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giovedì 27 aprile 2023

Svntax Error - The Vanishing Existence

#PER CHI AMA: Psych/Post Rock
Era da un po’ che non avevo dischi della Bird’s Robe Records da recensire, ci pensavo qualche giorno fa, eccomi accontentato. A giungermi in soccorso in questa mia richiesta, ecco arrivare i Svntax Error, band australiana che rilascia questo ‘The Vanishing Existence’ a distanza di quattro anni dal precedente ‘Message’. La proposta, come potrete intuire dall’etichetta discografica, è un fluido post rock (semi)strumentale come solo la Label di Sydney sa offrire. Dico fluido perché è la prima sensazione che ho fatto mia durante l’ascolto della traccia d’apertura “Radio Silence”, timida, psichedelica, quasi ipnotica, a cui si aggiunge poi quell’ipnotismo claustrofobico intimista della seconda “Broken Nightmares”, che vede peraltro comparire la voce di Ben Aylward in un pezzo dai forti brividi lungo la schiena, un vellutato manto di dolce malinconia che fa allineare i miei chakra a quelli dei musicisti originari di Sydney. “215 Days” è ancora imbevuta di note di velluto, flebili e morbide come la famosa copertina di Linus, un porto sicuro, un abbraccio della persona amata, un posto dove piangere, riflettere o rilassarsi. “Circular Argument” è invece un pezzo più da lounge bar, di quelli dove un riff o un giro di chitarra si fissa nel cervello e da li non si muove; nel medesimo brano ritorna anche la voce del frontman a confortarci con la sua ugola gentile. Esperimento che si ripeterà anche nella percussiva, arrembante e ben riuscita “Relentless”, un brano che mi ha in questo caso richiamato gli Archive più sperimentali, e nella conclusiva “Backwards Through the Storm”, in una sorta di tributo ai Tool. La title track si affida ad un post rock strumentale cupo e dal flavour notturno, che nella sua crescente dinamicità, potrebbe addirittura evocare un che dei Pink Floyd. Ultima menzione per “Kelvin Waves Goodbye”, con i sentori pink floydiani che si coniugano alla perfezione con gli estetismi shoegaze dei Mogwai, ma dove a prendersi tutta la scena, è in realtà lo spettacolare suono del theremin di Matthew Syres. Provare per credere il crescendo di un brano di una portata spettacolare, unico ed epico, che vi invito decisamente a supportare. (Francesco Scarci)

mercoledì 5 aprile 2023

Vektor - Black Future

#FOR FANS OF: Prog Thrash
This album is incredible. The amount of work it took to put it together, riffs and all was probably a while! David DiSanto is probably one of the top progressive thrash metal guitarists known. His work is quite technical! The rhythms and leads are outstanding. I'm glad the band reformed, though with some different musicians. That is fine as long as they can keep up with this guy. Vektor is a band with an acquired taste to them, they're not for everybody. Even though they're not for everybody doesn't mean that metalheads should disrespect their work. This album quite resoundingly is just an ass-kicker. So fast in many parts, yet there are parts where tempos slow down.

I liked all the songs on here and felt that every single one of them was put heart and soul into. The main things I like about it ARE the tempo changes and vocals. David's high-end screams shriek but most of the time they're tolerable. The abilities here with the songwriting capabilities are just astounding. I don't care what anyone says, Vektor is in a league of their own. Far surpasses a lot of bands nowadays. These guys are truly respectable individuals in terms of music, maybe not morals. But that's not what concerns me here. All I care about is the band's music, not lifestyle habits or way of life. As long as they can hack it here, that is what matters.

I've been able to find this album in a local record store actually, it only took 10 years to show up at a record store. I thought being Vektor it's gotta be good. And as I came to believe that it was a good choice! The songs on here are somewhat long, some the tracks are over 10 minutes in length. But they never get boring. They're more interesting the more you listen to them. Being a former guitarist, I notice things about the riffs and that the tremolo picking is superior, the leads spellbinding! These guys are far above being amateurs. They're way more advanced, the music just slays. I wouldn't say any song on here is "dull." Quite the contrary.

Since I bought the physical CD, doesn't mean that it is required. As long as you get to hear this is what matters. But showing that you support the band in any way, that is what counts. These guys I hope will stick around for a long while. It's been 10+ years so far (with gaps), so I hope they will endure a long career. I always say to support the band by buying their album, but now people mostly revert to digitally downloading albums. Some of my friends don't even have a CD player! But stay old school and buy the CD if you still have a device that plays it! Vektor is sticking around, and what a debut 'Black Future' is and what they all have become! (Death8699)


(Heavy Artillery Records/Earache Records - 2009/2018)
Score: 85

https://vektor.bandcamp.com/album/black-future

sabato 1 aprile 2023

Dobbeltgjenger – The Twins

#PER CHI AMA: Indie Rock/Alternative
Bisogna ammettere che la terza prova sulla lunga distanza del quintetto di Bergen, è da considerarsi la migliore realizzazione nella recente discografia dei Dobbeltgjenger. Musicalmente parlando, si nota fin da subito come una registrazione ed una produzione molto in linea con le mode dell'indie pop attuale, abbiano permesso il salto di qualità a lungo ricercato dalla band, negli album precedenti. Il quintetto ha saputo quindi focalizzare le proprie idee fino a renderle assai credibili, e in ambito pop, possono tranquillamente aspirare ad una visibilità su vasta scala. Il fatto che il pop sia predominante non crea nessun disagio alla proposta sonora offerta nel nuovo album. I suoni di 'The Twins' sono filtrati in una maniera molto moderna, e ricalcano certe vie intraprese da St. Vincent nell'omonimo album del 2014, e si mescolano ad una sana dose di funk e spunti rock, che ricordano certe cose degli Incubus più orecchiabili. Una sezione ritmica con un bassista virtuoso è nascosta nella ossessiva rincorsa al pezzo più cool, e a volte, ci si chiede persino perchè non abbiano optato per una soluzione più hard rock per questo album, ma la loro attitudine è più vicina ad album come 'The Chair in the Doorway' dei Living Colour, piuttosto che per qualcosa di più duro. La differenza è anche da ricercare in una raffinata sensualità, perfettamente in linea con alcune intuizioni pop degli INXS d'epoca e immagino che, se la band del compianto Michael Hutchinson fosse ancora tra noi, suonerebbe più o meno come questo nuovo lavoro della band norvegese. Basta sentire il finale di "Purplegreenish", oppure la stessa "Pink" per intuire che ingenuamente o volutamente, il riff di chitarra è pericolosamente ispirato dalla famosa "Suicide Blonde" o "I Need You Tonight", hit della band australiana, e questo mi piace parecchio, visto che nonostante tutto, le tracce riescono a mantenere un loro stile originale. Sono degli ottimi musicisti questi norvegesi, con un cantante bravo e padrone della scena e, al netto del taglio pop, i virtuosismi chitarristici e ritmici si sentono eccome. Certo, li avrei preferiti più rock ma forse questo è il loro contesto migliore e lo hanno voluto rimarcare con suoni ricercati, distorti ma di tendenza e ultra moderni, anche perchè, ditemi voi come si può stare fermi di fronte al giro funk di basso di "Genghis Khan", e alla sua esplosiva evoluzione. Un brano come "Shoot" potrebbe essere un out take dei Muse più dance oriented, mentre "Like Crocodile" e "Toughen Up" mostrano un lato più elettronico dai richiami dance e synth wave, dimenticando per un po' le chitarre. "When You Said That You Were Fine", vive di un basso frizzante per un free rock molto fresco e intelligente, e dimostra come l'esplorazione sia una prerogativa in tutte le tracce di questo buon disco che chiude degnamente con "Done", un esperimento di tre minuti tra space music ipnotica e un'apertura inaspettata ai confini cosmici del progressive rock in stile seventies che conferma la fantasia e l'abilità di questa interessantissima band. 'The Twins' è un album tutto da scoprire, per cui sono peraltro consigliati ripetuti ascolti anche in cuffia. Disco da non perdere. (Bob Stoner)

