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domenica 24 aprile 2022

Noorvik - Hamartia

#PER CHI AMA: Post Metal Strumentale
La scena post rock/metal tedesca è in costante fermento. Dopo aver pubblicato la recensione degli Ok Wait, ecco arrivare anche il terzo disco dei Noorvik, band di Colonia che avevamo recensito nel 2019 in occasione del precedente 'Omission'. La proposta all'insegna di un post-core strumentale, mostrava segni di un certo magnetismo latente nelle corde dei nostri. Quel magnetismo si riscontra anche nelle note iniziali di 'Hamartia' (un disco che ci racconta metaforicamente come l'avidità e l'arroganza dell'uomo lo conducano alla sua caduta) in "Tantalos", song che parte quasi in sordina per poi iniziare ad agitarsi con le sue robuste chitarre che vanno ad ingrossarsi sempre di più, quasi a sfociare in territori più estremi con un voluttuoso riffing capace di schiacciarci come un macigno. E qui, sarebbe servito un bel growling a dirla tutta, ma a questo punto non staremo parlando di post metal ma forse di death metal. "Hybris" torna ad incantarci con lunghi arpeggi post rock, mentre le percussioni si dilatano progressivamente e il basso tuona in sottofondo laddove una chitarra grida vendetta attraverso lo stridore delle sue corde. Il sound dei Noorvik rimane qualcosa di ostico da digerire, soprattutto dove compaiono tentativi di brutali accelerazioni che scemano tuttavia nel giro di una manciata di secondi, per ritornare a quello stato carezzevole iniziale che ci condurrà ad "Omonoia", un ridondante intermezzo ipnotico assai inquietante. E "Ambrosia" continua su quelle stesse note nei suoi primi 20 secondi per poi iniziare a muoversi attraverso un gioco di luci ed ombre, delicato, raffinato ma che sembra pronto a soggiogarsi a ritmiche più pesanti. E il mio presentimento viene confermato da un rifferama distorto e lacerante che lascerà presto spazio ad un incunearsi di tenue melodie disturbanti che troveranno nuovamente sfogo nel finale del brano. Bravi i Noorvik a spiazzare l'ascoltatore con una continua ricerca di suoni e trovate varie, come l'inizio stralunato dell'infinita "The Feast", oltre 15 minuti in cui la band teutonica sembra offrire tutto il meglio del proprio repertorio, dalle aperture progressive dei primi cinque minuti alle cavalcate che da lì ne deriveranno e che coprono fino verso all'ottavo minuto, dove uno stop alle ostilità sembra dar inizio ad una nuova storia, con nuovi personaggi e nuove sonorità che ci raccontano comunque altro dei Noorvik. Dopo questo torrenziale pioggia di suoni, arrivano le più delicate melodie di "Aeons", quasi delle carezze dopo i ceffoni presi in precedenza. Altri ceffoni arrivano invece con "Atreides" e un riffing sincopato da groove metal band, ma il solito cambio ritmico è dietro l'angolo, e i quattro musicisti sono sempre pronti a stupirci con i loro cambi umorali. "Tartaros" è l'ultima tappa di questo viaggio, quella che ci conduce negli abissi, nell'inferno dantesco. Ma mentre mi sarei aspettato un sound ruvido ad accoglierci, ecco in realtà palesarsi un luogo d'incanto, ma non illudetevi, la mutevolezza dei Noorvik vi colpirà ancora una volta, perchè qui mai nulla è scontato. (Francesco Scarci)

(Tonzonen Records/Soulfood Music - 2022)
Voto: 76

https://noorvik.bandcamp.com/album/hamartia

OK WAIT - Well

#PER CHI AMA: Post Rock Strumentale
"Ok, fermi tutti". Cosi si potrebbe tradurre il moniker di questa band teutonica che nasce dalle ceneri dei Sonic Black Holes, dando vita appunto a questi OK WAIT. La band originaria di Amburgo propone un post rock strumentale assai vario e dinamico, ricco di suggestioni epiche e di molte altre influenze che si paleseranno qua e là nel corso dell'ascolto di questo 'Well'. Intanto, si parte forte con i quindici minuti e mezzo dell'opener "Wait" e già qui i nostri scoprono le loro carte con le loro lunghe fughe chitarristiche interrotte da break atmosferici, un lavoro alle pelli che sottolinea l'abilità percussiva di Lutz Möllmann, mentre le chitarre di Michel Jahn e Christoph Härtwig dipingono meravigliosi affreschi dai tratti sicuramente malinconici, complice anche la presenza di un preziosissimo violino. Sorprendentemente, la proposta dei quattro mi piace assai, il che è già una vittoria, visto che le ultime release in territori post rock, mi avevano annoiato in breve tempo. Invece, bravi gli OK WAIT a tenermi sempre ben concentrato sulla loro proposta in continua evoluzione. Si perchè l'incipit di "Blow" si palesa come fosse una colonna sonora di uno "Spaghetti Western" qualunque di Ennio Morricone, per poi progredire da tratti desertici ad altri più post metal (complice forse la presenza di Magnus Lindberg dei Cult of Luna al mastering?) assolutamente da brividi ed un finale più mellifluo che va a ribaltare quanto ascoltato sin qui. Classica apertura acustica (forse un po' troppo banalotta a dire il vero) per "Time" e poi una marcetta militaresca contigua, per una song che incarna forse tutte le peculiarità del genere e che alla fine non mi fa strabuzzare gli occhi come accaduto invece nei primi due pezzi. C'è sicuramente del prog pink floydiano in questi quasi dieci minuti di musica, ma mancano forse della medesima energia ed inventiva che mi avevano appagato sino a questo punto. Sulla stessa linea di "Time" è "Dust", ed è un vero peccato, considerate le premesse davvero stimolanti. Siamo sempre alle prese con post rock intimistico dai tratti prog, ma sembra mancare di quella stessa verve iniziale per seguire invece la massa informe di band che popolano la scena. La perizia tecnica c'è tutta, le melodie pure, ma francamente non mi emoziona più di tanto, sebbene siano palesi a più riprese, i tentativi di raddrizzare il tiro, irrobustendo il sound con chitarrate che sembrano prendere in prestito ad un certo punto, un riff dei Nirvana. A "Cope" viene affidato l'arduo compito della chiusura del disco e dopo tutto non se la cava proprio male con un riffing solido e irrequieto all'insegna del post metal, che non avrebbe certo disdegnato la presenza di una bella rocciosa voce nella sua matrice ritmica. Alla fine 'Well' è un buon debut album, con diverse luci ma anche qualche ombra su cui varrà la pena lavorare in futuro. (Francesco Scarci)

