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domenica 25 settembre 2016

Harmonic Generator - Flesh

#PER CHI AMA: Hard Rock, Aerosmith
La Francia si sa, vanta scene musicali differenti, dall'elettronica al metal e anche quella rock resiste, magari con qualche difficoltà nel trovare musicisti che siano in grado di riportarla in auge. Gli Harmonic Generator (HG) ci provano da otto anni e da poco sono usciti con questo EP che segue altri quattro lavori precedenti. 'Flesh' ci è arrivato nel classico CD sleeve cartonato, dalla grafica semplice con predominanza del giallo e nero. Una volta inserito nel lettore, ci appaiono quattro tracce per un totale di circa diciotto minuti di rock in stile anni '90, ovvero un mix di glam e hard rock pulito e pettinato. I suoni infatti sono fin troppo da bravi ragazzi, distorti ma non eccessivamente, così da piacere un po' a tutti ed evitare di essere ascoltati solamente dai patiti del genere. Probabilmente una mossa che avrebbe dato qualche frutto in passato, da un po' le statistiche dimostrano che il metal è uno dei generi più ascoltati su Spotify e quindi le situazione simil-pop rischiano di cadere nel dimenticatoio assai presto. In realtà, i brani sono anche ben fatti ed equilibrati, come "Dance on Your Grave", una ballata rock con molto groove e riff civettuoli che stimolano i fianchi delle giovani pulzelle pronte a scatenarsi sul dance floor. Il vocalist si destreggia bene tra strofe e ritornelli, la timbrica è piacevole e adatta al genere, lo stesso vale per i musicisti, che senza perdersi in sezioni ultra tecniche, riescono a portare a casa un brano adrenalinico e dinamico. "Secret Garden" piace per le sonorità simil Bon Jovi e Aerosmith, la partenza è più minimal con chitarre al limite del crunch, stacchi che permettono di riprendere fiato (non che ce ne sia bisogno) e allunghi con classici assoli di chitarra e pattern veloci di basso/batteria ben intrecciati. Un buon EP, leggermente nostalgico per chi ha superato i trent'anni e vuole rituffarsi in sonorità di qualche anno fa, ma è una valida alternativa per chi vuole rifornire la proprio collezione con materiale nuovo. (Michele Montanari)

(Self - 2015)
Voto: 65

http://www.harmonicgenerator.com/

sabato 3 settembre 2016

Bear Bone Company - S/t

#PER CHI AMA: Hard Rock, Black Label Society
I Bear Bone Company (BBC) sono un power trio svedese formatosi quattro anni fa e solo l'anno scorso si sono lanciati nel vasto mondo discografico con questo Self titled album. I tre ragazzotti non hanno più vent'anni e la loro maturità musicale si sente tutta, un concentrato di rock duro e crudo, sanguigno e immediato, come si faceva un tempo. Le dodici tracce sono ben bilanciate, arrangiate con cura e potenti come ci si aspetta da questo genere, basti ascoltare la opening track "Fade". È una cavalcata veloce e cadenzata, con riff classici che ci portano indietro di quindici-vent'anni e fanno l'occhiolino ai Black Label Society e company. Il vocalist si fa notare sin da subito per la sua ottima estensione vocale, lanciandosi in acuti che farebbero impallidire una vocalist femminile. Alcune influenze grunge portano a galla i gusti retrò della band, come in "Kiss N Tell" che sulla falsariga degli Alice in Chains o STP, si sviluppa in aree più heavy. Il chitarrista (nonché cantante) mette in piazza i suoi studi, con accelerazioni e rallentamenti, il tutto condito da un bell'assolo che scalda le corde fino a farle divenire incandescenti. La band si cimenta anche in brani più lenti, "Down in Flames", trovandosi a proprio agio, anche se gli arrangiamenti avrebbero voluto qualcosa di meno scontato. Per fortuna l'enseble di Örebro non hanno voluto opprimerci con la solita ballata che spesso le band includono per accontentare tutti, quindi rendiamo grazie al trio svedese. Traccia dopo traccia, tutto scorre fluido, forse troppo, nel senso che nonostante il livello generale sia più che buono, si rischia di cadere in uno stato catatonico per una certa mancanza di stimoli. Questo rischio aumenta se non amate il genere, oppure se lo avete lasciato da parte da un po'. L'esordio dei BBC è buono ed essendo una band matura non aspettiamoci evoluzioni particolari, ma facciamo tesoro del buon rock che questo trio scandinavo può regalare ora ed in futuro. (Michele Montanari)

(Sliptrick Records - 2015)
Voto: 65

giovedì 4 agosto 2016

Veuve - Yard

#PER CHI AMA: Psych/Stoner, OM
Lo stoner spopola e la scena italiana sta vivendo un momento particolarmente produttivo, nonostante sia in largo ritardo rispetto a quella americana e svedese. Oggi parliamo dei Veuve, un trio friulano che si butta a capofitto nel mondo fatto di sabbia, cactus e acidi con il loro primo full length, 'Yard' appunto. L'etichetta e studio di registrazione The Smoking Goat Records ha ottimo fiuto e ha pensato bene di reclutare i nostri tre impavidi eroi del fuzz sotto la loro ala e noi non possiamo che essere contenti che il loro incontro abbia dato la luce questo digipack contenente otto tracce che colano stoner vecchia scuola unito a sonorità shoegaze, soprattutto dovute a un cantato che richiama atmosfere etere e spaziali. Il bello dei Veuve infatti sta nell'ottimo impatto sonoro caratterizzato dalle distorsioni solide e ruvide del genere, in contrasto ad una timbrica vocale inaspettata. "Days Of Nothing" è l'esempio lampante di questo sodalizio curato e sviluppato con saggezza dall'act friulano. Basso e batteria sono incalzanti sin dall'inizio, i riff di chitarra sono puliti e non si affidano solamente al muro sonoro, cercano piuttosto fraseggi e melodie per catturare l'orecchio smaliziato dell'ascoltatore. Ovvi rimandi ai Dozer e ai Truckfighters sono facilmente identificabili, ma se si guarda lontano, i Veuve trovano un loro stile che diventa presto trascinante. Il mood etereo del cantato si trasmette anche agli assoli di chitarra e crea un'amalgama bilanciata e credibile, come accade in "Mount Slumber" dove la band rallenta il ritmo e si concentra su atmosfere spirituali, puntando sulla ripetitività dei riff e su una ritmica ossessiva. In questi sette minuti abbondanti verrete accompagnati dal groove degli OM appesantito il giusto dalle sapienti mani dei nostri musicisti. L'assolo post rock finale poi è la goccia che farà traboccare il vostro equilibrio mentale e farvi cadere nell'oblio assoluto. "Pryp'jat'", ovvero la città fantasma nata dall'incidente nucleare di Cernobyl, è la traccia che chiude questo ottimo lavoro. Corrosiva, polverosa come le strade di quel luogo dimenticato da Dio, la canzone scarica un elevato quantitativo di decibel, grazie anche agli intrecci di chitarra che grazie alla sovra-incisione, si può permettere maggior libertà sonora. Il basso non spicca in termini di frequenze, ma è l'elemento determinante a creare il suono che contraddistingue i Veuve, cosi come la sezione ritmica che trasuda groove ad ogni pattern. Sul finale percepiamo un sintetizzatore che ci porta indietro agli anni ottanta e sembra essere stato messo alla fine di tutto per avvertirci che in futuro potrebbe tornare. Noi lo speriamo, perché questo album è veramente ben fatto e ci aiuta ad aggiungere un'altra band alla nostra collezione. Se i Veuve faranno tesoro del lavoro fatto per 'Yard', il prossimo album sarà spettacolare, ci scommetto una buona birra fresca. (Michele Montanari)

