi incantare dalla dinamica ferocia del combo veneto, per cui vi consiglierei l'ascolto della sinistra title track, e di "Moon", la song posta in apertura, che palesemente rievoca quel masterpiece che è 'De Mysteriis Dom Sathanas'. Suoni raggelanti, cambi di tempo che imperversano lungo l'intero lavoro, melodie sghembe e una dose di violenza con pochi eguali (che avvicina peraltro 'Decimate the Human Race' anche al death metal), completano il quadro di un disco ambizioso, che ha ancora modo di mostrare alcune interessanti soluzioni nell'acustica strumentale di "Quiet Waters" e nella conclusiva ed epica "Dust", che in questo caso sembra addirittura evocare 'Blood, Fire, Death' degli immensi Bathory. Per favore, ora non fermatevi! (Francesco Scarci)

(Self - 2015)
Voto: 75

sabato 19 marzo 2016

Womb - Deception Through Your Lies

#PER CHI AMA: Death/Doom, primi My Dying Bride, Saturnus
Se mi sembrava strano che il funeral doom imperversasse in Brasile con gli HellLight, altrettanto strano mi suona che gli andalusi Womb si facciano portavoce di un death doom atmosferico. Diavolo, in quelle terre dove il sole splende alto nel cielo, che bisogno c'è di deprimersi con atmosfere di siffatta decadenza. Supportati dalla onnipresente Solitude Productions (sempre più in simbiosi con la Hypnotic Dirge Records), questo quartetto, tra le cui fila militano membri o ex di Winterstorm e Shattered Sigh, si abbandona ad un acerbo concentrato di sonorità doom che poco hanno da aggiungere a quanto già affolla la scena oggigiorno. Non posso negare che le melodie di "Echoes of Our Scars" non siano gradevoli, però trovo che la produzione scarna e scarsa, ne penalizzi non poco il risultato finale. Ovviamente, gli ingredienti del genere ci sono tutti: riff lenti e ossessivi, atmosfere cupe e apocalittiche, qualche accelerazione di matrice death e infine le immancabili funeste voci growl, che rappresentano il secondo punto di debolezza (forse ancor più grave della produzione) di questo 'Deception Through Your Lies' per cui lo relegano ad album per soli amanti del circuito funeral doom underground. Insomma, qui c'è spazio per crescere, non basta prendere i soliti punti di riferimento, Saturnus o i primi My Dying Bride, tanto per citarne un paio che ho percepito nella malinconica "March", per confezionare un album che possa puntare a chissà quali traguardi. 'Deception Through Your Lies' è sicuramente un lavoro onesto che però poco di innovativo ha da dire. Una maggiore cura nei dettagli a livello dei suoni con un vocalist un po' meno "cavernicolo" e qualcosa di meglio sarebbe sicuramente emerso dalle note di queste cinque tracce. Per ora rimandati, ma non perdete la fiducia mi raccomando. (Francesco Scarci)

(Solitude Productions/Hypnotic Dirge Records - 2015)
Voto: 55

https://hypnoticdirgerecords.bandcamp.com/album/deception-through-your-lies

Atom Made Earth - Morning Glory

#PER CHI AMA: Prog/Post Rock/Stoner, Mono, Mogwai, Pink Floyd
Difficile catalogare il quartetto marchigiano degli Atom Made Earth, una delle realtà più eclettiche e originali che abbia sentito ultimamente. Nel loro lavoro (il primo studio album, dopo un live del 2014) c’è davvero di tutto: c’è la psichedelia spaziale dei Pink Floyd mescolata alle cavalcate stoner degli Sleep ("Thin"), c’è il prog-rock contemporaneo di "Reed", dove si respirano echi di Porcupine Tree e Rush, c’è lo stoner-rock anni 2000 stile June of 44 e Brant Bjork & The Operators ("Baby Blue Honey"). Su lunghe parti strumentali uscite dritte dritte da qualche b-side dei Black Sabbath si aprono all’improvviso parentesi dispari di ispirazione King Crimson e lunghe suite settantiane di hammond ("StaC", vero capolavoro del disco); e poi, qua e là, si trovano anche gemme di kraut-rock, sperimentazioni ambient, azzardi sonori e spolverate di jazz. Gli Atom Made Earth suonano tutto, e molto bene: le chitarre passano da suoni acustici crepuscolari a distorsioni pungenti, da wah-wah funkeggianti a misurati delay; le tastiere sfruttano a pieno elettronica, organi, pianoforti e sintetizzatori. Basso e batteria non sbagliano mai, prediligendo sonorità più naturali, grande dinamica e partiture mai banali. La produzione è forse un po’ troppo asciutta e concentrata e – nonostante il gran lavoro di James Plotkin e Gianni Manariti – avrebbe forse goduto di un po’ più apertura, anche a discapito della pulizia generale che, bisogna ammetterlo, mantiene chiara e godibile ogni singola nota suonata. Il vero difetto degli Atom Made Earth è però la sottile sensazione di manierismo che pervade il lavoro: se alcuni accostamenti di generi funzionano alla grande, altri sono studiati un po’ troppo a tavolino e risultano freddi e forzati. Le pur sopraffine tecnica e creatività compositiva dei musicisti, in alcuni casi, sono controproducenti e 'Morning Glory', qua e là, perde di spontaneità e risulta solo un artificiale esercizio di stile imitativo. (Stefano Torregrossa)