(Golden Antenna Records - 2022)
Voto: 74

https://okwait.bandcamp.com/album/well

mercoledì 6 aprile 2022

Soonago - Fathom

#PER CHI AMA: Post Metal Strumentale
Quando c'è di mezzo la Kapitän Platte, di solito c'è da aspettarsi qualcosa fuori dagli schemi. Anche questa volta l'etichetta teutonica ci porta in casa propria ad ascoltare questo nuovo album dei Soonago, intitolato 'Fathom', attraverso quattro pezzi piuttosto lunghi. Ci imbarchiamo in questa avventura, premendo il tasto play del lettore cd, per poi sprofondare nelle melodie metalliche di "Evac", un brano potente, decisamente melodico, ahimè strumentale e dotato di un forte retaggio post rock nel suo scheletro musicale. E su quelle architetture raffinate, sorrette peraltro da onirici break atmosferici, i nostri impongono le loro devastanti (ma sempre accattivanti) linee ritmiche che troveranno il massimo sfogo in un dirompente finale. Le cose si fanno ancora più interessanti con "Besa", una song che corre via veloce (si fa per dire, visti i suoi 13 minuti) tra alti e sonanti vortici ritmici, cambi di tempo, rallentamenti vari, flussi emozionali grondanti vagonate di malinconia, complice una sezione d'archi che si prende tutta la scena dopo cinque minuti e prosegue vibrante fino al termine del pezzo, in una girandola di emozioni, ideale per il mio stato d'animo di oggi. Cala la notte, arrivano le lenti e sensuali melodie di "Apophenia", morbide come una carezza rassicurante sul viso rigato da lacrime di dolore. Quel dolore che sembra cedere il posto ad un più epico inno di gioia che esploderà nel corso di una traccia comunque inquieta, come quella stessa inquietudine che alberga nella mia anima. È il disco che dovevo ascoltare oggi, non ci sono più dubbi, nemmeno quando nelle casse irrompe la title track e quelle sue più stralunate melodie che sembrano aver a che fare molto meno con quanto ascoltato sin qui. Ero certo che in un modo o nell'altro i Soonago mi avrebbero colpito con un fare diverso, fuori dai soliti canoni del post rock e questa traccia rappresenta la dimostrazione più lampante di un disco che non sarà l'emblema dell'originalità, ma che certamente lascia ascoltarsi per la sua eleganza, potenza, emotività, a cui aggiungerei anche la presenza di un certo Magnus Lindberg (Cult Of Luna) dietro alla consolle. Ben fatto! (Francesco Scarci)

(Kapitän Platte - 2022)
Voto: 75

https://soonago.bandcamp.com/

Crust - Stoic

#PER CHI AMA: Black/Doom/Sludge/Post
Con un moniker del genere che cosa vi aspettavate, dite la verità? La band originaria di Veliky Novgorod ci spara in faccia otto pezzi che dall'iniziale title track giungono alla conclusiva "Desert", attraversando le paludi fangose dello sludge, le inquietanti atmosfere doomish, il tutto senza disdegnare brutali scorribande post black e death. Eccovi presentato in poche righe quanto ritroverete durante l'ascolto di questo terzo lavoro dei russi Crust, intitolato 'Stoic'. Se l'opener è un connubio di un po' tutti i generi sopraccitati, la seconda "Watching Emptiness" ha un piglio decisamente più atmosferico e introspettivo, muovendosi nei paraggi di un death doom emozionale, in grado di richiamare i primi Paradise Lost, attraverso un sound cupo ma costantemente accattivante, nonostante gli oltre dieci minuti di durata (anche se gli ultimi due sono piuttosto inutili). Con "A Blind Man in Darkness" si torna a galoppare alla grande con un riffing più teso, articolato, a tratti anche decisamente più ostico da digerire, sebbene numerosi tentativi volti a rasserenare gli animi, con parti più atmosferiche. Per un ripristino delle funzioni cerebrali, arriva però l'acustica di "Willow Forest", un breve intermezzo in grado di metterci in pace col mondo. Da qui si riparte con la seconda parte del cd e un trittico formato da "Plague", "Darkness Becomes Us" e "Anhedonia" che sembrano restituirci una band più tonica ed ispirata tra le dirompenti e melodiche ritmiche post black della prima, il black dissonante della seconda (uno dei pezzi forti del disco) e il doomish black della terza (un altro brano davvero interessante), che ci accompagnerà fino al finale affidato alla strumentale e più pacata "Desert", un pezzo che per il suo ipnotico impianto ritmico, potrebbe addirittura evocare "Angel" dei Massive Attack. Alla fine 'Stoic' è un disco che lascia qualcosa dentro che mi ha spinto più volte ad un ascolto più attento dei Crust. (Francesco Scarci)

(Addicted Label - 2021)
Voto: 74

https://crustband.bandcamp.com/album/stoic

sabato 26 febbraio 2022

Preamp Disaster - By The Edges

#PER CHI AMA: Post Metal, Cult of Luna
Con gli svizzeri Preamp Disaster (chissà se vuole realmente significare il disastro del preamplificatore), torna a riaffacciarsi sul Pozzo la Czar Of Crickets Productions con una delle sue intriganti creature cosi come abbiamo già avuto modo di apprezzare in passato. 'By the Edges' è il lungo e nuovo EP della band originaria di Lucerna che torna sul mercato a cinque anni di distanza da 'Waiting for Echoes'. In tutta franchezza non conosco i nostri, quindi sarà interessante valutarne il loro sound come un novizio alle prime armi. L'apertura è affidata ai robusti suoni di "Above the Bloodline", traccia piacevolmente melodica a cavallo tra post metal e post rock, con i punti di forza del primo (chitarre belle toste) e di debolezza del secondo (gli eccessivi riverberi tipici del genere). I quattro musicisti elvetici giocano comunque su saliscendi ritmici, roboanti chitarre e psichedeliche atmosfere. Tutto molto carino, già sentito mille volte però. Non serve nemmeno quella voce incazzosa a fine brano a togliermi quella sensazione di eccessiva strumentalità della song. Bene, ma non benissimo. Mi muovo sulla seconda song, "Dark Brilliance" e le cose iniziano a farsi più interessanti con una proposta più atmosferica e delicata (non sono certo una mammoletta ma cerco qualcosa di più emozionalmente toccante e meno scontata). Qui i nostri, emulando un che degli Isis più ispirati (e morbidi), ci regalano un approccio più pacato, prima di una totalmente inaspettata esplosione di violenza con una ritmica inferocita e un growling corrosivo. Poi, un break con ancora un landscape delicato su cui poggiano spoken words, che destabilizzano positivamente la concezione musicale che avevo di questo ensemble. Finalmente, qui le cose iniziano a funzionare in modo adeguato e riesco a scorgere segni di una più ricercata proposta musicale. Chitarre di stoneriana memoria si dispiegano invece in apertura di "Holdun", prima di lasciar spazio ad un incedere lento ed evocativo, con le voci quasi sussurrate del frontman a guidarci nel profondo di un brano accattivante che avrà ancora modo di mostrare atmosfere soffuse e un growling di tutto rispetto alla Cult of Luna, in un finale in crescendo che ci sta alla grande. Non saranno originalissimi, ma mi prendono bene. E le cose sembrano andare meglio con la chiusura affidata alle noste di "Entering One Last Epoch", la traccia più lunga del lotto (oltre nove minuti) che mostra un bel basso in apertura che ammicca allo stoner ed una progressione sonora che ci porterà nei paraggi di un post metal sporcato da atmosfere darkeggianti dotate comunque del loro perchè. Alla fine 'By the Edges', pur non inventando nulla, è un lavoro piacevole e strutturato che farà la gioia di tutti gli appassionati di sonorità post metal. Quindi gliela diamo o no una chance a questi Preamp Disaster, che dite? (Francesco Scarci)

