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giovedì 22 novembre 2012

In the Silence - A Fair Dream Gone Mad

#PER CHI AMA: Progressive, Opeth, Porcupine Tree
Primo lavoro per i californiani In The Silence, uscito ad aprile di quest'anno. Si identificano come una progressive/atmospheric metal band, e certamente sono degni di nota. Si inizia il nostro tour con l’introversa ma energica "Ever Closer": una delizia per le mie orecchie già dalle prime note, la song gioca molto con le sue diverse sfumature, catturando i miei sensi. Insieme a "Serenity" ed "Endless Sea", potrebbe ricordare gli Opeth, mentre l'americanità si avverte soprattutto nel largo uso delle chitarre così graffianti. "Seventeen Shades" inizia invece dolcemente, quasi sottovoce: se prima ho citato gli Opeth, ora mi permetto di indicare i Porcupine Tree come potenziale punto di riferimento dei nostri. Le parti armoniose ricordano molto infatti la band di Steven Wilson e soci, soprattutto nell’utilizzo della chitarra classica, tastiere e batteria, suonate ritmicamente. Di notevole impatto poi, l'assolo di chitarra elettrica. "Beneath These Falling Leaves" è la traccia acustica e maggiormente progressive di tutto l'album. La prima immagine che mi si forma nella mente, è un paesaggio pieno di colori che sfumano dall'oro al rosso, mentre il vento soffia tra i miei capelli: intrisa di malinconia, è il brano perfetto per essere canticchiato in un pomeriggio di freddo autunno, mentre si passeggia. Verso la fine il motivo cambia e mi ridesto improvvisamente a causa di un sound che diviene quasi sperimentale: una bella sorpresa. "Close To Me" è l'anima strumentale, soave e mesta, dove la mente spazia e si svuota, lasciandomi tuttavia una sensazione di conforto nel cuore. "All the Pieces" è potente fin da subito, cantabile e matura: il canto si inserisce perfettamente in tutto il contesto, diventando una cosa sola con il resto dell'ensemble. "Your Reward" è l'ultima canzone di questo primo entusiasmante lavoro. Assolutamente da non perdere è l'uso astratto della chitarra, capace di toccare qualsiasi livello d'intensità. Non poteva mancare un grido liberatorio verso la fine. Un grande plauso a questo neonato gruppo statunitense, che ha sfornato una perla di rara bellezza e ottima colonna sonora per i miei viaggi in treno (e in macchina). (Samantha Pigozzo)

(Self) 
Voto: 85

mercoledì 7 novembre 2012

Hypnotheticall - Dead World

#PER CHI AMA: Progressive (tanto), Power (pochissimo)
Gli italianissimi (e vicentini) Hypnotheticall si sono formati nel lontano (o vicino?) 1999, dall’incontro di tre elementi: Francesco Dal Barco (voce), Giuseppe Zaupa (chitarra) e Paolo Veronese (batteria). Dopo l’uscita del demo “In Need of a God?” nel 1999, a pochi anni di distanza ecco che vede la luce anche il primo lavoro (ufficioso, oserei chiamarlo) “Thorns”. Presisi una pausa di riflessione, nel 2005 tornano con dei nuovi membri: Mirko Marchesini (chitarra), che poi rimarrà fino ai giorni nostri. Uscito un altro lavoro nel 2006, e rimaneggiando le vecchie opere, si arriva all’anno in cui altri due elementi entrano nella band: Luca Capalbo (basso) e Francesco Tresca (batteria). Poco prima dell’uscita del vero e proprio album “Dead World”, Paolo Veronese esce dal gruppo. Rimarrà comunque citato nel booklet in quanto autore dei brani. La title track si apre con influenze industrial: suoni distorti, drum machine e aria inquietante. Dopo poco fanno breccia anche archi che aprono la strada alla chitarra forte e chiara. “The Eternal Nothingness of Sin” ha un ritmo incalzante ed aggressivo, mentre la batteria accompagna in modo scandito le parole, con qualche rullata qua e là. Tutta la canzone è un tripudio di batteria e chitarra, mentre la voce di Dal Barco rimane sempre grintosa. Nei ritornelli hanno inserito anche dei cori, che sollevano l’udito da un ritmo che rischierebbe di essere pesante. Verso l’ultima parte il ritmo diventa quasi acustico, rilassato: da li a poco si torna alla grinta iniziale, ma con una vena un po’ più melodica. Il loro primo singolo, “Fear of a Suffocated Wrath”, mostra una vena più melodica rispetto al brano precedente, ma comunque di forte impatto, avvicinandosi più ad un progressive metal condito da qualche scream, molto piacevole da ascoltare e cantare. “No Room to Imagination” cambia le regole in tavola: ritmo veloce, batteria pesante e la voce tornata al livello di “The Eternal […]”. Perfetta per essere cantata live, la song racchiude una perla di assolo di batteria+chitarra che si può trovare in altre band power-melodic: difficile tenere ferma la testa. “Heaven Close at Hand” sfiora leggermente l’industrial, con un intro di chitarra e batteria che ricorda (ma molto vagamente) le ambientazioni delle maggiori band americane. Tutto il brano è un vortice di diversa intensità: se all’inizio era incalzante, durante il cantato rallenta per accompagnarlo, tornando poi veloce e tosto. Degno di nota anche il massiccio uso della batteria in sottofondo. “Hi-tech Loneliness” mi ricorda un po’ gli Incubus, con la voce in primo piano e la chitarra appena pizzicata. Tutta la traccia si sviluppa su questo gioco, creando un ritmo sincopato. Molto interessante è anche l’assolo di chitarra, pieno di passione: un tributo al dio rock di stampo classico, dove la testa si reclina indietro e gli occhi si chiudono, assaporando nota dopo nota. “Lost Children” riprende il sound del singolo, con all’interno una piccola e breve occhiata alla musica mediorientale (a metà brano): si odono infatti note di sitar, e di un altro strumento a corde che viene suonato anche accompagnando la danza del ventre. Chiusa la parentesi arabeggiante, si torna al puro progressive dei Dream Theatre, i quali sicuramente avranno ispirato il nostrano ensemble. Questa è anche la prima canzone che si conclude sfumando, anziché chiudendo direttamente; probabilmente per accompagnare l’ultima traccia, la strumentale, “Bloody Afternoon”. Qui la chitarra torna nuovamente pizzicata ed acustica: mi immagino Zaupa seduto davanti ad un camino, in una giornata fredda e piovosa, mentre imbraccia la chitarra ed inizia a suonarla ispirato dal mood di quel momento; ne esce questa canzone calma e profonda, come racchiusa in un mondo tutto suo. Più che aver ascoltato un album, mi pare di aver fatto un viaggio, esplorando le diverse sfumature che il progressive può dare. Per essere il loro primo lavoro discografico, non è affatto male anche se ha bisogno di svariati ascolti per essere apprezzato pienamente. Ora non resta che aspettare il prossimo lavoro. (Samantha Pigozzo)


