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lunedì 30 gennaio 2023

Kamala - Limbo666

#PER CHI AMA: Psych Rock
A dicembre dello scorso anno usciva il nuovo disco dei Kamala, band tedesca con base a Lipsia, che avevamo lasciato con ottime credenziali ai tempi del precedente album del 2019, 'Your Sugar'. Oggi il quintetto ci grazia con un disco ancora più elegante e curato, guidato a dovere dalla bella e ispirata voce di Christian Kamper, e da un guitar style delicato e tanto efficace, dedito a raccogliere stilemi artistici di stampo jazzistico ma rivolti ad un suono frizzante, intimo, e decisamente rock, anche se in maniera molto originale e soft. La caratteristica principale che identifica questa band è il modo moderato, ricercato e sofisticato con cui si apprestano a divulgare il verbo del rock, in una veste decisamente accessibile e volutamente, passatemi il termine, intellettuale, in molti casi ai confini di tante altre derive musicali. A modo loro, i nsotri presentano un crossover sonoro diviso tra alternative rock, soul, '70s rock, psichedelia teutonica (tra echi lontani di Harmonia e La Dusseldorf), new wave, free jazz e fusion. Tutte queste idee sono però filtrate da un gusto musicale assai melodico che, come scrissi nella precedente recensione, li avvicina ad un certo modo di fare musica, simile a band di culto, dal tocco vellutato ed ipnotico, note per la loro capacità creativa; parliamo di artisti come gli Aztec Camera oppure la psichedelia dei The Dukes of Stratosphear. La cosa interessante è, che quando la band teutonica si sposta da questo terreno le cose cambiano, come in "Freudian Autocorrect", brano in cui la band, pur tenendo alto il tasso di qualità esecutiva, non riesce ad esprimere la sua magia completamente, ma la dirotta verso qualcosa di non propriamente suo, formando in questo caso, uno spartiacque tra le prime quattro tracce del disco, una più bella dell'altra (il mio brano preferito in assoluto rimane "Talking Dirty"), e le restanti quattro che chiudono il disco. Posso dire comunque, che lo spartiacque è veramente momentaneo, perchè la successiva "Yuko & Memori", rimette in carreggiata i miei sentori verso quest'opera, ripristinando l'equilibrio sperato, con un inizio quasi psychobilly, introdotto da una chitarra in lontananza che riecheggia ad un virtuosismo alla maniera di un Van Halen d'annata, per poi correre con quella verve nobile e luminosa che contraddistingue la band. Il rock scorre multicolore ed in molteplici direzioni, mai troppo rumoroso, quasi tenuto in sordina, per non offuscare con il rumore e lo strepitio di muri di distorsione, le capacità di questi ottimi musicisti (la sezione ritmica è notevole con il suo tocco pulsante ma sempre composto). "Narcissus" è una lunga ballata dai colori vividi, cari a certa neo psichedelia inglese degli anni '90, e mette in mostra le notevoli capacità vocali di Kamper, che ricorda molto da vicino il Jeff Buckley più intimista. La conclusione è affidata a "Blindspots", coronata di piccole gemme ritmiche e variazioni geniali che amplificano la bravura tecnico/compositiva di questi musicisti. 'Limbo666' è un album curato nei dettagli, compreso l'artwork di copertina, dove colori e fantasia sono uno standard fin dal loro EP d'esordio, un suono caldo e pieno tutto da gustare. Aggiungerei anche, che 'Limbo666', è la loro più completa uscita discografica, il rock che si mostra nella sua forma migliore, rinunciando a muscoli e giubbotti di pelle. Alla fine ne consiglio l'ascolto a chi ama la musica rock d'ampie vedute, suonata a dovere. (Bob Stoner)

(Tonzonen Records - 2022)
Voto: 79

https://kamalapsych.bandcamp.com/album/limbo666

domenica 11 dicembre 2022

Nix & the Nothings - Here Goes Nothing

#PER CHI AMA: Punk/Garage
Norvegia, Bergen, la patria del black metal, ma non solo. Da qui arrivano infatti i Nix & the Nothings con il loro album di debutto, "Here Goes Nothing", uno sporco esempio di punk garage rock dalle tinte oscure. Si, perchè l'atmosfera che si respira nella traccia d'apertura, "Caveyard", ha un sound sporco, tetro e cattivo che potrebbe evocare i The Kinks ma anche i Misfits, sebbene quell'hammond in sottofondo possa semmai chiamare in causa i The Doors, ma lo stile è decisamente incazzato, vuoi forse per un cantato che sembra sotto gli effluvii dell'alcol. Dalla successiva "Why", la band non sembra più prendersi sul serio e sembra lanciarsi invece in un surf rock anni '60, con il solo difetto che la registrazione sembra essere avvenuta in cantina e per di più con l'aratro. Buona la componente vocale che dona quel giusto grado di ruvidezza al disco, cosi come pure l'assolo che chiude il brano. Si prosegue con "Good for Nothing" e lo schema non cambia, con quel concentrato di garage rock irriverente, a tratti nostalgico, sciorinato in ogni singola traccia, che alla fine rischiano di risultare forse troppo prevedibili per un disco, che sembra essere un tributo alla musica di oltre mezzo secolo fa. "All Night Long" offre un approccio "fake" live in un pezzo meno scanzonato e più mid-tempo, mentre con "Too Many Bugs" si torna a ballare nel fango. Con la successiva "Mushroom Baby" i nostri sembrano ritornare alle reminiscenze surf in un brano avvincente (fantastico il basso) ma penalizzato un po' troppo da quella "sporcizia" di fondo a livello produttivo, qui più evidente che da altre parti. "No Ghost", la song per cui è stato anche girato un video, è un pezzo acid blues rock che ahimè non mi prende per niente e non fa altro che spingermi a skippare alla successiva "Movin On", che come anticipato dal titolo, ha un carattere più movimentato e punk rock, con tanto di coro ruffiano, azzeccatissimo. In chiusura, la traccia più lunga del lotto, "Here Goes", quella però dall'attacco più mellifluo, con tanto di duetto vocale uomo donna che la fanno apparire come la classica ballad del disco o se volete, la degna conclusione di un lavoro che soffre di un'altalenanza umorale ancora da rivedere. (Francesco Scarci)

