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martedì 13 settembre 2016

Amphetamin - A Flood of Strange Sensations

#PER CHI AMA: Post Rock/Shoegaze, Tame Impala, Porcupine Tree
Le one-man band sono pericolose: innanzitutto perché, per fare un bel lavoro, devi essere sostanzialmente un genio. E poi perché in qualche modo il tuo strumento preferito rischia sempre di sovrastare gli altri. È inconscio, credo. Nel caso del francese Sebastian, mente e cuore dietro il progetto Amphetamin, lo strumento prediletto è la voce: emozionale, sospirata, melodica, capace di creare belle atmosfere. Le linee vocali sono ricche di falsetti – che personalmente amo poco, ma tant’è – e mi ricordano qua e là nello stile, Steven Wilson, HIM e forse qualcosa di James Blake. Intendiamoci: Sebastian ha una voce pulita, precisa e capace di suscitare forti sensazioni. Ma la composizione e la produzione stessa del disco la premiano fin troppo: 'A Flood Of Strange Sensations' è un lavoro fortemente incentrato sulla voce. Si salva forse la chitarra (splendido l’assolo in “Favourite Doll” o la progressione di accordi in “Endless Nights”), mentre batteria, basso e synth spariscono in un lago di noia e pattern banalissimi. Musicalmente, è un disco che definirei post-rock/shoegaze nel solco di Tame Impala e Porcupine Tree, pur avendo qualcosa di prog, una forte attenzione all’atmosfera generale e anche certe interessanti venature esotiche (“Stranger On An Island”). Non mancano ritmiche serrate e distorte (“The Threshold”), ma in generale la predilezione di Amphetamin/Sebastian è per la melodia, l’arpeggio indovinato, i violini a tappetone, il mid-tempo in quattro quarti (“Neverland”). Applaudo il tentativo dell’autore di costruire un album che si lascia ascoltare, scorre piacevole pur senza stupire; e di costruirlo interamente da solo – dalla scrittura alla registrazione, fino all’autoproduzione. Ciononostante, le pur belle melodie vocali di in 'A Flood Of Strange Sensations' nascondono una composizione strumentale solo mediocre. Il risultato è un bell’esercizio vocale non sufficientemente supportato musicalmente: ma sarei curioso di ascoltare Sebastian inserito a tutti gli effetti in un gruppo “vero” – lì sì che potrebbe regalare grandi sorprese. (Stefano Torregrossa)

giovedì 8 settembre 2016

Face The Maybe - The Wanderer

#PER CHI AMA: Progressive/Metalcore, Between The Buried And Me, Periphery
Per me il progressive vero è finito con 'A Change Of Season' dei Dream Theater. Lo ripeto da anni. Eppure, continuo ad essere smentito da queste realtà indipendenti (penso agli Earth’s Yellow Sun, ai No Consequence, ai Tardive Dysknesia) formate da musicisti straordinariamente dotati di tecnica, intuito, capacità e voglia di sorprendere. In questa categoria entrano oggi a gamba tesa gli spagnoli Face The Maybe, con il loro 'The Wanderer' – che segue il debut 'Insight' del 2011. Un disco straordinario, sorretto da un lavoro vocale praticamente perfetto (Tomas Cunat passa con facilità da una voce pulita, precisa ed estesa ad un convincente harsh-vocals tinto di growl) e da una capacità di songwriting davvero rara. Le dodici tracce trasudano continuità e coerenza da tutti i pori, e permettono al quintetto di Barcellona di esplorare tutti i canoni del genere: c’è il metalcore dei Periphery con i ritornelli strappamutande (“All That I See” e “Seth”), c’è il djent ipertecnico (“Dagger” e “The Swan”), c’è l’epicità oscura di certi Opeth (“New Dawn”); e non mancano ovviamente sfumature dei più classici Dream Theater (“The Wanderer”). Ma ogni riferimento è frullato e digerito dai Face The Maybe, che affrontano la scrittura dei brani con maturità, personalità e con un’attenzione alla melodia che, pur facendo storcere il naso ad alcuni puristi del metal, trasforma un disco difficile, tecnico e impegnativo in un’esperienza di ascolto godibilissima anche ad orecchie non preparate. Non sorprendetevi, dunque, se ascoltando 'The Wanderer' vi troverete a passare da uno shredding violentissimo di chitarra su un tappeto di doppia cassa, ad un ritornello che potreste tranquillamente fischiettare sotto la doccia. C’è molto materiale al fuoco (dodici pezzi, quasi tutti sopra i 6 minuti e con punte di oltre 9), forse fin troppo. Ma ne vale la pena. (Stefano Torregrossa)

Diana Spencer Grave Explosion - 0

#PER CHI AMA: Space Rock/Stoner, Kyuss, Colour Haze
Il tempo si dilata, rallenta, sussurra. Appaiono orizzonti rossi, sabbia, stelle, spazi infiniti, solitudine. Un deserto oscuro e senza fine, disabitato, dove il tempo perde ogni senso. E invece – sorpresa – siamo a Bari, patria dei Diana Spencer Grave Explosion. Il quintetto sorprende per la capacità di creare straordinarie atmosfere stoner ricche di psichedelia, che sanno trasformarsi, quando serve, in monolitiche architetture di chitarre maestose e headbanging furioso. “Space Cake” gioca su un riffing indovinatissimo, che sa pesare con precisione, distorsione ed effetti, alternandosi tra cavalcate stoner a suon di crash e rullante, e momenti più lisergici. Un piano elettrico dal gusto anni ’70 apre “Avalanche”, guidata da delay spaziali e una melodia riuscitissima fino ad una inaspettata apertura in maggiore. La batteria (che sceglie pattern minimali ma precisi, sullo stile di Brant Bjork) e il basso costruiscono una base solida e granitica su cui poi tastiere (sentite che suoni! assolutamente perfetti) e chitarre hanno ampio spazio di manovra. Sono evidentemente le chitarre a reggere l’intero lavoro, con un sound maturo a metà tra i Kyuss e il kraut rock dei Colour Haze. Ma non è un disco solo stoner, intendiamoci: è l’anima psichedelica dei Pink Floyd e di certi Motorpsycho ad affacciarsi nell’intro della lunga suite conclusiva del disco. “Long Death To The Horizon” riassume in 13 minuti la visione complessiva del quintetto barese, passando da una cantilenante melodia ad uno spirito blues distorto e oscuro, per poi tuffarsi in un oceano stoner di wah e mid-tempo. Il disco si riavvolge apparentemente su se stesso, chiudendo con la stessa magia dell’inizio, tra violini e fisarmoniche di un’improbabile orchestrina. Grande musica, personalità, maturità; ottima produzione; e la capacità, sempre più rara, di far volare l’ascoltatore e catturarlo, dal primo all’ultimo minuto. Se queste sono le premesse, non vedo l’ora di ascoltare il loro full-length.(Stefano Torregrossa)