(Insanity Records) 
Voto: 75

lunedì 22 ottobre 2012

Absynth Aura - Unbreakable

#PER CHI AMA: Gothic Rock, Lacuna Coil
Di questa band poco si conosce: si sa che sono modenesi, che questo è il loro primo LP, uscito nell’ottobre 2011, e che all’inizio di quest’anno sono stati in tour con gli Arthemis. Tutte le loro piattaforme si fermano tra la fine 2011 e gli inizi 2012: spero pertanto, aggiornino presto il tutto con qualche nuovo lavoro in cantiere. La prima cosa che risulta evidente è la loro forte somiglianza ai Lacuna Coil, soprattutto nella voce di Claudia Saliva: giusto un pizzico più acuta, ma incredibilmente simile a quella di Cristina Scabbia, il che lo rende il loro punto di forza. Il sound di “Believe Me” è incisivo, energico e ritmato: ti porta addirittura a ballarlo in certi momenti. La voce di Claudia, come già detto, è aggressiva e dolce al tempo stesso. “Desert Flower” tende ad essere più trattenuta: la voce si sposta di un gradino verso il basso, diventando più suadente, mentre il ritmo rimane comunque incalzante, sebbene più rallentato e spostato in sottofondo. Degno di nota è l’assolo di chitarra e la tastiera, fulcro di questa traccia: ne risulta una parentesi grintosa, che equilibra i due opposti. “That’s Why You Die” ha un inizio melodico, che accompagna silenziosamente la voce arrabbiata ed acuta, senza però mai sovrastarla: probabilmente un punto negativo, poiché le reali potenzialità non riescono a emergere in toto. “Smile” potrebbe essere definita la tipica “botta di zucchero”: qui emerge tutta la vena pop dei nostri, dove le immagini che mi si figurano nella mente sono fiori colorati, prati verdi, sole splendente e colori sgargianti (un po’ distante dai miei gusti, ecco), ideale per le feste di compleanno. Fortunatamente i toni cambiano in meglio con “Understand my Fight”: ritmo prepotente, voce portata all’estremo e chitarre al loro (quasi) apice. Una boccata d’ossigeno per gli amanti del rock. Da notare il finale, dove la batteria riesce a trovare un po’ di sfogo. Tutto si può dire di questo album, ma non che sia ripetitivo: “Looking for the One” è la tipica ballad romantica, dove la voce si fonde con il pianoforte quasi in stile unplugged. Il risultato è la seconda traccia calma e pacata di questo lavoro. Giriamo pagina con “Life”: chitarra, tastiera e basso si uniscono formando un flusso di note vigoroso che risveglia dal brano precedente. Addirittura questa traccia presenta alla voce, Fabio Dessi degli Arthemis, dando una nota più metallara alla song. “The Fire in My Eyes” cerca di proseguire sul sentiero battuto con la canzone precedente e vi riesce in parte: il loro punto di forza è anche il punto di debolezza, che non permette di poter esplorare anche i lati più oscuri dell’hard rock. Ci si avvicina alla fine dell’album con “Will is Power”: che appare il proseguimento di “Believe Me”. Probabilmente diventano i cavalli di battaglia nei live. Con “Unbreakable” si protrae la vena pop/rock concentrata più che altro sulla voce, lasciando completamente in secondo piano tutti gli strumenti. L’unica cosa ad emergere è il guitar solo, tutto il resto è sovrastato dalla voce capace ed energica della vocalist. A chiudere è una bella cover di “Zombie” dei Cranberries: il risultato, molto simile a quella di Dolores O’ Riordan e soci, è orecchiabile e piacevole, anche se manca di tutto il sentimento che questa canzone dovrebbe suscitare. Concludendo, questo è un lavoro che può piacere e non: abbastanza acerbo come sound, molto professionale a livello di cantato, visto che si gioca moltissimo con le diverse tonalità della cantante che dimostra sicuramente grandi doti canore. Aspetto news sulla band e su altri lavori in cantiere. (Samantha Pigozzo)

(Logic(il)logic) 
Voto: 70

sabato 18 agosto 2012

Last Mistake - Living Again

#PER CHI AMA: Hard Rock, Scorpions
Altra band italiana, formatasi in quel di Formia nel 1998, questo è il loro secondo lavoro, dopo “Last Mistake” uscito nel 2007; aggiungo solo che non ha nulla da invidiare ai nostri cantautori di vecchio stampo. "Escape" si apre con note sintetizzate e chitarra distorta, per introdurre l'ascoltatore ad un viaggio nei meandri del rock più puro. "Living Again" ricorda in modo impressionante il sound degli Scorpions, con la voce tendente all'acuto e chitarre a tutto spiano, per un tripudio di puro rock: il ritornello tende ad essere molto melodico, con un risultato sorprendente ed un assolo di chitarra ricordante i Queen, band da cui hanno preso ispirazione. Con "Alive" il sound si fa più aggressivo, dalle sonorità più profonde, ma mantenendo sempre un tocco melodico. In sottofondo si possono anche udire note di synth, che danno un'impronta anche orientaleggiante al brano, rendendolo così particolare che sarà impossibile dimenticarlo. "Locked" ha un'impronta più progressive, con ampio spazio alle tastiere e alla chitarra acustica: impercettibili sono le note “spagnoleggianti”, ma aiutano a dare un tono più ricco e vario al brano, senza farlo scadere nel banale. "Time to Shine" ricorda fortemente i Pink Floyd, con le chitarre suonate delicatamente, la voce che si accompagna al sound e la chitarra distorta che sottolinea il tono di voce usato, accompagnato anche da tocchi di pianoforte. L'assolo di tastiera riprende il leit motiv del progressive rock, rendendo questa traccia una perla di rock italiano. "Ladytime" riprende il sound degli Scorpions, ma aggiungendovi anche elementi orchestrali: il risultato è un brano solenne, semplice e vario al tempo stesso, che si avvale di nuovi elementi man mano che procede: una sorpresa dentro la sorpresa, insomma. Persino la voce, che sembra troppo melodiosa, con la parte orchestrale, si adatta perfettamente e non risulta pesante all'ascolto. "I Will Live There" invece è potente, più vicina al metal che al rock puro, con note di synth che supportano gli altri elementi della band creando un brano di difficile catalogazione, ma a mio avviso di una spettacolarità sorprendente: questa è una delle tracce dell'album che preferisco, con alla fine batteria e tastiere che danno il meglio di se stesse. "Your Song" è più acustica, con la chitarra classica e il pianoforte all'inizio, con chitarra elettrica appena percettibile e batteria che riprende le note di “Time to Shine”. Verso il ritornello poi la chitarra elettrica si fa sentire di più, per poi tornare dietro le quinte. "Push" presenta il cantato in falsetto, mentre le tastiere sono in primo piano: il risultato è un brano molto leggero, da synth-pop degli anni '80, creando un'atmosfera irreale e a tratti ilare, ma senza dimenticare un puro assolo di chitarra. "Fate" è energica ed intensa, con le keys portate al picco più alto mentre chitarra, basso e batteria accompagnano il tutto con una verve più stile Europe. Arriviamo, purtroppo, alla fine del viaggio con "The Silent Room": pianoforte per cominciare, atmosfera inquieta, voce bassa, un pizzico di malinconia ma un favoloso assolo di chitarra in puro stile Guns'n'Roses, che lo rende singolare. È con delle note di pianoforte in scala che si chiude questo viaggio nelle band che hanno segnato la storia del rock. Per concludere, questo è un lavoro da non lasciarsi scappare, soprattutto per la varietà di suoni, di tributi e di cambi di ritmi che presenta: per i nostalgici del progressive rock, consiglio vivamente questo acquisto: non ve ne pentirete. Sono curiosa di sapere come sarà il loro nuovo lavoro. (Samatha Pigozzo)

(Uk Division Records)
Voto:75
 

Land of Mordor - Still Awake...

#PER CHI AMA: Death/Power Metal
Nel mondo del death metal spagnolo, ho trovato una piacevole sorpresa: si tratta dei Land of Mordor (saranno mica dei fan di Tolkien?), band non più tanto giovane (si è formata nel 2001) che con il loro primo ed unico lavoro, "Still Awake...", ci delizia con il loro album, dall'ascolto molto molto interessante ed entusiasmante. "Still Awake..." si apre con una piacevolissima sinfonia di batteria martellante, chitarre portate all'estremo ed una dolce voce roca e cavernosa, che rende il tutto più piacevole all'ascolto. "Crimson Peace” è un brano pregno della miglior rabbia e in grado di scatenare tra i migliori headbanging: urla, furia, ritmi al cardiopalma sono le parole più corrette per definire questo brano: direi che si comincia alla grande, grazie anche alle atmosfere epiche degne delle opere di Tolkien. “Russia” è già un po' più melodica rispetto alla prima, ma solo all'inizio: dopo poco si torna al ritmo serrato iniziale, sebbene alternato da pause spaesanti e da atmosfere grandiose e fantastiche, in cui la mente non può fare a meno di immaginare le lande desolate della trilogia dell'Anello e intraveda le cariche di numerosi eserciti in marcia: all'attacco cavalieri! Dopo essere stata trasportata (forse anche con troppa enfasi) dal secondo brano, con “Unholy Terror comes” si torna al death più puro, con qualche rimando ai suoni più datati, ma dall'impatto devastante: qualcuno mi tenga ferma, che con i Land of Mordor è difficile stare seduti immobili a scrivere. Sono convinta che dal vivo possano creare un oceano in tempesta. Assoli di chitarra assistiti dalle keys (con tanto di nota modulata) rendono ancora più viva questa traccia, che riesce addirittura a portare l'ascoltatore ad imparare i ritornelli e a cantarli mentre i capelli fendono l'aria. Con “Darklord (the Executioner)” il ritmo si prolunga per altri cinque minuti, mentre la tastiera si prende tutto il palco ed accompagna la chitarra, riuscendo a meraviglia a tenere un ritmo palpabile: la voce di Alex Yuste è sempre cavernicola, il che è un bene (una voce in falsetto avrebbe fatto sbellicare dalle risate). Un pensiero per le femminucce c'è sempre: dopo tutto il death metal non è ascoltato solo dai maschietti. Per questo motivo, in “A Kiss of Hope” troviamo la special guest Elisa C. Martìn. Ma il nome non mi è nuovo... infatti la si trova anche in un'altra band, sempre recensita da me: i francesi Fairyland. La sua voce candida e delicata, associata a quella un po' più brutal, ricorda molto l'accoppiata “bene-male”. L'assolo di pianoforte è l'unico momento di tranquillità che troviamo nell'album: gotevelo finché potete, perché poi penserà Alex Yuste a destarvi dal momento di relax ritagliato. Il brano, però, si chiude con note soavi di pianoforte. L'album si conclude con un'altra versione di “A Kiss of Hope”: più corta (senza l'assolo di pianoforte), per chi magari non ama molto la quiete di questo strumento. In conclusione c'è ben poco da dire, se non di consigliare questo acquisto e di tenere controllata questa band: non vedo l'ora di poter ascoltare il loro nuovo lavoro. (Samantha Pigozzo)