(Czar Of Crickets Productions - 2022)
Voto: 74

https://preampdisaster.bandcamp.com/album/by-the-edges

mercoledì 16 febbraio 2022

We Lost the Sea - Departure Songs

#PER CHI AMA: Post Metal/Rock
'Departure Songs' rientra in quello che ormai definisco abbonamento mensile con la Bird's Robe Records (qui in collaborazione con Art as Catharsis) e nella riedizione di vecchi (ma non cosi vecchi) lavori dell'etichetta australiana, riproposti per celebrare il compleanno della label di Sydney. I We Lost the Sea non sono poi una novità su queste pagine, avendo in precedenza recensito, peraltro sempre il sottoscritto, sia 'Triumph & Disaster' che 'The Quietest Place on Earth'. Quindi potrei già dire di sapere cosa trovarmi tra le mani. Tuttavia non è proprio cosi, considerando che l'opener del disco, "A Gallant Gentleman", ha fatto da colonna sonora ad un episodio della serie tv Afterlife e già questo potrebbe attribuire una certa rilevanza all'opera del sestetto di Sydney. Per chi non li conoscesse (ah che bestemmia), i nostri sono una band che ha mosso i propri passi nei paraggi di certo post rock/metal strumentale sporcato da venature post-hardcore. Eppure, la veste più graffiante dell'ensemble non compare nelle delicatissime note dell'ouverture, un pezzo che narra la drammatica vicenda di Lawrence Oates, un esploratore britannico che morì durante la spedizione al Polo Sud. Il brano si muove su un percorso sognante e delicato, con tanto di coro di voci eteree che si materializza a metà brano, prima che il sound si faccia più magniloquente, evocativo, epico, trasognante e malinconico. Con "Bogatyri" (termine che indica i guerrieri eroici della tradizione slava) si rimane nei paraggi del medesimo sound con melodie soffuse e dilatate, affidate semplicemente ad eleganti ed ipnotici giri di chitarra che per oltre quattro minuti si fisseranno nella testa con la loro ridondanza ritmica, prima di inspessirsi, crescere, minacciare, accelerare, innervosirsi in un vortice emozionale che non lascia ampi margini di fuga, tra chitarre riverberate e altre ben più pesanti. Peccato solo manchi quella voce graffiante che mi aveva conquistato ai tempi di 'The Quietest Place on Earth', ma che poi fu costretta a lasciarci per lidi più lontani (RIP). Dopo i quasi 12 minuti di "Bogatyri", ecco i 17 di "The Last Dive of David Shaw" per un'altra maratona sonora che evoca la storia di David Shaw, uno scuba diver australiano che morì per problemi respiratori durante il tentativo di recuperare il corpo di un altro sommozzatore, morto anni prima. Potete pertanto immaginare come la musica rifletti una situazione angosciante, che tra chiaroscuri, bianchi e neri e saliscendi ritmici, dipinge una storia tragica, ossia l'ultima missione di David prima di morire. Una melodia sconquassante, suoni vertiginosi, ad un certo punto anche furenti ed esplosivi, che caratterizzano egregiamente la proposta dei We Lost the Sea. Si arriva cosi ad un'altra montagna da scalare, i quasi 24 minuti di "Challenger part 1 - Flight" che, insieme alla conclusiva "Challenger part 2 - A Swan Song", narrano l'ultima storia di questo drammatico lavoro, ossia l'esplosione in cielo dello Shuttle Challenger nel 1986, appena dopo il decollo. Ricordo bene quelle tragiche immagini e la musicalità dei nostri è affidata ad una parte parlata iniziale con le voci del personale di Cape Canaveral e a successivi landscape ambientali che riescono solo a farmi vagare con la mente ripensando a quell'evento e alla morte in diretta di quegli astronauti. La musica inizia finalmente verso il nono minuto e lo fa sempre con somma eleganza, quella che ha contraddistinto l'album sin qui. Atmosfere sinistre, le chitarre che nuovamente si perdono in loop ritmici, prima che la situazione si sblocchi con melodie più pulite ed un assolo da favola per un finale che continua con un climax costantemente in ascesa, che rischia però di perdersi in un brano forse eccessivamente prolisso. In chiusura, l'ultimo atto che ripristina una durata più umana ad una musicalità che sin qui ci ha regalato comunque grandi emozioni e che non tarderà a donarne anche nel corso di questo pezzo che sancisce la grande emozionalità di cui i We Lost the Sea si fanno portatori. I riflessi musicali che ritroviamo qui sono quelli del post rock malinconico che avrà un crescendo forse senza precedenti nel disco e troverà il suo culmine di drammaticità nelle parole di Donald Reagan e il suo messaggio alla nazione americana nel celebrare quegli eroi che "sciolsero i duri legami della terra per toccare il volto di Dio". (Francesco Scarci)

(Bird's Robe Records/Art as Catharsis - 2015/2021)
Voto: 80

https://welostthesea.bandcamp.com/album/departure-songs

Thumos - The Republic

#PER CHI AMA: Post Metal Strumentale
I Thumos sono una misteriosa creatura di cui non ho trovato troppe informazioni. Certo la Bibbia Metal Archive dice che sono americani, si sono formati nel 2018, ma poi non si sa quanti e quali membri costituiscano la band, o di quale città siano realmente originari. Dopo una serie infinita di demo, split, EP e compilation, il gruppo nordamericano arriva finalmente in questo 2022 al tanto agognato full length d'esordio. 'The Republic' è un lavoro di dieci pezzi dediti ad un post metal che supera l'ora di durata. La sua peculiarità? È interamente strumentale, sebbene il disco voglia essere una sorta di rappresentazione musicale de 'La Repubblica', l'opera filosofica in forma di dialogo, del filosofo greco Platone, la quale ebbe una enorme influenza nella storia del pensiero occidentale. Quantomeno stravagante. Il disco si apre con i toni cupi di "The Unjust" che rivela subito la direzione musicale intrapresa dai nostri. Le chitarre infatti sono quelle tipiche del post metal, tuttavia le ambientazioni tendono a farsi, nel corso del pezzo, estremamente rarefatte e paranoiche, complici una serie di rallentamenti dal mood asfissiante. Un filo più tirata "The Ring", dove comunque mi preme sottolineare il piacere nella band di produrre break in cui affidare lo stage ad un singolo strumento. Accadeva con la batteria sul finire del primo brano, accade qui con largo spazio concesso alla chitarra e da qui ripartire con un piglio costantemente in bilico tra post e doom, profumato anche da derive progressive e da qualche accelerazione che ammicca al black. Il disco non è proprio facilissimo da digerire, però non appare alle mie orecchie scontato come tanti altri lavori che ho ascoltato in ambito post, forse per questa capacità di variare il tempo, di inferocire la componente ritmica, cosi come di renderla più mansueta in altri frangenti come accade nella più delicata e melodica "The Virtues" che potrebbe ricollegarsi al IV libro di Platone e alle virtù in esso citate, la sapienza, il coraggio e la temperanza. Più tortuosa invece "The Psyche", d'altro canto con un tema del genere era lecito aspettarsi qualcosa di simile. Si tratta di un brano pesante che si muove su una ritmica lenta e ossessiva, caratterizzata da giri di chitarra sparsi qua e là alquanto bizzarri e da un incedere comunque pachidermico nella sua seconda metà. Si arriva intanto a "The Forms" e al suo sconfortante incipit che evolve in un pezzo che per certi versi mi ha evocato lo spettro dei Cult of Luna di 'Somewhere Along the Highway', quelli più glaciali e desolanti, sebbene le tastiere provino a smorzare i toni e a sopperire all'assenza di un vocalist. "The Ship" è il brano più corto del disco che attacca con un rutilante incedere ritmico. Bordate di piatti e rullante, chitarre super distorte vicine più al death metal che al post, ed una serie di schiaffi in faccia ben assestati. L'oscura "The Cave" non mi lascia alcun dubbio sul fatto che affronti "Il Mito della Caverna", una delle più conosciute allegorie del filosofo greco. Il pezzo è fondamentalmente orientato sulla falsariga dei precendenti almeno fino a quando, poco prima di metà brano, divampa la miccia di un black furibondo che ci accompagnerà, tra rallentamenti e accelerazioni improvvise, fino al termine. "The Regimens" è un'altra song che parte da toni pacati ma con una linea di chitarra un po' più sghemba rispetto alle precedenti. Anche qui il break di batteria non tarderà a materializzarsi, quasi il battito ritmico di un cuore in mezzo al petto, comunque ostico e nevrotico. Un delicato arpeggio apre "The Just", che mi ha colpito per la sua intrinseca malinconia dettata probabilmente dall'utilizzo degli archi che donano una certa solennità a quello che è il pezzo più evocativo del disco, quello che ammicca anche maggiormente al post rock, quello meno originale ma che forse riesce più a toccare la componente emotiva di chi ascolta. In chiusura "The Spindle", la traccia più lunga del lotto, quella che attacca anche in modo più minaccioso con delle chitarre multistratificate che non lasciano presagire a nulla di buono, quasi un black norvegese di altri tempi. In realtà non ci troveremo di fronte a nulla di cosi spaventoso o feroce, sebbene il drumming ogni tanto sembri voler aumentare i giri del motore, ma da qui alla fine ci sarà spazio per qualche accenno di accelerazione, qualche sporadico blast beat e poco altro che si concretizzerà in un pianoforte che chiude delicatamente un disco inaspettato, intrigante e complicato. (Francesco Scarci)