giovedì 4 agosto 2016

Le Scimmie - Colostrum

#PER CHI AMA: Stoner/Psichedelia/Doom, Ufomammut
Oscurità, psichedelia, sonorità distorte e avvolgenti. Le Scimmie sono gli Ufomammut sotto acido: cinque brani che mescolano sapientemente stoner, doom, metal e ambient. I quattro brani che compongono 'Colostrum' – terzo lavoro del trio italiano, dopo 'Dromomania' (2011) e 'Habanero' (2012) – sono costruiti su riff granitici e ossessivi, che si sommano ridondanti, generando enormi architetture sonore, vere e proprie cattedrali oscure e magnifiche. I 14 minuti della opening e title-track "Colostrum" ruotano attorno ad un riff massiccio e potente ripetuto fino allo spasmo, su cui l’ottima batteria costruisce interessanti variazioni, sostenuta da un synth inquieto e surreale, che apre e chiude il brano. Segue "Crotalus Horridus", l’episodio più breve e veloce del disco, che rimanda a sonorità stoner. Infernale e onirica, "Triticum" è sostenuta da un compatto giro di basso, su cui una batteria a tratti tribale costruisce una progressiva esplosione. Chiude "Helleborus", violenta e tesa, disturbante nelle sue vene industrial centrali che spezzano i granitici pattern – non dimenticherete facilmente il geniale riff di apertura – su cui l’intero pezzo si regge. 'Colostrum' è un disco nero come il più buio angolo dell’inferno, una creatura enorme e abominevole, che rotola sulla terra radendo al suolo ogni cosa e sbriciola le menti più deboli con l’ossessiva ripetizione e le sue inaspettate aperture ambient. Un lavoro che – pur registrato con qualche pecca di produzione – lascia speranze per la scena più scura della musica italiana. (Stefano Torregrossa)

(Red Sound Records - 2016)
Voto: 80

https://lescimmie.bandcamp.com/

sabato 16 aprile 2016

Swan Valley Heights - S/t

#PER CHI AMA: Stoner Rock, Colour Haze, Truckfighters, Fu Manchu
Potrei chiudere questa review all’istante. Vi basti sapere che sullo splendido packaging di questo lavoro del trio tedesco Swan Valley Heights c’è scritto “Please listen at full volume”. E che le sette tracce (mai sotto i 6 minuti l’una, più spesso oltre i 9) sono un capolavoro di fuzz e bigmuff con le rotelle a fine corsa, basso distorto e pulsante, batteria minimale ma sempre precisa, arpeggi spaziali imbevuti di delay e una voce pulita e distante (forse l’unico neo del disco, per la sua scarsa personalità), leggermente grunge nelle scelte melodiche. Se esistesse una scuola di riffing, gli Swan Valley Heights sarebbero i prèsidi onorari a vita: potenti, lineari, ossessivi, precisi. Talmente in fissa per il groove, che non ho trovato un singolo riff noioso, banale o semplicemente riempitivo. Vi sfido a non canticchiarvi in testa il giro portante della spettacolare "Mammoth" (11 minuti abbondanti tra crescendo magistrali e cavalcate in pieno mood Truckfighters), a non muovere la testa a tempo su "Let Your Hair Down" o a non stupirvi ascoltando i cinque quarti di "Caligula Overdrive". Non si corre, qui: c’è molto mid-tempo ben sfruttato. Un paio di pezzi rallentano fino allo spasmo, tingendosi di cupe tinte doom ("Slow Planet", "Mountain"). Poi, quando meno ve lo aspettate, il viaggio tra stoner e sludge lascia la terra e si spinge nello spazio: "Alaska", o l’intro della splendida "Caligula Overdrive" sono gemme di psichedelia lisergica. A completare questo lavoro, metteteci una produzione magistrale: tutto il suono vi arriva in piena faccia, come un pugno. Cassa, basso e rullante fanno sobbalzare il torace e rimbalzano nel cranio (sentitevi il minuto 4.00 di "Mammoth"); la voce è morbidamente in secondo piano, dove dovrebbe essere; la chitarra è definita pur restando pastosa, grassa, gorgogliante di distorsione. Sono senza parole: un disco straordinario, in grado di far incontrare lo psych-stoner più tedesco con la scuola americana, il riffing di derivazione blues con l’ispirazione metallara di un certo stoner di oltreoceano. Comprate questo disco. (Stefano Torregrossa)