(The Smoking Goat Recording - 2016)
Voto: 75

https://veuve.bandcamp.com/album/yard

venerdì 15 luglio 2016

Mallory - Sonora R.F. Part 1

#PER CHI AMA: Rock/Grunge/Blues
Avevamo lasciato i Mallory a marzo dello scorso anno, quando il quartetto parigino ci aveva fatto pervenire il precedente lavoro '2'. Oggi abbiamo tra le mani il nuovo 'Sonora R.F. Part 1' e devo dire che è già qualche settimana che gira in loop nella mia auto, il posto migliore per godere appieno dei Mallory e della loro musica on the road. La band era matura allora e un altro passo in avanti è stato fatto con quest'album, mantenendo quel loro mix personale di rock, grunge e blues. Ad un primo ascolto, le atmosfere sembrano essersi incupite ulteriormente, in realtà molte tracce hanno un'alta capacità introspettiva, unita ad una malinconica dose di rabbia, come in "On The Shelf". Dopo un'intro parlata in castigliano, le chitarre si sporcano di polvere, la ritmica lenta tiene le redini, ma non cela perfettamente quella collera mascherata da tristezza ed accidia. Una ballata grunge come non si sentiva da anni, interpretata perfettamente dal vocalist, a cui dobbiamo riconoscere una timbrica pressoché perfetta. In "Zero" scatta qualcosa nei Mallory che ora cantano in francese, mentre le melodie di basso e chitarra si fanno nervose grazie alla batteria che scandisce accenti come un profeta inascoltato. Il crescendo non si fa attendere, ottima l'esplosione che non necessita di distorsioni estreme e si affida ad un unisono di suoni ed esecuzione. La scelta della lingua francese potrebbe rivelarsi rischiosa, tuttavia è stato fatto un ottimo studio delle metriche che qui calzano a pennello. Rimane solo il dubbio che il testo non sia uscito così spontaneamente, comunque onore ai Mallory. In "Shu", l'influenza dei vecchi Pearl Jam si fa sentire, ma la band riesce a tirar fuori qualcosa di buono da un semplice classico giro armonico. Consapevoli di ciò, il quartetto ha finito egregiamente i compiti per casa in termini di suoni (difficile non riconoscere la timbrica del single-coil della Fender) accostata ad un'interpretazione che esprime al meglio lo struggimento di una generazione che va per i quaranta ma si sente ancora tradita da una società in cui non si rispecchia. Anche "Silex" segue il medesimo filone e si incastra perfettamente nelle note di questo 'Sonora R.F. Part 1' che probabilmente è stato pensato e suonato nell'ottica di un concept album. I suoni ruvidi ma curati di chitarra si abbinano perfettamente alla timbrica vellutata del basso, a creare un ipotetico amplesso sessuale coronato dalla voce sempre graffiante del frontman con le ritmiche che si rivelano semplici e variopinte. Il gran equilibrio dei Mallory sta nel regalare un'accelerazione nel momento giusto in cui la si desidera, lo stesso vale quando i nostri decidono di abbassare i toni per dare maggior risalto al cantato o alle melodie intimistiche, che svolgono un ruolo importante nel tessuto sonoro dell'act transalpino. Un gran bell'album, forse non una vera evoluzione verso un obiettivo ben definito, ma un'altra tappa sulla loro personale mappa che ha bordi sfuocati come quelli di una vecchia foto. A dimostrazione che abbia più importanza il viaggio che la meta, siamo felici di seguire i Mallory e portare la loro bella colonna sonora nella nostra vita di tutti i giorni. Che tu abbia venti, quaranta o sessant'anni... (Michele Montanari)

domenica 10 luglio 2016

Animarma - Horus

#PER CHI AMA: Alternative/Hard Rock
La fusione delle parole anima ed arma ha dato il nome alla band di oggi, gli Animarma appunto, un trio modenese nato nel 2011 che oltre a questo EP uscito da poco, ha alle spalle un altro lavoro autoprodotto. Dopo impegno e dedizione arrivano alla Alka Record label, etichetta ferrarese che in poco più di undici anni di attività, ha prodotto oltre sessanta album, sottolineando che la scena rock italiana resiste e non si fa tappare la bocca così facilmente. Il packaging di 'Horus' è il classico jewel case che contiene un sottile libricino con i testi, caratterizzato da una copertina ricca di post produzione, ovvero una fotografia che ritrae un paesaggio urbano totalmente sconvolto a livello di forme e linee. Una volta inserito il cd nel lettore, il sound e lo stile della band risulterà subito chiaro dopo pochi secondi: provate ad immaginare i vecchi Muse presi in piccole dosi e uniti a band italiane come Negramaro e Moda, il tutto in equilibrio precario tra loro. Non parlo solo del cantato italiano, ma anche di arrangiamenti e melodie che hanno una grossa influenza data da quest'ultime band. Gli Animarma iniziano bene con "Nell'Ade", dove i riff di chitarra sono aggressivi e pregni di sonorità alternative rock, quasi come se i Mistonocivo di 'Radioattività' fossero tornati in gran carriera dopo la loro lunga pausa. Un pezzo ben studiato, equilibrato in ogni passaggio e di grande impatto, anche nei testi, che cercano di non cadere in concetti mai banali. "Tunnel del Dolore" rimane sull'onda della precedente traccia, veloce e potente, con un bel break verso i tre quarti, dove le chitarre impazzite e la sezione ritmica, fuggono in una corsa a perdifiato. Gli Animarma aggiungono poi cori e arrangiamenti simil-elettronici per completare il tutto. La musica cambia man mano che proseguiamo nell'ascolto, infatti "Invisibile" abbassa i toni con la sua impronta da ballata melodica. Dopo un bel riff iniziale di chitarra, inizia il tappeto di basso e batteria, mentre le melodie richiamano brani già sentiti, anche se il tutto è sempre ben eseguito. La timbrica vocale si fa apprezzare, passa da toni suadenti e squillanti a passaggi graffianti e sommessi, questo a dimostrazione della padronanza tecnica del vocalist. Il vibrato e l'effetto di riverbero riportano la mente a produzioni musicali di qualche anno fa, cosa di cui si potrebbe fare a meno. "Sputa Fuori" ci illude (ma per poco) che gli Animarma abbiano addirittura un appeal stoner: dopo l'intro la progressione aumenta in modo convincente e la band inserisce vari dei cambi di direzione che rendono il brano dinamico e veloce. In conclusione, il trio modenese ha parecchio da dire e si sente in più punti dell' EP; forse potrebbero eliminare alcune reminiscenze pop rock e farsi trascinare completamente dal loro tocco personale che convince non poco. Aspettiamo il full length per vedere cosa succederà? (Michele Montanari)