(Snow Wolf Records - 2022)
Voto: 75

https://thumos.bandcamp.com/album/the-republic

venerdì 11 febbraio 2022

Torii - S/t

#PER CHI AMA: Black/Death/Doom
In tutta franchezza i Torii non li conoscevo, eppure Bill Masino, il mastermind dietro a questo moniker, bazzica l'underground dal 2012, peraltro con all'attivo ben sette full length, tra cui l'ultimo qui presente album omonimo. Tra l'altro il genere proposto è affine anche ai miei gusti, trattandosi di un black death post doom, eppure devono aver frequentato circuiti estremamente elettivi perchè non li trovassi. Ora giunge finalmente tra le mie mani questo 'Torii', disco che include otto tracce che ripercorrono lidi musicali affini a Cult of Luna e Yob. Si parte con le apocalittiche tonalità di "The Second Renaissance" e quel cantato orrorifico di Bill che attanaglia quasi la gola. Il sound è oscuro, le linee di chitarra sporche fino a quello splendido break centrale, dove mi sembra di scorgere anche l'utilizzo di un violino accanto alla chitarra acustica. Si riparte da qui, con le voci che sembrano provenire da un gorgo infernale mentre le chitarre giocano a rincorrersi tra riverberi in tremolo picking di post-rockiana memoria. "Synthetic Dust" ha un'andatura più funerea, lugubre e asfissiante, con un drumming persistentemente rutilante e un vocione che sembra arrivare dall'oltretomba sebbene, a fronte di un'accelerazione ritmica, assuma sembianze più screameggianti. Il sound è comunque fluido e decadente, dotato di una buona dose melodica, il che lascia che si apprezzi con più semplicità, nonostante un claustrofobico finale. Ancora archi e un timido arpeggio di chitarra per "Persephone", un bridge interamente strumentale che ci accompagnerà dolcemente a "Eurydice", a confermarci come i contenuti lirici si muovano attorno a tematiche prettamente di carattere mitologico. Ancora doom oppressivo in questo brano, in cui da apprezzare sottolinerei sicuramente la stratificazione ritmica che ben si accompagna con la voce gracchiante del polistrumentista dell'Arkansas ed un finale affidato a psichedelici giochi di synth. "Grey Expanse" si palesa con una dissolvenza in apertura delle sue chitarre e un pezzo che si muove con un marziale e distorto giro ritmico che mostra più di un richiamo agli esordi dei Cathedral. La song è tuttavia cruda, grezza e malmostosa nel suo approccio quasi a voler mostrare il lato più rude di Bill. Un dronico intermezzo ("Void") ci conduce a "Inertia", un pezzo che mostra un incipit alla Cult of Luna, ma durante la sua elucubrante evoluzione, si lascia apprezzare più per le sue spettrali atmosfere che per altro. In chiusura, la title track sembra sancire con le sue morbide melodie la fine di un complicato viaggio: ciò sarà vero solo nella prima mite metà del brano, visto che dal quarto minuto in avanti, e per altrettanti giri di orologio, Bill vomita ancora tutto il proprio dissapore su di una linea melodica malinconica quanto avvincente. Alla fine quello dei Torii è un disco ostico, stralunato ma comunque affascinante che merita di sicuro un vostro ascolto. (Francesco Scarci)

domenica 2 gennaio 2022

No God Only Teeth - Placenta

#PER CHI AMA: Post Hardcore/Post Metal
Mamma, quanta tensione nelle note introduttive di questo 'Placenta', opera prima dei teutonici No God Only Teeth. La band originaria di Amburgo, che lo scorso anno si era fatta notare col demo omonimo, trova nella Narshardaa Records il partner perfetto per rilasciare questo lavoro. Sette pezzi per poco più di 48 minuti di musica a metà strada tra hardcore, post metal e sludge. Al primo, probabilmente, l'avvicinerei per quel cantato acidissimo ad opera di una sprezzante cantante (tal F.). Al post metal l'accosterei invece per quel riffing di scuola Neurosis/Cult of Luna, mentre per quel che concerne lo sludge, beh sentitevi le asfissianti atmosfere di "Raffer" per capirne qualcosa di più. Il disco apre tuttavia in modo granitico con la lunga "Gegenlicht", un percorso emozionalmente ondivago tra richiami post hardcore, dilatazioni post metal e un oscurissimo finale al limite del doom. Fantastica l'apertura atmosferica di "Safer", peccato poi mi convinca meno l'attacco di batteria e voce, graffiante ma un filino sgraziata, manco fosse un gatto a cui gli si è pestata la coda. Meglio i nostri nei frangenti più compassati, in cui la band evidenzia anche una certa vena malinconica, pur mantenendo una solidità a livello ritmico. Più ancorata al passato e pertanto più piattina "Stockholm", che oltre ad offrire un interessante break chitarristico, ha ben poco altro di esaltante. E intanto la voce della frontwoman inizia a stancare per una certa staticità a livello canoro. Inquietante l'incipit vocale di "15.37.12", una song di somma violenza (quasi black) alternata a più riprese ad un riffing più ponderato in cui, il suono costantemente pastoso, fatica a mettere in luce la performance strumentale. Un peccato perchè il marasma sonora penalizza la riuscita del brano. Ancora furore e devastazione con la successiva "Bethune", dove mi rendo conto che inizio a non sopportare più la performance vocale della cantante e la tentazione è quella di spingermi quanto prima verso la fine del disco. Rimangono infatti un altro paio di pezzi a rapporto: la già citata "Raffer", che si muove tra bordate hardcore e mortiferi rallentamenti sludge, e la bonus track, "Matters", con un riffing a tratti malinconico alternato ad un più sconclusionato rifferama quasi di scuola Pantera, da rivedere. Insomma, le basi ci sono, dovrebbero essere convogliate un pochino meglio. (Francesco Scarci)