(In Bloom Publishing - 2016)
Voto: 85

https://swanvalleyheights.bandcamp.com/releases

domenica 6 marzo 2016

Show Me A Dinosaur – Dust

#PER CHI AMA: Post Metal/Post Rock strumentale 
Oscuro, pesante e nero, nerissimo. A tratti melodico, intendiamoci, ma di una melodia dissonante e carica di malinconia, suonata con grandissima sensibilità. E poi feedback, lunghissimi delay, fuzz e riverberi a tonnellate. Le distorsioni, cupe e potentissime, trasformano ogni esplosione in un soffocante muro di suono, che travolge e lascia sbalorditi (“Bhopal”). Il quartetto russo non lascia frequenze libere: là, sotto terra, il basso – sentite che registrazione perfetta! – è potente e preciso come una pulsazione primordiale (adorerete i 9/8 del gran finale della opening “Man Made God”). Le chitarre si dividono lo spettro sonoro: una, sulle corde più basse, costruisce architetture monumentali e oscure; l’altra, un paio di ottave sopra, traccia linee melodiche vibranti su singole, lunghissime note che si avvolgono in spirali di oppressione. La batteria, minimale nella sua insistenza sui crash e su cassa-rullante, dà all’intero disco la costante e inesorabile velocità di un enorme mostro marino, che emerge dai flutti per annunciare il giorno del giudizio. Gli Show Me A Dinosaur attingono a piene mani dalla tradizione post-rock (la scelta strumentale, i cambi di dinamica, gli arpeggi distanti, la predilezione per gli accordi pieni rispetto ai riff mononota, i lunghi break melodici), ma condiscono il risultato con tantissima personalità: nei suoni, negli arrangiamenti, nell’effettistica, nelle influenze – prog, doom, persino death (sentite l’inserto vocale in scream nella velocissima e violentissima “Rain”). Il disco si perde un po’ nel finale, preferendo tonalità maggiori e un aumento di velocità che, personalmente, mi ha lasciato un po’ stupito. Ciononostante, 'Dust' – pur avendo un paio di anni e con e con il nuovo lavoro “Vjuga” in uscita – è un disco ben fatto, equilibrato, ricco di momenti memorabili. Da ascoltare a volume esagerato. (Stefano Torregrossa)

(Self - 2014)
Voto: 75

domenica 21 febbraio 2016

Earth's Yellow Sun - The Infernal Machine

#PER CHI AMA: Progressive Rock/Djent strumentale
Facciamo il punto. I canadesi Earth’s Yellow Sun (EYS) sono in cinque: due chitarre, basso, batteria, tastiere. Poi c’è la EYS Saxophone Collective (otto sassofonisti), i sette vocalist del The Infernal Choir e tre extra guest: tablas, violino e vocal. Totale: ventitré musicisti. Dico, ventitré. E sul loro meraviglioso ‘The Infernal Machine’ campeggia a lettere cubitali l’avviso: in questo disco non abbiamo usato campionature di batteria, simulatori di amplificatori, né strumenti virtuali. ‘The Infernal Machine’ è davvero una perfetta, diabolica e ben costruita macchina infernale: cinque movimenti di un unico concept album che, pur durando solo 23 minuti, potrebbero dare riff e materiale per due, forse tre dischi interi. Pochi secondi di piano introduttivo e siamo già in pieno prog-metal contemporaneo ("Assembly"): le chitarre in palm-mute danzano chirurgiche a sincrono con la grancassa, mentre costruiscono arpeggi melodici su cui – sorpresa! – entrano i sassofoni in un gioco di accenti spostati che ha quasi del funky. Il timing cambia: un dissonante solo di tastiere e uno più classico di chitarre, si avvolgono intorno ad un groove incalzante da puro headbanging. L’inizio di "Unveliling" è straordinario: sono quartine o terzine quelle? Lo capirete solo all’ingresso del rullante, che finalmente raddrizza un poliritmo degno del miglior djent. Ancora sax, accenti spostati, poi un organo; e finalmente un'epica melodia di chitarra su un arpeggiatore di tastiera. "Betrayal" viaggia su delle coordinate prog-metal premiate però da una maggiore accelerazione e da interessanti inserti elettronici e industrial (splendidi i suoni di tastiere intorno ai 50 secondi), prima di aprirsi su un poetico break di pianoforte e rituffarsi in un inferno strumentale di riffing serrato, poliritmi e melodie. I tre minuti semiacustici di "Bastion" godono del tocco orientaleggiante delle tablas e del violino, una vera oasi di magia. Chiude "Rapture", il brano più lungo del disco, che in qualche modo riassume l’intero approccio degli EYS alla musica: un gioiello di prog-metal, confezionato in un continuo gioco di rimbalzi tra cori e sassofoni da una parte e distorsioni dall’altra, fino ad un epico finale di strings e soli, quasi una ninna-nanna metal. Ottimo il lavoro della sezione ritmica (sentite cosa combina intorno ai 2 min) – ma è il songwriting la vera arma degli Earth’s Yellow Sun. ‘The Infernal Machine’ è un disco strumentale che non annoia, non lascia respiro, stupisce in continuazione. Gli EYS sono bravissimi e concentrati, non si perdono in fronzoli, non esagerano nell’autocelebrazione tecnica, non amano la ripetizione pur non disdegnando la melodia. Non mi vergogno a dirlo: buttate nel cestino l’inutilmente lungo 'The Astonishing' degli ormai troppo anziani ed egocentrici Dream Theater, e salite a bordo di questa nuova e fiammante macchina infernale. (Stefano Torregrossa)

martedì 12 gennaio 2016

Les Lekin - All Black Rainbow Moon

#PER CHI AMA: Psychedelic Stoner, Pelican
Sei tracce per quasi 50 minuti di viaggio in questo debut album del trio austriaco Les Lekin. Dalla breve "Intro" (quasi 2 minuti, costruita su un ruvido ma inquietante arpeggio di chitarra) alla lunghissima "Loom" (oltre 13 minuti – che, con la straordinaria "Solum", è il capolavoro del disco), questo 'All Black Rainbow Moon' è un piccolo capolavoro sotto ogni punto di vista. La sezione ritmica costruisce un tessuto solido e groovy: su una batteria minimale ma fantasiosa quando serve (splendido il pattern delle rullate nei main riff di ‘Solum’), un basso ruvido, pieno e pesante, fa da architettura per vere e proprie cattedrali di psichedelia oscura e riff tossici. È la chitarra a farla da padrone: il talentuoso Peter G. si muove senza sosta tra riverberi, delay, distorsioni sludge, arpeggi e feedback, trascinando l’ascoltatore in una giostra multicolore di suoni angelici e atmosfere diaboliche, melodie indimenticabili (fischietterete "Allblack" per giorni interi, ve lo garantisco) e granitici riff stoner. Quasi tutti i brani sono legati tra loro da un feedback di chitarra che, idealmente, trasforma 'All Black Rainbow Moon' in un unico, lunghissimo trip psichedelico strumentale, perfettamente bilanciato nelle dinamiche e nell’equilibrio tra poesia e pesantezza, e perfettamente registrato e prodotto. Spero di poterli vedere dal vivo: sono certo che questi stessi brani, suonati live, diventino palco per splendide improvvisazioni. Indimenticabili. (Stefano Torregrossa)