giovedì 2 marzo 2023

Enslaved - Ruun

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Black Progressive
Devo ammettere di non essere mai stato un grandissimo fan della band norvegese, ma dopo la svolta di 'Monumension', iniziai ad apprezzare enormemente il sound di Grutle e soci, aspettando ogni anno l’uscita dell’ennesimo piccolo gioiellino. In attesa dell'imminentissima uscita di 'Heimdal' (domani) andiamo a riscoprire un’altra prestazione maiuscola per la band norvegese, 'Ruun'. A differenza del precedente 'Isa', i nostri sfoderano un album leggermente più accessibile, grazie ad un ammorbidimento dei suoni e ad una ricerca ancora più raffinata di atmosfere progressive e sperimentali. "Path to Vanir" potrebbe tranquillamente essere l’emblema di questo nuovo capitolo firmato Enslaved: ritmiche rockeggianti su cui s’inseriscono i cori da brivido di Grutle, l’hammond dal deciso sapore seventies, atmosferici inserti che non possono non ricordare i Pink Floyd, evocativo. "Fusion of Sense and Earth" è già una song molto più aggressiva: ruvide chitarre sorrette da una ritmica incisiva e dalla vetriolica voce di Mr. Kjellson, mostrano di che pasta sono fatti i nostri, per poi abbandonarsi ad un finale travolgente grazie ad un bellissimo assolo. Da un bel po' si dice che il combo nordico non è più assimilabile al black metal, quella forma di viking che inventarono quasi 30 anni fa con quel capolavoro intitolato 'Vikingligr Veldi'. Gli Enslaved da un bel po' sono più vicini a sonorità progressive sia per genere proposto che per la eccellente perizia tecnica. Ogni song è un viaggio in un mondo parallelo, una caleidoscopica cavalcata attraverso giochi di luci e ombre che portano ad abbandonarmi alla mercè di questo meraviglioso album. 'Ruun' rappresenta la giusta consacrazione di una band che fin dagli esordi ha mostrato una propria personalità ben definita ed originale. La title track, richiamando i suoni di 'Isa', conferma il fatto che comunque l’act nordico non abbia tralasciato i suoni del passato: sette minuti di musica dai contorni epici, miscelati alla perfezione con il sound ispirato e psichedelico che abbiamo avuto modo di ascoltare in questi ultimi anni. "Tides of Chaos" ha un sapore più doom oriented con le sue pesanti e lente chitarre, le clean vocals corali contrapposte allo screaming tagliente di Grutle, ma ciò che comunque gioca un ruolo determinante in tutto il disco è il lavoro egregio fatto alle tastiere, mai in primissimo piano, ma fondamentali per la totale riuscita dell’album. Il disco si chiude con tre pezzi entusiasmanti: la malinconica "Essence", un eloquente dipinto del magnifico paesaggio nordico; "Api-vat", la song più metal dell’intero lavoro e "Heir to the Cosmic Seed" altro esempio di come si possa fare musica intelligente mantenendo invariata l’aggressività di fondo. Ottime melodie su dissonanti riff glaciali, atmosfere progressive, eccellenti vocals e brillanti assoli, rendono 'Ruun' un grande album da far vostro ad ogni costo. Consigliato a tutti gli amanti del metal, dal prog al death, passando per il black, il thrash o l’epic. Il più classico "Buy or Die"! (Francesco Scarci)

(Tabu Recordings - 2006)
Voto: 85

https://enslaved.no/

venerdì 24 febbraio 2023

Haven of Echoes - The Indifferent Stars

#PER CHI AMA: Progressive Rock
Ci siamo distratti un attimo e puff, ecco spuntare fuori dal nulla questi teutonici Haven of Echoes, nati da una costola dei Frequency Drift. Bella scoperta quindi per chi ama band del calibro di Riverside, Haken e Porcupine Tree. ‘The Indifferent Stars’ arriva con sei nuovi brani e quasi 45 minuti di musica a deliziare i palati più fini e delicati. Le danze si aprono con la semi-ballad “Sirensong” e, alla stregua di un canto di sirene, tanto per parafarase il titolo, ci abbracciano con un sound emozionale, in cui lo spettro della musica progressive viene inquinato da suoni malinconici. Quello che mi sorprende è il background musicale di alcuni membri della band, visto che il cantante Paul Sadler era parte dei deathsters inglesi Spires e qui veste nuovi panni con una voce a dir poco soave e suadente. Oscura e ipnotica l’incipit della successiva “The Orator’s Gift”, un brano dalla cadenza comunque delicata nel suo incedere costantemente in bilico tra sonorità decadenti e altre più frizzanti, con la prova del drummer Wolfgang Ostermann sempre in bella mostra. In generale, la prova dei quattro musicisti, che includono Nerissa Schwarz all’arpa elettrica nei brani “Stasis” e nella drammatica “The Lord Giveth...” e Andreas Hack (per tutti gli altri strumenti), risulta comunque estremamente convincente. Certo, non è sempre tutto oro quel che luccica, perchè se dovessi trovare un difetto a questo ‘The Indifferent Stars’ potrebbe essere correlato ad una certa mancanza di mordente in taluni frangenti, nel senso che a volte preferirei che i brani prendessero una piega diversa, forse più robusta, ma in realtà la componente più “hard” dei nostri, stenta a palesarsi. Per carità, gli Haven of Echoes sono fantastici musicisti, abili soprattutto a creare splendide atmosfere dal piglio “pink floydiano” e penso a “Stasis” ad esempio, ma a mio avviso, avrebbe giovato avere una componente più aggressiva nelle note di questo disco, dove però vorrei ancora sottolineare la super introspettività di “Endtime” e la conclusiva “Let Them In”, 12 minuti che avvicinano più che mai gli Haven of Echoes ai Riverside, e che qui finalmente riescono a sfoderare anche qualche riff più robusto accanto all’utilizzo di un flauto, di una spinetta e di un insieme di strumenti che conferiscono quasi un tocco orchestrale al pezzo. Per non parlare poi dello splendido assolo che evoca un che dei Porcupine Tree e al contempo degli Opeth, in una prova davvero eccellente. Un finale pianistico in stile Muse, chiude un disco ricco di sfaccettature indicato a un pubblico esigente e dalle orecchie sicuramente raffinate. (Francesco Scarci)