(Alkemist Fanatix)
Voto: 80
 

giovedì 9 agosto 2012

Morgana - Rose of Jericho

#PER CHI AMA: Heavy Metal
Terzo album di questa artista italiana, e, come menzionato da più parti, "Rose of Jericho" viene indicato come il suo miglior album. Avendo un background heavy metal, mi sarei aspettata un lavoro sullo stile Nightwish (i “nuovi” Nightwish, perché dubito sinceramente che un altro connubio lirica-melodic metal di Tarja Turunen possa riformarsi): invece l’album pecca di emozioni, di incisività. Tutte le canzoni sono musicate da Tommy Talamanca dei Sadist, tra cui spicca anche una cover di “Bang Bang” di Sonny Bono. Il sound che ne deriva è puro e semplice heavy metal, quasi come se fossimo tornati indietro nel tempo: la cosa che secondo me un po’ stona è proprio il tono di voce, troppo tirato verso il basso e con poche sfumature (come ci si aspetterebbe invece da una voce femminile, capace di giocare con i bassi e gli acuti). Per il resto, il lavoro si rivela tedioso e abbastanza ripetitivo: oserei dire anche superficiale, senza carattere. Da notare "Golden Hours", che sembra creata intorno alla voce e la sottolinea maggiormente, ma con gli strumenti costantemente tenuti leggeri. In "Lady Winter" qualcosa sembra cambiare, ma è solo una mera impressione: sebbene l’inizio sia più tosto del solito, tutto sfuma non appena il canto ha inizio. Solo verso metà si sente un po’ di cattiveria emergere, ma è tanto rinchiusa nel tono di voce troppo spesso tenuta a freno. "610" e "I Will not Turn Back" probabilmente sono le canzoni da cui traspare più malinconia rispetto alle altre tracce, visto che il suono si affida a lunghi assoli di chitarra elettrica nella prima, e note di pianoforte nella seconda. La già citata cover di "Bang Bang" è buona, anche se sembra più parlata: mi sarei aspettata una voce più suadente, capace di entrarti dentro, anziché una versione semi urlata. Propongo di provare a registrarne una versione più sensuale, magari aiutandosi con del buon vino rosso che riscalda il corpo e l'anima. "… And Kickin" è l’unico brano strumentale, in cui emerge la chitarra elettrica (con mille sfumature diverse, mentre la mano sinistra scivola arrivando agli estremi) e la batteria la segue a ruota: si direbbe quasi una delle migliori di tutto l’album. Tutto si conclude con una versione acustica di "Lady Winter". Finalmente ho capito che cosa riuscirebbe a darle un minimo di notorietà in più: un album di sole canzoni acustiche, che siano di Morgana o cover, ma senza altri strumenti che “cozzino” con il suo tono di voce. (Samantha Pigozzo)

(Nadir Music)
Voto: 50

mercoledì 8 agosto 2012

Souldeceiver - The Curious Tricks of Mind

#PER CHI AMA: Swedish Death, Soilwork
Questa volta ho voluto provare ad ascoltare il cd senza nemmeno leggere la biografia della band, affidandomi esclusivamente al mio istinto: a giudicare dal ritmo serrato e dalla voce furiosa, sembrerebbe stessi ascoltando un lavoro di una band scandinava (vedi Illdisposed o Meshuggah). Invece si tratta di un ensemble totalmente nostrano, forte, permettetemi il termine, cazzuto; inserire il cd nel lettore il lunedì mattina ti carica completamente (e spero vivamente mi porti a terminare la settimana in fretta e in forze). Parlando brevemente della band, si può dire che questo sia il loro secondo lavoro (senza contare il demo di 5 canzoni nel 2007, anno della loro fondazione) e il primo introducendo l’uso della chitarra a 7 corde, caratterizzato da parti di death metal e altre di thrash. “Hundred 25”, come detto precedentemente, ha un ritmo incalzante che non lascia un secondo di respiro: doppia grancassa martellante, voce growl, chitarre che sembrano lame di un frullatore. “My Closet Embrace”, invece, si distingue dalla precedente per le chitarre che presentano un alone di melodia, con un assolo nella prima parte del brano: per il resto è aggressiva e cattiva quanto basta. In “Suiciding” le chitarre cambiano registro e diventano malinconiche, accompagnando in modo eccelso il growl (ma come fa a tenere lo stesso tono per tutte queste tracce? Sarei sinceramente curiosa di sentire la sua vera voce): vuoi per rilevare il tema centrale, vuoi anche per cambiare in modo da non scadere nella noia, ma l’assolo in sottofondo è veramente notevole. “Mary Ann” inizia con dei suoni distorti presi da una televisione (ricorda tanto le scene degli horror di serie B, dove la tv è sintonizzata su un programma assurdo quanto inquietante, magari in bianco e nero): man mano che prosegue, il growl di Francesco Meo tende addirittura a spostarsi sul melodico (e qui mi vengono in mente i primi Korn, se non per la grancassa come schiacciasassi), con un altro assolo di Alessio Rossano davvero in forma smagliante. In “The Pressing” fanno capolino le tastiere: non hanno un grande spazio, ma creano un’atmosfera sospesa tra l’incubo e realtà (è dall’inizio del lavoro che mi sto immaginando un film horror/splatter che possa accompagnare quest’album): altro assolo del chitarrista Alessio Rossano, prima di una rullata di Alessio Spallarossa (che soprannominerei anche “spacca braccia”, da tanta furia palesata). “Phase C” è solo strumentale (e ci credo, anche il cantante dovrà riprendere un attimo fiato e voce), ma rimanendo sempre con un ritmo veloce e potente. “Icon of Your God” e “Relapse” tendono ad essere meno ansiose, ma più profonda: sebbene il ritmo rallenti, ciò non cambia l’autorevolezza e la cattiveria del combo. Con “Bone Sacrifice” le cose prendono una piega più liberatoria: la batteria è portata all’estremo, mentre la chitarra di Luca Mosti gioca sapientemente con la sette corde, a volte pizzicando e altre volte suonando a fondo. Il tutto mentre Francesco Meo dà fondo alle sue profonde capacità canore. L’album non poteva terminare senza un’altra instrumental track: qui il pianoforte si rende protagonista, ricreando l’atmosfera cupa e inquietante già sentita nel sesto brano (e cercando di placare gli animi tempestosi che hanno caratterizzato l’intero lavoro). L’unica pecca è la lunghezza di “Eternally”: 2.03 minuti di nulla, come se avessero voluto aggiungere qualcosa all’ultimo secondo, ma con un risultato inconcludente. Non sarà però questo a cambiare la mia votazione, comunque positiva, anzi, ci sono alte probabilità che il prossimo lavoro sia addirittura migliore e un maturo. (Samantha Pigozzo)