(Red Sound Records - 2016)
Voto: 65

https://atomadearth.bandcamp.com/album/morning-glory

Witte Wieven - Silhouettes Of An Imprisoned Mind

#PER CHI AMA: Black Atmosferico
Provenienti da Tilburg in Olanda, i Witte Wieven (che sta per "donne sagge") sono un duo formato da Sarban (batteria) e Carmen (voce, chitarra e basso), dediti a un black metal d'atmosfera, tinto comunque di influenze cascadiane e post black. Lo si evince immediatamente dall'opener track, "Ruin", un'autentica galoppata di suoni post black, in cui le uniche voci sono lasciate ai sussuri soavi della brava Carmen che per certi versi richiama le produzioni più delicate di Myrkur. "Silhouettes of an Imprisoned Mind", la traccia che dà anche il titolo a questo mini cd (racchiuso in un digipack elegante dalla cover assai suggestiva che riprende 'Dancing Fairies' del pittore svedese August Malmström), continua nella sua opera di ritmiche serrate in pieno stile US, fino a quando la quiete non prende il sopravvento e come una ammaliante sirena, Carmen torna a proporre dei brevi sussurri in sottofondo. Non per molto a dire il vero, perchè la furia dilagante del duo orange, avrà modo di esplodere ancora in vibranti accelerazioni, lasciando la parola alla sola musica. Si arriva velocemente alla terza e ultima song di questo EP, che funge da apripista all'imminente album di debutto. "Faces of Unreality" si muove tra sinistre atmosfere, rallentamenti al limite del doom e sfuriate black, che lasciano soltanto intravedere le potenzialità che questo duo olandese possiede. Quindici minuti sono un po' pochi per capire cosa ci riserva il futuro, soprattutto se le tracce che verranno saranno completamente strumentali o se Carmen sarà in grado di offrire vocalizzi alla stregua della collega danese, leader dei Myrkur. A breve per nuovi aggiornamenti. (Francesco Scarci)