mercoledì 1 febbraio 2023

Toehider - I Have Little To No Memory of These Memories

#PER CHI AMA: Prog/Opera Rock
È decisamente singolare la scelta dei Toehider di rilasciare un album con un'unica song della durata di 47 minuti e 47 secondi che nel minuto e mezzo iniziale sembra essere una sintesi dei Queen di "Bohemian Rhapsody", tra cori e suoni che evocano la famosissima hit della band britannica. Terminata la messinscena, parte il lavoro che non ti aspetti, ma a dire il vero, noi la one-man band australiana la conosciamo fin dal 2012, quando recensimmo 'To Hide Her' e già sottolineavamo le eccelse qualità del geniale progetto di Michael Mills. Qui non possiamo far altro che confermare tutti gli aspetti positivi di quella che è a tutti gli effeti un moderna opera rock, che percorre 50 anni di musica prog rock e metal, narrando la storia di un uomo, una donna, un enorme pennuto, uno stupido alieno e due barche modificate per un confronto spaziale. Tutto chiaro no? Ecco, se queste sono le basi liriche di questo album, potrete immaginare anche quanto possa essere imprevedibile il contenuto musicale, tant'è che l'artista australiano ha previsto addirittura due finali alternativi dell'opera, uno su cd e l'altro nel vinile. Un fottuto genio. Un genio che sarà in grado di coinvolgerci in un viaggio sonico che farà sicuramente la gioia di tutti quelli che amano sonorità alla Devin Townsend o che adorano gli Ayreon, senza dimenticare poi le assonanze vocali con certe cose dei Queen e ancora, echi retrò alla Yes, colonne sonore, rimandi a Ronnie James Dio (minuto 18, ditemi che ne pensate), ruffianate di ogni tipo, passaggi folk, garage rock, tuffi in un passato davvero lontano, omaggi vari agli anni '80, riffoni djent sorretti da orchestrazioni sinfoniche, techno death (con tanto di voce growl) e ancora, una serie infinita di mash-up che inglobano appunto 50 anni di musica di ogni tipo e che mi spingono semplicemente ad invitarvi a mettervi comodi, indossare le cuffie e lanciarvi in questo viaggio nel tempo e individuare poi il finale che più vi aggrada. (Francesco Scarci)

Poly-Math - Zenith

#PER CHI AMA: Jazz/Prog/Math
Un bel basso ipnotico apre la title track degli inglesi Poly-Math (un moniker, un manifesto programmatico direi) e del loro disco 'Zenith', un incredibile viaggio (ahimè strumentale) nei meandri più stravaganti del progressive/jazz/math rock. Tutto questo lo si evince dall'iniziale "Zenith", a prescindere dai flyer informativi allegati a questo lavoro. I nostri ci prendono per mano e ci fanno assistere alla loro improvvisatissima jam session, dove i vari strumenti si muovono in modo imprevedibilmente elegante, tra riffoni belli tosti, bruschi cambi di tempo, assoli di sax e una ricerca raffinata di suoni, vorticosamente arrangiati uno sopra l'altro. E questa sensazione di essere inghiottiti nel mondo imponderabile dei Poly-Math, prosegue anche nell'ubriacante "Velociter" che ci regala un corposo rifferama interrotto da porzioni di delirante jazz e da un assolo conclusivo da urlo. Molto più meditabondo l'incipit di "Charger", atmosferico e in grado di farci rilassare dopo il duro attacco iniziale. C'è tempo quindi per riflettere nelle note (parzialmente) suadenti della song (occhio infatti alle sfuriate ritmiche), che ha modo di mettere in luce ancora una volta il carattere stralunato del sax che riempie con audacia la proposta sonica della band originaria di Brighton. Con "Canticum II" si riprende a correre sui binari dell'improvvisazione sonora, tra partiture prog, esplosioni jazz, divagazioni psichedeliche e chi più ne ha, più ne metta. Non c'è nulla di scontato nell'ascolto di questo disco, mi duole solo ammettere che forse una voce o un urlaccio qua e là, probabilmente l'avrebbero reso ancor più interessante, ma d'altro canto si sa, "de gustibus non disputandum est". Lasciamoci sopraffare ancora dalle sonorità malinconiche, oserei dire anche mediterranee, di "Canticum I", quasi un tributo al folk italico. Il tutto ovviamente prima che riesploda in un avvicendamento di suoni math rock che sembrano rievocare il pezzo precedente. Ancora una manciata di pezzi che ci portano sulla più sghemba e laterale "Provaus", forte di un break centrale decisamente stravagante. E poi "Mora", una sorta di mix tra jazz, prog e spaghetti western. E a chiudere, ecco "Metam", per la classica ciliegina sulla torta che chiuderà il viaggio interspaziale a bordo dell'astronave Poly-Math. Cosmici. (Francesco Scarci)

(Nice Weather For Aistrikes - 2022)
Voto: 76

https://wearepolymath.bandcamp.com/album/zenith

lunedì 30 gennaio 2023

Shadeworks - Sooty Limbs

BACK IN TIME: recensione gentilmente concessa da Nihil Zine
#PER CHI AMA: Prog Doom
One man band strabiliante questi Shadeworks provenienti dal Belgio, paese più conosciuto dai più per essere la casa base dei blasfemi Enthroned. Beh, qui la proposta che il grande personaggio Arnaud Nicolas ci propone è tutt’altro che black metal. Gli Shadeworks infatti propongono una sorta di "Experimental-Romantic-Metal" che trae ispirazione da bands come Katatonia, primi Crematory e qualcosa degli Opeth. La musica però non è estrema ed ha al suo interno riferimenti al metal classico di bands come gli Iron Maiden (ascoltate la terza traccia e capirete) ed altre progressive. Questo four tracks non ha realmente difetti: ottima produzione, ottime idee e grandiosi arrangiamenti, non ci si annoia mai. Interessante inoltre la voce femminile che infarcisce i brani assieme a chitarre sognanti e pianoforti/tastiere magistrali. Altrettanto notevole poi la voce del prode Arnaud. Per chi non lo avesse ancora capito, questo MCD è nel suo insieme un capolavoro che vale la pena di essere reperito. Peccato solo che dopo questa release la band si sia sciolta.