(Nadir Music)
Voto: 70
 

King of Coma - King of Coma

#PER CHI AMA: Noise, Industrial
Di questo one-man-band si conosce gran poco: dal sito della sua etichetta discografica, emerge che è tedesco e la sua peculiarità sta nel fatto di essere un “noise mongering one man band” ; in italiano lo si può definire uno “smanettone di rumori”, anche perché tutti i brani sono sì strumentali, ma con un’accozzaglia di rumori messi assieme, senza un filo logico. Sempre dal sito, possiamo leggere che si tratta di un album di 21 minuti, composto da 7 tracce di durata varia (si va dai 0,31 minuti della traccia più breve ai 4,21 minuti della più lunga) che assomiglia più ad un giro in ottovolante sotto acido: non c’è definizione migliore, in quanto è totalmente incomprensibile e psicotico. Ma non il psicotico violento, bensì un psicotico introverso, dedito più al trip individuale. Una delle cose curiose rispetto a questo primo lavoro di Michael Van Gore, è che le tracce non hanno titolo: semplicemente si susseguono una dopo l’altra, caratterizzate da ogni tipo di rumore (da suoni metallici, come se stesse battendo il ferro su un’incudine, a rumori d’intermittenza, a qualche nota industrial appena accennata con la drum machine): provando a chiudere gli occhi, sale un senso di vertigine e d’inquietudine degna del migliore incubo. Sembra strano, ma scrivendo con il cd in sottofondo ad un volume medio, aiuta parecchio a concentrarsi: le sensazioni sono talmente mutabili da secondo in secondo, che non basterebbe un’intera giornata per decantarle. Decisamente consigliato per chi cerca un suono totalmente alternativo e impensabile nemmeno dalla mente più bacata che possa esistere. (Samantha Pigozzo)

(Self)
Voto: 70

domenica 8 aprile 2012

Heaven If - Introspectral

#PER CHI AMA: Power Metal e Progressive, Dragonforce
Altra band italiana, stavolta proveniente dalla vicina Milano: formatisi nel 2004, la loro musica può ricordare un'altra band del nostro paese, i Labyrinth, oltre ad accostarsi ai Dragonforce. Vediamo di approfondire meglio il loro primo lavoro, uscito nel 2008. “Liquid Circle” ha un suono piacevole, ma la voce tendente all'acuto, mantiene costantemente quell'aria di falsetto e dopo un po', annoia: i riff di chitarra e batteria si rivelano assai ripetitivi, anche se i “solo guitar” riescono a dare un po' di brio a tutto il brano. “Points of View” presenta un ritmo più veloce, con la chitarra che sembra animarsi, accompagnando bene la voce che spesso cambia tonalità, passando dall'acuto al grave. “Cassilda's Song” è invece meno veloce e più melodica, con la chitarra che funge da primadonna assieme al drumming, mentre la voce stavolta viene relegata in secondo piano anche se è tirata fino al massimo dell'acuto (ricordiamo che il cantante è un uomo, dunque è difficile poter sostenere note acute per molto tempo): soltanto verso la metà del brano, si ha una piccola inversione di tendenza sul ritmo, diventando più veloce e vivace. Il tutto si conclude con un assolo di chitarra molto interessante. “Passage” riprende il ritmo di “Points of View”, diventando quasi la sua copia, fatta eccezione per il falsetto molto più presente e per l'uso abbondante della chitarra distorta. “Behind the Lies” si apre con un sound più progressive, un ritmo più lento e l'immancabile voce che gioca ancora con i bassi e il falsetto. Questo, a mio avviso, è il brano più bello di tutto l'album proprio per la ricercatezza negli accordi e nel ritmo. “The Neverending Journey” ricalca le atmosfere ascoltate precedentemente, tenendo però in considerazione il filone ritmico di tutto l'album, e arrivando persino a ripetere gli assoli di chitarra e batteria. “Insomnia”, nella prima metà, è puramente strumentale: soltanto poi riprende gli stessi riff di chitarra e lo stesso ritmo dei precedenti brani. “Instru-Mental” è totalmente strumentale (come chiaramente descritto dal titolo), con un ritmo che ricalca le onde: dapprima è veloce, poi risulta più lento, per poi riprendere il motivo “allegro andante”, risultando una vera sorpresa per le orecchie. Con “The Reawakening” si arriva così alla fine di questo album: l'inizio acustico, ma poi, più avanti si procede col brano, noterete che di nuovo non presenterà nulla: né gli assoli, né il tono di voce, tanto meno il ritmo. Per quanto questa band abbia un potenziale nascosto, il fatto di voler rimanere sul power metal dopo un po' stanca: l'ascolto risulta pesante anche per un'appassionata di power-melodic come la sottoscritta, in quanto l'assenza delle tastiere si sente veramente tanto. In attesa di un nuovo loro lavoro, possibilmente più ricco di sperimentazioni musicali (e, perché no, magari di diversi stili in un unico album), ripongo questo primo album sullo scaffale, sperando presto di poterlo mettere a confronto con il secondo. (Samantha Pigozzo)

(New Music Distribution)
Voto: 50
 

domenica 18 marzo 2012

Domina Noctis - Second Rose

#PER CHI AMA: Symphonic Gothic Metal
Italianissimi, attivi dal 2001, i Domina Noctis possono essere l'alternativa più electro ai nostrani Lacuna Coil: la voce di Edera non ha nulla da invidiare a quella di Cristina Scabbia dei Lacuna Coil. “Second Rose” è il loro secondo lavoro, dopo “Nocturnalight” del 2005: un album energico, dinamico, come si può sentire fin da subito nella prima canzone, “Electric Dragonfly”, song dotata di suoni elettronici, ma anche di grinta e vitalità, grazie anche al ritmo veloce e alla voce dolce e grintosa al tempo stesso. In “Untold” l'animo si placa un poco per diventare più cupo, ma senza perdere comunque la sua verve: la canzone si presenta malinconica, dolce e profonda, piacevole all'ascolto, con il ritmo che ti penetra nella mente per cui alla fine non è difficile non mettersi a canticchiare il motivetto. “Into Hades” si avvale parecchio delle tastiere, mentre Asher alla chitarra, Azog al basso e Niko alla batteria accompagnano la dolcezza della voce femminile, inducendo comunque un headbanging sfrenato: se il loro scopo era quello di colpire, certamente hanno colto nel segno. “Because the Night” è la classica cover del pezzo di Patty Smith che, a mio avviso, è veramente azzeccata: questa è una delle cover meglio riuscite, da cantare e magari mettersi pure a ballare. Arriva il turno di “Lamia” e la voce viene portata ad una tonalità più alta del solito, senza stonature: questa è una delle tracce più semplici e leggere dell'album, ideale magari per chi vuole avvicinarsi al metal senza rimanere troppo schockato. “Sisters in Melancholy” riprende il sound iniziale, senza cambiarvi una virgola: verso metà le cose si fanno più toste e il sound acquisisce più aggressività, per terminare con un duetto batteria/chitarra. “Broken Flowers” ricalca il sound di “Lamia”, ma da metà in poi il ritmo rallenta e si fa più grave, mentre la voce diventa quasi sussurrata e il basso l'accompagna; Ruyen, alle tastiere, prende il sopravvento con un assolo dal gusto retrò. “Exile” si apre con un tono solenne: il cantato è pacifico, come del resto tutto il ritmo del brano; nella seconda metà del pezzo ecco un vibrante assolo di chitarra; il brano estranea, per un attimo fa scordare ciò che vi è attorno e porta lontano la mente, verso lande inesplorate. “The Mask” si avvale di sonorità orchestrali per dare un impronta più grandiosa al brano: con intervalli di chitarra acustica accompagnata da pianoforte, tutta la traccia diventa mesta, flemmatica, ma straordinaria, con la voce che viene portata ai massimi livelli giocando su tonalità sia acute che gravi: probabilmente un esame per vedere fino a che punto la voce può arrivare. Come ultima traccia vi è un'altra cover, più precisamente del brano di Sonny Bono “Bang Bang”: nonostante le molte cover, questa (esattamente come l'altra) è particolarmente riuscita, con la voce di Eden molto suadente e magica (decisamente migliore di quella languida cantata da Carla Bruni in uno spot automobilistico): un'ottima scelta per chiudere un album ricco di giochi vocali, di sensazioni ed emozioni che variano in base al ritmo variabile che ogni canzone presenta. In chiusura, ammetto che è stata una sorpresa sentire con quanto ardore questa band abbia registrato l'album: ha in sé una potenza che li porterà lontano, sicuramente da tenere d'occhio le loro prossime creazioni (magari avvicinandosi al symphonic metal). (Samantha Pigozzo)