giovedì 8 dicembre 2022

Solitär - Bus Driver Immigrant Mechanic

#PER CHI AMA: Psych/Dream Pop
Il polistrumentista svedese, Mikael Tuominen, già presente in formazioni del calibro di Kungens Män e Automatism, si cimenta in un primo disco solista, uscito via Tonzonen Records, carico di atmosfere dense, intrise di intimità e ispirazione. Il canto sempre quasi sommesso e schivo, si presta molto bene alla forma di psichedelia che l'autore mischia spesso a fattori folk e post rock, melodie luminescenti, spesso ipnotiche ed estatiche. Si parte con "Electric Sea", un bel brano dai tratti desertici, un'evoluzione corale e mantra doorsiani con una buona dose di ricordi, che portano alle sonorità di "Fire Walker" dei Black Rebel Motorcycle Club, uno stile che ritroviamo peraltro in molte parti dell'album. "Ship of Excitement" inizia con un sound che ricorda certe cose dei Cocteau Twins per leggerezza e utilizzo delle chitarre, mentre "Concrete Spaceship", cerca di aumentare il ritmo senza aumentare il rumore, creando un'atmosfera surreale e sospesa, con un uso del noise guitar molto intelligente. A sorpresa in una veste psych folk sommessa e sofferta, avvolta in una luce abbagliante, Solitär si cimenta in una versione originalissima di "The Price", la storica canzone dei Twisted Sister, ottenendo davvero un bel risultato. 'Bus Driver Immigrant Mechanic' evolve brano dopo brano, pur rimanendo in un contesto di musica ipnotica e statica, elettronica e minimale, shoegaze, un post rock di scuola Mùm con qualche richiamo a certa psichedelia evoluta in stile Legendary Pink Dots. Le atmosfere soffuse richiamano magma sonori notturni come la versione di "Satellite of Love" di Milla Jovovich in "Million Dollar Hotel", dotata di un umore malinconico ma sognante. "Spegel Spegel" potrebbe essere un brano dimenticato in qualche cassetto dei Crime and the City Solution, suonato dai Mercury Rev, mentre per "It Rains" potremmo scomodare Hugo Race e la sua musica lunare. La cupa "A Flash in a Glass Jar" è figlia di certa new wave di classe, e sfodera sonorità vicine agli Echo and the Bunnymen, con un lento incedere e tappeti di tastiere maestosi all'orizzonte, con una coda finale assai cinematografica. Chiude il cerchio la brevissima e acustica "Brus", l'unica traccia cantata in lingua svedese, per il resto la lingua utilizzata è quella della terra d'Albione. In definitiva, devo ammettere che 'Bus Driver Immigrant Mechanic' è un album intrigante, profondo e molto sofisticato, certo non è d'impatto e non funzionerà tra i rockers più duri e puri, ma per chi cerca buona musica introspettiva questa è proprio una valida alternativa. Un disco ragionato e ben prodotto con suoni caldi, profondi e intimi, un disco per tipi solitari a tutti gli effetti. (Bob Stoner)

lunedì 5 dicembre 2022

Wizrd - Seasons

#PER CHI AMA: Psych Prog Rock
Ho visto molto movimento nei giorni scorsi riguardo all'uscita di questo album, tanta attività pubblicitaria nei social, e devo dire che in effetti questo lavoro merita davvero una grossa esposizione, anche perchè, esce per la Karisma Records, non una label qualsiasi infatti, visto lo standard qualitativo delle band di questa etichetta decisamente indiscutibile. Poi, a dirla tutta, il quartetto norvegese non si è certo limitato a fare il solito album di rock progressivo, ha mischiato infatti le carte di questo difficile genere, l'ha studiato per bene, e l'ha servito in una veste moderna, con una registrazione che rievoca il vintage style dei '70s ma che gode di suoni caldi e profondi e una freschezza di suoni tutta nuova, con un'ottima produzione che soddisferà anche gli audiofili più accaniti. Freschi di accademia, la giovane band di Oslo, si fa carico del verbo espresso soprattutto nelle gesta di maestri come gli Yes, ed in particolare le più evidenti somiglianze stilistiche si ritrovano con l'album 'Fragile', della band inglese. Gli Wizrd hanno capacità tecniche notevoli, lo si nota fin dalla traccia d'apertura "Lessons", ed il brano "Free Will" si fa ottimo portavoce della bravura compositiva ed esecutiva dei nostri. Sezione ritmica pulsante, sofisticata e complessa, che non si placa mai, che sfodera parti melodiche e ritmiche accattivanti e piene di fantasia creativa, morbida psichedelia e schegge impazzite di Canterbury sound, un'ottima esecuzione, orecchiabilità e virtuosismo dosati a dovere, per un brano che da solo vale tutto il disco. In realtà, il cd pende per la prima metà verso un prog rock molto tecnico, tirato e impetuoso per poi progressivamente rallentare nella seconda parte, virando verso una psichedelia più morbida, e senza mai dimenticare il tecnicismo, ci ritroviamo nelle terre più tenui e allucinate di un sound più fine anni sessanta, un power flower evoluto e intrecciato con variazioni più free rock e jazz rock ("Show Me What You Got"). Un'opera lunga, variegata, come la sua copertina, fantasiosa e colorata, un moniker magico per musicisti fantastici, cori e suoni di un tempo rivisitati benissimo, virtuosismi e un'energia sonica, anche nel cantato, che mi ricorda stranamente, certi lavori più stravaganti dei Motorpsycho. Un disco che vale proprio la pena ascoltare, avere, custodire. E se questo è l'album di debutto, bisogna proprio ammettere che per questa giovane band si mostrano solo grandi prospettive all'orizzonte. Ascoltare per credere. (Bob Stoner)

(Karisma Records - 2022)
Voto: 83

https://wizrd.bandcamp.com/album/seasons

mercoledì 30 novembre 2022

The Wild Century - Organic

#PER CHI AMA: Psych Rock
Con questo album, uscito per la Tonzonen Records, la band olandese osa valicare il confine che delimita l'ispirazione presa in prestito da un genere e il rischio di imitazione delle sue opere sonore, perchè per ogni nota che scorre in questo nuovo lavoro dei The Wild Century, troviamo un legame pesante per composizione, stile e sonorità con qualche brano famoso degli ultimi 50 anni della storia del rock psichedelico. Metto subito in chiaro che il combo riprende le citate sonorità talmente bene, che non si può parlare di imitazione, tanto meno di plagio, semmai di forsennata ispirazione presa a prestito, ed è un ascolto divertentissimo quello di 'Organic', un ascolto che in un qualche modo ci permette di ristabilire contatti con un mondo che magari avevamo dimenticato o, nel peggiore delle ipotesi, mai approfondito. Quest'ottimo album quindi vi fornirà un compendio di rimandi musicali talmente esaustiva da farvi esclamare a gran voce che i The Wild Century, pur non essendo innovativi o puramente originali, rimangono un'ottima, moderna, retro rock band con i fiocchi, che ricordano tante altre realtà della scena che fu ma che alla fine risultano, nel loro circolo vizioso di suoni, interessanti e belli da sentire. Straordinaria la scelta dei suoni vintage di quest'opera, che sembra provenire direttamente dai '70s e che ricalca fin troppo i beniamini di quell'epoca. Si parte con la cavalcata psych di "Lowdown Dog", che solca le orme dei Velvet Underground con un effetto vocale alla Hawkind per approdare ad "Oh Yeah", dove il wah wah della chitarra iniziale evoca spudoratamente "Woodoo Child" del grande Hendrix, con un tiro garage che si sposta tra fuzzstones e certi ritmi cari a 'Second Coming' degli Stone Roses, con un organo in primo piano da brivido. "Carry On" rallenta la spinta, e tra gli accennati deserti sonici alla "The End" dei The Doors o una vaga similitudine ad un brano di un Bob Dylan d'annata, ci culla verso lidi vicini ai Mother Superior di "Save my Soul" (da 'The Mothership Movement' del 1998) ed una lunga coda finale carica di venature progressive e psichedeliche in sintonia con i primi Deep Purple. Il sitar e tanta psichedelia ipnotica, accompagnano poi l'evoluzione cosmica di "Beautiful Queen" che sembra cantata dallo spettro di Mick Farren. "Grey Blue Eyes" è una ballata super psych che richiama le origini della band forse mostravano molta più originalità e uno stile decisamente meno derivativo, ma con un taglio meno professionale sotto certi aspetti sonori, e più underground. Gli assoli di "Mother's Grace" a metà e in chiusura del brano, sono delle chicche, anche se la song, a tratti, non nasconde affinità con il mood di "Nights in White Satin" dei The Moody Blues. Per concludere, devo spezzare una lancia a favore di quest'album tanto derivativo quanto indovinato, ben curato e ricercato, per una band che si può tranquillamente accostare ai magici e mai dimenticati On Trial, quanto ai tanti gruppi menzionati sopra, aggiungendo anche i Baby Woodrose, 13th Floor Elevators, i Kula Shaker e tutti quelli che trovano posto nell'immaginario sonoro di questo particolare secolo selvaggio. L'ascolto ne vale proprio la pena, il viaggio culturale e cosmico sono assicurati. (Bob Stoner)