lunedì 23 gennaio 2023

Wesenwille - III: The Great Light Above

#PER CHI AMA: Experimental Black
Wesenwille atto terzo. È infatti la terza volta che mi trovo a dover recensire una release dei folli olandesi, divenuti nel frattempo una one-man-band a tutti gli effetti, guidati dal buon Ruben Schmidt. 'The Great Light Above' prosegue con il barbarico e dissonante sound che avevamo già avuto modo di apprezzare nei primi due lavori e, per quanto mi aspettassi un calo fisiologico del nostro mastermind, mi ritrovo invece una band in piena forma e progressione sonora. Sette le devastanti song a disposizione del polistrumentista di Utrecht, con il disco che si apre con il black tutto (di)storto di "Revelation of the Construct" in una cavalcata irrefrenabile che vede un importante uso delle melodie e momenti più atmosferici, che interrompono quello sferzare tipico dei nostri, assai simile alle raffiche del blizzard che soffia a latitudini polari. Quello che adoro di questo pezzo, che sfiora peraltro i dieci minuti, sono gli splendidi giochi di chitarra che, per quanto mi riguarda, potrebbero già sancire una elevata valutazione della release. Ma non ci accontentiamo e guardiamo oltre, con la più breve e rutilante "Transformation", brano che mette in mostra i muscoli e al contempo il cervello del musicista dei Paesi Bassi. Largo spazio alla strumentalità, ad un rifferama che somiglia più al suono dei cingoli di un carroarmato, ma che quando dà spazio alla voce graffiante di Ruben, si trasforma in un mid tempo più ragionato che sembra prendere le distanze dai maestri Deathspell Omega. Niente paura però, per quelle sonorità deviate e disarmoniche, basta pazientare la più lunga "The Legacy of Giants", con il suo fare cupo e oppressivo che ben si abbina ad un riffing sbilenco ma progressivo e che sembra percorrere i medesimi passi seguiti dagli Enslaved ai tempi di 'Monumension', in un incedere mai banale (a tratti dotato anche di una certa vena orchestrale) che sottolinea come oggi sia ancora possibile fare black metal tanto originale quanto sperimentale, senza sporcarsi troppo le mani con trovate bizzarre o l'utilizzo massivo di effettistiche varie. Il disco mi piace molto, non è certo semplice da affrontare, ma molto meglio di una passeggiata con temperature polari che di questi tempi ci allietano le giornate. "Trinity" è un pezzo mortifero sotto i quattro minuti di durata, che nasconde tutta la malignità della band nelle sue fosche e deliranti note. Quando si dice che il bello deve ancora venire, ecco piombarci addosso "Our Sole Illuminator", un disumano concentrato di post black, tracce di prog deathcore e improbabili sperimentalismi sonori (a tratti malinconici) che innalzano ulteriormente, nemmeno ce ne fosse stato bisogno, il tasso qualitativo del disco. Un interludio strumentale ("Eclipse") e ci dirigiamo verso lo spettrale finale affidato all'ispiratissima e labirintica "The Specular Gaze", degna chiusura di un album che vanta peraltro in copertina la foto di Harold Edgerton, grande innovatore tecnico nel campo fotografico e dell'ingegneria elettrotecnica al MIT, nello scorso secolo. (Francesco Scarci)

giovedì 8 dicembre 2022

Behind Closed Doors - Caged in Helices

#PER CHI AMA: Instrumental Post Metal
È un trio internazionale quello dei Behind Closed Doors (stravagante questo moniker), formato da prodi menestrelli provenienti da Germania, Paesi Bassi e Svezia, che si sono trovati per rilasciare questo affascinante affresco di post metal strumentale. Sapete quanto storca il naso a non avere un cantato eppure questo 'Caged in Helices' riesce a superare egregiamente la prova del fuoco anche senza un vocalist. Questo perchè i nostri non sono certo degli sprovveduti, avendo arricchito la propria proposta metallica di archi (tra cui Ben Mathot degli Ayreon) che vanno a colmare il vuoto lasciato dalla voce. Questo quanto si può ascoltare già nell'iniziale "The Anti Will", che nei suoi otto minuti ne fa proprio di tutti i colori, attraversando un corridoio fatto di post-rock, post-metal, suoni cinematici e ancora math rock, progressive, musica classica e potrei continuare all'infinito, aggiungendo anche soundtrack e djent, con quella granitica chitarra in chiusura, una vera mazzata nei denti. Spettacolo puro. "Kaleidoscope Antlers" riparte da questo potpourri di generi e stili, da un bel chitarrone avvolto dagli archi che potrebbero evocare in un qualche modo i Metallica ai tempi dell'esperimento sinfonico di 'S&M'. Tecnica squisita, eleganza musicale e ricerca per la melodia contraddistinguono questa e le song a seguire, di cui sottolinerei le due maratone affidate a "Black Pyramid" e "Ad Aspera Adastra, But Why And For What?", due pezzoni tra i nove e i dieci minuti che sottolineano, manco ce ne fosse bisogno, le eccelse qualità compositive della band. La prima delle due peraltro sfoggia una linea di basso davvero da urlo che entra nel cervello e da li non ne esce più. Questa poi è la canzone dove forse la componente orchestrale è meno invasiva e il sound decisamente più incisivo, anche se un paio di break atmosferici ne bilanciano l'irruenza ritmica. In "Ad Aspera..." viola, violino e violoncello tornano a far danni, insinuandosi nelle trame sofisticate di una song dal piglio decisamente minaccioso. Peccato per un lunghissimo break centrale che renderà il brano più suscettibile allo "skip". Il pezzo che poi in realtà ho maggiormente apprezzato è "The Essence of Doubt", con quella sua chitarra orientaleggiante e la sua coda djent, ipnotica quanto basta per tenermi agganciato ad un lavoro che, per quanto privo di un cantante, ha tutte le carte in regola per spaccare culi a destra e a manca. (Francesco Scarci)