(Self - 2015)
Voto: 80

sabato 9 gennaio 2016

Psicotaxi - Effect To The Head’s Mass

#PER CHI AMA: Electro Rock, Space Rock, Post Rock 
Difficile definire un genere per questo primo lavoro dei milanesi Psicotaxi. Post-rock? Vero: lunghi pezzi strumentali, arrabbiati, con ampi interventi di elettronica, arpeggi ricchi di eco e riverberi. Space-rock? Anche: i brani sembrano una miscela contemporanea di Hawkwind e Ozric Tentacles, con riff ossessivi, psichedelici, soundtrack stoner e tessiture vibranti. Progressive? Perché no: ogni canzone è una piccola suite ("Zingaropoli", col suo incedere esplosivo di basso ispirato ai Tool), tecnicamente ineccepibile, che si dilata e si restringe, non disdegna tempi dispari e lascia spazio persino a sax, tastiere e arpeggiatori taglienti. Aggiungete poi la teatralità dei testi recitati da Manlio Benigni: l’ironica "Un Tram che si Chiama Pornodesiderio" (“Il fatto è che lei fa la pornostar, io non me la sento di avere una storia con questa qui”), l’oscura e terrificante "Performance", l’impegnata e amara “Il Mondo Nuovo” (“Benvenuto nel mondo nuovo ragazzo […] tanto tu ti diverti a lavorare, non è vero?”). La cifra stilistica degli Psicotaxi va forse ricercata proprio in quell’underground musicale che, negli ultimi anni, sembra aver sfornato solo indie e folk: il quartetto milanese è fortemente indipendente, autonomo, dotato di personalità tale da raccogliere tutte le proprie ispirazioni e frullarle in una ricetta davvero nuova, originale, innovativa. 'Effect To The Head’s Mass' fa un uso preciso e superbo dell’elettronica; non dimentica l’importanza delle chitarre distorte e di un basso duro e presente; sa sfruttare il sassofono in modo originale; in ultima analisi, non fa sentire per nulla la mancanza di una voce nel senso stretto del termine, come invece capita a tante band post-qualcosa. Impossibile resistergli. (Stefano Torregrossa)

(Subsphera - 2015)
Voto: 75

giovedì 26 novembre 2015

Postcards From Arkham - ÆØN5

#PER CHI AMA: Prog/Post metal/Atmospheric Rock
Ho sempre un moto d’invidia quando scopro che dietro album così lunghi e complessi c’è un solo uomo, in questo caso il polistrumentista ceco Marek Frodys Pytlik. Me lo immagino a comporre e suonare, traccia dopo traccia; e ancor prima, a pensare un concept come questo 'ÆØN5', ispirato interamente dai racconti oscuri di H.P. Lovecraft e E.A. Poe (che segue, per inciso, il precedente 'Oceansize' del 2012, incentrato sul culto di Cthulhu). Mi aspettavo molto quindi, con presupposti del genere, ma vi avviso subito, questo disco si è rivelato appena sufficiente. La musica anzitutto: le atmosfere oscure e autunnali sono rette da melodie tutt’altro che straordinarie – “Elevate” o “Woods Of Liberation”, con le dovute differenze stilistiche, sembrano scritte per il teen-pop-rock contemporaneo. Chitarre e tastiere sono protagoniste: le prime alternano distorsioni death e arpeggi ricchi di effetti (“Thousand Years For Us”) a lunghi solo; le seconde tessono le linee principali delle melodie, prediligendo strings asciuttissimi e piano elettrici ai synth. Un basso anonimo e una batteria, purtroppo, altrettanto poco curata (sia nei suoni che nelle partiture) completano il quadro. Sopra a questo tessuto metal-melodico, la voce di Marek racconta per contrasto un mondo di orrore, oscurità e mostri in attesa: monotona e cantilenante, ricorda più un reading di poesie oscure che un cantato vero e proprio, men che meno metal (salvo un paio di episodi in growling, vedi “Aeon Echoes”). La voce – per lo più piatta, profonda e cavernosa – crea una dissonanza inquietante con la struttura prettamente melodica della musica. Come se il compianto Peter Steel leggesse Lovecraft sulle strofe di “Wildest Dreams” di Taylor Swift. Un lavoro difficile da inquadrare: l’altalena di atmosfere ed emozioni, tipica del post-rock e del post-metal, si sposa con l’ambientazione horror e il parlato oscuro tipici di un certo metal scandinavo. Le tastiere e le lunghe parti strumentali e solistiche tuttavia, non possono non far pensare ad un prog-metal contemporaneo, pur non particolarmente tecnico e, anzi, piuttosto noioso quanto a scelte di tempo. La voce, vera nota originale di un disco altrimenti banale, che alla lunga si rivela persino troppo piatto. I Postcards From Arkham strappano la sufficienza solo grazie a qualche buona idea qua e là, ma soprattutto per gli incastri melodici di tastiere e chitarre.  Da risentire nella prossima fatica. (Stefano Torregrossa)

(Metalgate Records - 2015)
Voto: 60

domenica 1 novembre 2015

Defrakt - Bow To The Machine

#PER CHI AMA: Death/Djent/Math, Meshuggah
Se sulla copertina del disco, anziché campeggiare la scritta “Defrakt” ci fosse stato “Meshuggah”, ve lo giuro, avrei pensato: wow, Thomas Haake e soci hanno fatto un nuovo disco e non ne sapevo niente (e sarebbe stato abbastanza impossibile). E in effetti, credo che questa sarà la recensione più corta che io abbia mai scritto: i Defrakt sono i Meshuggah. Punto. Hanno i loro suoni, la loro voce, la loro capacità di destrutturare i riff in poliritmi; suonano con la stessa spaventosa tecnica, con le stesse bassissime distorsioni digitali, con la stessa voce brutale e potente, con gli stessi giochi ritmici tra chitarre e batteria. Questo disco è in effetti un tributo all’intera discografia dei Meshuggah: ci sono brani più veloci che sembrano usciti da 'Destroy Erase Improve' ("Smite"), brani che sono lente cavalcate all’inferno ("Normative" e "Become"), altri che potrebbero essere stati b-side dell'ultimo 'Koloss' (“Things”). L’unica nota appena negativa? I suoni della batteria, in particolare del rullante, sono ancora troppo artificiali e andavano, forse, lavorati appena di più. In breve: siete stufi di ascoltare a ripetizione 'Obzen', 'Catch 33' o 'Chaosphere' in attesa di un nuovo lavoro? Mettete i tedeschi Defrakt a tutto volume e sarete felicissimi: sono bravi, potenti, ispirati – non potrete non muovere la testa a tempo. Cercate invece originalità, innovazione, personalità? Questo disco non fa per voi. (Stefano Torregrossa)