(Alka Record Label - 2016)
Voto: 70

domenica 3 luglio 2016

Ragin' Madness - Anatomy Of A Freaky Party

#PER CHI AMA: Southern Hard Rock
Farsi rapire da una band al loro primo live senza averli mai sentiti, non è una cosa scontata, ma per i Ragin' Madness (RM) è stato sin troppo semplice. Ma andiamo con ordine. Il quintetto nasce nelle terre padovane attorno al 2014 e raccoglie musicisti che hanno militato in varie band della zona. I RM si buttano a capofitto nella composizione di brani propri e dopo neppure un anno, danno alla luce il loro EP di debutto. Visto che il feeling era tanto e il riscontro del pubblico è stato immediato, in poco tempo arriva anche il full length 'Anatomy Of A Freaky Party', quattordici brani di ottimo hard rock misto ad un southern/metal che rappresentano appieno il modo di essere della band. Infatti, durante il loro concerto all'Isola Rock Winter Edition 2016, complice anche la location, il live set dei nostri ha letteralmente infuocato il pubblico, soprattutto grazie alla loro presenza scenica su di un palco parecchio figo. L'energia scorre a fiumi quando sono on stage, in parte grazie alla vocalist che sembra una scheggia impazzita, salta e balla come non ci fosse un domani, ma anche il resto della band non è certo da meno. Ma parliamo della loro musica, altrimenti rischio di fare un live report piuttosto che una recensione. Il CD apre con "The Guys are in Da Club", un pezzone classic hard rock con le chitarre solide e pregne di groove, e una batteria che conduce con linearità, ma si tratta puramente di una questione stilistica. Fin da subito spicca la gran voce della cantante, Giulia Rubino, dotata di una timbrica potente e modulata che certe colleghe si sognano solo di notte. Cosciente di questo, la cantante gioca letteralmente con i vocalizzi e le linee melodiche, facendo capire che ritmiche veloci sono il suo pane quotidiano. Le due chitarre se la spassano come due compagni di giochi che condividono una giornata insieme, il tutto condito da un basso pulsante e arrogante quanto basta. Un perfetto equilibrio di carezze e schiaffoni, ecco come potrei riassumere questi duecento secondi di rock, un'alternanza di melodie e ritmiche facilmente individuabile, la colonna sonora perfetta per una personalità bipolare. "Never Say no to Manta" la ricordo chiaramente durante il live, in quanto la band ha inscenato una sorta di siparietto dove appunto Manta (il bassista) veniva adorato per placare la sua collera. Un'altra calvacata rock dove basso (5 o 6 corde, non ricordo) in compagnia del bravissimo batterista, hanno srotolato BPM come se i cavalieri dell'apocalisse avessero finalmente dato fiato alle trombe. Di pari livello i due chitarristi che si alternano tra sezioni ritmiche e assoli degni del buon vecchio Slash. "Down in the Hole" è una song fortemente nu metal che vede la collaborazione di un secondo vocalist che duetta alla grande con la nostra beniamina, il tutto sempre condito dall'autoironia dei RM che avrete ben modo di apprezzare ben presto. L'intervento del sax sdogana un altro strumento non propriamente rock, anche se band come gli Shining (norvegesi) ne hanno fatto il simbolo della propria musica. Parecchi altri pezzi sono inclusi in questo 'Anatomy Of A Freaky Party', tutti veloci e potenti, tranne "We Can be Heroes", una straziante ballad ove pianoforte e voce, duettano come fossero un'unica entità. Questo a dimostrare che la band si diverte un sacco, ma sa anche concedersi i giusti momenti di raccoglimento ed introspezione. Bell'album, forse non sarà una produzione che brilla in fatto di sperimentazione e creatività, ma qui abbiamo cinque musicisti di alto livello che hanno sicuramente capito che il pubblico vuole sia un bello spettacolo che della gran musica, senza tralasciare il puro divertimento rilasciato dai Ragin' Madness. E noi non possiamo far altro che apprezzare e portare a casa. (Michele Montanari)

giovedì 16 giugno 2016

John Holland Experience - S/t

#PER CHI AMA: Psych Blues Rock
I John Holland Experience (JHE) sono un power trio nato nel 2013 nella provincia di Cuneo che si è subito concentrato sulla produttività: nel 2014 lanciano il primo Demo EP mentre a marzo di quest'anno arriva questo self title di debutto. Un album fortemente spinto a livello di produzione, co-prodotto da una lista interminabile di labels, tra qui Tadca Records, Electric Valley Rec, Taxi Driver, Scatti Vorticosi, Dreamingorilla Rec, Brigante Records, Longrail Records, Edison Box, Omoallumato Distro e altro ancora. Il digipack è stilisticamente ben fatto, la grafica in particolare richiama gli anni '70 grazie ad una invasatissima fanciulla che in ginocchio, ai piedi di una landa desolata, innalza le braccia al cielo, laddove si staglia il logo della band. I JHE sono anagraficamente giovani, ma sono stati tirati su a buon vino e blues rock, a cui hanno aggiunto influenze garage e qualche goccia di beat. I testi sono in italiano e se in prima battuta potrebbe sembrare una scelta assennata a discapito dell'audience, dimostra invece di essere vincente, con i testi azzeccati che accompagnano perfettamente il sound dei nostri. Inutile parlare di impegno sociale o abusivismo edilizio mentre la musica in sottofondo diventa sempre più festaiola. Vedi la donzella che ci fa girare la testa in "Festa Pesta", una sorta di serenata in salsa hard blues che ha lo scopo di lusingare la tipa di turno mentre i riff classici e ben suonati, si snodano sopra e sotto le ritmiche incalzanti. "Elicottero" è un ottimo crescendo, dove il trio si sfoga al massimo, aumentando il tiro e la velocità mentre si decanta l'infanzia sognante che si trova a far i conti con la dura realtà della vita. Il rallentamento a metà brano ci dà qualche secondo di respiro, giusto per lanciarci di nuovo nel vortice hard rock organizzato ad hoc dalla band. Menzione d'onore va infine a "Tieni Botta", un classic blues che vede la collaborazione di un vocalist dalla voce più calda che mi sia capitato di sentire negli ultimi anni. Se i JHE hanno l'energia e il sacro fuoco del rock 'n'roll dalla loro, l'ospite ci delizia con la sua timbrica suadente e graffiante, affinata a suon di wiskey e sigarette, consumati nei peggiori bar di New Orleans. Pochi minuti di blues scatenato che si tramutano in uno stacco quasi psichedelico, lento e abbellito da un assolo hendrixiano. Un album ben fatto, suonato altrettanto bene, che merita di essere ascoltato (la release è scaricabile peraltro gratuitamente su Bandcamp), soprattutto perchè ci suone buone possibilità che la band prenda la giusta via e tornino presto a far parlare di sè su queste stesse pagine. Nel frattempo i JHE sono in tour per l'Italia: io vi consiglio di andarveli a vedere. Io l'ho già fatto ed è stata una gran scarica di energia. (Michele Montanari)

(Tadca Rec, Brigante Rec, Electric Valley Rec, Dreamin Gorilla Rec, Scatti Vorticosi Rec, Edison Box, Longrail Rec, Omoallumato Distro, Taxi Driver Rec - 2016)
Voto: 75