lunedì 5 dicembre 2022

Wizrd - Seasons

#PER CHI AMA: Psych Prog Rock
Ho visto molto movimento nei giorni scorsi riguardo all'uscita di questo album, tanta attività pubblicitaria nei social, e devo dire che in effetti questo lavoro merita davvero una grossa esposizione, anche perchè, esce per la Karisma Records, non una label qualsiasi infatti, visto lo standard qualitativo delle band di questa etichetta decisamente indiscutibile. Poi, a dirla tutta, il quartetto norvegese non si è certo limitato a fare il solito album di rock progressivo, ha mischiato infatti le carte di questo difficile genere, l'ha studiato per bene, e l'ha servito in una veste moderna, con una registrazione che rievoca il vintage style dei '70s ma che gode di suoni caldi e profondi e una freschezza di suoni tutta nuova, con un'ottima produzione che soddisferà anche gli audiofili più accaniti. Freschi di accademia, la giovane band di Oslo, si fa carico del verbo espresso soprattutto nelle gesta di maestri come gli Yes, ed in particolare le più evidenti somiglianze stilistiche si ritrovano con l'album 'Fragile', della band inglese. Gli Wizrd hanno capacità tecniche notevoli, lo si nota fin dalla traccia d'apertura "Lessons", ed il brano "Free Will" si fa ottimo portavoce della bravura compositiva ed esecutiva dei nostri. Sezione ritmica pulsante, sofisticata e complessa, che non si placa mai, che sfodera parti melodiche e ritmiche accattivanti e piene di fantasia creativa, morbida psichedelia e schegge impazzite di Canterbury sound, un'ottima esecuzione, orecchiabilità e virtuosismo dosati a dovere, per un brano che da solo vale tutto il disco. In realtà, il cd pende per la prima metà verso un prog rock molto tecnico, tirato e impetuoso per poi progressivamente rallentare nella seconda parte, virando verso una psichedelia più morbida, e senza mai dimenticare il tecnicismo, ci ritroviamo nelle terre più tenui e allucinate di un sound più fine anni sessanta, un power flower evoluto e intrecciato con variazioni più free rock e jazz rock ("Show Me What You Got"). Un'opera lunga, variegata, come la sua copertina, fantasiosa e colorata, un moniker magico per musicisti fantastici, cori e suoni di un tempo rivisitati benissimo, virtuosismi e un'energia sonica, anche nel cantato, che mi ricorda stranamente, certi lavori più stravaganti dei Motorpsycho. Un disco che vale proprio la pena ascoltare, avere, custodire. E se questo è l'album di debutto, bisogna proprio ammettere che per questa giovane band si mostrano solo grandi prospettive all'orizzonte. Ascoltare per credere. (Bob Stoner)

(Karisma Records - 2022)
Voto: 83

https://wizrd.bandcamp.com/album/seasons

lunedì 28 novembre 2022

Newspaperflyhunting - Time Regained

#PER CHI AMA: Space Prog Rock
Quinto album per i polacchi Newspaperflyhunting, band che abbiamo già incontrato in occasione della recensione di un paio di loro album in passato. Particolarmente bistrattati dal sottoscritto peraltro, ritrovo il quartetto originario di Białystok con questo nuovo 'Time Regained' e il loro classico concentrato di sonorità all'insegna di un prog/post/space rock. Cinque i brani questa volta a disposizione dei nostri che aprono con "No Hard Feelings"e un sound che oserei dire vellutato, complice una musicalità malinconica e raffinata, con tanto di voce femminile a duettare con il buon Michał Pawłowsk, un duo che in passato non avevo trattato troppo bene. Diciamo che la performance del frontman polacco continua ad essere deficitaria, e a salvare la baracca ci pensa invece la prestazione del collettivo, musicalmente ottimamente preparato ed educato nella propria proposta prog rock. La seconda "One Minute" inizia in modo più arrogante con delle chitarre più roboanti ma dopo poco, il sound muta grazie all'ingresso della voce maschile. Rimane quell'approccio tipico malinconico della band polacca, pur sostenuto da un rifferama ritmato e da un bell'assolo di chitarra nella seconda metà del brano. Rimane lacunosa la prova vocale, mi spiace sottolinearlo, ma io cercherei una soluzione alternativa per dare più lustro alla proposta del combo. Con "Everything's Fine" i nostri riprendono a sfiorare i loro strumenti con una certa delicatezza anche se verso il terzo minuto irrompe la voce del vocalist, qui più convincente, e contestualmente, anche la musica acquisisce in aggressività, pur non rinunciando ad un certo sperimentalismo affidato ai synth che spezzano la mole di riff costruita dai quattro musicisti. E lo fanno con grande efficacia. Finalmente. Si arriva ad "Hallways" e agli arpeggi di chitarra che accompagnano la voce di Gosia in un pezzo che potrebbe suonare più come una ninna nanna che altro, anche se la sua progressione sembra (solo apparentemente) alzare i giri del motore verso il finale. In realtà, la traccia si mantiene piuttosto statica e poco incisiva. A cambiare l'esito del disco arriva la conclusiva "Another Island" e i suoi 12 minuti di soffuse sonorità space prog rock che ridanno un pizzico di energia (ma solo dopo il quarto minuto) ad un lavoro che sembrava essersi spento già dopo i primi tre brani. Il pezzo conferma comunque l'approccio onirico della band in un lungo break strumentale che denota quanto di buono racchiudono i Newspaperflyhunting nelle loro note. (Francesco Scarci)

domenica 6 novembre 2022

Faust - Cisza Po Tobie

#PER CHI AMA: Prog Thrash
I Faust sono una band in giro da metà anni '90 che, ad un certo punto della loro storia, ha pensato di prendersi una pausa di ben 15 anni, ricaricare le pile e tornare sulle scene nel 2019, rilasciando un paio di album, di cui quest'ultimo 'Cisza Po Tobie'. Detto che io la band di Wyszków stranamente non la conoscevo, mi avvicino con un certo interesse a questo cd che raffigura una Madonna con un bambino che tiene in mano quello che sembra essere il serpente del peccato originale (viste le mele marcescenti che circondano il quadretto). Nonostante questi elementi religiosi, non mi sembra di intuire (i testi sono in polacco) che ci siano riferimenti religiosi nelle liriche, semmai si parla di una fuga di un genitore col proprio figlio dalla guerra, probabilmente in riferimento al conflitto in atto oggi in Ucraina. Fatte tutte queste dovute premesse, il disco si palesa con una lunga intro, "A Jeśli Umrę", in cui la voce (operistica) è affidata ad una gentil donzella (credo tal Karolina Matuszkiewicz) in un contesto estremamente melodico, ma non lasciatevi ingannare visto che quando irrompe "Za Tamtą Górą" sembra di aver a che fare con una proposta a cavallo tra Testament e Nevermore, ricca di furenti galloppate, ma anche di parti più atmosferiche o arpeggiate, leggasi il break acustico a metà brano con tanto di strumenti folklorici a supporto. La voce del frontman, pulita ma comunque aggressiva, faccio a dire il vero un po' fatica a digerirla, ma sono convinto sia più per una questione legata alla lingua in quanto non riesco ovviamente a seguirne i testi (sarebbe stato sicuramente meglio l'inglese). Anche qui fa capolino la voce di una dolce fanciulla. "Pokocham Tę Cisze Po Tobie" parte presentando un dualismo tra voce femminile e maschile (qui anche in formato growl) offrendo peraltro una ritmica che mi evoca anche un che degli Annihilator, sebbene sparata alla velocità della luce. Tuttavia, i molteplici arrangiamenti, quasi sinfonici a tratti, sembrano addolcire la supposta devastante che i nostri sono pronti ad infilarci, indovinate voi dove. Ottima la parte solistica anche se avrei preferito un più lungo assolo, però alla fine il brano è figo. Una sirena d'allarme e un coro (che tornerà nel corso del brano) ci mettono in fuga con "Pogarda", song dotata di una splendida linea di chitarra, di un groove assai convincente e di un assolo finalmente più strutturato, ed un finale di classica matrice "testamentiana". Un piano apre "Iskra Pod Śniegiem", ma poi in realtà è una bella randellata nei denti quella che ci si para avanti, anche se i nostri, ancora una volta, indorano la pillola con rallentamenti, eteree voci femminili, da cui ripartire più selvaggi che mai, ma con mille trovate musicali in testa. "Jakbyś Gryzła Żwir" è bella tosta e diretta, con un giro di chitarra che mi ha evocato il buon rifferama dei Death, poi si abbatte una tempesta sonora senza precedenti, quasi di scuola Morbid Angel, per quella che è la canzone più incazzata del lotto, la più tecnica, quella con l'assolo più tagliente. Insomma una figata. In chiusura, l'esotica "Zdążyć Przed Deszczem" con la scena affidata nuovamente alla splendida, e qui malinconica, voce di Karolina. Insomma, un graditissimo ritorno, e una bella scoperta per il sottoscritto. (Francesco Scarci)