(Self - 2015)
Voto: 65

sabato 24 ottobre 2015

Australasia - Notturno

#PER CHI AMA: Post Rock/Post Black, Mogwai, Godspeed You! Black Emperor 
Provo sempre un sottile senso di invidia quando capito in lavori come questo ‘Notturno’, secondo full length degli Australasia. Un disco complesso, concettuale, figlio dell’ottimo polistrumentista italiano Gian Spalluto che si diletta tra chitarre, basso, tastiere e batteria. Il risultato è un’opera post-rock strumentale, che però sta stretta nei confini del genere. Anzitutto, la durata dei pezzi: solo la bella "Eden" supera i 6 minuti di durata. Le altre tracce sono invece costruite su una forma canzone più concentrata e ragionata, senza inutili ridondanze chilometriche. Poi i suoni: certo, vengono in mente subito Mogwai e Godspeed You! Black Emperor, riferimenti fortissimi in ‘Notturno’. Ma non è tutto qui: alcuni s direttamente dalle librerie di The Cure e Mike Oldfield ("Creature", "Lumen"), altre progressionynth piombanoi ricordano i The Mars Volta e i Pink Floyd ("Haxo", "Amnesia"). Ci sono anche elementi tipici dello shoegaze (soprattutto sugli effetti delle chitarre); e i riferimenti allo stile orchestrale tipico delle colonne sonore di Ennio Morricone – ma anche Brian Eno – sono altrettanto evidenti ("Invisible", l’asciutta e poetica "Notturno"). Sopra tutto questo però, c’è un alone di oscurità, di crudo malessere e soffocamento, che permea il lavoro. Le melodie e gli arrangiamenti, pur emozionanti e oniriche, evocano un senso di perdita, nostalgia: a poco servono le distorsioni e le accelerazioni di batteria. I soundscapes creati da Spalluto rimandano chiaramente ad una scena black riletta però in chiave melodica e contemporanea, anche attraverso il misurato uso di elettronica e suoni ambient ("Nebula"). Un bel lavoro, capace di rapirvi per quasi tutto l’ascolto. ‘Notturno’ tuttavia non riesce a strapparmi un voto più alto: dopo aver premuto stop, l’eco dei brani si spegnerà piuttosto rapidamente. Tutto molto bello, ma forse poco personale e memorabile: intendiamoci, Spalluto tratta i riferimenti musicali da vero professionista, con gusto ed equilibrio. Ma c’è forse ancora poca rilettura personale al di là della pur originale combinazione degli elementi in sé. (Stefano Torregrossa)

(Apocalyptic Witchcraft - 2015)
Voto: 70

martedì 20 ottobre 2015

In Each Hand A Cutlass - The Kraken

#PER CHI AMA: Progressive/Post Rock, Porcupine Tree, 65DaysOfStatic
"Ok, ecco un altro disco post-rock". Ho commentato così, appena ricevuto tra le mani il curatissimo packaging di 'The Kraken' del quintetto In Each Hand A Cutlass, originario di Singapore. Ma mi sbagliavo, dio se mi sbagliavo. Questo disco è un capolavoro. Andrebbe, che so, fatto ascoltare a scuola, anziché perdere le ore con "La Cucaracha" al flauto. Bisognerebbe farlo ascoltare a tutti quelli che pensano che il post-qualunque-cosa sia finito (me incluso, fino ad ieri), che Mogwai, Isis, Pelican, Sigur Ròs e Karma To Burn abbiano sostanzialmente già detto tutto quello che c’è da dire in proposito. Bisognerebbe spararlo a forza dalle casse di tutti i supermercati, i centri commerciali e le ascensori del mondo, dicendo: “Sentite qua che roba”. In 'The Kraken' c’è tutto: ci sono le lunghe atmosfere oniriche costruite con crescendo magistrali (“Heracleion”), ci sono dosatissimi interventi elettronici che ricordano i 65DaysOfStatic e i Nine Inch Nails (“Seagull 1751”, “Combing Through The Waves”), c’è il prog contemporaneo dei Porcupine Tree, c’è il pop sbarazzino con i clap di mani sul rullante stile EDM (“Satori 101”), c’è il riffing distorto e il blast beat, c’è un bridge jazz (“The Kraken: An Intermission”), ci sono scale maggiori e minori, arpeggi e cavalcate rock, dinamica e groove, ossessione e follia; ci sono delicatezza, leggerezza, paura, inquietudine, allegria, trionfo. Ci sono decine di generi, atmosfere, momenti, poesia, emozioni, tutti concentrati negli oltre 60 minuti del disco. C’è una spaventosa cura dei dettagli e degli arrangiamenti, soprattutto per un disco autoprodotto. C’è una registrazione praticamente perfetta, che valorizza ogni strumento, permettendo di assaporare ogni nota, ogni rullata, ogni crescendo. Ci sono dei musicisti di una tecnica invidiabile – la sezione ritmica è magistrale, un batterista con questo gusto e questa fantasia non lo ascoltavo da tempo; e i suoni di tastiera? straordinari – e di una umiltà talmente spiccata da non trasformare nessun momento del disco in un onanismo autoreferenziale (“Senti qua che sweep picking a 250 bpm che riesco a fare”). Manca la voce? D’accordo. Ma non ne sentirete la mancanza. Mancano una direzione unificata, un focus, un preciso scopo in questo disco? Sbagliato. Il focus c’è eccome: esplorare la musica in tutte le sue caleidoscopiche sfaccettature. Un compito riuscitissimo. 'The Kraken' è un lungo viaggio, quasi cinematografico, nell’oceano della musica contemporanea, pieno di orrendi mostri e romantiche visioni. Un viaggio che vi consiglio di fare. (Stefano Torregrossa)