(Tonzonen Records/Soulfood Music - 2022)
Voto: 75

https://thewildcentury.bandcamp.com/album/organic-2

mercoledì 16 novembre 2022

The Universe by Ear - III

#PER CHI AMA: Stoner/Psych/Prog Rock
Dopo aver recensito i primi due album degli svizzeri The Universe by Ear, mi sembrava doveroso approcciarci qui nel Pozzo anche al loro terzo lavoro, intitolato semplicemente 'III', per un concept album focalizzato sul tema dell'acqua. Il combo originario di Basilea torna in sella quindi con cinque nuovi pezzi che pescano un po' qua e là tra psichedelia, post-rock, stoner e addirittura jazz. La lunghissima traccia d'apertura, "Sail Around The Sun", ci delizia con i suoi quasi 12 minuti di sonorità ricercate, melodiche e lisergiche, che passano con estrema disinvoltura dalle atmosfere pinkfloydiane dei primi minuti a scorribande chitarristiche tipiche dello stoner, per poi lanciarsi in una lunga fuga solistica e cambiare repentinamente verso un blues rock, in un'alternanza di generi quasi da lasciarmi di stucco. Sebbene non sia questo il mio genere preferito, posso tranquillamente sottolineare la solidità compositiva dei nostri e l'altrettanto accattivante finezza musicale che si cela nei minuti conclusivi dell'opening track, quando i nostri sfiorano territori math rock. Le stesse derive soniche complesse ed insolite, si palesano anche nella seconda "Something in the Water", una sperimentazione sonora che sembra miscelare ammiccamenti noise, roboanti riff dissonanti, voci che vanno verso una direzione più garage surf rock anni '60, a dimostrazione della robustezza e della creatività del trio elvetico. Ma anche lungo gli oltre nove minuti di questa traccia, la band sarà in grado di esplorare oscuri anfratti atmosferici soprattutto quando è il basso di Pascal Grünenfelder a fare da main driver del brano. Assai interessanti, lo devo ammettere. Un po' meno invece nella traccia successiva, "Two-Hour Drive/Are We There Yet?", un pezzo linearmente troppo rock che stona con quanto ascoltato sin qui, un tuffo in un passato settantiano che mi lascia piuttosto tiepidino, almeno fino a quando la chitarra di Stef Strittmatter decide di salire in cattedra e, a braccetto col basso di Pascal, regalano un lungo e suggestivo break strumentale che ribalta totalmente il mio giudizio sul brano. A questo punto, dopo aver superato la metà del mio percorso in questo lavoro, mi sento di dire che il power trio svizzero dà il meglio di sè nelle parti più ricercate, psichedeliche e sperimentali, il rock classico meglio metterlo in soffitta e continuare a dedicarsi alla ricerca dei versanti più originali della musica. I nostri non deludono e proseguono anzi con le loro stravaganti idee anche nella quarta "Lie Alone", un pezzo dall'aura oscura, in cui anche la voce del frontman ne esce rafforzata e in cui ritroveremo un'altra fuga strumentale che sembra pescare a piene mani dalle visioni caleidoscopiche del prog rock. E in chiusura ecco arrivare "Salty River (including Monoliths)", un pezzo che per certi versi mi ha evocato i Zeal & Ardor più votati a sonorità soul/gospel (anche se qui non sono cosi palesi) miscelati con lo psych kraut math rock stralunato (soprattutto nei giri di basso) dei nostri, per una chiusura davvero degna di nota, che sancisce quanto i The Universe by Ear siano musicisti preparati, con idee avanguardistiche e meritevoli della vostra attenzione. (Francesco Scarci)

(On Stage Records - 2022)
Voto: 75

https://www.theuniversebyear.com/

lunedì 14 novembre 2022

Hyndaco - Starship Tubbies

#PER CHI AMA: Psych Rock
Psych rock che ci catapulta indietro nel tempo di mezzo secolo quello proposto dagli italiani Hyndaco in questo debut EP intitolato 'Starship Tubbies'. Cinque pezzi che delineano, sin dall'iniziale "Rosalipstick", un genere che evidenzia immediatamente come le radici musicali dei nostri affondino negli anni '60/70 grazie ad un garage rock visionario, guidato da una grande prova al basso di Lorenzo Ricci e un lavoro ai synth, tanto retrò quanto lisergico a metà brano, a cura di Andrea Ugolini. Questi a mio avviso i due pezzi forte del quintetto nella prima song, anche perchè il vocalist, in tutta franchezza, non mi fa proprio impazzire, complice un cantato all'inizio troppo impersonale. Nella successiva "Atlantika" infatti, il buon Lorenzo Vitali prova a modulare in miglior modo la sua ugola che nella song d'apertura sembrava più difficile da gestire. Allo stesso tempo, anche la musica sembra decisamente più compassata ed elegante, l'unico problema è l'eccessiva velocità con cui i nostri decidono di chiudere un brano che stava mostrando un discreto lavoro alla chitarra solista da parte di Francesco Lucchi. Con "Lubber" le atmosfere si fanno più delicate e suadenti grazie ad un gioco di armonizzazioni che rendono il tutto davvero piacevole da ascoltare, con una mistura che combina un caleidoscopico mix tra blues rock, kraut e psichedelia di settantiana memoria, con una prova vocale qui davvero convincente. La macchina Hyndaco qui sembra davvero oliata e il risultato è sorprendente anche quando il frontman ci regala uno strabiliante urlaccio a fine brano. Mi iniziano quasi a conquistare questi ragazzi, complice una consapevolezza nei propri mezzi ed una certa creatività che va via via migliorando con l'avanzare dei brani. Ho ancora problemi a digerire la voce nella title track ma un altro bel giro di basso, accompagnato da un bel lavoro di chitarra e tastiere che dipingono landscape che mi spingono a immaginare tramonti infuocati, mi fanno soprassedere sulla performance "ballerina" del frontman italico. Non chiedetemi il razionale di queste sensazioni, non ve lo saprei spiegare. Cosi come non riuscirei a spiegarvi per quale motivo l'inizio di "Foxtrot" mi abbia evocato i Depeche Mode nelle sue note di synth o i The Cure nel suo incedere darkeggiante mah, reminiscenze di tempi splendidi che furono. Per ora gustatevi questo primo episodio degli Hyndaco, potreste rimanerne sorprendentemente ammaliati. (Francesco Scarci)