mercoledì 15 dicembre 2021

Ikitan - Darvaza y Brinicle

#PER CHI AMA: Post Metal/Heavy Strumentale
Gli Ikitan sono un power trio originario di Genova, dedito ad un heavy post-metal strumentale. Usciti giusto un anno fa con un EP, 'Twenty Twenty', contenente un unico monolitico brano di poco più di 20 minuti, i nostri tornano con una tape contenente due nuovi brani dai titoli quanto meno insoliti. "Darvaza" e "Brinicle" rappresentano infatti due stranezze del nostro mondo: il primo è un cratere di gas naturale collassato in una caverna nella località di Darvaza, in Turkmenistan, detta anche Porta dell'Inferno. Il secondo rappresenta invece un fenomeno che avviene nelle profondità degli oceani antartici dove, dall'incontro tra una massa d'acqua salata molto fredda con dell'acqua più calda sotto la superficie dei ghiacci, si forma una sorta di raggio ghiacciato sottomarino. Due fenomeni cosi stravaganti necessiterebbero di musica altrettanto stravagante, cosa che di fatto quella degli Ikitan purtroppo non è. I due pezzi si muovono infatti nei pressi di un post metal/rock non troppo originale. Le chitarre sono solide e robuste, la melodia sicuramente gradevole, ma il terzetto non inventa nulla di trascendentale anche laddove compaiono rallentamenti di tooliana memoria nel primo dei due pezzi, che si muove in un saliscendi emozionale sicuramente intrigante. La seconda song inizia più in sordina, con un bel giro di basso e chitarra, che evolve in un brano dal sapore quasi progressive, ma che comunque mantiene intatto quello spirito veemente e guardingo tipico dei nostri, soprattutto nella ispirata coda finale. Due pezzi sono però un po' poco per giudicare appieno le qualità di una band su cui non ho nulla da eccepire da un punto di vista tecnico. Tuttavia, preferisco tenermi bassino con il voto, giusto per non portarvi a fare voli pindarci sui contenuti dei due nuovi brani, peraltro rilasciati in cassetta. Ora mi aspetto qualcosa di più lungo e strutturato da parte degli Ikitan, per poter meglio assaporare la proposta della band italica. (Francesco Scarci)

lunedì 6 dicembre 2021

Hope Drone - Husk

#PER CHI AMA: Post Black/Sludge
Dopo un silenzio durato poco più di due anni, tornano gli australiani Hope Drone con un EP nuovo di zecca, uscito esclusivamente in formato digitale, che peccato. 'Husk' serve però a tastare il polso del quartetto di Brisbane, dopo quest'ultimo periodo alquanto complicato. Quattro i pezzi a disposizione dei nostri per saggiarne lo stato di forma e devo ammettere che l'incipit affidato a "Inexorable" fuga immediatamente ogni dubbio sul fatto che i nostri siano pimpanti più che mai con il loro classico vortice sonoro che ingloba nelle proprie note post black e post rock, il tutto immerso in uno strato melmoso, quello dello sludge ovviamente. E il risultato è davvero avvincente con suoni grossi, violenti, melodici, catartici e appassionanti nel loro incedere veemente. La successiva title track parte su di una base percussiva ipnotica, a cui pian piano si aggiungeranno gli altri strumenti, per ultima la voce, in un crescendo sonoro ed emozionale da brividi, quasi fossimo sull'orlo del precipizio, con la testa che gira a causa delle vertigini, e la musica è rappresentata da un ritmo marziale pronto a deflagrare in qualsiasi momento, ma comunque fin qui a rendere tesa e surreale un'atmosfera che rimarrà tuttavia tale per tutti i suoi sette minuti e mezzo di durata. Devastante invece "Existere", quasi a volersi rifare della mancata devastazione nel secondo brano. E i nostri ci riescono alla grande con un blast beat furente interrotto qua e là da break atmosferici o da rallentamenti al cardiopalmo, il tutto cosi intriso di malinconia che mi fa disperare nell'anima. Chiusura invece affidata alla lunga "Dwell", oltre 10 minuti di sonorità che ammiccano inequivocabilmente a post metal e sludge, con una spaventosa parte centrale apice di un black metal roboante ed evocativo, prima di un dronico e spettrale finale che ci conferma quanto gli Hope Drone siano realmente in palla. Notevoli. (Francesco Scarci)

lunedì 22 novembre 2021

Dying Hydra - Of Lowly Origin

#PER CHI AMA: Sludge/Post Metal, Neurosis
Adoro la mitologia greca e qui sembra essercene parecchia visti i riferimenti all'Idra nel moniker dei nostri, citando il mostro leggendario dal corpo di serpente in grado di uccidere un uomo con il solo respiro, con il suo sangue o al solo contatto con le sue orme. Alla stregua di quella creatura infernale, il sound dei danesi Dying Hydra sembra in realtà più affine a quello di un serpente costrittore alla luce dei contenuti sludgy di questo 'Of Lowly Origin', opera prima sulla lunga distanza, per il terzetto di Copenaghen, che deve essere cresciuto a botte di pane e Neurosis. Si perchè l'opener del side A del vinile (una versione in cd non esiste ancora), "Earliest Root", mette in mostra le qualità del combo danese che si muove appunto tra gli anfratti oscuri a cavallo tra sludge e post metal. Aspettatevi quindi dei pachidermici chitarroni su cui poggiano le vocals roche dei due cantanti, Lars Pontoppidan e Patrick Fragtrup, peraltro anche le due asce della band. La proposta, come ovvio che sia, è melmosa quanto basta nel suo incedere monolitico, con una buona dose di melodia che si esprime attraverso ricercati break atmosferici che spezzano quei riffoni caustici che popolano il disco. Il lato A della release è interessante in tutti e tre i suoi pezzi, in particolar modo però mi soffermerei sulla lunga "Rootborn" che per nove minuti abbondanti si difende con un sound possente attraverso un mid-tempo che, dove riesce, prova a rallentare il suo ritmo riducendo la densità delle note e contestualmente aumentando un senso di inquietudine interiore, soprattutto quando si palesa un parlato pulito. Il side B del vinile ci regala qualche altro spunto degno di interesse: la flemmatica ma intensa "Species Adrift" con quel suo drumming ossessivo, quasi paranoico, stabilizzato da un paio di break strumentali. "Ashed Eyes" continua sulla medesima falsariga ritmica con una continuità musicale che desta qualche difficoltà a percepire lo stacco tra il primo e il secondo brano. Ecco, forse qui qualcosa inizia a scricchiolare, perchè sembra che il terzetto arrivi verso il fondo in apnea, con la sensazione quasi di aver terminato le idee. "Undergrowth" prova a riprendersi la mia fiducia con una maggior ricercatezza sonora e con più spazio concesso alla parte strumentale dei nostri tra litaniche melodie orientaleggiante, roboanti giri di chitarra e frangenti più claustrofobici. La versione digitale del disco include infine una bonus track, "Cry of the Colossus" che ci consegna altri sei giri di orologio di sonorità oscure che chiamano in causa i maestri di sempre del genere. La release alla fine è interessante, ma c'è ancora parecchio da lavorare per emergere da quel calderone sempre più stipato da band che vogliono emulare Scott Kelly e compagni. (Francesco Scarci)