(Self - 2015)
Voto: 90

mercoledì 9 settembre 2015

Aidan - Témno

#PER CHI AMA: Instrumental Post-metal/Ambient, Pelican, Mogwai
Aspettavo al varco i padovani Aidan, dopo il bel debutto di 'The Relation Between Brain and Behaviour' di due anni fa. Tornano sulla scena con questo EP di quattro brani, sostanzialmente diviso in due grandi momenti: l’apertura e la chiusura del disco (affidate rispettivamente a “Levnad” e “Ora Puoi Scendere nella Fossa con la tua Musica”) pescano a piene mani nell’ambient: atmosfere inquiete, synth ronzanti, violini carichi di pathos. Due brani che sono quasi colonna sonora – in “Ora Puoi Scendere…”, non a caso, appare il lungo dialogo sulla bellezza e il genio da 'Morte a Venezia' di Luchino Visconti –, onirici ed emozionanti, valorizzati da una produzione praticamente perfetta. Il secondo momento del disco, invece, è rappresentato dai due brani centrali, più legati alla tradizione strumentale del post-rock e post-sludge. “Negazione dell’Appartenenza/Appartenenza alla Negazione” è forse il migliore momento di 'Témno': una lunga suite, che oscilla con naturalezza tra il riffing ipnotico e progressivo dei Pelican e l’armonia delle parti più riverberate e sognanti, che ricordano in certi tratti i Mogwai ma persino i Tame Impala. La successiva “Il Terzo Escluso” è un lavoro più psichedelico e ambizioso, che premia la maturità degli Aidan in particolare nell’armonizzazione delle melodie tra le due chitarre e il basso (ascoltate il magistrale incastro tra strumenti dal primo minuto in avanti). Delay e feedback, ben dosati su suoni ruvidi tipici dello sludge, condiscono il lavoro trasformandolo in un piccolo capolavoro. C’è maturità negli Aidan, e si sente: si va oltre il solito gioco forte/piano del post-rock, e in generale i due brani centrali lasciano trasparire un lavoro su dinamica, tempi, melodie e suoni maggiore del precedente debut album. 'Témno', nonostante le altissime potenzialità, lascia però a bocca asciutta: la brevità dell’EP delude, e delude ancor di più se metà disco è sostanzialmente ambient, giocato su una singola nota che evolve tra arpeggi, delay e synth. Attendo il full-length che, mi auguro, valorizzerà meglio le grandi capacità compositive e tecniche della band, soprattutto quando lavora a pieno regime su brani complessi e completi. (Stefano Torregrossa)

(Red Sound Records - 2015)
Voto: 75

giovedì 3 settembre 2015

Smash Hit Combo - Playmore

#PER CHI AMA: Rapcore/Metalcore/Djent
Prendete il rap. No, non il crossover alla Rage Against The Machine né la old-school del ghetto: proprio il rap, rap bianco ed europeo per carità, ma pur sempre rap. Però cantato in francese. Metteteci sotto una base di metalcore tecnico votata al groove – tipo Periphery o Protest The Hero, per intenderci. Aggiungete una spolverata di suoni elettronici, synth ruvidi e percussioni sintetiche. Salite sul palco addirittura in otto elementi (tre voci, due chitarre, basso, batteria e sampler/piatti). E, ciliegina sulla torta, cantate fondamentalmente di videogiochi. Sì, videogiochi. Questa è la stramba ricetta dei francesi Smash Hit Combo, formazione decennale addirittura al quinto full length (più un EP nel 2005). Musicalmente il disco sta in piedi: non c’è quasi niente di nuovo e originale, ma non si può certo dire che chitarre, batteria e basso non sappiano suonare. Ci sono groove ben fatti, riffing interessanti, palm-mute in abbondanza, mitragliate di doppia cassa, velocità; c’è in generale quel suono sintetico e tagliente tipico del metal più contemporaneo. I brani – tolti giusto un paio di lenti (“Quart de Siècle”, “Déphasé”, “B3t4”) – sono però davvero troppo uguali a se stessi per lasciare un segno, costruiti su una identica forma (“In Game”, “Animal Nocturne”, “Le Vrai du Faux”, “48h”) che alterna ritornelli aperti melodici, strofe rappate e bridge urlati a ripetizione. La differenza la fa l’uomo dietro l’elettronica, che dosa piuttosto bene scratch, effetti, synth, campioni e beat con un’originalità non facile da trovare nel genere. Per giunta, il lavoro è masterizzato perfettamente da Magnus Lindberg, già alla console per i Cult Of Luna. Il problema però sono i tre cantanti. Insipidi, noiosi, con un flow davvero troppo piatto per risultare anche solo vagamente interessante (l’episodio migliore? Il featuring di NLJ al microfono in “48h”). Diciamoci la verità: è già dura rappare da bianchi senza essere ridicoli (chi si salva? Beastie Boys, Rage Against The Machine? Certi Faith No More? Sicuramente non Eminem, né Fred Durst e l’allegra compagnia del nu-metal); rinunciare a qualunque presa di posizione sociale o politica nelle liriche per cantare di videogiochi, e per di più farlo in francese significa segarsi le gambe. Certe urla – “Je ne suis pàààààààààààààs!” – sono davvero imbarazzanti. Imbarazzanti. Peccato. (Stefano Torregrossa)