(Black Fading)
Voto: 70
 

domenica 4 marzo 2012

Eskeype - Legacy of Truth

#PER CHI AMA: Death/Thrash grooveggiante
Concept album degli svizzeri Eskeype, release di quelle che lasciano il segno. Il sound della band del Canton Vallese, si può definire come death metal melodico, ritmato e profondo. Essendo il loro primo lavoro, bisogna ammettere che non è per niente male, anzi; di sicuro unirà diversi metaller (cosa non semplice, nel vasto universo metal). Prima di parlare dell’album, preferisco focalizzarmi sulla peculiarità della copertina: due pianeti, uno più scuro e l’altro un po’ più luminoso, uno accanto all’altro, in un universo nero come la pece, illuminato fiocamente da una luce azzurra di una galassia lontana. Il booklet contiene i testi con la foto dei componenti della band dentro un groviglio di cavi. Ma veniamo alla musica: si parte dolcemente, come in ogni prologo che si rispetti, con note di pianoforte: l’intenzione è di narrare una storia epica, ambientata su Andremid, un pianeta lontano, dove Acherus, il padre dell’eroe Frost, si troverà a combattere contro il cyborg Arachno, che assieme alle sue truppe hanno conquistato e sterminato la vita su quel pianeta. La prima traccia sottolinea la gravità dei sentimenti del protagonista, preparando l’ascoltatore ad un’avventura decisamente unica e particolare. La peculiarità dell’album, che salta subito all’orecchio, è che le canzoni si susseguono uniformemente: sembra quasi il flusso ispirato di un unico brano, il che può essere un bene o male in quanto tutti i capitoli sono suonati allo stesso modo, con lo stesso sound: se da un lato aiuta a concentrarsi sulla vicenda, dall’altro può apparire a tratti noioso. Il terzo capitolo (o terza traccia a dir si voglia), continua nella narrazione delle vicende del padre dell’eroe e dell’eroe stesso. Nel quarto movimento il ritmo si fa più serrato, con il protagonista Frost che si desta e inizia la sua battaglia, che sarà descritta nel nono capitolo (ma non prima di scoprire la città distrutta, ascoltare i capitoli 6-7-8). Andando avanti con l’ascolto, la somiglianza con il metal scandinavo si fa sempre più preponderante: il ritmo cambia di frequente, con l'ensemble che arriva addirittura ad avvalersi di un violino, suonato dal vocalist in “Exposure of a Nation (Scartezia)” e in “A New Reason to Live”. L’ausilio del violino non compromette il sound che si avvicina parecchio a quello scandinavo, anzi. Grancassa, rullante e growl/scream, fanno da padrone dall’ottava traccia, “A Night in the Unknown”, fino alla decima “Resurrection for the Ray of Light”, sottolineando musicalmente il pathos che l’epica battaglia comporta. “The Way of Silence” cambia le carte in tavola: silenzio, interrotto da una chitarra acustica e dal violino, con la voce fattasi melodica e pulita; quasi un’oasi di pace in tanta energia espressa al meglio. “The Deathmachine” propone un doom/thrash, caratterizzato da un sottile velo di malinconia creato ancora una volta dal magnifico suono del violino, che enfatizza la furia della battaglia e descrive il compimento del fato da parte del nostro eroe. Con la conclusiva “The Survivors” si arriva alla fine di questo fantastico ed eroico racconto: lasciato spazio alla parte melodica all’inizio, il pezzo ritmico torna a prevalere per rievocare gli ultimi atti di Frost: il nemico è stato sconfitto e il regno ripreso, per riportarlo ai fasti di una volta. Note di pianoforte chiudono – per ora - il primo capitolo della saga: come si può leggere dal retro del booklet infatti, “… to be continued”. E allora aspettiamo pazientemente di conoscere il nuovo secondo capitolo. Ammetto che questo lavoro mi abbia lasciato sorpresa ed entusiasta: nonostante le song siano estremamente compatte ed omogenee tra loro, il lavoro è comunque degno di ascolti ripetuti e la band promette grandi cose. Speriamo l’attesa sia breve, nel frattempo sarà meglio continuare a tenerli d’occhio. (Samantha Pigozzo)

(Self)
Voto: 80
 

sabato 25 febbraio 2012

Soul of Steel - Destiny

#PER CHI AMA: Power/Progressive, Dragonforce, Sonata Arctica
Una band totalmente italiana, salentina per l’esattezza, che si mantiene nel filone del rock/metal: questi sono i Soul of Steel, composti da Gianni Valente (voce), Nicola Caroli (chitarre), Valerio De Rosa (chitarre), Daniele Simeone (tastiere), Nicola Logrillo (basso), Nicola Chiafele (batteria) e Roberto Tiranti (voce principale). “Destiny”, il loro primo lavoro ad un primo ascolto risulta orecchiabile ed energico con un sound che ricorda il power metal degli anni passati: la prima immagine però che mi è venuta in mente è stata quella dei Beehive, mentre suonano questo album. Apre la classica “Intro” fatta di suoni campionati, che tentano di creare una certa suspense, tuttavia non riuscendoci. Con “Swordcross” la vena power di cui parlavo pocanzi emerge totalmente, dapprima con un riff di chitarra accompagnata dalla batteria, poi anche con la tastiera e la voce. È grazie ai cambi di melodia e di velocità, se la canzone non risulta noiosa: se il cantante si mettesse a giocare sulle varie tonalità, il lavoro sarebbe più accettabile. “Running in the Fire” si apre più melodica, con le keys che danno il via libera agli altri strumenti: rispetto alla precedente song, questa tende ad essere più lenta e in certi tratti anche ripetitiva sia a livello lirico che musicale. Di buono c’è la parte solista, tutto il resto è poco più che accettabile. “Reborn” è caratterizzata da un ritmo incalzante e dalla preponderanza del connubio chitarra-batteria-tastiera. Il ritmo continua sulla falsariga degli altri pezzi, mentre la voce cerca di essere più energica. Dalla metà del brano in poi il ritmo rallenta, fino a creare un’aria più malinconica. Chiude il tutto un assolo di chitarra. Arrivati finalmente a metà album: “Wild Cherry Trees” è una delle tracce più melodiche di tutto l’album: la chitarra è per lo più acustica, il che associato alla tonalità dolce del cantante, crea un risultato apprezzabile. Solo verso la fine fa la sua comparsa la chitarra elettrica, come una specie di toccata e fuga. Lasciamoci alle spalle l’acustica, arriva “Till the End of Time”: sulla falsa riga di “Reborn”, ne sembra quasi la sua continuazione. L’unica cosa diversa è l’ausilio dei cori nel ritornello; per il resto, come già detto, sembra la gemella della quarta traccia. “Endless Night” si avvale della collaborazione di Roberto Tiranti dei Labyrinth: già dalle prime note, si può sentire un tentativo di lasciare in parte la melodia e dedicarsi maggiormente ai suoni power, con chitarre elettriche e batteria portati ad una velocità maggiore. Persino il cantato risulta più sperimentale, più energico: la flemma che presentava nei brani scorsi viene un attimo lasciata indietro. Merito della voce del Labyrinth? Probabile. Lentamente ci si avvicina alla fine dell’album, incontrando sul cammino “Wings of Fire”: portando avanti quella carica nata dalla canzone precedente, risulta anche gradevole, se non fosse per un assolo di chitarra un po’ troppo lungo: per il resto segue il leit motiv di tanta tastiera, batteria in secondo piano e tanta, tanta chitarra. Leit motiv del power metal, insomma. Con “Destiny”, title track, si chiude questa prima fatica dei Soul of Steel: melodica, ma sfruttante più le note elettriche anziché quelle acustiche, ne esce una canzone ricca di cori, con la tonalità vocale portata ad un livello più alto (ideale per il pubblico ad un ipotetico concerto, con le braccia ondeggianti e mani munite di accendini). Ciò che traspare da subito è un senso di malinconia così profondo che fatica a lasciarti persino dopo la fine del disco. In conclusione, c’è da dire che la voce nel complesso è poco incisiva e poco melodica (accomunandoli a due delle band power metal in circolazione – Sonata Arctica e Dragonforce – siamo molti gradini più in sotto): essendo però il primo lavoro, non resta che aspettare ed augurarci che il prossimo cd sia più energico e che trasmetta anche delle sensazioni più vere. (Samantha Pigozzo)