(Overdub Recordings - 2022)
Voto: 72

https://www.facebook.com/hyndacoband

martedì 8 novembre 2022

Beware of Gods - Upon Whom The Last Light Descends

#PER CHI AMA: Sludge/Post Metal
Chicago, Illinois. Ecco da dove arrivano questi Beware of Gods, misterioso duo dedito ad un sludge/post metal dalle tinte fosche e stralunate. 'Upon Whom the Last Light Descends' è il loro biglietto da visita che ho iniziato ad ascoltare con un certo interesse un paio di mesi orsono e mi porta oggi alla scrittura di questa recensione. Cinque pezzi catartici che si aprono con "Invitation (I Am Named After Death)" ed un sound che lascia spazio a viaggi mentali in preda a sostanze psicotrope e visioni cosmiche che ben potrebbero conciliarsi con l'immagine di copertina del disco. Il sound è sicuramente originale, muovendosi a tratti nel noise, nella psichedelia, nel post metal o nello sludge, come si evince dalla ritmica rallentata della seconda metà del brano. Ma non mi fermerei a queste sole influenze, dato che l'abrasiva voce di The Archetype potrebbe richiamare lo screaming tipico del black, cosi come alcune derive soniche accostano la proposta del duo statunitense a suoni dronici. I vocalizzi del frontman assumono comunque molteplici sembianze, dallo screaming dicevamo dell'opener alle spoken words ma anche un pulito suggestivo ed intrigante. Convincenti, non c'è che dire. Anche se nella seconda "Nightmare in the Dreaming House" si potrebbe cogliere più di un accostamento ai Neurosis, ma la voglia di emergere dalla massa, fa si che i due enigmatici musicisti regalino sonorità astruse, disarmoniche e a tratti caotiche, sortendo un continuo effetto di imprevedibilità, soprattutto quando mi pare che i nostri flirtino con un sound vicino all'alternative dei Deftones, con dei chitarroni comunque frastornanti a fissarsi nelle orecchie. Con "It Sleeps", le sonorità si fanno più sonnecchiose, vuoi forse anche un titolo che richiama il sonno. Ma il sonno in cui ci faranno sprofondare non è certo quello ovattato, ma sembra più qualcosa di inquietante e disturbante, un incubo ad occhi aperti da cui fuggire sarà impresa ardua, anche laddove i nostri sembrano rinunciare a dar fuoco alle polveri e preferendo un versante più atmosferico. Diffidate gente, diffidate, con i Beware of Gods c'è poco per restare sereni e non guardarsi le spalle, la progressione ritmica pur rimanendo bloccata dietro l'angolo, questo pezzo più degli altri vede un approccio ritmico verso gli sperimentalismi dei Terra Tenebrosa o più indietro nel tempo, a riferimenti che ammiccano a Ved Buens Ende e Virus. Ipnotici, angoscianti, malati, il sound dei BoG prosegue in un pezzo apparentemente più affabile e abbordabile, "It Wakes (to Destroy Us)", dove a livello vocale, c'è un'alternanza tra il cantato pulito, lo screaming ed una terza modalità che, non so per quale astruso motivo, mi ha evocato i Soundgarden. Forse sono un visionario, forse inizio a sentire la mancanza di Chris Cornell, però ho percepito una forma primordiale della band di Seattle che sottolinea comunque ancora una volta, un certo ecletismo sonoro da parte dei due artisti. A chiudere questo primo capitolo, ci pensano le asfissianti e lisergiche note di "House of Locusts (Intravenous Sunshine)", che ci inghiottiscono definitivamente nel mondo malato dei Beware of Gods, che in questo loro debutto si sono peraltro ispirati al mito di Azathoth, l'onnipotente "The Blind Idiot God" descritto da HP Lovecraft nelle sue opere, a testimoniare quanto questi due stravaganti personaggi abbiano da raccontare attraverso la loro musica. (Francesco Scarci)

giovedì 27 ottobre 2022

Jeff Ament - While my Heart Beats

#PER CHI AMA: Psych Rock
Nella convincente "When the Fire Comes", una rutilanza social-distorta intessuta di etnicismi Three-fish suggerisce una solidità compositiva, ahimé disillusa nel prosieguo. Nella prima parte si alternano, va detto: con una certa vivacità, ruvidi jam-punkettini ("War in Your Eyes"), distrattamente – ed è la novità – ammicanti a certa wave-80 ("Give it a Name", con un po' di fantasia la stessa "Ulcers & the Apocalypse" in apertura). Risulta affascinante il modo in cui la ballad "While my Heart Beats" viri educatamente verso dissonanze desert-psych in un modo che vi ricorderà certe cose degli Arbouretum. Al giro di boa, "The Answers" ammicca ai toni più plumbei di "Nothing as it Seems" lasciando presagire un finale prettamente doom and gloom. Niente di tutto ciò: da lì in poi il carburante scarseggia, l'ispirazione tossisce e sputacchia e la navigazione procede a (s)vista nella direzione di un folk-pop tardi-Rem tutt'altro che entusiasmante. Potreste essere tentati di saltate direttamente alla ninnanannosa "Never Forget" in chiusura. Nel caso, non vi perdereste niente di che. (Alberto Calorosi)

giovedì 20 ottobre 2022

Kodaclips - Glances

#PER CHI AMA: Shoegaze/Post Punk
I Kodaclips sono una creatura formatasi nel recente passato. La formazione del quartetto italico risale infatti al 2021, con 'Glances' a rappresentarne il disco di debutto e una forma di tributo ad una delle principali influenze della band, ossia i post rockers statunitensi Slint, con il titolo a citare il testo di "Don, Aman", traccia inclusa nel secondo disco 'Spiderland'. Fatti questi dovuti preamboli, la musica dei nostri si muove nello spettro del post rock/shoegaze sognante ed etereo, con certe divagazioni che chiamano in causa anche un certo alternative rock stile Smashing Pumpkins (e penso ad alcune schitarrate incluse nell'opener "Temporary 7") che ben si amalgama con ammiccamenti e derive varie che ci porteranno nei paraggi di certo post punk. Lo shoegaze viene fuori alla grande nella seconda "Pacific", un brano dotato di una certa vena malinconico-depressiva, soprattutto a livello vocale e nelle cupissime melodie che ne affliggono l'andatura. Qui l'aura shoegaze si miscelerà ancora con il post rock che si esplica nel finale grazie a fraseggi in tremolo picking. L'inizio di "Drowning Tree" poteva aprire tranquillamente qualche brano dei The Cure ma i punti in comune con alcune band del passato ci conducono anche ai The Jesus and Mary Chain di "Mood Rider", mentre, sempre ampio spazio strumentale viene concessa alla seconda parte del brano, dotata di celestiali aperture post rock ma anche di roboanti riffoni post grunge. La voce di Alessandro Mazzoni è convincente quanto basta nel suo malinconico riverbero. "Not My Sound" apre con un sound ripetitivo quasi ipnotico, complice il frontman a cantare ininterrottamente "it's not my sound..." e con una coda noise nel finale. Convincenti, mi piacciono. Anche se non tutti i brani sono accattivanti allo stesso modo: "Cerbero" ad esempio la trovo un po' più statica e piattina, anche se da metà brano in poi prova ad invertire rotta e rimettersi in carreggiata con un cambio nell'architettura ritmica, sfoderando peraltro un bell'assolo conclusivo. "Muffling" non mi fa impazzire invece per quella sua eccessiva vena brit-pop nella prima metà, ma credo sia più un problema del sottoscritto, ancorato a sonorità più estreme. Nel corso del brano, la porzione ritmica si farà più energica (complice il basso di Sonny Sbrighi a tracciare poderosi fendenti), cosi come le contaminazioni noise emergeranno alla grande, invertendo nuovamente il mio giudizio iniziale. Musicalmente "Longinus" mi richiama qualche sperimentalismo di "primusiana" memoria mentre la conclusiva, strumentale e più lunga traccia del lotto, "Chrysomallos", chiuderà questo 'Glances' con l'eleganza, la robustezza e la maturità di una band di veterani, anche se, con la voce, il risultato è di tutt'altro effetto. (Francesco Scarci)