https://johnhollandexperience.bandcamp.com/album/john-holland-experience

venerdì 3 giugno 2016

Love Frame - Forgiveness

#PER CHI AMA: Alternative Rock
Senza essere troppo pessimisti, se guardiamo il panorama musicale main stream italiano sembra francamente dura sopravvivere. Il rischio poi di incappare in jingle de lo Stato Sociale, Calcutta e simili durante l'ascolto della vostra compilation preferita su Spotify è assai elevato, da parte mia cerco di evitare il tutto come la peste o spoiler dell'ultimo episodio di 'Games of Thrones'. Mi riempie pertanto il cuore ricevere un bell'album che contiene musica ben fatta e studiata. Oggi vi presento (se non li conoscete già) i Love Frame, un trio milanese (il bassista è a chiamata) che ha esordito nel 2008 con un EP, poi qualche singolo fino ad arrivare a produrre questo 'Forgiveness', nel tardo 2014. Il sound della band è incentrato sull'alternative rock e sin dai primi minuti denota un'ottima cura nella ricerca dei suoni e una certa perizia in fase di registrazione/mix/mastering. Il cd si presenta poi in modo professionale anche a livello di packaging, con l'artwork che mostra un cuore apparentemente composto da radici tortuose di alberi, ma forse è solo la mia suggestione personale. All'interno trovate i testi delle canzoni, vecchia tradizione che apprezzo tutt'ora, dopotutto a molti piace sapere se sotto un mega riff di chitarra si sta parlando di una bella squinzia o di gare di rutti. L'ascoltatore troverà undici tracce in questo lavoro e l'onore di essere la prima, spetta ad "Halo", una scelta oculata perché non ha un tiro esagerato e permette di immergersi gradualmente nel mondo della band milanese. Il main riff ha il ruolo di essere ossessivo-compulsivo, mentre la suadente voce della brava vocalist ci apre le porte della loro club house. La sezione ritmica costituita da basso e batteria, inizia con un pattern cadenzato e per tutta la traccia ha un ruolo determinante, grazie anche ad alcune finezze stilistiche assai apprezzabili. Nel ritornello la melodia si apre, le note diventano più lunghe e si ha una sensazione fisica di distensione. Si va a chiudere con un assolo classico dotato di una bella accelerazione finale e la sana soddisfazione di dedicare le mie attenzioni a questa band. "Mine" parte subito dopo, come un giocatore di football americano vigoroso che vi placca senza tanti complimenti. La chitarra iniziale ricorda vagamente un famoso brano degli Offspring, ma l'ensemble lombardo cambia presto le carte in tavola grazie al lavoro alla sei corde di Laerte Ungaro, che non nasconde le sue ottime doti tecniche e dispiega tutto il suo armamentario sonoro. I vari passaggi e gli arrangiamenti convincono sin da subito e i brevi break (ottimo quando il bassista ci dà dentro al limite della rottura delle corde) conferiscono un sacco di dinamicità al brano. Giulia Lupica, la vocalist, convince sempre di più, con una timbrica fresca e decisa che, unita ad una gran padronanza tecnica, ripaga chi studia e canta con passione. Finalmente una voce poi che non ripiega sui soliti gorgheggi strampalati e vibrati ripetuti fino alla morte, inoltre scrive anche i testi, quindi una musicista veramente completa. Nell'album troviamo anche delle ballate, una su tutte "Blue", un buon momento per mettersi alla prova e prendere respiro dopo tanto sudore. Struttura classica con tanto di assolo (da manuale) che accompagna la crescita della canzone e la porta alla conclusione con grande dignità. Ci sono ancora molti altri pezzi da recensire, ma invece di annoiarvi con le mie parole, vi inviterei piuttosto ad andare ad ascoltarvi i brani in streaming, i Love Frame sono bravi e fanno ottime canzoni. Troverete qualcosa di innovativo in questi undici brani? Direi di no, ma se avete bisogno di buona musica per depurarvi dall'insano ciarpame che vogliono farci ascoltare e comprare per forza, qui non sbagliate. Affatto. (Michele Montanari)

(Self - 2014)
Voto: 80

martedì 31 maggio 2016

Nervovago - Il Clan Rocket

#PER CHI AMA: Alternative/Noise Rock
I Nervovago sono un duo pisano che nasce nel 2011 prima con una line-up completa con cui pubblicano un paio di lavori e in seguito, si consolidano nel 2015 come chitarra/voce e batteria. 'Il Clan Rocket' è prodotto da (R)esisto Distribuzione e contiene dodici tracce raccolte in un jewel case, anche se i titoli sul retro sono elencati per lato, come se si trattasse di un vinile. La grafica è semplice, tonalità rosa per l'artwork e un bel cono gelato spiaccicato in copertina. Questo ci lascia in effetti un po' interdetti su cosa andremo ad ascoltare, quindi non indugiamo oltre e cacciamo il cd nel lettore. La prima traccia è quella che conferisce il titolo all'album in cui salta subito all'orecchio il cantato, o meglio, un free stytle con una timbrica simile a quella di Salmo per capirci, mentre la sezione ritmica articola una struttura noise dal gusto leggermente sintetico. Le distorsioni ricordano quelle dei NIN, con una certa attitudine hardcore in salsa rock, ove si susseguono diversi break che permettono l'inserimento ripetitivo del riff principale. In centocinquanta secondi non rimane granché e cerchiamo risposte con le successive canzoni. "Breaking Bad" conferma quanto già sentito, questa volta con una ritmica più lenta, ma dal risultato assai simile. Dopo poco subentra una sensazione di noia dovuta alla mancanza di dinamicità sia a livello strumentale che vocale. Quest'ultima ha tra le mani le sorti del progetto Nervovago che, se limitato a chitarra e batteria, necessiterebbe di un elemento di spicco per catturare l'ascoltatore. Cerchiamo conforto altrove, tipo in "È Necessario" e qui lo troviamo: l'introduzione ci avvolge in un'atmosfera industrial che viene spazzata via dall'entrata delle distorsioni, potenti e suadenti allo stesso tempo. Sicuramente il pezzo migliore dell'album, in cui il testo corre via liscio, senza accelerazioni forzate per rincorrere la struttura musicale, inoltre le strofe coinvolgono e trasmettono un forte senso di ansia, rassegnazione, rabbia e voglia di redenzione. C'è posto anche per un finale con pianoforte che sembra arrivare direttamente da un qualche film horror. L'album chiude con "Il Casanova", in cui il duo toscano concentra un quantitativo impensabile di rabbia e potenza, la chitarra continua con il suo suono disintegrato e ricomposto a livello molecolare. Il testo è breve e stavolta viene lasciato più spazio agli strumenti, inoltre si aggiungono degli stralci di screamo che aumentano la rabbia dell'esecuzione, come i vari feedback di chitarra. Il duo italico mostra sicuramente delle buone intuizioni e personalmente li accomuno per attitudine ai Bachi da Pietra in salsa urbana. Per essere più appetibili però servirebbe un esercizio di stile per trovare una via di uscita che porti agli obiettivi prefissatisi dai nostri, che mirano per certo a ritagliarsi un pezzo di notorietà nell'ampio panorama musicale. Sono apprezzabili per la scelta dei suoni, alcune strofe e l'energia che mettono nella loro musica, ma chiaramente si può fare di più, molto di più. (Michele Montanari)