(CHS Productions - 2015)
Voto: 60

domenica 12 luglio 2015

Mother Engine - Absturz

#PER CHI AMA: Kraut/Stoner/Space Rock strumentale, Color Haze, Can
Sulla pagina Bandcamp dedicata ad 'Absturz' si legge: “Questo album è interamente registrato live dai Mother Engine mentre jammavano nella stessa stanza. Per riprodurre al meglio le dinamiche e il suono, vi consigliamo di suonare il disco […] al massimo volume possibile”. L’inizio è promettente: non molti possono permettersi di rinunciare ad editing digitali, sovramissaggi, aggiunte e rifiniture in post-produzione. In effetti l’attitudine alla jam del trio tedesco era già nota: allo Stoned From The Underground Festival del 2013 non erano in scaletta – ma si sono portati gli strumenti e hanno allestito un set live nel campeggio (geniale!), facendo il pienone e diventando gli idoli del pubblico. Preparatevi ad un viaggio spettacolare: a guidare la nave spaziale c’è il chitarrista Chris Trautenbach. Virtuoso ma senza esagerazioni, sempre in equilibrio costante tra grasse distorsioni fuzz e tonnellate di delay, flanger, wah ed effettistica vecchia scuola. È lui a tracciare le linee e il riffing di ogni pezzo: sempre originale nei suoni e nelle melodie – mai una sbavatura, mai una scelta banale, mai un passaggio noioso o scontato: non sentirete minimamente la mancanza di una voce. A co-pilotare la nave, Cornelius Grünert alla batteria (bravissimo con dinamiche, fantasia e tocco) e Christian Dressel al basso: sono loro a costituire di fatto il motore portante di 'Absturz', su cui la chitarra costruisce poi architetture strumentali sempre nuove. Grazie alla registrazione come jam in presa diretta, il lavoro è estremamente fluido: un vero viaggio tra atmosfere strumentali psichedeliche di delay e riff caleidoscopici e groovy (ascoltate la opening “Nebel”, come esplode dal minuto 4 in avanti; o le ritmiche veloci di “Relief”, soprattutto nel finalone da headbanging), tra arpeggi soffici e distanti, costruzioni prog, immense aperture di crash e distorsioni (“Wüstenwind”), lunghe improvvisazioni e calde sonorità avvolgenti. Indimenticabile il main riff di “Lichtung”, a costruire una connessione naturale tra la tradizione stoner americana (Karma To Burn, Pelican, ma anche certi Kyuss) e il kraut rock di Can e Color Haze. Misuratissimi i due interventi vocali da guest, nel finale di “Relief” e nella coloratissima “Sonne” – con una voce femminile che canta in lingua tedesca tra partenze e ripartenze della musica. Se anche voi rimpiangete una certa naturalità della musica, la capacità di far immaginare scenari solitari e viaggi spaziali, la tecnica finalizzata all’emozione, la dinamica e i lunghi delay, pur senza rinunciare all’aspetto più groovy, rock e ai riff spaccacollo – spolverate i vostri bong e non perdetevi questi 60 minuti di meraviglia tedesca.(Stefano Torregrossa)

(Gebrüllter Schall - 2015)
Voto: 90

https://www.facebook.com/MotherEngineRock

venerdì 3 luglio 2015

Die Like Gentlemen - Five Easy Lies

#PER CHI AMA: Sludge Doom/Stoner
Che stoner e sludge siano generi particolarmente di moda (almeno da quando gli ultimi Queens Of The Stoneage e Mastodon li hanno fatti conoscere al mondo, facendo inorridire i puristi) è un dato di fatto: per questo motivo sono sempre scettico di fronte a nuovi lavori di questo tipo. Scetticismo che però scompare al primo ascolto di questo secondo lavoro del quartetto di Portland dei Die Like Gentlemen, capaci di prendere il meglio del genere e mescolarlo in modo inedito e davvero figo. Poco più di mezz’ora di ascolto per cinque brani: 'Five Easy Lies' è un lavoro veloce ma sempre tirato, potente, denso di idee, riff spaccacollo e un’attitudine per il groove davvero invidiabile. Dentro ci sono tutti i migliori riferimenti del genere: il songwriting dei Black Sabbath, i suoni e le idee folli dei Melvins; ma ci sono anche atmosfere più progressive, sonorità doom e, in generale, quella sensazione da costante pugno-in-faccia a volume esagerato che, ne sono certo, farà dei Die Like Gentlemen una macchina da guerra in sede live. Se la opening “Unstoppable”, tolta la veloce intro iniziale, è giocata in continua tensione tra la violenza tirata delle chitarre e una parte di basso-batteria che ricorda certi Tool, “Ahriss The Wizard” alza il tiro per portarsi su atmosfere più doom rette dall’ottimo lavoro di basso e chitarre, a sfornare un riff portante che difficilmente dimenticherete. In “Animals of Romance” la tensione aumenta: c’è meno rabbia si, ma molta più inquietudine grazie al tempo sincopato e la voce cantilenante, che presto evolvono in un’architettura doom-prog, fino a chiudere con una curatissima ninna-nanna semi-acustica. “Stray Demon” è il capitolo più stoner-rock di 'Five Easy Lies' – se non fate headbanging sul riff di apertura, non avete capito niente di musica: solido, diretto, senza fronzoli, è il brano più corto e immediato del disco. Chiude “Hidden Switch” che, dopo il lento crescendo iniziale, si sposta su coordinate sludge-metal più classiche, con lunghi assoli ed epici passaggi sui timpani della batteria. 'Five Easy Lies' alla fine è un disco che lascia molto spazio agli strumenti, pur potendo contare su una voce di grandissimo spessore e pregio. Adam Alexander fa infatti un lavoro eccellente dietro al microfono: ricorda a tratti il miglior Neil Fellon dei Clutch, ma con una capacità di destreggiarsi tra limpide voci urlate e potenti ruggiti gutturali metal che danno colore e profondità ad ogni brano. Un piccolo capolavoro, supportato da una produzione più che egregia (erano mesi che non sentivo un basso così pesante, presente e distorto), una sola cosa non capisco, ossia perché i Die Like Gentlemen non abbiano già un’etichetta a promuoverli in tutto il mondo. Nell’attesa, però, non fatevi scappare questo ottimo lavoro. (Stefano Torregrossa)