lunedì 24 ottobre 2022

No Point in Living - Heaven

#PER CHI AMA: Progressive Deathcore
I giapponesi No Point in Living hanno una discografia pazzesca. La one-man-band originaria di Sapporo, formatasi nel 2015, conta ben 32 album e 13 EP all'attivo, di cui quest'ultimo 'Heaven' e dire che ho tralasciato gli split, le compilation e i singoli, e se non è record questo, poco ci manca. Fatto sta che il buon Yu ci consegna tre pezzi di black/death melodico che irrompono con le ritmiche tempestose di "Heaven That We Can't Reach" che si mette in mostra per una melodica linea di chitarra, un po' meno per le grim vocals del frontman e per una drum machine troppo poco umana. Il sound potrebbe essere ascrivibile al melo death di In Flames e co., dotato però di un piglio malinconico ma poi quello screaming efferato finisce per rovinare un po' tutto. Strano leggere sulla pagina metal-archives della band che la proposta dovrebbe essere un depressive prog black perchè di questo genere trovo ben poco, considerato il fatto che sul finale della prima song, si sfocia addirittura nel deathcore. La seconda "Burn Your Heart" riparte alla velocità della luce con una ritmica assai ritmata, sporcata di un synth in sottofondo, come a dire che nel sound del factotum giapponese, ci sia un'altra tonnellata di influenze che confluiscano nelle note partorite. Ci trovo infatti un po' di metalcore e prog deathcore, cosi come pure nevrotiche sfuriate post black anticipare nel finale rallentamenti al limite del doom che rendono l'ascolto di questo lavoro alquanto eterogeneo. In chiusura, la rutilante prova di "Red Ocean" completa questi 20 minuti che ci permettono di conoscere questa creatura a me sconosciuta fino ad oggi. Peccato solo che la drum machine renda il tutto cosi asettico, perchè le schizofreniche linee di chitarra di Yu ci faranno sfociare anche nel mathcore. Da tenere sotto controllo, soprattutto per saggiare la verve creativa di questo funambolico individuo. (Francesco Scarci)

venerdì 21 ottobre 2022

Anderes Holz - Continuo

#PER CHI AMA: Alternative/Kraut Rock
Il nuovo album del trio teutonico è un agglomerato di stili che sconvolge e appassiona al tempo stesso. Uscito via Tonzonen Records, 'Continuo' si presenta a meraviglia, con uno splendido artwork curato dall'artista kazako, Anton Semenov, ed al suo interno, come in uno scrigno magico, troviamo sonorità che gravitano attorno al mondo dell'avantgarde, dell'art rock e del progressive. Basta guardare il video di "Morgenwelt" per capire quanto gli Anderes Holz spingano il confine delle loro creazioni sonore sempre più in là, utilizzando i canoni della fantasia più sfrenata per orchestrare brani inconsueti, ipnotici, frenetici e folli. L'uso di voci femminili e maschili, una cetra elettrificata prende il posto della chitarra elettrica, il theremin, il gong a vento giapponese, registrazioni e rumori in ambiente, un basso pulsante e percussioni di scuola kraut-rock, le arie provenienti dall'irraggiungibile galassia degli Amon Duul deformano lo stile rock di questo stravagante trio. Tre musicisti eccentrici che riescono a coniugare spinte di classico metal (globus) e certa cultura hippy, con il folk, il german prog ed il prog d'avanguardia, e ancora con il futurismo di Nina Hagen e qualche attitudine punk vicine al Kalashnikov Collective, che in "Şıfr" arriva ad emulare un jingle che troviamo in "Walls (Fun in the Oven)", un brano nientepopodimeno che dei mitici Crass. Senza dimenticare poi gli istinti folk metallizzati dei Subway to Sally in sottofondo, il tutto poi riletto in salsa psichedelica ed ipercolorata, come i loro video frenetici che li ritraggono in rete. La sensazione è alla fine di essere davanti a dei menestrelli impazziti, dalle tinte raggianti ma anche dall'umore dark, che adorano l'estro camaleontico di Peter Gabriel e il classicismo esuberante di Ian Anderson, e che costruiscono, usando esclusivamente la loro lingua madre, un miscuglio musicale simile ai pezzi più moderati dei Die Apokalyptischen Reiter (epoca "Samurai") concepiti in una veste più acida, trasversale e ritmicamente fuori contesto, come nel caso di "Schwan", che in un riff dal taglio metal primordiale, si vede infiltrare una specie di rumba che lo annienta e lo smembra ritmicamente. La psichedelia drammatica di "Buto" è un vortice oscuro inaspettato ma alla fine tutto l'album lo troverete pieno di sorprese. L'alto tasso di teatralità mi rimanda a gruppi altamente allucinogeni e misteriosi, impossibili da categorizzare, come i Gong, anche se qui il free jazz è poco presente a discapito del concetto progressivo che risulta una costante compositiva. Comunque, ci troviamo di fronte ad un potenziale esplosivo di art/punk/rock progressivo e moderno, sicuramente circondato da nostalgie retrò, ma che si mostra perfettamente al passo con i tempi e che, senza pietà, arriva a spiazzare l'ascoltatore nota dopo nota. Un insieme di brani curati e ottimamente prodotti da Matt Korr, un suono pulsante e pieno, con numerose sfaccettature che lo accomunano a tante altre band di varie epoche ma che in realtà rendono l'identità della band tedesca inconfondibile e assai personale. Un disco da ascoltare più volte e a volume alto, per apprezzarne tutti i colori e i mille volti di una band che dire istrionica è dir poco. Ascolto fortemente consigliato. (Bob Stoner)