(Underground Symphony)
Voto: 50

domenica 19 febbraio 2012

November-7 - Angel

#PER CHI AMA: Rock Gothic, Evanescence
Formatisi nel 2005 nella vicina Svizzera, i November-7 sono una band prolifica: già prodotti tre album e un dvd, oltre al video tratto dal loro primo singolo, che dà il titolo all'album: “Angel”. Uscito nel lontano 2007, si tratta del secondo lavoro: una base metal con elementi elettronici e orchestrali, come definito anche sul loro sito ufficiale. Il singolo accennato poco sopra è anche la traccia che apre l’EP. Su una base campionata spicca la voce delicata di Annamaria Cozza, accompagnata anche da chitarre ritmiche ed elettriche, dando però una sensazione fredda e distaccata. “Two Sides” è già più sull'industrial metal, più incisiva. Le tastiere e i suoi campionati creano la base del brano, con le chitarre che martellano incessantemente e creano un bel riff che cattura l'attenzione e permane nella mente. “Falling Down” è di tutt'altra pasta: malinconica, con la presenza di suoni di pianoforte e una voce modulata all'inizio, grintosa poi, con una parvenza di suoni orchestrali in sottofondo. “All the Things” gioca molto sulle estremità: da un lato pacata e rilassante, dall'altra forte e veloce. Come per il brano precedente, anche qui si possono sentire, molto vagamente, dei suoni orchestrali: la differenza è che qui il ritmo varia spesso di velocità, passando dal lento al veloce senza mai tralasciare le chitarre e la voce dolce, ma a mio avviso poco incisiva: non coinvolge appieno l'ascoltatore, come succede con la parte strumentale. La versione editata e accorciata ideale per la messa in onda in radio chiude l'album: a mio avviso, un lavoro che mi lascia la bocca asciutta. Come detto, la voce di Annamaria non mi sembra adatta per questo genere: troppo fredda, persino nelle parti sussurrate non stimola alcuna sensazione. La parte strumentale ha una sua energia, è persino piacevole da ascoltare: l'unica nota “stonata” continua ad essere la tonalità della vocalis, che fa perdere punti alla band. Speriamo nel nuovo album, magari più coinvolgente e sensazionale. (Samantha Pigozzo)

(Dark Essence Records)
Voto: 60

domenica 22 gennaio 2012

Frailty - Lost Lifeless Lights

#PER CHI AMA: Death Doom, Saturnus
Ed eccomi stavolta, a parlare di una band, i Frailty, in circolazione da otto anni, nella lontana (ma non tanto) Lettonia: l'album che mi accingo ad illustrare risale al 2008, il loro primo full-lenght. Le tematiche sono concentrate prevalentemente sulla morte e spiritualità, con qualche accenno alla mitologia. L'intro sembra preparare l'ascoltatore ad un viaggio nelle profondità dell'animo umano, avvalendosi di suoni distorti e caotici: “I Know Your Pain” e “The River of Serpents” ricalcano perfettamente il sound del doom/death, con suoni pesanti e lenti, esprimendo al meglio il messaggio di dolore e malinconia che traspare dai testi. Batteria e chitarra ripetono lo stesso motivo, mentre verso la fine lasciano spazio a note di pianoforte, in modo tale da accrescere il pathos. “Ariadne” è più veloce e meno pesante, mentre Martins viene accompagnato da Edmunds nei ritornelli, dando così l'impressione di solennità per questa ode ad una fanciulla perduta; persino l'assolo di chitarra illustra molto bene il peso della perdita, aiutata anche da note di tastiera appena percettibili. Si torna alle atmosfere cupe ed introverse con “Graphics in Ebony”, dove il growl si alterna ad una voce melodica e grave, con un'atmosfera, oserei dire, magica ed eterea: è solo dalla metà in poi che il tono diventa più sul demoniaco andante (oserei dire pseudo-isterico), ma senza mai perdere la vena doom/death che li caratterizza. “The Fall of Eve” segue lo stile della precedente, ma con un timbro più melodico, rendendo il tutto di più facile ascolto. È con “A Summer to Die” che le cose cambiano: il cantato ricalca quello precedente di “Graphics in Ebony”, avendo cura di curare il ritornello in modo tale da renderlo anche canticchiabile ed orecchiabile (senza mai cadere nel commerciale più blando). La malinconia più nera fa da sfondo per “The Scorn”, il brano più longevo di tutto l'album; note di pianoforte introducono una chitarra distorta e una batteria pacata, con la voce più grave che Martins possa mai trovare. Sebbene all'inizio il motivo sia lento, soltanto poi inizia ad essere più accelerato, con la voce demoniaca (di cui sopra) e un loop di chitarra unito alla batteria che si ripete, sottolineando la solennità della morte; si torna poi alla lentezza dell'inizio, come una sorta di mare scuro con le onde inerti che si ripetono ogni volta. Chicca del brano: un momento di totale tristezza e fatica, in cui persino il cantante pare fatichi a parlare. Il brano prosegue e si conclude con un assolo di chitarra molto tranquillo, quasi ad aver esaurito tutte le forze. Con la cover dei Monro di “Lugsana” si conclude l'album: un ottimo brano per finire in bellezza un viaggio all'interno del doom/death lettone, che nulla ha da invidiare ad altre band maggiori o più conosciute. Per chi ha voglia di esplorare il metal proveniente da stati “neonati”, questa è un'occasione da non perdere. (Samantha Pigozzo)
 
(Solitude Productions)
Voto: 70
 

lunedì 16 gennaio 2012

Raven Tide - Ever Rain

#PER CHI AMA: Gothic, Dark
Ricevo l'album, guardo la copertina e il retro cd e noto che sono italiani. Bene! Dopo i miei “giri” per l'Europa del nord, mi accingo a recensire una band di Prato, per di più composta da una bella fanciulla e tre cavalieri di nero vestiti, formatisi nel “vicino” 2009. Si parte con "Stillness", song caratterizzata da sonorità elettroniche e da melodie ricordanti tematiche medievali (l'immagine che traspare è un castello merlato con attorno campi sterminati brulli, su cui si svolgono le tipiche battaglie). Tralasciando l'ettronica, con "Alfirin Alagos" si prende il sentiero del gothic metal, caratterizzato da tastiere che accompagnano la suadente voce di Cheryl, mentre Shark, Fred e Mark (rispettivamente chitarra, basso e batteria) rimangono sullo sfondo, senza essere mai troppo invadenti. Il risultato è un brano di facile ascolto, tranquillo e dolce. Con "Doom Reveil" il sound cambia radicalmente, tornando all'elettronica della opening track: un connubio, quello con la voce dolce e pulita, che risulta molto commerciale e adatto ad un pubblico più femminile. Con "End to the Flame" i toni rasentano la calma e l'acustica più assoluta, con il pianoforte e la voce di Cheryl, per un brano in cui a trasparire c'è solo tanta tristezza e malinconia, sottolineate anche dall'assolo di chitarra che si presenta solo da metà brano in poi. Con "Lucifer Bliss" il sound si fa più duro, grazie all'apporto di Giovanni Bardazzi, vocalist proveniente dai Raze and Symbiotic; ovviamente l'aria dolce e femminile di tutto l'album non ne risente in alcun modo, ma viene semplicemente confrontata con il growling di Giovanni, in quello che risulta una sorta di “la Bella e la Bestia”. Si chiude così questo primo lavoro, più adatto - come detto prima - ad un pubblico di giovincelle che si accostano per la prima volta al mondo del metal, senza traumi. Sebbene per i più metallari questo album possa sembrare fin troppo leggero, questa band ha della stoffa per creare altri album di impatto e qualità maggiore. Staremo a vedere (e sentire) i prossimi lavori. (Samantha Pigozzo)