(Self - 2015)
Voto: 80

domenica 7 giugno 2015

Ølten - Mode

#PER CHI AMA: Instrumental/Sludge/Post-metal, Cult Of Luna, The Melvins
Per inquadrare il sound degli Ølten, non si può che procedere per associazioni: immaginate i Red Fang o i vecchi Mastodon alle prese con un album strumentale; pensate ai Cult of Luna strafatti di erba che splittano con i SunnO))); immaginate i Pelican che suonano i Karma to Burn al rallentatore con la strumentazione dei The Melvins. Le sonorità sono quelle tipiche dello sludge (non mi stupirei se il batterista, in cameretta, avesse il poster di Dale Crover alle pareti: sentite il drumming di “Ogna”), finalizzate però a un post-metal strumentale sporco e oscuro, inquietante, lento e ossessivo. Il trio svizzero è al secondo disco, e la loro maturità è facile da percepire proprio nelle scelte essenziali di songwriting: un timing minimal concentrato sul 4/4 (con l’eccezione dell’ipnotica “Mamü”), su cui le chitarre e il basso costruiscono architetture di grande atmosfera, con la complicità delle pesanti distorsioni e dell’accordatura bassissima. Il vecchio trucco del post-qualunque-cosa – momenti pieni e veloci alternati a cali di tensione – è usato con parsimonia, il che non può che essere un pregio. Al contrario, gli Ølten prediligono i crescendo, gli arpeggi dissonanti e l’ossessività del riff. Non mancano episodi più orientati al doom costruiti su un basso dal suono quasi elettronico (“Güdel”), o momenti più drone-metal come nell’opening “Bözberg”. Interessante la doppia versione della lunga “Gloom”: come brano strumentale e come unico brano cantato, con l’inserto dell’ospite Tomas Lilijedahl, che urla come un dannato sui muri sonori degli Ølten. “Gloom” è in effetti il vero capolavoro dell’album, con i suoi 10 minuti di incedere apocalittico, colonna sonora perfetta per un mostro tentacolare che emerge dai più oscuri abissi sottomarini per divorare il mondo. Un disco ben fatto e ben prodotto nella sua ruvidezza sludge che però – ed è un dato di fatto – non dice nulla che non sia già stato detto da altri. Un lavoro che, pur dimostrando pienamente la personalità della band e pur essendo più che piacevole da ascoltare, resta pur sempre non così originale. (Stefano Torregrossa)

(Hummus Records - 2015)
Voto: 65

https://www.facebook.com/oltenband

lunedì 1 giugno 2015

Nerv - Vergentis In Senium

#PER CHI AMA: Mathcore, Postcore, The Dillinger Escape Plan, Converge
Immaginate un album lineare, con ritornelli definiti, tempo in quattro e accordi catchy. Ecco: ora buttate tutto nel cesso, perché il primo full-lenght del quartetto francese Nerv è l’esatto opposto. Solo sette brani, ma talmente densi da lasciare il fiato corto al termine dei 40 minuti di durata. La forma canzone dei singoli pezzi è masticata e rimasticata più volte, fino a lasciare una struttura flessibile, dinamica, che raramente si spreca in reprise di ritornelli o strofe. Il tempo stesso diventa un gioco per i Nerv che tagliano, spezzano, aggiungono, dilatano, modificano ogni battuta fino alla completa destabilizzazione del pezzo (la splendida opening “Cathars”, “Martyr”). Velocità e rabbia, distorsione e inquietudine, follia e assenza di equilibrio. Le coordinate del quartetto sono quelle del math-core e del post-core, ma c’è di più dei già noti The Dillinger Escape Plan. È una musica più matura, se vogliamo, oscura e violenta, ai limiti della schizofrenia, che se disdegna la melodia in maniera metodica – sono le dissonanze e le progressioni di accordi inusuali a farla da padrone in 'Vergentis In Senium' –, non rifiuta invece influenze più tipicamente math-metal (“Tortures”) e lucidissimi momenti sperimentali di follia (sentite il sassofono tagliente del capolavoro “Savonarole” o l’inquietante chiusura acustica di “Suffer”). La voce, rabbiosa, ruvida e disturbata, può forse essere l’unica nota noiosa sulla lunga distanza, ma è questione di un attimo, persi come si è a seguire l’intera band in questo incubo sonoro solo apparentemente senza capo e coda. Un disco difficile, una grande prova tecnica e di composizione, perfettamente prodotto e confezionato: un gioiello per chi ha voglia di ascoltare qualcosa di nuovo. (Stefano Torregrossa)

(Self - 2015)
Voto: 75

mercoledì 8 aprile 2015

Pauwels - Elina

#PER CHI AMA: Math Rock/Noise, Hot Head Show
Mettiamo subito le cose in chiaro: questo non è post-rock. Non c’è un briciolo di malinconia, non c’è la tristezza cosmica di chi sublima riflessioni e sofferenze in lunghe cavalcate strumentali, non c’è quel senso di distacco, di inquietudine, di etereo respiro dell’universo. Questo disco è un concentrato di follia, di furioso e terrificante ottimismo, di incoscienza sotto acidi: è caos puro, imbrigliato in forma-canzone da cinque francesi psicopatici che suonano come rockabilly-punk strafatti di adrenalina. Gli Hot Head Show dell’istrionico Sean Copeland sono il primo riferimento che mi viene in mente, per via della costante tensione esplosiva tra le chitarre (potenti ma mai troppo distorte) e le ritmiche di batteria (singhiozzanti, veloci, dinamiche). Ma ci sono anche i Melvins di 'Houdini' nell’attacco groovy del basso in “Wig”; c’è qualcosa dei vecchi One Dimensional Man in “La Une”; immaginando un basso slappato al posto delle chitarre, è impossibile non sentire i Primus di 'Sailing the Seas of Cheese' nascosti dietro la splendida “Ouspenski” o dietro il continuo crescendo saltellante di “Pendule”. Il disco è giocato quasi esclusivamente su frequenze medio-alte, ma non fa affatto rimpiangere suoni più cupi: la botta in piena faccia qui non manca – sentite il marziale finale ipnotico di “Beelzebub” – e fa venire voglia di spogliarsi nudi e prendere a pugni i passanti ululando versi senza senso. Atmosfere, tempi, raddoppi, tonalità: niente è scontato con i Pauwels, che rendono tutto dispari, dissonante e imprevedibile con una spontaneità rara, sempre a metà tra il math-rock, il jazz, il rock’n’roll vecchia maniera e il punk-noise. La produzione, intelligentissima, lascia il giusto spazio ad ogni strumento, creando una bella sensazione di presenza schizofrenica ma molto naturale, grazie anche ad un leggero white noise onnipresente nelle pause tra i brani. Un’ultima parola per l’artwork: 300 pezzi numerati per un packaging di gran classe, un pieghevole su cui si sviluppa un’inquietante illustrazione che racchiude riferimenti esoterici (volti, insetti, polipi, figure antropomorfe, corpi dissezionati – c’è persino Chtulhu) ispirati allo scrittore dell’occulto Louis Pauwels. Un disco che segna un nuovo capitolo nel genere: assolutamente imperdibile. (Stefano Torregrossa)

(October Tone - 2015)
Voto: 90