(Self - 2016)
Voto: 65

https://wittewieven.bandcamp.com/

mercoledì 16 marzo 2016

Colonnelli - Verrà la Morte e Avrà i Tuoi Occhi

#PER CHI AMA: Thrash/Heavy, IN.SI.DIA
Ho sempre sostenuto che in Italia ci siano tante realtà assai valide, che solo canali “alternativi” come questo del Pozzo, possono far venire a galla. In questo specifico caso, a dir poco strabiliante, abbiamo a che fare con un potentissimo trio toscano, di Grosseto per la precisione. I Colonnelli marchiano a fuoco la fine del 2015 e l'inizio del 2016 con questo album che si candida, senza troppi giri di parole, ad essere una delle più limpide dichiarazioni di manifesta superiorità in ambito metal degli ultimi anni. Ma andiamo con ordine: immaginate un tonante groove metal suonato da Dio, aggiungete un inedito (per il genere) cantato in italiano, unite una tonnellata di doppio pedale solidissimo e amalgamate il tutto con un riffing serrato e molto preciso. Fatto? Bene, miscelate tutto benissimo e assaporate il risultato: un disco gigantesco. Lungo i ripetuti ascolti non ho potuto trovare un punto debole che sia uno, anzi, ad ogni ascolto apprezzavo sempre di più il lavoro di Leo, Bernardo e Andrea (coadiuvati poi in registrazione da altri musicisti). 'Verrà la Morte e Avrà i Tuoi Occhi' è un entusiasmante mix heavy che richiama i Motorhead, finisce in braccio ai Misfits, per poi sfiorare da vicino il thrash metal più grooveggiante dei Kreator. Era dai tempi ormai lontani dei dischi dei monumentali IN.SI.DIA che non mi era più capitato di imbattermi in un lavoro così valido, peraltro cantato in italiano. Un piacere unico avere a che fare con questo lavoro, che può avvalersi anche di un ottimo suono, ideale per il tipo di sound proposto ma che personalmente avrei preferito un po' più “pulito”, senza dover per forza scadere nel troppo freddo e asettico. Il trittico iniziale è da pelle d'oca, una qualcosa di notevolissimo spessore: ”Il Boccone Amaro”, “Masticacuore” e la potentissima “Circo Massacro” spazzano via tutto quello che incontrano sul proprio cammino, come panzer in avanzamento perpetuo. Bastano solo questi tre pezzi per indurvi all'ascolto di questo massacro sonoro. Non c'è da aggiungere molto altro, perché altrimenti sarei troppo propenso a “distribuire” lodi sperticate che potrebbero risultare stucchevoli, non mi rimane pertanto altro che consigliarvi di procurarvi il disco quanto prima. Non ve ne pentirete assolutamente. Anzi, ve ne innamorerete all'istante. Giganti! (Claudio Catena)


((R)esisto Distribuzione - 2015)
Voto: 90

Mutiny on The Bounty - Digital Tropic

#PER CHI AMA: Experimental Post Rock
Questo giovane quartetto proveniente dal Lussemburgo è arrivato al terzo full-length, che aggiunge un nuovo tassello alla propria evoluzione - senza però ancora raggiungere la piena maturità - con un disco curatissimo in ogni suo dettaglio, dalla registrazione alla confezione, e formalmente ineccepibile. Alfieri di un post-rock strumentale dalle forti connotazioni math, con 'Digital Tropic' i Mutiny on The Bounty innestano massicci quantitativi di elettronica su una matrice che rimane sostanzialmente post-metal, per un risultato sicuramente curioso e intrigante, pur non privo di punti interrogativi non ancora del tutto risolti. Innanzi tutto due parole vanno spese sul magnifico 12’’ in vinile trasparente che, oltre a garantire un’eccellente resa sonora, permette di godere appieno della splendida copertina. Scelte stilistiche cosí raffinate si riflettono nella cura che la band pone nella composizione e realizzazione della propria musica, contrapponendo potenza e delicatezza, rabbia e candore. Come detto, l’impianto è un classico math-prog-metal piuttosto potente e complesso ritmicamente, sul quale si adagiano ricami chitarristici, synth, loop ed effettistica varia, in un modo che ricorda vagamente i 65daysofstatic, pur senza raggiugerne le vette poetiche. Le cartucce migliori vengono sparate subito in apertura, e se ci si trova piuttosto esaltati dall’ascolto delle trascinanti "Telekinesis" e "Countach", si rimane soddisfatti solo a metà del resto della scaletta. Tanto i primi due brani stupiscono per freschezza, potenza e creatività, quanto risulta difficile tenere desta l’attenzione per tutta la durata dell’abum. Il punto è che il gioco, dopo un po’, sembra mostrare la corda, gli inserti elettronici risultano un po’ troppo zuccherosi e quella che sarebbe potuta essere la perfetta colonna sonora di un film di fantascienza distopica alla Matrix, sembra in piú di un’occasione la musica di una versione di Candy Crush Saga sotto anabolizzanti. Forse semplicemente 'Digital Tropics' è un tantino freddo, al cospetto di un’esecuzione impeccabile e di doti non comuni di scrittura, o forse si tratta di un disco che risente molto del mood con il quale lo si ascolta. In definitiva i lussemburghesi sono senz’altro promossi, ma con riserva. Come tutti gli studenti piú dotati, da loro ci si aspetta sempre qualcosa in piú. E speriamo che possano mostrarcelo in futuro. (Mauro Catena)

(Small Pond Recordings - 2015)
Voto: 70