((R)esisto Distribuzione - 2016)
Voto: 65

https://www.facebook.com/nervovagoFanpage/

domenica 22 maggio 2016

Soundscapism Inc. - S/t

#PER CHI AMA: Post Rock Acustico
Soundscapism Inc. è il progetto solista di Bruno A., ex membro dei portoghesi Vertigo Steps, un duo che aveva riscosso un discreto successo nella scena ambient-prog rock un paio di anni fa. Sulla falsariga del precedente lavoro, l'instancabile polistrumentista lusitano ha deciso di alimentare la sua inesauribile fiamma per la musica ambient/post-rock dando alla luce questo piacevole ed affascinante album. Il tutto è contenuto in un semplice jewel case dai colori tenui, dove in copertina si staglia l'immagine di una inquietante bambola rotta da cui escono degli alberi, una simbologia semplice ma forte allo stesso tempo. Le nove tracce sono la prefetta colonna sonora di un film onirico e surreale, come se Lars von Trier gli avesse commissionato l'intera produzione musicale di un suo film che racconta di spazi infiniti, dove cielo e terra sembrano non poter mai toccarsi, o quasi si trattasse di due amanti condannati all'infelicità eterna. La traccia di apertura, "The Breath Of Life And All Things The Sky Looked Upon", ne è l'esempio lampante. L'intro è una semplice armonia di campanelle che sembra uscito da un libro di fiabe e la sua precoce scomparsa viene rimpiazzata da un arpeggio di chitarra carica di riverbero e delay. Il tutto ricrea l'aura ricercata dall'autore, nel frattempo una voce parla (in tedesco mi pare) con un suadente tappeto di sintetizzatori ad arricchirne la trama che diviene via via più corposa, fino alla conclusione improvvisa, lasciandoci inebriati e allo stesso tempo un po' ansiosi per la repentina interruzione. "The Quiet Grand" fa proprie le sonorità tipiche dei The Cure, tra chitarre acustiche di accompagnamento e riff leggeri e melanconici, fino ad un totale di tre sovrapposizioni a riempire completamente lo spettro sonoro di questa traccia, sospesa tra ambient, post-rock e dark/new wave. Alcuni passaggi non sono ben definiti e rischiano di rubare sinergia al brano. Le tastiere fanno da filler e si arrichiscono anche di un leggero pianoforte, giusto per non farci mancare nulla, completando il tutto con la massima cura. "Sommerregen" cambia direzione: infatti è il primo brano dove si vede la collaborazione di un collega di Bruno alla voce, tal Flávio Silva, inoltre subentrano le percussioni, assenti in precedenza. Nota dolente è proprio la gran cassa che apre il brano, la timbrica è un po' troppo marcata per un brano di questa fattura, ma fortunatamente l'entrata degli altri strumenti ne attutisce il tono. Il brano alla fine è piacevole e l'innesto del cantato lo rende più pop, e potrebbe competere senza problemi con la attuale produzione commerciale, anzi, ne alzerebbe anche il livello artistico. Il vocalist cavalca le armonie e ne segue la corrente, si lancia anche in divagazioni alla Bono Vox, e se le può pure permettere visto che tecnicamente regge il confronto. Forse strizza troppo l'occhiolino alle sonorità dei primi album della band irlandese, comunque niente di illegale da segnalare. Il cambio a tre quarti si contamina di country/folk e la batteria (elettronica) ne rovina le atmosfere, questo a dimostrare che la scelta dei suoni è sempre la base di una buona produzione. Peccato per questo pugno nei timpani, davvero. Le altre canzoni si mantengono su un buon livello, anche se a volte la ripetitività negli accompagnamenti in acustico potevano essere sostituiti da altro più originale. Vorrei infine segnalare "Tomorrow´s Yesterdays", song che spicca per una salto notevole in termini di contenuto e atmosfere. Insomma quest'album di debutto è sicuramente da segnalare per gli amanti del genere, ma anche per chi si vuole concedere una pausa da sonorità più impegnative a livello uditivo. Ascoltato con cura si potranno percepire mille sfumature; per il futuro speriamo solo che Bruno cambi approccio per la sezione ritmica, allora sì che potremmo ritenerci soddisfatti. (Michele Montanari)

(Ethereal Sound Works - 2015)
Voto: 70

https://soundscapisminc.bandcamp.com/releases

sabato 14 maggio 2016

Warchief - S/t

#PER CHI AMA: Stoner Rock/Sludge
Phonosphera Records ci sta viziando non poco: oggi parliamo di un altro interessante Lp dell'etichetta nostrana, il S/t dei finlandesi Warchief. Il 12 pollici è esteticamente una perla, partendo dalla cover art che raffigura un astronauta esausto che si lascia trasportare da un cavallo per una landa deserta dove sullo sfondo si stagliano arcaici edifici. Un'opera in stile sci-fi che ha lo scopo di attirare l'occhio e ammagliarlo con il suo look onirico. Il vinile è poi di un rosso brillante, quasi a raffigurare un sole incandescente che brucia alto nel deserto, in un cielo che potrebbe essere quello terreste in un prossimo futuro oppure quello di un altro mondo. Anche per i Warchief la stampa è stata fatta su 180 gr. di PVC, una garanzia di qualità per la lettura sul nostro fido giradischi. Il quartetto spazia tra sonorità stoner, sludge e rock, che unite alla loro buona attitudine, regalano quattro brani curati e dall'ottimo groove. Il disco inizia a girare, la puntina si abbassa sul fido piatto della Technics e la traccia di apertura, "Give", riempie la stanza. Un mid-tempo dal mood spirituale ed epico, dove i riff di chitarra sono una goduria per le mie orecchie, grazie anche a distorsioni grosse ma non troppo esasperate, il giusto per lasciar trapelare molte armoniche. Tramite il vinile sembra di accarezzare velluto di ottima fattura. Gli intrecci di basso e di batteria rispecchiano quanto di meglio l'hard rock abbia insegnato durante le decadi d'oro e i Warchief sembra ne abbiano fatto buon uso. La classica alternanza strofa-ritornello crea un ottimo equilibrio tra potenza e introspezione. Il cantato ha un ruolo molto importante nella song perché la sua cadenza e la sua timbrica regalano un non so che di epico, simile ad un canto primitivo che si alza per farsi udire da un dio che non ascolta. "Life Went On" è un'opera rock di nove minuti abbondanti, tramite la quale, la band attraversa varie evoluzioni stilistiche. La parte iniziale è caratterizzata da una ritmica lenta e ossessiva, con un soffice riff distorto di chitarra che cerca di ipnotizzarvi per portarvi nelle lande perdute del subconscio. L'esplosione non si fa attendere, con il vocalist che sale di tonalità fino a toccare le stelle, poi la calma torna improvvisa e si ricomincia daccapo con una variazione semplice ma efficace del tema. Mentre il basso tesse una trama di sub frequenze che smuovono il nostro io interiore, l'esplosione torna e ci investe, forse in modo un po' prevedibile. La psichedelia deriva più dalle ritmiche e dai semplici riff che dai classici assoli. L'influenza dei Truckfighters e affini si percepisce facilmente, ma il cantato e gli arrangiamenti aiutano i Warchief a scrollarsi di dosso questa pesante somiglianza. Il disco chiude con "For Heavy Damage" a cui è dedicato l'intera side b, quindi circa ventuno minuti che sembrano riprendere il tema della precedente traccia, quasi ad esserne essa stessa un'evoluzione. I riff si fanno più cadenzati e sporchi di sonorità blues, ma allo stesso tempo si sente parecchia influenza rock anni '70 che tanto sembra cara alla band. Gli stacchi e le riprese compongono i dieci minuti della prima parte e aiutano a non abbassare mai il livello di guardia, grazie ad allunghi che ci lasciano godere con calma ogni singola sfumatura prodotta dalla puntina del giradischi. Un assolo alla Electric Wizard ci dimostra che la sezione delle chitarre se le cava bene anche sotto quest'aspetto, poi il quartetto si fa prendere da un'isteria musicale e continua con la propria evoluzione. Il brano chiude con un campionamento vocale di qualche film di vecchia data, sempre di grande effetto, anche se un po' troppo di moda nell'ultimo periodo. 'Warchief' alla fine è un buon esordio che mette in chiaro le doti della band finnica, sebbene in un panorama musicale, lo stoner rock/sludge, decisamente affollato; credo tuttavia che grazie ad un ottimo cantato e all'ottima capacità compositiva, i Warchief saranno in grado di ritagliarsi la loro fetta di notorietà. Facile intuire, che questa crescerà proporzionalmente con l'impegno e il sacrificio. (Michele Montanari)