venerdì 15 ottobre 2021

Dumbsaint - Panorama, in Ten Pieces

#PER CHI AMA: Post Metal strumentale
Continuano a cascata le uscite in casa Bird's Robe Records a riesumare album più o meno recenti (e conosciuti) del roster dell'etichetta australiana. Oggi è il turno dei Dumbsaint, ensemble di Sydney che su queste pagine avevamo già incontrato con 'Something That You Feel Will Find Its Own Form'. Quello di oggi è l'album 'Panorama, in Ten Pieces', release del 2015 che seguiva a tre anni di distanza quel 'Something...' appena citato. Il risultato? Sublime, e non lo scopriamo certo oggi con quell'amalgama perfetta tra post metal strumentale (oh dannazione, che peccato non ci sia una stramaledettissima voce che ogni tanto alteri la fluidodinamica dei suoni) e ambientazioni cinematiche che, dall'iniziale "Low Visions" finiscono, attraverso un percorso lungo, articolato e alquanto ambizioso, nelle delicate spigolature della conclusiva "Barren Temples". In mezzo? Sicuramente una buona dose di qualità e un'intensità sonora come quella sviluppata proprio dall'opener. E ancora, un'ottima riflessività (come quella esibita nella più intimista "Communion"), irrequietezza che contraddistingue la contraddittoria e vivace "Love Thy Neighbour", dapprima delicata e poi parecchio energica, al pari della successiva "(Partition)", tanto breve quanto efficace. Non dimentichiamo poi della strabordante forza distruttiva di "Cold Call", forse il brano più aggressivo e nevrotico delle dieci tracce qui incluse, anche il mio preferito. Vorrei citarvi ancora la breve "Graceland", con il suo fresco ed ipnotico post rock e la successiva, lunga, lunghissima e malinconica "Long Dissolve/Temps Mort", che con i suoi splendidi acuti di chitarra mi ha evocato un anomalo mix tra gli enigmatici finlandesi This Empty Flow e i nostrani Threestepstotheocean. Ottima riscoperta, assai utile per chi se li fosse persi sei anni fa, ancor più utile per chi si è dimenticato di avere il disco a prendere la muffa nella propria collezione. (Francesco Scarci)

(Bird's Robe Records - 2015/2021)
Voto: 77

https://dumbsaint.bandcamp.com/

mercoledì 14 luglio 2021

Mish - Entheogen

#PER CHI AMA: Post Metal/Djent
Tra le uscite discografiche della label australiana Bird's Robe Records, volte a celebrarne i 10 anni di attività, figura 'Entheogen', secondo album dei loro connazionali Mish, originariamente uscito nel 2017. I Mish li avevamo già conosciuti all'epoca del loro debut, 'The Entrance', nell'ormai lontanissimo 2011. In questo secondo lavoro i nostri si ripresentano con un sound sempre robusto, a cavallo tra djent, post metal, math e qualche digressione in territorio post rock. Si parte discretamente con la feroce opener "Artax", ma è in realtà con la successiva "Red Fortune", che i nostri riescono meglio a mettersi in mostra, sia a livello tecnico (li definivo chirurgici in occasione della precedente release e non posso far altro che confermarne il concetto) che a livello melodico e in termini di originalità. Se dovessi pensare ad un qualche confronto da fare con altre entità del panorama musicale, penserei ai Meshuggah che si mescolano con un che degli Isis e con i loro compagni di scuderia Dumbsaint, in una proposta ove a mettersi in luce è anche il graffiante growling del frontman. La breve "Lyre Bird" si presenta come espressione musicale di violenza inaudita, con linee di chitarra ipnotiche, a tratti ridondanti, ma sempre belle possenti. Da li in poi, in corrispondenza della title track, il sound del combo australiano sembra virare drasticamente verso lidi post rock, grazie ad un arpeggio aggraziato in apertura e delle atmosfere quasi eteree a richiamarmi gli *Shels. Il brano è il primo di una serie in cui la band sembra mostrarci l'altra faccia della loro medaglia e lo fa con melodie, atmosfere e vocalizzi (puliti) completamente differenti dalla prima parte del disco, quasi stessimo ascoltando un'altra realtà musicale. E alla fine sapete che non ho ancora ben capito se apprezzo maggiormente questo lato più sognante della band (che tornerà anche nelle successive "Socrates", strumentale caratterizzata da un piglio stile ultimi Isis, nella lugubre melodia di Lung" o nella litanica conclusione affidata a "Thylacine") o quello più abrasivo che ha ancora modo di palesarsi nell'acidissima "Pinata" e nella schizoide "Verterbrae" (in realtà quest'ultima un mix tra le due facce della medaglia Mish). In attesa di capirne qualcosa di più, vi lascio all'ascolto di questa stravagante creatura australiana, forse alla fine potreste darmi una mano a comprendere meglio quale dei mondi targato Mish risulterà essere il più intrigante. (Francesco Scarci)

(Bird's Robe Records - 2017/2021)
Voto: 74

https://birdsrobe.bandcamp.com/album/entheogen

domenica 20 giugno 2021

Deka‘dɛntsa - Universo 25

#PER CHI AMA: Dark/Post Rock
Un altro prodotto della pandemia e del disagio creato da questo difficile periodo per il mondo intero. Questo è 'Universo 25', album di debutto dei campani Deka‘dɛntsa, che richiama nel proprio titolo, l'esperimento omonimo condotto dall'etologo John Calhoun, che usò l'espressione "fogna del comportamento" per illustrare i risultati della sua esperienza e denotare il collasso di una società a causa di anomalie comportamentali provocate dalla sovrappopolazione. Da qui, arrivare questa raccolta di sette tracce che si aprono con il rumorismo di "Latenza 00" che lascia ben presto il campo alla title track, una song dark rock cantata in italiano. Ottime le oscure atmosfere create dal combo originario di Salerno, che nel corso del disco, verrà supportato da svariati ospiti, da Mohammed Ashraf (Pie are Squared, Postvorta, Void of Sleep) che ha scritto e suonato l’intro “Latenza 00”, Andrea Fioravanti (Postvorta) alla chitarra in "Hikikomori" - entrambi grandi amici di Raffaele Marra (fondatore dei Deka‘dɛntsa ma anche dei Postvorta stessi) - ed Edoardo Di Vietri (In a Glass House) alla chitarra in "Disordine e Indisciplina" e nella già citata "Hikikomori". Sia ben chiaro che la band di quest'oggi non ha nulla da condividere con i Postvorta; messe da parte infatti le idee sludge/post metal, Raffaele in compagnia di un altro paio di amici, si diletta in sonorità più orientate al dark rock. Lo dicevamo appunto per la title track, lo confermo per "Inutili Eroi", che sembra quasi richiamare i Litfiba degli esordi, quelli di 'Desaparecido' per intenderci, in cui il sound combina influenze dark/punk/new wave con melodie tipicamente mediterranee, cariche poi di un fortissimo impatto emotivo. Qui percepisco una situazione alquanto simile, per quanto confluiscano nella proposta dei nostri dinamiche più attuali, con derive elettroniche ma anche sfuriate metal. Un bel basso apre e guida "Decadenza", un pezzo mid-tempo, oscuro ed incazzato, caratterizzato da buone melodie ma che probabilmente non rimarrà agli atti come uno dei migliori brani della musica dark rock italiana. La band ci riprova con l'emotiva "Hikikomori", un altro esempio di dark sulla scia dei vecchi Burning Gates, ma che in realtà mi ha ricordato "Satana" dei Nuvola Neshua, con la sola differenza che ho davvero amato il brano della band lombarda di primi anni 2000, un po' meno questo che sembra offrire il meglio di sè solamente nel finale. "Pandemica" è un pezzo dal taglio più corposo ritmicamente parlando grazie a dei granitici riff di chitarra ma che non mi convince a livello vocale con il cantato pulito in italiano del frontman, che non spicca certo in personalità; molto meglio invece il finale con delle spoken words in un contesto più post metal che rendono maggior giustizia al lavoro. In chiusura "Disordine e Indisciplina", gli ultimi sette minuti abbondanti all'insegna di un dark metal d'ordinanza, a tratti irrequieto a dire il vero, per un disco comunque che forse manca ancora di spunti vincenti per poter dire la propria in un ambito che vanta oltre quarant'anni di storia alle spalle e che necessita di molto di più per poter rimanere negli annali di questo genere. (Francesco Scarci)