(Overdub Recordings - 2022)
Voto: 74

https://www.facebook.com/kodaclips/

mercoledì 19 ottobre 2022

The Mañana People - Song Cycle, Or Music For The End Of Our Times

#PER CHI AMA: Psych Folk/Indie
Rimango sempre sbalordito quando incontro band di questo tipo e scopro che la loro provenienza il più delle volte è la Germania. Certo, in questa terra è nato il krautrock direte voi, quindi la psichedelia è di casa, ma la diffusione del psych folk, rimodernato e aggiornato ai nostri giorni, è cosa più in disuso di questi tempi, quindi, voi giurereste sul fatto che il folk psichedelico oggi, abbia trovato casa a Bonn? Dopo aver ascoltato questo duo tedesco, me ne sono convinto, ed è innegabile che in Germania esista un'anima psichedelica molto radicata. Sono rimasto affascinato dal modo intrigante di intendere la musica in questione da parte di questi due giovani musicisti, una commistione di voci e modi di fare del passato, filtrate da sonorità fresche, ricercate e moderne. Partiamo dal fatto che i "Fab Four" e i The Moody Blues hanno lasciato un segno nell'infanzia dei due giovani artisti, che il Paul McCartney dell'album 'Ram' sia uno degli imputati assieme al suo psichedelico amico John, che i richiami ai The Flamming Lips più pop e moderati siano indiscutibili, la presenza lontana del buon Syd Barrett, l'influenza e la precedente collaborazione con Bonnie Prince Billy e un'arrangiamento molto spesso degno delle visioni migliori del grande Nick Drake, fanno di quest'album un'ottima espressione di come si possa suonare stralunati oggi, senza cadere nel plagio o nella ripetitività, in maniera del tutto naturale e originale, creando un disco coloratissimo e vitale, caldo e brillante, proprio come se l'anno in corso forse il 1968. Impossibile dare un premio al pezzo migliore, visto che il disco scivola deliziosamente canzone dopo canzone con una facilità d'ascolto impressionante, tanta è la quantità di suoni e arrangiamenti cosmici presenti al suo interno, la sua orecchiabilità, e l'equilibrio tra forme retrò e soluzioni moderne è attraente e dona alla band un'identità forte e chiara. Tutto è al posto giusto e nelle giuste percentuali si dividono il folk, il country, il pop, la psichedelia ed il lato elettronico minimalista, con una capacità di riesumazione e restaurazione dei canoni di un genere che non sentivo così costruttivo dai dischi degli Scott 4 di fine anni '90, ed in tempi recenti nell'album 'The Brave and the Told' dei Tortoise proprio con Bonnie Prince Billy. Non solo nel comporre ma anche nel canto, i The Mañana People, sono degli autori formidabili, che generano liriche ad effetto, che possono spaziare dagli echi di Arcade Fire ai già citati Fab Four o The Moody Blues, con una facilità ed un'eleganza non comuni. Un disco da ascoltare e riascoltare più volte, un disco che si presenta come semplice prodotto folk, ma che al suo interno nasconde molto molto di più, un vero bosco incantato di suoni e rimandi musicali, un album consigliato a chi ama farsi sorprendere e farsi trasportare in altri mondi a suon di musica allucinata. Imperdibile per gli estimatori del genere. (Bob Stoner)

venerdì 30 settembre 2022

Brennensthul – No

#PER CHI AMA: Jazz/Kraut Rock
Esce via Tonzonen Records/ Headape Records il nuovo album dei Brennensthul, ed è intitolato semplicemente 'No'. In realtà questo titolo si attiene molto al corso musicale del disco, poiché individuare con esattezza quale genere stia suonando il quartetto tedesco, è cosa assai ardua, e a chi li vorrebbe più sulla sponda acid jazz o più sul versante sperimentale del kraut rock, la risposta sarebbe appunto in sintonia con il titolo, un secco "No", per uno stile come per l'altro. La giusta definizione li comprenderebbe infatti contemporaneamente all'interno delle due scene musicali e non solo. La musica di questo quartetto di Amburgo è sofisticata come il jazz, contiene una grossa ma mai pesante componente sperimentale vicina al kraut rock, un piglio funk, una buona dose di psichedelia e sfumature pop, che la rendono accessibile anche a chi non è abitudinario delle esplorazioni musicali più libere e stravaganti. Vi si trova anche della soul music, come nel singolo "Xpress Yourself", ed il collegamento con l'acid jazz, come nel primo omonimo album, è meno marcato che in passato. La componente sperimentale è più evidente, portando notevole qualità in più alle composizioni, che risultano sempre sofisticate e molto variegate. A volte il suono delle chitarre è acido, ruvido, e risulta un po' strano per lo stile in questione, ma nelle parti più in evidenza dona un tocco caldo e molto free rock ai brani. Nota importante è per la bella voce di Eva Welz, che con il canto ed il suono del suo magico sax, trascina la band nei territori più variegati, dalle atmosfere jazz più classiche all'avanguardia, come in "Turtledrive", oppure nella eterea psichedelia della strumentale "Common Slider". Questo disco ha un altro fattore che gioca a proprio vantaggio in maniera strategica, ovvero che la stupenda voce in questione canta in lingua madre quasi tutti i brani, unendo la sua grazia vocale all'aspra pronuncia del tedesco, e devo ammettere che è proprio un bel connubio, che trovo più originale dei pochi brani cantati in inglese. L'intro psichedelico ed il brano "Ja Ja", valgono da soli il disco, mentre la title track s'illumina di un fascino proprio. Non possiamo dimenticare poi come una ritmica profonda e suoni molto intensi e caldi riescano a mettere in evidenza anche un lato sperimentale della band, che trova il suo punto di partenza dai pochi secondi del minimale crescendo rumoroso di "Urknall", passando per la splendida coda finale, progressiva e psicotica di scuola Zorn, di "Machine Gun Mammut", un brano che nei suoi sette minuti circa, racchiude tutti gli stili compositivi della band. Il disco si chiude con "Drei", che inaspettatamente s'immerge in un clima da balera folk all'interno di una festa popolare di paese, mostrando un lato alquanto eclettico del quartetto, naturale e marcato. Decisamente questo nuovo disco dei Brennensthul unisce ed evolve le anime espresse dalla band nei suoi precedenti lavori, un netto salto in avanti, un album di carattere, un'opera matura. Da ascoltare con molto interesse verso i particolari e alle sue evoluzioni sonore. (Bob Stoner)