(Phonosphera Records - 2016)
Voto: 75

mercoledì 27 aprile 2016

Un Giorno Di Ordinaria Follia - Rocknado

#PER CHI AMA: Rock/Blues/Stoner
Oggi parliamo di un quintetto che fa tremare il padovano già da qualche anno, gli Un Giorno Di Ordinaria Follia (UGDOF) che giungono alla seconda autoproduzione (la prima risale infatti al 2012). Il gruppo nel suo moniker omaggia chiaramente il film ben interpretato da Michael Douglas nel 1993, assumendone appunto il nome e portando sul palco un look ad esso inspirato, anche se li dovremmo bacchettare perchè si limitano al completo da impiegato e alla mazza da baseball, quando un bel bazooka farebbe la sua sporca figura. La band brucia del sacro fuoco del rock e come la tradizione vuole, lo vive al 100%, dalla sala prove alla vita di tutti i giorni. Il digipack di 'Rocknado' è ben fatto, la grafica è in stile fumetto ed prende esempio dal grande Frank Miller e in particolare dal suo capolavoro 'Sin City'. Un investimento che appaga anche la parte visiva e tattile della musica. Al suo interno troviamo sette brani che gocciolano puro rock mischiato a blues, grunge e pure qualche rimembranza stoner, ossia tutto il bagaglio musicale che l'allegra combriccola ha maturato negli anni. L'album parte in gran carriera con "Polar", una rocambolesca cavalcata rock fatta di batteria che scalcia come un toro rinchiuso, basso che trasuda palpitazioni sub soniche e chitarre che si divertono come bambini in un negozio di dolci. I riff si susseguono in rapida sequenza come un tornado che si abbatte su una città inerme e rassegnata all'accidia, mentre gli assoli potrebbero risvegliare attitudini sexy anche nel novantenne più assopito. Il cantato è rigorosamente in italiano ed il timbro del vocalist è maturo, quello di uno che qualche palco se l'è sudato e non rifiuta uno o due shot di buon doppio malto. Nonostante la band abbia una palese attitudine ironica e goliardica, i testi affrontano anche temi sociali ed esistenziali, questo per insegnare che il rock e la musica in genere, sono sempre un buon strumento per far passare dei concetti importati senza banalizzarli. "The Fonz" è il singolo a cui la band ha dedicato un video continuando con i riferimenti cinematografici/televisivi, in questo caso viene preso in causa il meccanico dal giubbotto in pelle e pollice all'insù più famoso al mondo. Anche qui le ritmiche sono dritte e coinvolgenti, senza bisogno di artifici strani per far si che il piede inizi a battere il tempo in maniera autonoma. I due chitarristi srotolano una miriade di note e riff che fanno passare i centocinquanta secondi di canzone in un attimo. "Cotton Club" piace invece per le grosse influenze blues e soul, un mix di nostalgia e rabbia in cui viene chiesto in continuazione all'interlocutore di trovare qualcosa di più profondo oltre alle lenti degli occhiali indossati dal protagonista. Le scariche di chitarra distorta in contrapposizione alla linea tranquilla di voce-batteria-basso, rappresentano la perfetta metafora dell'irrequietudine che alberga dietro l'apparente calma di una persona qualunque che incrociamo ogni giorno. Un brano meno facile, che mostra il lato più inquieto del quintetto padovano, quello oltre l'inesauribile energia, dove si nascondono le profonde ferite accumulate negli anni. Un bell'album 'Rocknado', di puro rock con le giuste influenze, fatto da persone che hanno lasciato la sperimentazione ad altri e si dannano per fare al meglio la musica che hanno ascoltato e vissuto negli anni. Il valore aggiunto è che gli UGDOF si impegnano a mettere in piedi uno spettacolo oltre il puro live, ricreando una certa scenografia e coinvolgendo il pubblico per portarlo nel loro mondo dove la follia è all'ordine del giorno. (Michele Montanari)

(Self - 2015)
Voto: 70 (75 Live)

http://www.ungiornodiordinariafollia.com

venerdì 22 aprile 2016

Temple of Dust - Capricorn

#PER CHI AMA: Stoner/Psych/Blues Rock
Oggi, con estremo piacere mi accingo a parlare dell'edizione in vinile di 'Capricorn', debutto degli italianissimi Temple of Dust, uscito per l'etichetta Phonosphera Records. Il trio monzese nasce nel 2013 e debutta l'anno successivo con la versione EP di 'Capricorn', ovvero due brani in meno pubblicati su cd e in digitale. I Temple of Dust si caratterizzano per un blues pesante contaminato da sonorità stoner, doom, noise e post rock, ovvero una mazzata dritta allo stomaco che vi farà ricordare gli Hawkwind e la loro psichedelia acida. Il disco è stato stampato in trecento copie e si contraddistingue per il colore bianco del PVC e l'artwork ben fatto, quindi un bel pezzo da collezione per gli amanti del suono meccanico. Il lato A apre con la title track e veniamo accolti subito dalle note di basso che escono piene e suadenti dalle casse dell'impianto mentre il disco (180 gr.) gira in maniera perfetta sul mio piatto. Le chitarre entrano di prepotenza ed oltre a creare il classico muro sonoro, creano in sottofondo una linea melodica distante, in puro stile post rock. Poi è la volta dell'effetto phaser applicato alle sei corde, tipico dello stoner e del rock psichedelico che crea un turbine di suoni pronto a trascinarci negli inferi. Ritmica pesante e cadenzata, quasi a volere dettar legge su quali siano i giusti bpm che regolano i ritmi circadiani della nostra esistenza. La voce ha subito un processo di distruzione sonoro e successivo ricomponimento con l'aggiunta di una buona dose di effetti. Se tutto questo è stato fatto per regalarci qualcosa di diverso dal classico cantato, non possiamo che apprezzare. La miscela è ben riuscita e dona una carattere evocativo a tutto il brano mantenendo un elevato impatto. "Requiem for the Sun" accelera rispetto a quanto sentito fin'ora e acquista parecchio in groove, con i riff di chitarra belli spavaldi anche se qualche arrangiamento ha quel non so di già sentito che permane nella nostra testa. L'assolo aumenta lo stato di ansia già di per sè elevato del brano, insieme a un cantato che è molto più comprensibile, ma sempre carico di riverbero e/o delay. Un brano che vi farà dondolare la testa anche se non vorrete, è assicurato. "Szandor" chiude il lato A del disco ed è un diamante parzialmente grezzo: la ritmica di basso è molto new wave e i tocchi di chitarra vi faranno attraversare mondi lontani dove la sabbia del deserto è blu e il cielo verde. Per tutto il brano è presente il campionamento di un monologo dalla provenienza non meglio precisata, una scelta già fatta da altri, ma comunque azzeccata. Un'ottima colonna sonora dove le chitarre liquide della band vi faranno compagnia per oltre sei minuti. Del side B, vorrei segnalarvi "Goliath", probabilmente il brano che preferisco, infatti in poco più di cinque minuti, il trio mette in piazza il meglio del loro repertorio. Un classico blues imbastardito da una sezione ritmica accattivante ed un fantastico riff di chitarra che come un mantra si ripete all'infinito, ipnotizzandovi in un piacevole stato di meditazione. L'alternarsi del riff principale, in versione pulita e distorta, permette al brano di avere una sua dinamicità e verso la conclusione si aggiunge anche una lieve linea di synth che da un tocco sci-fi che non guasta. 'Capricorn' alla fine è un LP ben fatto, sia musicalmente che a livello di registrazione e post produzione; il feeling del vinile è indiscutibilmente un orgasmo per le nostre orecchie martoriate da migliaia di file mp3 che hanno la dinamica di un manico di scopa. Lunga vita alla buona musica prodotta altrettanto bene. (Michele Montanari)