(Tonzonen Records - 2022)
Voto: 82

https://anderesholz.bandcamp.com/album/continuo-2

domenica 9 ottobre 2022

Orob - Aube Noir

#PER CHI AMA: Prog Black Sperimentale
Passati completamente inosservati al nostro paese (follia pura), i francesi Orob hanno gettato il guanto ai mostri sacri Deathspell Omega e Blut Aus Nord nel maligno mondo del black dissonante e sperimentale. Il quintetto originario dell'Occitania, ha rilasciato infatti a fine 2021 questo 'Aube Noir', album di debutto sulla lunga distanza, a distanza di ben otto e dieci anni dai precedenti EP, 'Into the Room of Perpetual Echoes' e 'Departure', rispettivamente. C'è da dire però che le song qui incluse sono state scritte tra il 2014 e il 2016. Comunque l'ensemble transalpino ci propone quasi un'ora di musica, attraverso un percorso di nove mefistofeliche tracce che si aprono con il black doom di "Spektraal", una song che, emulando il proprio titolo, si manifesta spettrale e compassata nella sua prima metà, per poi esplodere in un post black dalle tinte sperimentali, soprattutto a livello vocale, con le performance di Thomas Garcia e Andrea Tanzi-Albi a muoversi tra screaming, growl e pulito. È nella seconda "Astral" però che le sperimentazioni dei nostri si fanno più palesi, con chiari rimandi ai norvegesi Ved Buens Ende a livello atmosferico e scomodando anche facili paragoni con gli ultimi Enslaved o i Solefald. La sostanza è poi quella di dissonanti parti arpeggiate che si alternano a ritmiche costantemente sghembe con le vocals che, non mantenendo praticamente mai una coerenza di fondo, rendono il lavoro decisamente più affascinante e avvincente. E ancora, a livello solistico (si ci sono degli assoli) emergono le influenze più classiche dei nostri, quasi a mostrare tutto il ventaglio tecnico compositivo di cui sono dotati. E io approvo appieno, nonostante le sbavature riscontrabili durante l'ascolto, perchè ci sono anche quelle ed è giusto dirlo. Ma vorrei dare il beneficio del dubbio ad una band che è rimasta ferma quasi una decade ma che con la propria musica riesce a dare un tocco di eleganza e originalità al mondo musicale, e che vede nella terza "Breaking of the Bonds" un altro piccolo gioiellino. Qui poi la voce del frontman è per lo più pulita e assai espressiva. Ma il pezzo è in costante movimento, tra una marcetta estemporanea, un break acustico di malinconica melodia (top!) che chiama in causa Opeth e ultimi Katatonia. E io continuo ad approvare, non posso fare altro. Anche quando "Betula" trasforma la proposta degli Orob in un selvaggio black iniziale per poi mutare ancora verso territori controversi (leggasi l'ambient esoterico nel finale), con cambi di tempo, di genere e molto molto altro che potrebbero addirittura avere un effetto disorientante per chi ascolta, ma che per il sottoscritto rivela invece la grande voglia di osare da parte dell'act di Tolosa. Bene, bene anche nelle spettrali melodie di una traccia come "The Wanderer", lenta e sinuosa nel suo incedere che, attraverso l'elettronica strumentale e minimalista di "Noir", ci conduce fino a "Aube", un violento pugno nello stomaco che mi ha catapultato in altri mondi che ormai si erano persi nella mia memoria, e penso ad un ipotetico ibrido tra Voivod, gli australiani Alchemist e gli inglesi Akercocke. C'è tanto nelle note di questo 'Aube Noir', forse non sarò stato nemmeno in grado di cogliere tutte le influenze che convogliano in questo disco, ma vi garantisco che di carne al fuoco ne troverete parecchia, soprattutto nella lunghissima coda affidata alla sinistra "Ethereal", che di etereo ha ben poco (fatto salvo quella che sembra essere una voce femminile in sottofondo) e alla conclusiva "The Great Fall", oltre dieci minuti di sonorità che miscelano depressive black, progressive, thrash, gothic doom (con tanto di soavi vocalizzi di una gentil donzella) e perchè no, anche una vena di post rock, quasi a sancire l'ordinaria follia di cui sono dotati questi interessantissimi francesi. Una sfida ai mostri del black sperimentale? Non direi, questo è un duello sferrato al mondo intero. E se questi erano i suoni di sette anni fa, ora mi aspetterò grandi cose dagli Orob. (Francesco Scarci)

martedì 27 settembre 2022

Dream Theater - The Astonishing

#PER CHI AMA: Progressive Metal
Nel 2285 l'oppressivo Impero del Peto Preponderante, comandato dal fetido tiranno Na-fart avrebbe vietato tassativamente i rutti, se non fosse che il dotato Gabri-burp salverà il mondo portando clandestinamente in tournée un musical intitolato This is ruttosound! (leggetevi la sinossi nella wiki-pagina inglese di 'The Astonishing' prima di insultarmi, dopodiché pensate come se la riderebbe un Frank Zappa che immaginereste ancora seduto ancora là, a sbronzarsi nel garage di Joe con un paio di quarts-a-beer). Tecno-tarabaccolamenti disseminati ovunque ("Descent of the Nomacs", "The Hovering Sojourn" o "Digital Discord"), una pompo-spettrale "Dystopian Overture" in realtà più simile a un pre-cog medley dei temi poi sviluppati (ma quello che accade un po' prima del secondo minuto ha del ridicolo). E poi, davanti a voi, una colossale distesa di prog-ballad tipo ritagli di, boh, "Forsaken" ("The Answer", "When Your Time Has Come" e tre quarti del resto) ammonticchiate le une sulle altre a mo' di discarica sonora, interpretate con la consueta professionale convinzione dal buon FiatelLaBrie ("Act of Faythe"). E poi applausi, chiacchiericci, rumori assortiti, estemporanee sortite (le trombette tardomedievali di "A Saviour in the Square", le cornamuse di "The X Aspect", il finale di "A Better Life" che trasmuta in una sorta di tango interstellare) e un desolante sahara creativo a comporre la più ponderosa, tronfia, pretestuosa e sfrangiata collezione di scarti della storia del rock. Stupefacente, sì. Esattamente. (Alberto Calorosi)