(Zero Produzioni/22 Dicembre Records - 2021)
Voto: 65

https://dekadentsa.bandcamp.com/album/universo-25

lunedì 17 maggio 2021

Turangalila - Cargo Cult

#PER CHI AMA: Noise/Post Rock/Math
Continuo a pensare che ci sia del sadomasochismo a dare certi nomi alle band. Avere un moniker complicato, per quanto attinga all'omonima sinfonia di Oliver Messiaen, di sicuro non mi aiuterà a ricordare questi Turangalila, quartetto barese che rientra appunto in un sempre più nutrito numero di ensemble davvero difficili da memorizzare. 'Cargo Cult' è poi un album di per sè ostico a cui approcciarsi per le sonorità in esso contenute: sette pezzi semistrumentali che si aprono col passo irrequieto di "Omicidio e Fuga", e quel suo riffing roboante (all'insegna del math rock) su cui si stagliano slanci apocalittici di un basso costantemente fuori dagli schemi, arzigogolii di chitarra che si incuneano nel cervello e fanno uscire pazzi e poi ecco, un break, che apre a splendide e psichedeliche partiture post rock. Deliziosi, non c'è da aggiungere altro, soprattutto quando il violino emerge dal sottofondo. E l'ipnotismo lisergico della band pugliese esplode ancor più forte in "Don't Mess With Me, Renato", una song in cui la carezzevole voce di Costantino Temerario mostra il proprio volto, mentre in background le chitarre si confondono con gli sperimentalismi creati dai synth, generando atmosfere surreali che mi hanno ricordato i vicentini Eterea Post Bong Band. Un arpeggio stroboscopico apre invece "Tone le Rec", un brano da utilizzare con grande cautela, il rischio di andare fuori di testa è davvero elevato, complice la ridondanza delle sue chitarre prima che un indemoniato basso a braccetto con synth e una chitarra delirante, prendano la testa del brano e come cavalli imbizzarriti, si lancino in un fuga ad alto tasso di pericolosità. Ci ho sentito un che dei Primus in queste note, ma anche l'inquietudine degli Swans, unita alla melmosità dei Neurosis. I Turangalila (non ricorderò mai questo nome) proseguono sulle suadenti note di "Liquidi e Spigoli", un post rock malinconico che dilagherà presto in fughe math rock con la voce che torna a sgomitare accanto alla schizofrenica ritmica dei quattro italici musicisti. Ma i nostri proseguono il loro trip all'insegna di sonorità sbilenche nell'atipica title track che evidenzia una certa perizia tecnica all'interno del collettivo, una ricerca costante di esplorare il proprio intimo con suoni cerebrali, a tratti anche eterei che mi hanno evocato un altro nome che adoro, ossia gli *Shels, per quella ricerca costante di saliscendi ritmici in seno alla band. Si fanno invece più cupi in "Cargo Cult Coda" che con una splendida sezione d'archi, mette una sorta di punto e accapo al precedente pezzo. In chiusura, ancora dieci minuti di entropia sonora creata nell'amalgama noise rock di "Die Anderen", l'ultimo atto dove trovano il modo di confluire suoni post metal, alternative e d'avanguardia sempre più interessanti che mi obbligano a suggerirvi di avvicinarvi al più presto ma con grande cautela a questi Turangalila. Maledetto nome, non mi ricorderò mai di te. (Francesco Scarci)

(Private Room Records - 2021)
Voto: 77

https://turangalila.bandcamp.com/

sabato 15 maggio 2021

Ba'al - Ellipsism

#PER CHI AMA: Black/Sludge, Inter Arma
Gli inglesi Ba'al non sono una band come le altre. Il sound del loro debut 'Ellipsism' (quello sulla lunga distanza intendo, visti già due precedenti EP all'attivo) è un concentrato di black sludge malinconico, caratterizzato dalle lunghe durate dei suoi brani. Il quintetto di Sheffield ci attacca subito con l'acidità black di "Long Live", un brano impostato sin da subito su ritmi forsennati e vocals caustiche, che vede poi una lunga parte atmosferica a cavallo fra terzo e sesto minuto, in cui i nostri sembrano concederci la pausa ideale prima di attaccarci con una proposta questa volta più melmosa e strisciante, che ci presenta l'anima sludgy dell'ensemble britannico. La seconda "An Orchestra of Flies" riparte da qui, da ritmi più lenti e fangosi per accelerare paurosamente verso il secondo minuto con una ritmica serrata che va alternandosi con la vena sludge propinata dai cinque musicisti. Non una proposta semplice da digerire, lo metto subito in chiaro, però quello dei Ba'al è un suono sicuramente intrigante che negli oltre 60 minuti del disco, avrà diverse cose da mettere nero su bianco. Dalle angoscianti sonorità della seconda traccia ci spostiamo a "Jouska", previo un breve break strumentale (ne troveremo altri due nel corso dell'ascolto di 'Ellipsism'), una song dall'incipit oscuro e da un'andatura più ritmata, che comunque non rinuncia alle harsh vocals di Joe Stamps (il cantante degli Hecate Enthroned) e ad una buona dose di melodia che comunque caratterizza l'intero lavoro. Con "Tarred and Feathered" la band sembra affiancare alla componente black una buona dose di death metal nella corposità delle chitarre e in vocals che rimpallano tra urla blackish e vocals gutturali. La traccia è bella tesa e tende a sfociare nel corso delle sue spirali infernali in ambientazioni fumose. Con "Father, the Sea, the Moon" i nostri cambiano ancora i propri connotati con un approccio lento, profondo ma dotato di ottime orchestrazioni e di una serie di sorprese a livello chitarristico che mi disorientano e catturano. L'anima dei Ba'al rimane però quella di sempre, votata ad una oscurità intransigente che si muove tra rutilanti ritmiche e accelerazioni improvvise, stop'n go governate dallo screaming efferato del frontman inglese. In chiusura l'ultima sorpresa di 'Ellipsism',"Rosalia", la traccia più lunga del disco (oltre 12 minuti) che ci consegna l'anima struggente ed intimista dei Ba'al, in una evoluzione sonora che parte dal gentile arpeggio iniziale, per poi proseguire attraverso malinconiche linee di chitarra e decollare con sonorità prese in prestito dal post metal, da un suono pesante ma comunque emozionalmente convincente, in cui a brillare è la presenza della viola di Richard Spencer, che arricchisce di un ulteriore elemento la proposta sonora di questi interessantissimi Ba'al. (Francesco Scarci)