(Tonzonen Records/Headape Records - 2022)
Voto: 82

https://brennenstuhl.bandcamp.com/album/no

sabato 24 settembre 2022

Bjørn Riis - A Fleeting Glimpse

#PER CHI AMA: Psych Rock, Pink Floyd
Cavolo, non sono nemmeno passati sei mesi dall'ultimo 'Everything to Everyone' che il bravissimo Bjørn Riis ci delizia con un altro piccolo gioiellino di prog rock. Solo quattro pezzi questa volta per il musicista norvegese ed un EP totalmente inatteso dai fan. Quattro pezzi dicevamo, che mostrano la totale devozione di Bjørn per i maestri di sempre, i Pink Floyd. Un qualcosa che si palesa nelle delicatissime note dell'opener "Dark Shadows (Part 1)", dove con una carrambata da leggenda, il polistrumentista scandinavo piazza accanto alla propria voce, Durga McBroom, corista dei Pink Floyd dal "A Momentary Lapse of Reason Tour" del 1987 fino al concerto finale del "The Division Bell Tour" nell'ottobre 1994, senza contare le sue apparizioni in studio in 'The Division Bell' e 'The Endless River', e ancora nel tour solista del 2001 di David Gilmour. Fatte queste ennesime premesse, non sarà cosi complicato ascoltarci dentro a questi 26 minuti di musica space prog rock un turbinio di suoni che riportano Bjørn alle proprie radici, tributando in lungo e in largo la band britannica. Penso soprattutto alla strumentale "A Voyage to the Sun" che chiama inequivocabilmente in causa la leggendaria "One of these Days", per il suo evocativo tambureggiare, i suoi splendidi e ipnotici giri di chitarra che vanno via via crescendo ponendosi sopra l'abile armeggiare dei sintetizzatori. "Summer Meadows" è un'altra traccia strumentale che apre con un bell'arpeggiato figlio degli anni '80, carico di un flusso emozionale da brividi che ci condurrà fino all'ultima song, "Dark Shadows (Part 2)". Qui si riprende là dove Bjørn aveva lasciato con la prima traccia, questa volta con un supporto vocale più risicato da parte di Durga, relegato solo nel finale. Il risultato tuttavia non sembra risentirne vista la bravura del frontman dietro al microfono ed un sound che oltre ad evocare i Pink Floyd, sublima in stratificazioni elettroniche alla 'You All Look the Same to Me' degli Archive. Poi quando la scena se la prende la chitarra solista, beh sono solo applausi per un paio di minuti fino a che subentra la voce di Durga. E pioveranno ancora solo applausi. (Francesco Scarci)

Dead Man's Eyes - III

#PER CHI AMA: Indie/Pop Rock
In fondo, il terzo album dei Dead Man's Eyes, intitolato semplicemente 'III', risulterà come il resoconto di un cammino artistico che si alimenta di pop, indie, country e rock fin dagli albori, quindi, non sarà difficile farlo entrare nelle grazie dei loro fedeli fans più accaniti. Una copertina ultra psichedelica ci fa intuire fin da subito l'attitudine della band teutonica che apre le danze con un brano dal sapore molto country/folk, molto americano, con un'armonica ben in evidenza e una cadenza festosa ("High on Information"). Il disco è ben prodotto ed è uscito via Tonzonen Records, ha suoni caldi e profondi e la band si presenta compatta e determinata, verso una meta che fa dell'orecchiabilità, un fattore di qualità ("I'll Stay Around"), senza pensare nemmeno per un istante che ad essere pop si perda il gusto per la composizione raffinata e ben strutturata. A volte potrebbero rientrare anche nella scena musicale Paisley Underground alla The Dream Syndicate per intenderci, ed è il loro lato che preferisco, ma un'attitudine stilistica troppo mainstream, tradisce le loro ambizioni di mettersi in mostra veramente, presentando brani come "In My Fishbowl" o "Take Off Soon", che andrebbero anche bene per uno split con i Gorillaz. Però i Dead Man's Eyes sono astuti, e si ritagliano anche uno spazio tra i cuori degli amanti dell'indie pop rock più ortodossi, con pezzi dal forte umore alternativo e di buon impatto come "Into the Madness", "Never Grow Up" e "Nobody at All", tra le atmosfere dei Lindisfarne rivisitate, un blues rimodernato di scuola Canned Heat e la psichedelia morbida di Alan Hull (epoca 'Squire 1975'), e una vena rock che si muove sulle vie polverose dei Polvo. Il traguardo del terzo capitolo sonoro è una meta importante e la band tedesca non delude affatto, anzi affila le sue armi per apparire sempre più accessibile, anche se nel sottobosco sonoro, si avverte una cura quasi maniacale per i particolari e una ricerca di suoni di beatlesiana memoria. Nota di riguardo per "Time and Space", brano che risulta atipico per le sue movenze easy listening, brano strumentale dal taglio seventies, una linea melodica in mid-tempo, vellutata quel tanto che basta per creare un ottimo e confortevole stacco a metà dell'opera. Un disco questo da ascoltare attentamente e ripetutamente, per superare il suo facile approccio pop per poi scoprire tutta la bellezza delle sue sofisticate sfaccettature sonore. Consigliato! (Bob Stoner)