(Roadrunner Records - 2016)
Voto: 50

https://www.facebook.com/dreamtheater/

sabato 24 settembre 2022

Bjørn Riis - A Fleeting Glimpse

#PER CHI AMA: Psych Rock, Pink Floyd
Cavolo, non sono nemmeno passati sei mesi dall'ultimo 'Everything to Everyone' che il bravissimo Bjørn Riis ci delizia con un altro piccolo gioiellino di prog rock. Solo quattro pezzi questa volta per il musicista norvegese ed un EP totalmente inatteso dai fan. Quattro pezzi dicevamo, che mostrano la totale devozione di Bjørn per i maestri di sempre, i Pink Floyd. Un qualcosa che si palesa nelle delicatissime note dell'opener "Dark Shadows (Part 1)", dove con una carrambata da leggenda, il polistrumentista scandinavo piazza accanto alla propria voce, Durga McBroom, corista dei Pink Floyd dal "A Momentary Lapse of Reason Tour" del 1987 fino al concerto finale del "The Division Bell Tour" nell'ottobre 1994, senza contare le sue apparizioni in studio in 'The Division Bell' e 'The Endless River', e ancora nel tour solista del 2001 di David Gilmour. Fatte queste ennesime premesse, non sarà cosi complicato ascoltarci dentro a questi 26 minuti di musica space prog rock un turbinio di suoni che riportano Bjørn alle proprie radici, tributando in lungo e in largo la band britannica. Penso soprattutto alla strumentale "A Voyage to the Sun" che chiama inequivocabilmente in causa la leggendaria "One of these Days", per il suo evocativo tambureggiare, i suoi splendidi e ipnotici giri di chitarra che vanno via via crescendo ponendosi sopra l'abile armeggiare dei sintetizzatori. "Summer Meadows" è un'altra traccia strumentale che apre con un bell'arpeggiato figlio degli anni '80, carico di un flusso emozionale da brividi che ci condurrà fino all'ultima song, "Dark Shadows (Part 2)". Qui si riprende là dove Bjørn aveva lasciato con la prima traccia, questa volta con un supporto vocale più risicato da parte di Durga, relegato solo nel finale. Il risultato tuttavia non sembra risentirne vista la bravura del frontman dietro al microfono ed un sound che oltre ad evocare i Pink Floyd, sublima in stratificazioni elettroniche alla 'You All Look the Same to Me' degli Archive. Poi quando la scena se la prende la chitarra solista, beh sono solo applausi per un paio di minuti fino a che subentra la voce di Durga. E pioveranno ancora solo applausi. (Francesco Scarci)

lunedì 19 settembre 2022

Anders Buaas – The Edinburgh Suite

#PER CHI AMA: Prog Rock
I dischi strumentali dei chitarristi di estrazione hard-prog non sono esattamente la mia tazza di tè, per cui mi sono approcciato a questo lavoro con una dose di diffidenza giustificata solo dai miei pregiudizi, anche se titolo e foto di copertina mi facevano comunque sperare in qualcosa di interessante (ho una mia teoria sulle copertine dei dischi, secondo la quale dischi belli possono avere copertine orribili ma non ho ancora trovato dischi orribili con belle copertine). Comunque sia, il norvegese Anders Buaas non è esattamente un ragazzino, e sa il fatto suo, tanto come chitarrista quanto come compositore e arrangiatore. Dopo una vita da turnista in band norvegesi e dopo aver accompaganto in tour gente del calibro di Paul Di Anno, da qualche anno ha intrapreso una carriera solista di cui questo rappresenta il sesto capitolo. Dopo un lavoro in tre parti sulla caccia alle streghe del sedicesimo e diciassettesimo secolo, uno di improvvisazioni chitarristiche e uno dedicato alle carte dei tarocchi, 'The Edinburgh Suite' è una lunga suite, appunto, divisa in due parti di circa venti minuti ciascuna. Accompagnato da una band di assoluto valore (basso, batteria, tastiere, percussioni e vibrafono), Mr. Buaas, che si rivela chitarrista di rango e dal bellissimo suono, ci regala un album davvero godibile ed estremamente curato in ogni passaggio e ogni particolare, riuscendo a passare con grande naturalezza da atmosfere acustiche e sognanti al folk britannico, al jazz, al prog metal, senza farsi mancare passaggi più tipicamente prog dominati dai synth. E riesce a farlo senza indulgere in eccessivi “sbrodolamenti” (il primo vero assolo di chitarra elettrica arriva dopo circa 10 minuti) e, cosa ancora più importante, riuscendo a tenere le varie parti della suite insieme con invidiabile coerenza e senso della misura. Davvero notevole poi la sua attitudine per le melodie “catchy”, epiche ma non fastidiose, quasi da colonna sonora. In definitiva, questa 'The Edinburgh Suite' è il primo disco del genere al quale riesco ad arrivare in fondo senza un malcelato senso di fastidio, da molto tempo a questa parte. Ottima sorpresa. (Mauro Catena)

sabato 25 giugno 2022

High Castle Teleorkestra - The Egg That Never Opened

#PER CHI AMA: Suoni Sperimentali, Mr. Bungle
Vi sentite pronti per vivere un'esperienza folle? Lo siete davvero ad aprire quell'uovo che non è mai stato aperto? Perchè quando farete partire questo folle disco, non potrete più fare marcia indietro. Il sestetto internazionale degli High Castle Teleorkestra (in realtà la band include uno smisurato numero di comparse) vi porterà con questo 'The Egg That Never Opened', attraverso differenti palcoscenici, dal mondo dello swing ai suoni balcanici, passando in rassegna le colonne sonore dei film anni '50, '60, il jazz, l'avantgarde e infine anche il metal. Proprio da qui parte infatti la title track e da riffoni piuttosto pesanti che evolveranno/degenereranno nel giro di pochi secondi, in un fiume musicale da farvi impallidire, che potrà evocare inequivocabilmente la follia dei Mr. Bungle (sarà merito del fatto che nella band è presente anche il sassofonista Bär McKinnon dei Mr. Bungle stessi?) e ogni altro progetto firmato Mike Patton, con un melting pot esagerato di generi. Quelle tipiche sonorità romantiche della capitale francese, con tanto di fisarmonica, aprono invece "Ich Bin's", ma attenzione perchè in sottofondo si nascondo minacciosi chitarroni che continueranno a masturbarci le menti con il loro pesantissimo incedere. Spettacolare "The Aramchek Accusation", una song intanto finalmente cantata, ma che nasconde al suo interno, un'altra scala cromatica davvero assurda che ci condurrà attraverso turbolenti scenari fino alla più tranquilla e malinconica "Valisystem A", dove il tributo a Ennio Morricone sembra ancor più evidente ma che va a miscelarsi con surf pop e jazz. Quello che questi pazzi furiosi hanno fatto (ricordo che oltre a membri di Mr. Bungle, ci sono anche musicisti provenienti da Estradasphere, Farmers Market, Doc Booger e Probosci) ha alla fine del prodigioso, del suggestivo, sicuramente del delirante, frutto comunque di una competenza musicale senza confini, che aspetta solamente la vostra voglia di evadere dagli schemi e sperimentare senza paura alcuna. Il mio pezzo preferito? Senza ombra di dubbio, "At Last He Will", ove convergono sonorità metal e cinematiche, mentre una menzione d'onore spetta alla conclusiva "Mutual Hazard" e quelle sue sonorità a cavallo tra metal ed echi balcanici. Le tracce più difficili da affrontare perchè eccessivamente sperimentali? La melliflua "The Days of Blue Jeans Were Gone" e la lunga e troppo cantata "Diagnosing Johnny". Ultima segnalazione: la versione deluxe include 43 bonus track, fate vobis! (Francesco Scarci)