(UK Division)
Voto: 60

giovedì 22 dicembre 2011

Weeping Silence - Promo 2009

#PER CHI AMA: Gothic Symphonic, Nightwish
Female fronted band, come citato nel loro booklet, questa giovane band si occupa prettamente di symphonic/gothic metal, proveniente da Malta e formatasi nel 2008. "Promises Broken", la prima traccia, inizia con un bel riff di chitarra, tastiere e batteria; ascoltando la voce di Rachel Greech, mi vengono in mente le voci di Dolores O' Riordan dei Cranberries e quella di Annette Olzon dei Nightwish. Tutta la canzone ha un ritmo dapprima lento e melodioso, per poi aumentare di poco la velocità e portando all'acuto il cantato. Solo verso la fine, dopo essere ritornati alle atmosfere placate, si avvalgono di cori, dando così una nota più solenne al brano. "Dark Waters" riprende il ritmo veloce di prima, con la stessa nota acuta nel cantato: l'estensione vocale di Rachel è infatti sorprendente, il che contribuisce a rendere ancora più melodico l'album. "Within White Walls" si apre con un nostalgico tocco di chitarra, mentre la voce diventa più dolce che mai: dalla canzone traspare un'aria mesta, pesante, in parte difficile da sopportare. La lentezza del brano fa quasi venire voglia di premere il pulsante “forward” del lettore cd, fortuna che dopo tutti gli acuti il brano arriva alla fine. "Innocent Cries", l'ultima traccia, ripropone i cori orchestrali trovati nella opening track, ma qui si avvale anche di sintetizzatori tra un acuto e l'altro. Più sopportabile della precedente, ricorda vagamente il sound dei Nightwish, anche se sembra più la brutta copia. Questo è uno degli album più brutti che abbia mai sentito, si salva soltanto il fatto di aver inserito note melodiche e orchestrali, benché la voce sia forte ed energica; continuando però a tenerla acuta, porta automaticamente l'ascoltatore ad interrompere l'ascolto dopo i primi minuti della prima traccia. Sperando che l'album uscito dopo, “End of an Era”, sia più carico e ricco di sonorità, non posso che essere lieta di sentire la fine di questo album e metterlo tra i cd nell'angolo dei cd scartati. Più energia negli strumenti, su! (Samantha Pigozzo)

(Alkemis Fanatix)
Voto: 55
 

Deviate Damaen - Religious as Our Methods

#PER CHI AMA: Gothic/Dark
Premetto che a me piacciono particolarmente le band tendenti allo psicotico, folle, assurdo: questa band italiana è una di quelle (oso persino a paragonarla agli inglesi Eibon La Furies: mi elettrizzano allo stesso modo). Formatisi a Roma nel lontano 1992, il loro genere può essere indicato come un gothic metal sperimentale, tendente a parti teatrali. Quello che mi appresto a recensire è la versione decennale rimasterizzata e comprensiva di una traccia inedita (infatti è il loro primo album, uscito nel lontano 1997). La prima traccia, "Nec Sacrilegium, Incesti Gratia! (N.Anathem / Romanovhimmelfahrt)", si avvale di suoni campionati, chitarra distorta, cori di chiesa e rintocchi di campana; man mano che si prosegue, si può persino udire una specie di esorcismo, ovviamente in italiano: impressionante e coinvolgente, ai limiti della sanità mentale... Assolutamente da ascoltare, anche grazie ai primi 8 minuti (sui 21 della durata del brano) con una “particolare” confessione... altro non voglio dire per non rovinarvi la sorpresa. "Lyturgical Obsession" inizia con un'aria tempestosa, dove vento forte e tuoni vengono seguiti ed accompagnati da note di organo. Verso metà brano si ode un giro di chitarra elettrica: è lì che il brano inizia, con la voce teatrale tendente un po' all'orchestrale e un po' al growl, mentre il sound in sottofondo è molto semplice e campionato (ciò che dà particolarità al brano sono infatti i rumori che si alternano alla voce). Una piccola nota di follia, insomma. Violini e cori maschili aprono la terza traccia, "Under the Elation’s Drape (of my Nobility)": il tono di voce cantato è quasi uguale alla traccia precedente, se non per la decisione di rimanere più sullo stile de “Il Fantasma dell'Opera” (infatti me li immagino di nero vestiti, con una maschera bianca sul volto). Da metà in poi tutto cambia: il canto teatrale viene accompagnato solo da una chitarra acustica, per poi tornare esattamente con la combinazione dell'inizio brano. Altra musica per "I Want Hate!" dal timbro più rock, ma senza mai tralasciare la vena operistica: il sound che ne esce sembra più stile anni '80 (addirittura mi viene in mente Billy Idol!), dove chitarra elettrica, drum machine e tastiere si fondono in un tributo a quel particolare lasso di tempo. "White Venus" è la cover delle Bananarama del 1986 (a loro volta cover degli olandesi Shocking Blue del 1969) in stile più “techno-trance”: ben fatta, a mio giudizio. Torniamo ai monologhi in italiano con "Un Mondo Senza Stelle", quasi ad interpretare una poesia sul connubio stelle/lucciole con note di violoncello e base campionata; con le parole di chiusura della Divina Commedia, si chiude a sua volta questa traccia/monologo. La traccia inedita menzionata all'inizio della recensione è anche l'ultima traccia di quest'opera. "No More" è più uno sfogo sull'attualità, più in stile techno (vedasi “White Venus”) che ricorda gli Scooter: posso solo consigliarne l'ascolto, perché altre parole per descriverla non ne ho. In chiusura, posso dire che questi romani Deviate Damaen sono esattamente come il loro nome: matti, deviati, folli, particolari. Quando sarete alla ricerca di qualcosa di particolare da ascoltare, procuratevi questo cd. (Samantha Pigozzo)

(Space 1999)
Voto: 85
 

venerdì 7 ottobre 2011

Winterdome - Weltendämmerung

#PER CHI AMA: Viking, Folk, Epic Pagan
Il vento che soffia sul mare, un rumore di barca che cerca di solcare le onde, una voce che inizia a raccontare: così si apre Weltendämmerung, il secondo lavoro della band di Hannover. Prima di parlare dell’album, è meglio fare una piccola introduzione dell’ensemble. I Winterdome si sono formati nel 1996 in Sassonia e al momento ha prodotto solo due album: “Moravian – or a Gods’ dawn”, un EP formato da 4 tracce rilasciato nel 1997 e quest’ultimo, uscito nel 2006. La peculiarità di questa release è che si tratta di un’opera d’arte: alterna brani narrati, con tanto di sottofondo per rendere più realistico il racconto di una terra lontana, a brani ricchi di sonorità sintetizzate e molto malinconici. Come presentato sul loro sito ufficiale, le sonorità gothic metal incontrano il “medieval rock” (ricordiamo anche che hanno aperto i concerti degli In Extremo). Il brano che apre il disco è totalmente narrato: sebbene la lingua usata sia il tedesco, ciò non toglie musicalità, anzi, accentua la storia epica e le gesta di un popolo che addirittura crea una propria religione e una propria lingua. Ascoltando la traccia che dà il titolo al concept-album, si può sentire come il cantante faccia largo uso del growl, che associato a suoni più campionati e chitarre distorte, trasmette un profondo senso di malinconia. L’impostazione della tracklist vede un brano (raccontato da Bernd Seestaedt) che si alterna ad uno cantato/suonato, in cui prima viene spiegata la storia e poi cantate le gesta di Ashaj, il protagonista principale. Degna di nota è "Land der Nacht", che si avvale anche di violini: l’atmosfera medievale è preponderante, mitica. Violini che ritroveremo anche in "Die Elasaj", accompagnati dalla voce dolce e melodiosa della violinista Lisa Hinnersmann, in totale contrapposizione a quella grave e ruvida di Henrik Warschau. Il senso di malinconia nominato precedentemente, irrompe nel leit-motiv di "Ein Letztes Mal": sebbene la parte cantata assomigli più ad una litania, l’apporto vocale di Lisa, aiuta a sopportare di più questa parentesi melodica. Anche i violini, nel ritornello, contribuiscono a mantenere l’aria malinconica assieme al ritmo cadenzato e lento. In "Flammentanz" le atmosfere medievali ritornano, grazie soprattutto agli archi e all’arpa: oltre a chitarre e batteria appena accennate, tutto il brano sembra proiettare l’ascoltatore in una fiera contadina, come sempre accompagnato dal racconto fantastico sulle vicissitudini del protagonista (a metà tra cantato e raccontato). Degno di nota è un assolo di chitarra elettrica, molto convincente. Il ritmo cambia in "Leid und Qual": velocità, cattiveria e chitarre incalzanti fanno da leitmotiv del brano. Le tastiere sono suonate in modo da accentuare una sensazione di ansia ed inquietudine, rendendo il tutto una delle canzoni migliori dell’album. Nel caso tutta questa velocità non piacesse, ma si volesse un ritmo più rallentato, "… Wenn das Ende Naht" è la traccia adatta. Grazie anche ai violini, il suono risulta quasi pesante e più indicata per qualche cerimonia funebre. Questo album svela, ad ogni traccia, nuove sonorità: in "Der Hoffnung-Tod" (oltre ai sopraccitati violini e chitarre elettriche) i cori femminili si aggiungono alla voce roca di Warschau, dando così una piccola impronta lirica, che non guasta affatto. Si arriva alla fine di quest’opera “quasi magna” con "Ein Stiller Schrei", che sembra più composta per una sezione di archi piuttosto che di chitarre: persino la parte cantata si adatta alla melodia dei violini, quasi a volere chiudere con una forte nota malinconica. Di buono c’è la scelta di alternare racconto epico/fantastico ad un metal con più sfaccettature; di meno buono la scelta di usare il tedesco nelle liriche: non tutti sono in grado di svelarne i contenuti, sentendosi così meno coinvolti in questa storia che, nonostante sia inventata, risulterà anche per voi, sicuramente raccontata con passione. (Samantha Pigozzo)