(Tonzonen Records - 2022)
Voto: 74

https://deadmanseyes.bandcamp.com/

sabato 17 settembre 2022

1/2 Southern North - Narrations of a Fallen Soul

#PER CHI AMA: Occult Doom Rock
Della serie Les Acteurs de L’Ombre Productions colpisce ancora, ecco arrivare gli evocativi 1/2 Southern North con un esempio di dark doom occulto. ‘Narrations of a Fallen Soul’, primo capitolo della one woman band greca guidata dalla sacerdotessa IDVex Ifigeneia, si apre con la lunghissima “Alpha Sophia” che prova a darci le prime indicazioni della proposta dei nostri. Oltre dodici minuti di suoni oscuri, compassati, esoterici, psichedelici, deliziati dalle vocals della frontwoman ellenica. Il sound dei 1/2 Southern North mi ha evocato quello dei californiani Lotus Thief, abili miscelatori di psych rock, ambient, space, post e un non so che di black metal. Qui ci troviamo al cospetto di un’artista che si muove su coordinate similari e che fa sicuramente della propria voce l’elemento portante e distintivo che va poi a poggiare su atmosfere orrorifiche che vedono peraltro la presenza di una sgangherata partitura di violino nella title track a cura di Efraimia Giannakopoulou, una dei tanti ospiti che popolano questa release. “Hearts of Hades” affida la sua parte introduttiva ad una declamazione in greco che poggia su suoni di flauto e tamburo. L’effetto è sicuramente particolare, soprattutto quando la voce della cantante si fa più suadente, anche se otto minuti di questo tipo rischiano di frantumare i neuroni anche dei più stoici. E la ridondanza sonora è uno dei must di questo lavoro: ascoltatevi la parte introduttiva di “Breastfeed Your Delighful Sorrow” e ditemi se anche voi come il sottoscritto avete perso la pazienza dopo i primi 60 secondi. Poi il brano evolve in un crescendo melodico accattivante, tra parti atmosferiche, altre arpeggiate, ma che tuttavia rischia di stancare per la sua eccessiva durata, un’altra peculiarità di un disco che raggiunge I 67 minuti di durata con pezzi che si assestano tra gli 8 e i 12 minuti. L’unica eccezione è rappresentata da “Song to Hall Up High”, storica song dei Bathory dei tempi di ‘Hammerheart’, riletta completamente in chiave avanguardistica dai nostri, ma mantenendo intatta l’epicità dell’originale, “sporcandola” semmai di influenze noise/droniche. A completare il quadro delle canzoni incluse in questo disco, ci sono ancora l’inquietante “Elegy of Hecate”, forse il brano più sperimentale e progressivo del lotto che mi ha evocato peraltro anche un che dei Thee Maldoror Kollective di ‘Knownothingism’. Infine, gli oltre 12 minuti di “Remnants of Time”, un pezzo che ammicca addirittura al jazz e in cui a trovare posto sarà questa volta il sax di George Kastanos. Quello dei 1/2 Southern North è alla fine un lavoro davvero ambizioso, concettualmente interessante ma decisamente ostico musicalmente parlando, che pertanto necessiterà di svariati ascolti per essere assimilato. (Francesco Scarci)

(LADLO Productions/Satanath Records/Fog Foundation - 2022)
Voto: 68

Heat Fandango – Reboot System

#PER CHI AMA: Psych/Noise Rock
Già da qualche tempo ci troviamo ad avere a che fare con dischi che sono in qualche modo figli del lockdown, del distanziamento sociale o, comunque lo si voglia chiamare, di quella cesura nella vita di molti che è stato l’annus horribilis 2020. Ci sono dischi che sono nati “per colpa” (o merito) del lockdown nonostante questa cosa sia arrivata a prendersi gran parte della nostra vita sociale. 'Reboot System' fa molto probabilmente parte di questa seconda categoria: registrato tra marzo e maggio 2020, forzatamente “a distanza”, non è chiaro se i brani fossero stati scritti e provati prima, “in presenza” (inquietante quanto certe espressioni, altrimenti orribili e cacofoniche, siano ormai entrate nel nostro lessico quitidiano) dalla band al completo. Comunque sia, Tommaso Pela, Marco Giaccani e Michele Alessandrini hanno registrato questo loro esordio ognuno a casa propria ed il risultato finale è davvero di ottima fattura. I tre hanno all’attivo una lunga militanza nell’undergound marchigiano e portano in dote indiscutibile perizia tecnica, idee chiare sulla direzione da intraprendere e sul suono che vogliono avere. Le radici sembrano affondare con decisione nel garage rock americano in stile Fleshtones, ma il suono non è mero revival e cerca nuove strade, affiancando chitarra twang a synth taglienti e una sezione ritmica potente e precisa, di stampo quasi wave. E gli episodi migliori sono proprio quelli in cui la commistione tra queste due anime, quella garage e quale wave, viene esibita e spinta in maniera scoperta ("Controlled", "Guilty"). In definitiva, un disco che è una bella boccata d’aria, meno di 35 minuti molto divertenti e mai banali. Rimane la curiosità di capire se e quanto gli Heat Fandango suonino diversi visti dal vivo, tutti insieme sullo stesso palco. (Mauro Catena)

(Bloody Sound Fucktory - 2021)
Voto: 74

https://bloodysound.bandcamp.com/album/reboot-system  

venerdì 29 luglio 2022

Sound of New Soma – Musique Bizarre

#PER CHI AMA: Psych/Kraut Rock
L'ultima opera di questo duo tedesco, composto da Alex Djelassi e Dirk Raupach, è un parto cospicuo di 12 brani (ovvero un doppio album) messi insieme con parti scritte e donate da altri musicisti della Tonzonen Records. Compagni di scuderia (tra cui membri di The Spacelord, Vespero, etc), che hanno partecipato attivamente con le loro idee, alla realizzazione di questo undicesimo disco targato Sounds of New Soma. L'ambiente sonoro di 'Musique Bizarre' si muove attorno al regno della psichedelia più tenace e multiforme (guardatevi i video nel loro canale youtube per farvi un'idea), ipnotica e orientata verso forme di German rock, con un gusto per un certo immobilismo sonoro che induce verso l'estasi sensoriale, profuso in tutti i brani, anche se per ognuno di loro si può descrivere un universo interiore diverso dall'altro. Il mondo psych, da 'Timewind' di Klaus Shulze ai Tangerine Dream, incontra l'elettronica moderna con l'intento di riorganizzare la forma più robotica del kraut rock degli esordi, ed in sostanza tra queste tracce, si riconfermano i sentori cosmici del disco precedente, anche se qui la sezione ritmica gioca un ruolo fondamentale nel dirigere il viaggio cosmico. "Berlin Marrakesch" è una lunga suite che come preannuncia il titolo, farà la gioia dei psyconauti più vicini alle escursioni esotiche nel ricordo degli Aktuala dell'omonimo album del 1973, tra ambient sintetico, elettronica vintage e rintocchi dal sapore etnico, che riportano ad un Magreb futurista e proiettato in un deserto di qualche altra sconosciuta galassia. "Waidmann" si alterna a sapori post industriali e classicismo, con una tromba inaspettata che squarcia l'atmosfera di scuola Vangelis, che l'avvolge e ne stravolge il verso iniziale, mentre per "Klausz" (il titolo è fuorviante) credo sia indubbia la ricerca di una composizione per rendere omaggio all'infinito musicale del maestro Sakamoto, autore di brani simili, come "Hibari". In questo disco appaiono molte composizioni di lunga durata, tra le tante "Gökotta", che mi ha colpito più di altre per la sua locazione industrial/kosmische musik, mentre "Balkenspirale", è un altro brano di lunga durata ispirato e alimentato dalla mano sapiente (in fatto di rock psichedelico) degli The Spacelord, e sviluppato secondo i canoni ipnotici degli Ozric Tentacles ed anche dei Porcupine Tree di un tempo. In definitiva i Sounds of New Soma riconfermano il loro amore per certa ambient psichedelica ben strutturata e raffinata, ispirata dai grandi maestri del passato e con l'aspirazione massima di ripercorrerne le orme e rinverdirne le idee, con il rischio concreto che l'originalità non sia sempre una prerogativa. Comunque, dopo questa ennesima buona prova, per il duo tedesco l'appellativo migliore è quello di nipotini talentuosi dei Tangerine Dream, provenienti direttamente dalla costellazione di Alpha Centauri. (Bob Stoner)