(Phonosphera Records - 2016)
Voto: 80

https://templeofdust.bandcamp.com/album/capricorn-lp

sabato 16 aprile 2016

A Time to Hope - Full of Doubts

#PER CHI AMA: Post Hardcore/Math
Gli A Time to Hope (ATTH) sono un quintetto di Montpellier (Francia) che debutta con questo interessante EP autoprodotto, ma promosso dalla Dooweet Agency. ll sound della band francese è un post-hardcore/rock potente ed evocativo, come se gli Architects si fossero fusi con i Mogwai e avessero tentato di intraprendere un nuovo percorso musicale. Il giovane quintetto ha le idee chiare ed una buona tecnica di base, lo si capisce subito da "RosaRosa", la opening track di questo EP. Una potente scarica ritmica di basso e batteria sostiene infatti i velocissimi riff di chitarra, mentre il vocalist si destreggia tra canto melodico e screaming, ad enfatizzare nella maniera corretta i vari passaggi della canzone. I suoni sono quelli giusti per il genere e la gli arrangiamenti sono ben fatti, dove la ritmica complessa si fonde a meraviglia con i diversi intrecci di chitarra, rendendo il brano ben fatto e piacevole. In alcuni frangenti si sembra di percepire una sorta di influenza math che non guasta, rendendo più personale il lavoro fatto dalla band. Il cantato in inglese aiuterà sicuramente la band ad internazionalizzarsi, anche perchè l'uso della lingua madre avrebbe comportato uno sforzo che difficilmente sarebbe stato ripagato. "VII" si sporca di elettronica con una drum machine ambient appena percettibile che lascia quasi subito spazio alla versione acustica della stessa, mentre le chitarre si destreggiano in un fraseggio post rock carico di riverbero a ricreare un'atmosfera evocativa ed onirica. Un brano breve ma sufficiente a dimostrare che gli ATTH sanno soffermarsi e divenire più introspettivi quando vogliono. Piccola dimostrazione di personalità e padronanza di stile. "Catfish" rimette le cose a posto riportandoci di punto in bianco a dove avevamo lasciato la band quanche minuto fa, cioè a un post hardcore sincopato. Ancora degno di nota è il cantato, con il vocalist che riesce a trasmettere una vena triste e riflessiva alle melodie grazie a una timbrica abbastanza originale. I riff di chitarra convincono sempre di più, con un innesto di arpeggio pulito e il ritorno della drum machine a completare il disegno. Molto bella la coda del brano che ci spinge verso l'alto e ci regala una pausa, perfetta per meditare ed assimilare questo 'Full of Doubts', il perfetto biglietto da visita di una band giovane, ma pronta a farsi valere. Ben fatto mes amis! (Michele Montanari)

sabato 2 aprile 2016

Dancing Crap - Cut It Out

#PER CHI AMA: Alternative Electro Rock/Punk
Eccoci a parlare di una delle ultime produzioni targate Agoge Records, ovvero i funanbolici Dancing Crap. La band nasce intorno al 2012 dopo che il fondatore Ronnie ha concluso l'esperienza con il suo precedente progetto. Il quintetto laziale voce-chitarre-basso-batteria mette in mostra un rock intriso di contaminazioni in un album di debutto composto da dieci brani eclettici e che abbracciano influenze molteplici e ben definite. Grunge nostalgico e punk oltreoceano si insinuano negli arrangiamenti con una spruzzata di elettronica qua e la, mentre lo charme del vocalist cerca di ipnotizzare l'ascoltatore con la sua cadenza sensuale e irriverente alla Axl Rose. Le trovate iper tecniche sono lasciate da parte, infatti ogni singolo strumento punta ad amalgamarsi al meglio con gli altri, il basso è sempre ben presente e piacevole all'ascolto, come i pattern di batteria. La chitarra si prende il proprio spazio con riff semplici ma efficaci, sempre a conferma che i Dancing Crap puntano molto sul risultato complessivo. "Burned Down City Soul" è l'esempio lampante di una composizione dall'appeal sbruffone e scanzonato, compreso il fischiettare di Ronnie e i suoi vocalizzi a mo' di filastrocca. Un brano rock piacevole che fila via liscio senza sbalordire. "Sam" ricorda la scuola Ramstein per quanto riguarda il lead synth utilizzato per tutta la traccia che risulta ben sviluppata anche se qualche bpm in più l'avrebbe resa decisamente più incisiva e trascinante. Personalmente avrei scelto suoni di tastiere diversi, puntando sull'acidità della psichedelia o la morbidezza dell'ambient. La timbrica dance lascia un po' perplessi mettendo sul tavolo altre influenze che cozzano con l'incedere rockeggiante del brano. "Needless" è un'altra prova di forza del quintetto che non ha paura di mischiare nuovamente suoni electro con il rock, mentre la timbrica di Ronnie si arrichisce della drammaticità sofferente di Brian Molko. Verso i tre quarti di brano c'è un breve break, simil monologo teatrale, che permette alla branda di riprendere il riff principale e portare a conclusione la canzone. I Dancing Crap sono un buon progetto che mette in atto delle sperimentazioni credibili e tutto sommato piacevoli, forse una botta di vita in più renderebbe merito alla fiamma del rock che comunque imperversa nelle vene di questi ragazzi. Stiamo a vedere come evolverà il progetto, a questo punto sono veramente curioso. (Michele Montanari)

(Agoge Records - 2015)
Voto: 70

https://www.facebook.com/DANCINGCRAP/

sabato 12 marzo 2016

Ex - Cemento Armato

#PER CHI AMA: Heavy/Rock
Gli EX sono una band hard rock nata nel 1997 con componenti attivi addirittura dai primi anni '80 in precedenti progetti come Spitfire, Exile, Vertigo, Slan Leat, Frenetica, X-Hero e Madreterra. Quello che contraddistingue la band è l'amore viscerale per il rock, l'amicizia che li unisce e lo spirito di una vita presa in modo positivo e goliardico. Il loro bagaglio musicale è influenzato da sonorità anni '70 e '90 che la band ha volutamente fuso e forgiato a propria immagine, autodefinendosi autori del cosiddetto "pasta rock", facendo ovviamente riferimento a quel "spaghetti" che spesso viene attribuito alla produzione artistica italiana. Detto questo, il quartetto veronese ha autoprodotto tre album, uno poi sotto la VREC/Atomic Stuff e l'ultimo 'Cemento Armato' grazie a Andromeda Relix/Nerocromo. Il cantato in italiano divide sempre i fan, personalmente non sono prevenuto e nel caso degli EX, i testi sono un mix di cantautorato semi impegnato e la pura goliardia, quindi si presume che i nostri abbiano preferito quest'approccio per mantenere una connessione più forte con il pubblico. I brani contenuti nel jewel case sono undici e da bravi rocker, vanno dalla classica cavalcata adrenalinica ("Weekend") all'immancabile ballad strappa lacrime ("Cane Bastardo"). La prima appunto è un misto di hard rock e glam da baldoria, con riff assai scontati e testi in salsa sociale contro la durata del fine settimana (!!). Da un punto di vista tecnico, i musicisti se la cavano bene, il mood c'è tutto e l'insieme scorre fluido e piacevole per l'udito. La qualità dei suoni è scarna, volutamente o no è in linea con il genere, soprattutto se non si vuole essere troppo pignoli e si apprezza più il groove in se stesso. "Cane Bastardo" invece mette in luce il lato blues/malinconico degli EX, insieme ad un cantato che ricorda i Timoria dei vecchi tempi. La ritmica lenta rende le parole pesanti come massi, pensando al passato e alla giovinezza ormai sfumata. Power cord e riff stoppati rincarano la dose, anche se manca uno spunto che permetta al brano di spiccare il volo con una propria definita personalità. Con "I Shot the Chef" si torna alla vena ironica della band, prendendo spunto dal famoso brano di Bob Marley e trasformandolo in una progressione heavy metal che parla di cucina e situazioni paradossali. Anche qui gli arrangiamenti puzzano di già sentito, però sono comunque ben eseguiti tecnicamente, cosi come gli assoli e i fraseggi basso/batteria. Ci sono modi diversi di affrontare un album e per una band come gli EX, ritengo che quello più adatto sia di apprezzarli per quel loro spirito rock che li ha portati a vivere la musica con passione, amicizia e ironia, sfidando il music business che spesso impoverisce il sacro fuoco del rock'n'roll e rovina i rapporti tra compagni di avventura. Dopo tutto se fossero stati una cover/tribute band non sarebbero nemmeno arrivati sulle pagine del Pozzo dei Dannati, quindi sono già dei vincitori per questo. (Michele Montanari)