(Massacre Records)
Voto: 80
 

domenica 18 settembre 2011

Ad Inferna - Trance'n'Dance

#PER CHI AMA: EBM, Trance, Industrial
Mi trovo tra le mani una band, francese, che si scosta parecchio dal genere di musica che normalmente ascolto e che allieta le mie giornate: i francesi Ad Inferna infatti, con il loro terzo lavoro, propinano un mix di elettronica, industrial metal, trance e dance: non sarà un'impresa semplice recensirlo, ma vediamo di cominciare. L'album si apre con "Fade to Grey", cantata in inglese e in francese, dal sound che varia dal tranquillo e dolce ad un sound più di stampo industrial, che si avvale anche di cori femminili. "Métamorphose" è meno veloce della traccia precedente, ma tendente più al gothic (perdonate quest'eresia, ovviamente rimango sempre sullo stile trance, non al puro gothic metal) caratterizzato da atmosfere cupe elettronicizzate (a me ricordano tanto il personaggio di Abby nel telefilm “NCIS”, solita ad ascoltare musica di questo genere), che terminano con una semplice sfumatura. "Rédemption" si apre con un ritmo irreale, come se si stesse preparando ad un'esplosione: giusto un pizzico di drum machine, frasi in francese, cori femminili e un sintetizzatore che accelera il ritmo man mano che la traccia prosegue, ma senza diventare martellante, per terminare con una frase ripetuta più volte, in stile mantrico. "SM for SM", la quarta traccia, ricalca le atmosfere e il sound dell'iniziale “Fade to Grey”, con un ritmo però più incalzante. "Suicide Girl" inizia con un connubio di drum machine e keyboards, oltre ad una voce femminile molto suadente: il ritmo rimane tale, senza cambiare di una virgola, per tutta la durata del brano; e come per "Métamorphose", la traccia finisce con una semplice sfumatura. "Transcender l'Estase" riprende il ritmo di "Métamorphose" usando la voce campionata per farla sembrare più inquietante, ma non troppo. "Vertige" rimanda la mente alla pura elettronica anni '80, con un sound molto pacato e quasi impercettibile, per ribaltarsi da metà in poi, aumentando leggermente di velocità e continuando ad avvalersi della eterea voce femminile molto dolce. "You as My Own Drug" mescola un po' tutto quanto ascoltato finora, con un risultato tranquillo e agitato al tempo stesso: l'impronta industrial è sempre presente, sebbene messa spesso in ombra, ma dà un tocco particolare a questo miscuglio di sonorità e generi diversi tra loro, creando un lavoro strano ma piacevole all'ascolto. L'album presenta 4 remix, uno del dj Beborn Beton e del dj Combichrist per la canzone “Vertige”, che si differenziano dal fatto che uno predilige un remix più pulito e semplice, mentre l'altro fa un maggiore utilizzo del sintetizzatore; il dj Soman remixa “Transcender l'Estase” campionando la voce per renderla “stile Gollum” e più vicina al genere House e l'ultima "revisione" è ad opera del dj Reaper nel brano “Rédemption”, di stampo più cupo e cattivo. Sebbene io non sia un'estimatrice di questo genere, né dei remix, concludo dicendo che per una “fuga” dal metal questo album è l'ideale, ma preso a piccole dosi e lontano dai pasti. (Samantha Pigozzo)

(Aural Music)
Voto: 65
 

martedì 19 luglio 2011

Shadow Man - Dark Tales

#PER CHI AMA: Doom/Gothic, Candlemass, Solitude Aeternus
Gli Shadow Man sono una one man band formatasi ad Aachen, Germania, che ha pubblicato il primo lavoro nel 2010 (da li in poi ne sono susseguiti altri tre, da gennaio a giugno 2011, con cadenza bi/trimestrale). Come visione d’insieme, si può dire che "Dark Tales" sia un album a tratti noioso, senza alcuna emozione se non fosse per gli incipit di stampo orrorifico. Si parte con "At the Gates of Trigania”, la prima traccia puramente strumentale: l’intro è misterioso, l’ambientazione che ne esce potrebbe far parte di un film thriller; degne di nota poi possono essere la terza traccia, “I Am Not” - in cui i suoni sono duri e cadenzati (con un forte rimando ai Candlemass) con la voce che si alterna tra quella di Messiah Marcolin e dei sussurri nel buio - e “The Human Factor” – che con un inizio in pieno stile Metallica, in cui in primo piano viene messa la chitarra, prova a rifarsi poi alla tradizione doom americana. Proseguendo nell'ascolto, sebbene l’inizio prometta bene, non vi sono altre tracce che possano dare particolari emozioni. Andando per ordine i commenti sono più o meno uguali. “Anachronisma” e “Black Swan Dying” sono pressoché identiche nel loro ritmo, con l’unica differenza nella voce cantata (poco incisiva, monotona e a tratti lamentosa). Da notificare il fatto che 7 minuti poi per un brano strumentale sono esagerati, per il forte rischio di cadere nella narcolessia profonda. "Bitter Sweet” e “Still Silent” sono accomunate dal fatto di essere entrambe acustiche, mentre il cantato si rivela piatto, monotono e sofferente (addirittura sembra di sentire David Bowie cantare “depressive metal”, anziché gothic metal, con risultati terribili): il nostro "uomo oscuro" tende ad inserire un po’ di cattiveria nei brani, ma manca la convinzione di base. “Fear” e “The Inner Path” sono definitivamente orfane di ispirazione e della sopraccitata cattiveria, ingredienti base perchè una canzone che possa far parlare di sé. Se mai si fosse alla ricerca di un brano strumentale buono per un videogioco di ruolo, “Life in the Shadows” potrebbe essere l’ideale. Suoni campionati e nulla più, ma almeno diventa orecchiabile. L’apice del “depressive metal” (è la definizione che più si adatta, in quanto mi ha messo di cattivo umore) è “Eternal Winter” dove si possono ascoltare gli stessi insieme di note trovate nei brani precedenti, il che ha reso arduo l’ascolto fino in fondo (dettato più dalla speranza di trovare qualche sorpresa che mi possa ridestare dal buio in cui sono piombata, piuttosto che dal piacere di ascoltare l’album). La sorpresa di cui parlavo poco fa l’ho trovata invece in “Cold Silence”, anche se tanto distante dall’essere una traccia entusiasmante e viva. Se l'uomo nero provasse a modificare un po’ la voce, magari tentando altre tonalità, il commento potrebbe anche essere diverso. Fortunatamente tutto il lavoro si conclude con una nota positiva: non per il fatto che “Zar’rah” si distingua dalle altre canzoni perché diversa, migliore o ricca di sonorità, ma perché dura pochissimo (rispetto ai 6 minuti di lunghezza media, ne dura 2,45): un collage di riff di chitarra elettrica (ovviamente identici gli uni con gli altri) messi assieme con la saliva, che non convince nemmeno un passante casuale. Concludo dicendo che questo cd andrà nell’angolo buio della scrivania, quasi nel dimenticatoio, con la richiesta che il quinto album (che magari starà producendo ora) possa avvalersi della collaborazione di qualche musicista di talento, in modo da diventare di maggior piacevole ascolto. (Samantha Pigozzo)

(Self)
Voto: 55