martedì 5 luglio 2022

Grombira - Lunar Dunes

#PER CHI AMA: Psych/Kraut Rock
Se una volta la Germania era identificata come la patria di wurster, crauti, birra e thrash metal, ora mi verrebbe da dire che la scena abbia virato drasticamente verso sonorità progressive, psichedelico-sperimentali. Non ultimi questi Grombira che tornano con un nuovo album, 'Lunar Dunes', ed un concentrato assai interessante di ipnotiche sonorità mediorientali che mi riconducono immediatamente ad un altro lavoro recensito su queste stesse pagine, ossia 'In the Caves' dei russi Cosmic Letdown che fece sobbalzare il sottoscritto e soci, per quei suoi contenuti fuori dall'ordinario, cosi mistici e avvolgenti. Si presentano in modo altrettanto simile i quattro musicisti di Würzburg che con l'opening track "Saraswati Supercluster" e i suoi oltre 15 minuti, ci catapultano nel loro mondo fatto d'improvvisazione, la classica jam session dove dar voce a tutte le idee che pullulano le menti dei nostri, da sonorità orientaleggianti appunto, allo space rock, passando attraverso psichedelia, kraut rock, jazz e chi più ne ha più ne metta, il tutto ovviamente proposto in chiave quasi interamente strumentale, fatto salvo per alcuni cori che impreziosiscono la lunghissima ed avvolgente traccia, che ha ancora modo di mettere in luce nel finale una splendida linea di basso e una spettacolare porzione percussiva. Con "Civilization One" le cose non cambiano poi di molto, soprattutto a livello di durata, con altri 13 stravanganti minuti ad attenderci. L'inizio della song mette in luce una componente elettronica in background (quasi una voce robotica generata però da uno degli strani strumenti suonati dalla band) che va a collidere con la classica e immancabile parte mediorientale. La traccia ha però modo di evolvere in modo imprevedibile, con dei sample femminili, registrati peraltro a Essaouira (Marocco) dal polistrumentista sheyk rAleph, una delle menti della band, durante le sessioni di registrazione. Comunque, il pezzo è evocativo, per quella sua miscela di rock e musica etnica. L'inizio di "Dune Tune" mi ha ricordato un pezzo dei Bowland, una band iraniana che si mise in mostra qualche anno fa a X Factor: partendo da suoni della tradizione locale ma poi lavorando in modo raffinato sul proprio sound, quello che mi rimane in testa è un che evocante usi e costumi mediterranei (Grecia in modo particolare). Gradevole, ma prende le distanze da quello space rock che avevo apprezzato nelle prime due tracce, sfociando qui in un world fusion che si è completamente perso per strada la componente rock. Lo stesso dicasi per la successiva "Mad Mullahs", in cui confluiscono suoni, colori e profumi del nord Africa con la strumentazione classica che si unisce ad una serie infinita di strumenti etnici in una danza tribale che si completerà con la conclusiva danzereccia e vorticosa "Moonface Kumneitodis". Bravi sicuramente, ma indicati per un pubblico decisamente dai gusti raffinati e ricercati. (Francesco Scarci)

(Tonzonen Records - 2022)
Voto: 75

https://grombira.bandcamp.com/

lunedì 27 giugno 2022

Primus - Conspiranoid

#PER CHI AMA: Funk Blues Rock
Ci hanno impiegato cinque anni i Primus per tornare a farsi sentire. Dopo il discreto 'The Desaturating Seven', ecco riaffacciarsi sulle scene il trio nella sua veste originale che comprende l'onnipresente Les Claypol e i suoi fidi scudieri, Larry LaLonde e Tim Alexander. Il nuovo EP è intitolato 'Conspiranoid' e spero sia un antipasto per un nuovo full length pronto a venire. Tre pezzi che iniziano con gli undici minuti e mezzo della squilibrata "Conspiranoia" che ci restituiscono l'insana follia della band californiana con una serie di giochi di chitarra (e basso psicotico annesso) che faranno la gioia dei fan dei nostri. L'inconfondibile e unica voce di Les completano poi un quadro di suoni che si muovono su una marcetta slow-tempo, resa intrigante dal chorus "Conspiranoia". Il rincorrersi psichedelico poi di chitarra e basso fanno il resto come da oltre trent'anni i tre marziani ci hanno abituato. Inutile pensare di prevedere le mosse dei nostri, anche qui sembra di assistere ad una jam session tra amici che hanno pensato di arricchire il proprio sound con funkeggianti fughe blues space rock e inserimenti di spoken words che propongono un lirismo legato alle più disparate teorie cospirazioniste del nostro tempo. Un banalissimo basso alla ZZ Top (chi ha detto '"La Grange"?) apre la seconda (sempre più funky) "Follow the Fool", un brano che sembra evocare addirittura lo spettro di Elvis "the Pelvis". La terza "Erin on the Side of Caution", con quella sua verve di zappiana memoria, si affida sempre alla sghemba tecnica dei tre musicisti statunitensi unita ad una ricerca musicale che conferma quanto i tre pazzoidi americani non siano ancora sul punto di abdicare. (Francesco Scarci)

domenica 8 maggio 2022

Remote - The Great Bong of Buchenwald

#PER CHI AMA: Stoner/Doom
Buchenwald fu uno dei più importanti campi di concentramento e sterminio durante la Seconda Guerra Mondiale, argomento non proprio simpatico in questo periodo storico. Tuttavia, la presente uscita si riferisce ad un album, 'The Great Bong of Buchenwald', rilasciato in realtà nel 2014 dalla Bad Road Records e ripreso lo scorso anno dall'Addicted Label per promuoverlo ad un pubblico ben più ampio, non ha nulla a che fare con il nazismo essendo focalizzato sull'uso delle droghe. Quello dei Remote, band originaria di Kaluga che da poco abbiamo recensito anche con la loro release 'The Gift', è infatti un altro disco rimasto nascosto nel cassetto e che propone, come già raccontato in precedenza, un mix ostico e corrosivo di sludge, psych e doom, che trova nel death l'unico punto di contatto grazie ad un growling vetriolico. Il trio comunque si diletta nel muoversi tra i generi sopraccitati con spunti più o meno interessanti che vedono nelle esplosioni chitarristiche o in assoli lisergici ("150"), forme più o meno indovinate della loro espressione musicale. Non mi avevano entusiasmato con 'The Gift', non lo fanno certo oggi, anche se devo ammettere che alla fine, ho apprezzato maggiormente questo lavoro rispetto a quello che sarà il successivo. Complice una serie di brani che i nostri mettono in fila con maggior convinzione, ossia l'allucinata "Doped" tra stoner e psichedelia, la successiva "Pandemonium", entrambe nel loro incedere, evocano un che degli americani Bongzilla e ovviamente degli Eyehategod che già avevo evidenziato in 'The Gift'. Per il resto, i nostri sono buoni mestieranti, che non hanno certo inventato l'acqua calda, ma che comunque sanno come mettere in fila tre note sensate, soprattutto nella conclusiva "Ashes to Ashes", ubriacante emblema desert stoner doom dei Remote. Ultima mezione con plauso, alle sempre meravigliose copertine dei dischi, oniriche. (Francesco Scarci)

(Bad Road Records/Addicted Label - 2014/2021)
Voto: 65

https://remote-band.bandcamp.com/album/the-great-bong-of-buchenwald