giovedì 13 maggio 2021

Dumbsaint - Something That You Feel Will Find Its Own Form

#PER CHI AMA: Post Metal Strumentale
Riesumiamo i Dumbsaint e il loro debut 'Something that You Feel Will Find Its Own Form' semplicemente perchè fa parte della re-release series della Bird's Robe Records in occasione dei dieci anni di compleanno. L'album è uscito infatti nel 2012 e il nostro Mauro (per cui riproporrei la sua visione) ne parlava come un esempio di post metal (strumentale) cinematico ed estremamente affascinante. I nostri nascono nel 2009, e la loro peculiarità sta nel fatto che le loro esibizioni live siano caratterizzate dalla proiezione di filmati appositamente realizzati per fondersi al meglio con la propria musica, quasi come in un’installazione artistica multisensoriale. La paura che le note, qui deprivate del loro naturale elemento completante, non siano in grado di reggersi in piedi da sole, viene presto spazzata via dall’ascolto di questo solidissimo lavoro. Vale quindi la pena di dare un’occhiata al “pacchetto completo” sul canale youtube della band (per esempio il folgorante singolo “Inwaking”), per godere appieno dell’esperienza così come era stata pensata all’origine dai propri autori. La prima volta che ho ascoltato questo disco l’ho fatto in maniera piuttosto distratta, mettendolo nel lettore mentre sbrigavo altre faccende, e mi sono sorpreso a mollare quello che stavo facendo per seguire con attenzione quello che usciva dalle casse dello stereo, completamente rapito dalla complessità, la stratificazione, la potenza degli intrecci ritmici e armonici dei tre australiani. Una musica di questo tipo richiede assoluta perizia strumentale, e sotto questo profilo i Dumbsaint sono davvero bravi, in particolare mi preme sottolineare la prestazione monstre del batterista Nick Andrews, responsabile della varietà di ritmi e strutture che si susseguono senza sosta lungo tutto l’arco del disco. Stratificazione, si diceva: il post metal dei Dumbsaint sembra funzionare a più livelli di coscienza e riuscire sempre a trovare la strada per scardinare le nostre gabbie e i nostri scudi, e farsi strada prepotentemente con i suoi crescendo, le sue strutture irregolari ma sempre perfettamente - quasi matematicamente – compiute, la sua potenza, non viscerale ma controllata senza che questo suoni come un difetto, tenuta a bada e poi liberata improvvisamente. I rimandi a band più blasonate quali Isis e Pelican non mancano, ma quello che fanno i Dumbsaint è qualcosa di ancora diverso e persino più ardito. In più di un passaggio sembra di ascoltare i Tool di 'Lateralus' orfani dei magnetici vocalizzi di Maynard James Keenan, senza tuttavia che la sua assenza si faccia sentire più di tanto. Non so per voi, ma per me questo è un grosso complimento. (Mauro Catena)

martedì 30 marzo 2021

Bound - Haunts

#PER CHI AMA: Shoegaze/Alternative, This Empty Flow
Gli statunitensi Bound aprono 'Haunts', loro opera seconda, con "The Bellows", in cui i tinnuli di cristallo cullano il bipolarismo dei suoi suoni. Un’esplosione di vetri che si adorna di lentezza in uno shoegaze dalle tinte alternative. Un arcobaleno prismatico che toglie il fiato al corpo della song per trovare insistentemente il suo tesoro prima, durante e dopo la sua corsa cinematica. Qui conta la scoperta. Una sonorità accesa che ritroveremo anche nella terza ondivaga "The Divide". Il suono che spazia tra paradiso e inferno. Con "The Ward" invece spezzettiamo il tempo in coriandoli sonori. Una polvere che muove l’aria prima di essere aria stessa. Una carezza, malinconica. Con "The Field of Stones" restituisco il passato in questo presente soffuso. Laconiche le sonorità. Ispirati i passi tra le rocce ed il climax ascendente della musica che imprigiona, sposta, asseconda, rapisce con le sue ipnotiche note di synth. Un viaggio da fare e fare ancora. Se non avete mai fatto un passo nel bosco stregato, se non siete stati mai temerari nella casa maledetta, beh venite con me, il tutto potrebbe suonarvi inquietante quasi quanto il video della successiva "The Last Time We Were All Together". "The Lot" suona come il giusto preludio incantato, spezzato dalla circostanza della chitarra, ammantato dall'eterea voce del vocalist ed ancora forte dell’energia che la band manda in etere. Andiamo avanti, abbracciando l’intensità soffusa che spazza l’estetica in “The Small Things Forgotten”. Il brano apre leggero carezzevole con un arpeggio di chitarra, che presto si trasforma in una nuvola di suoni scomposti, irrequieti, carnali, alla fine quasi infernali. Una bolla in cui il pensiero lento e la rabbia veloce possono scambiarsi pensieri, dinamiche, musica, chitarre benedette e maledette. Non abbiamo ancora toccato il fondo perchè vanno on air gli sperimentalismi dream pop di “The Lines”. Il fondo è superficie perché con la musica le prospettive sono aberrazione. Tuttavia, con la musica i cori ci portano a volare. Ma è forse la traccia che vola o siamo noi a volare? Sentite il brano che spezza con un suono metallico ritmato in 2/4. Sentite le anime che urlano a vanno su ad ascendere. Ascoltare e basta. Mi spacca questa song e mi ricompone le fiaccole dell’anima. L’epilogo di 'Haunts' si racconta con la conclusiva "The Known Elsewhere" ed un sound ripetuto, voce facile per uno shoegaze dalle venature post rock. Un graffio che evoca le melodie dei finlandesi This Empty Flow. Avrei forse preferito un epilogo psichedelico quanto l’esordio, ma l’album si congeda con un volto già visto, una sagoma nell’ombra, un disco che ci dice che andare d’istinto è molto più pregiato che farsi trasportare. (Silvia Comencini)

(Jetsam-Flotsam/Diehard Skeleton Records - 2020)
Voto: 70

https://boundlives.bandcamp.com/album/haunts

lunedì 22 marzo 2021

Farer - Nomad

#PER CHI AMA: Doom/Sludge/Post Core
Quattro brani per portarci all'Inferno senza ritorno. Ecco cosa ci propongono gli olandesi Farer con il loro debut 'Nomad'. Mi fa sorridere che si parli di EP, quando la lunghezza media dei brani viaggia sui 13 minuti fatti di un sound claustrofobico e malato, cosi come si presenta l'opener "Phanes", che con le sue urla stridenti e i suoi suoni glaciali, riesce a congelarci il sangue nelle vene. La musica che ci propone il trio dei Paesi Bassi, che vede in formazione due bassisti e nessun chitarrista, propone un causticissimo sound che miscela post metal, doom e hardcore, non disdegnando qualche divagazione in territori post rock. I suoni siderali, melmosi e angoscianti, potrebbero ricordare gli Amenra della prima ora, quelli più violenti ed ancorati alla tradizione hardcore, anche se verso il nono minuto del brano, emergono forti le influenze più recenti ed intimiste della band belga. La dronica cupezza sonora emerge palese nelle pulsanti note introduttive di "Asulon", che mostra come i nostri debbano sempre carburare per 2/3 giri di orologio prima di partire con la loro proposta sonora. E quindi ecco il classico minimalistico prologo in cui accanto a mezzo accordo ripetuto alla noia, esce finalmente una voce umana, calda e decadente. Lentamente la musica cresce e con essa ritornano le harsh vocals di uno dei due vocalist, mentre i bassi in sottofondo creano atmosfere intriganti al limite della psichedelia, con l'irruenza dello stoner e la profondità del doom, il tutto avvolto da un sound ai confini estremi della catarsi che ci accompagnerà fino alla conclusione di questo delirante pezzo. Con "Moros" le cose sembrano farsi un po' più abbordabili, proponendo i nostri un post metal dai tratti più commestibili e morbidi ma comunque assai particolari, che ci immergono in un nuovo trip dal quale sarà complicato uscirne immuni. La song scivola via tra sonorità molto delicate in cui ampio spazio viene concesso al lavoro delle percussioni e a strani effetti noise in background che serviranno a dare il via libera a violente deflagrazioni post hardcore, condite da una notevole linea melodica che a questo punto mi sorprende sapere costruita solo dai bassi. Fighi, non c'è che dire. Anche nella conclusiva "Elpis", dove i tre tulipani si concedono divagazioni shoegaze accanto a quelle inconfondibili note doom/noise/post core che delineano già con assoluta originalità, la spiccata personalità di questi tre stravaganti musicisti orange. (Francesco Scarci)

(Aesthetic Death - 2020)
Voto: 75

https://farer.bandcamp.com/album/monad