(Andromeda Relix/Nerocromo - 2015)
Voto: 65

martedì 8 marzo 2016

Broken Down - The Other Shore

#PER CHI AMA: Industrial Rock
Oggi ci spostiamo in Francia, precisamente a Bordeaux, città natale dei Broken Down (BD), progetto della one-man band Jeff Maurer, che sta sotto l'egida della Altsphere, etichetta nata nel 2003 per promuovere principalmente l'estro creativo di quest'anima tormentata. Un lavoro interessante e soprattutto molto sfidante, dove l'industrial, il metal e la sperimentazione elettronica si fondono per dare alla luce nove tracce che passano dalla pura genialità all'irrazionalità più spinta. Il packaging è il classico jewel case con grafica che richiama la musica ambient, cioè un panorama lacustre di tonalità verde forzata in post produzione. Le radici musicali di Jeff affondano nei vecchi dischi dei NIN, Ministry e Killing Joke e questo si riflette pienamente nel suo progetto BD. Sonorità artificiali e meccaniche, come in "Mr Sun", dove la batteria elettronica sembra un metronomo militare che scandisce il conteggio dei caduti in guerra. Le chitarre sono in linea con il genere, forse un po' troppo zanzarose se vogliamo essere pignoli, ma se il risultato che si cercava era l'artificialità del suono, allora ritiro quando detto. La batteria è sovrapposta a percussioni metalliche ed insieme alla voce che decanta proclami di protesta, aumenta il rigore del brano che sarebbe un perfetto inno di rivolta. "Scribble Your World" cambia appeal, troviamo meno rigore e più sperimentazione musicale dove la contorta fusione di suoni di pianoforte, sono sostenuti dalla compatta trama di batteria e chitarra distorta. Anche qui il cantato ha un ruolo importante, nel senso che cambia vorticosamente da una leggera filastrocca ad uno screamo rabbioso e psicotico. Anche le evoluzioni ritmiche contribuiscono a dare dinamicità al brano, pur rimanendo sempre molto minimalista. Jeff riesce a tradurre i suoi stati mentali ed emotivi in maniera chiara e d'impatto, nonostante sia spesso difficile seguire la melodia principale della canzone. "Speculator" trasuda maggiormente le influenze metal dell'autore, qui addirittura si sconfina nel sinfonico con aggiunta di cori eterei ed archi che gonfiano la composizione. La programmazione della batteria elettronica limita notevolmente il groove del brano, infatti viene persa tutta l'umanità che un batterista in carne ed ossa riuscirebbe a trasmettere tramite l'uso di bacchette e pedali. I cambi di tempo sono sempre netti, perfettamente in stile industrial, ma una ricerca più approfondita di stile e ritmica avrebbe giovato maggiormente alla traccia. In generale l'autore dimostra di aver fatto un buon lavoro, giostrarsi tra strumenti e computer non è semplice e il rischio di perdere il filo è sempre alla porta. Il risultato è complesso e strutturato, una musica che difficilmente ascolterete come sottofondo per le vostre faccende quotidiane, ma che merita un'attenzione particolare per essere apprezzata a pieno. (Michele Montanari)

(Altsphere - 2015)
Voto: 75

domenica 28 febbraio 2016

Sequoian Aequison - Qual der Einsamkeit

#PER CHI AMA: Post Rock/Drone/Ambient
Quando arriva materiale dall'etichetta Slow Burn la giornata prende subito una buona piega, vista la qualità dei lavori da loro prodotti. In realtà stavolta c'è una collaborazione con Tokyo Jupiter Records (supporto cd) e Towner Records (cassetta), quindi le aspettative crescono a dismisura. I Sequoian Aequison (SA) nascono nel 2012 nella bellissima e ricca città di San Pietroburgo e nel corso della loro giovane carriera 'Qual der Einsamkeit' si posiziona come secondo e penultimo lavoro (si tratta di un EP di due lunghissimi pezzi), infatti qualche mese fa è uscito anche uno split con i Dry River, mentre il debut album 'Onomatopoeia' è stato recensito sempre dal sottoscritto su queste pagine alla fine del 2014. Il cd che ci è pervenuto è la versione per gli addetti ai lavori, priva di booklet, molto minimalista quindi e per cui non potremmo dare un giudizio sulla versione disponibile per il pubblico. Il genere perseguito dai SA è un post rock intriso di atmosfere ambient e doom, come la prima traccia "Der Sklave Des Nichts" (lo schiavo di niente) mostra con un inizio affidato a un lungo monologo in lingua tedesca. Man mano, il quartetto russo tesse una trama sonora oscura e malinconica, ma allo stesso tempo carica di tensione repressa pronta ad esplodere ad un cenno del capo. Arpeggi liquidi di chitarra e un pattern ritmico ipnotico crescono e calano a rotazione per circa undici minuti che grazie ad un'interpretazione artistica di tutto rispetto, riescono ad ammagliare e coinvolgere l'ascoltatore senza mai annoiarlo. Anzi, basta abbassare un poco le difese mentali e si entra subito nel mood della band, ciondolando lenti come un paziente di psichiatria che ha preso la sua dose giornaliera di farmaci. Nonostante la ritmica doom, sia il batterista che il bassista riescono a intrecciare riff e battute in modo da arricchire la composizione che altrimenti affonderebbe nella totale accidia. "Abendwasser" sembra il secondo atto dell'opera musicale imbastita dalla giovane band e come tale, ricalca suoni (perfettamente curati) e melodie già dettati dai maestri che segnarono la via da seguire. La struttura è la solita: campionamenti di voci e qualche suono elettronico qua è la, anche se in realtà è proprio l'esplosione che arriva quasi alla fine a far rimpiangere uno svolgimento diverso. La visione epica che la band crea in modo immaginario davanti ai nostri occhi, è una sorta di mondo parallelo, fatto di colori e profumi mai percepiti prima. Un mondo nuovo che esiste, ma che ci sfugge troppo presto dalle mani. In sè l'album è eccellente, i SA hanno studiato e messo in pratica alla perfezione tutto quello che già è stato fatto in questo genere, ora il punto da capire è se qualcuno avrà il coraggio e le doti per mischiare le carte in tavola e trovare un'evoluzione stilistica non fine a se stessa. (Michele Montanari)

(Tokyo Jupiter Records/Towner Records - 2015)
Voto: 75

https://sequoian.bandcamp.com/album/qual-der-einsamkeit

giovedì 18 febbraio 2016

Zlang Zlut - Crossbow Kicks

#PER CHI AMA: Hard Rock, Led Zeppelin
Gli Zlang Zlut sono un duo di cinquantenni svizzeri che ha dedicato la propria vita alla musica. Infatti sono attivi sin dai mitici anni '90, quando i due di Basilea si dedicavano prima alla musica classica e poi al rock con diversi progetti. Amici di lunga data, nel 2010 hanno deciso di fondare questo energetico duo dando così alla luce il loro primo EP l'anno seguente. Nel 2014 hanno sfornato l'album omonimo ed ora ritornano con 'Crossbow Kicks', un digisleeve ben fatto con undici tracce di rock dalle influenze hard, ma pieno di sperimentazioni e con così tanta energia che farebbe impallidire parecchie giovani punk band. I ragazzotti amano il rock'n'roll vecchia maniera, ma non disdegnano anche sonorità moderne, distorsioni seducenti e ritmiche taglienti come un rasoio. In realtà la formazione è alquanto strana, nel senso che la line-up prevede un violoncello elettrico/bass synth con controllo a pedali e una batteria/voce, con un risultato finale alquanto soddisfacente. "Hit the Bottom" apre le danze con una ballata rock veloce, un cantato squillante e ben modulato in pure stile hard rock, mentre la sezione ritmica srotola un'ingente quantità di battute. Il violoncello distorto non fa certo rimpiangere la mancanza di una chitarra, anzi, l'assolo permette di godere appieno le diverse sfumature che tale strumento regala. In sé la canzone non offre niente di nuovo, grandi influenze dal passato sia nella struttura che nei riff, ma non fermiamoci al primo brano e passiamo oltre. "Rage" alza il tiro con un mood più oscuro e introverso, sonorità tra i Led Zeppelin e AC/DC, mentre il vocalist si lancia in un cantato ipnotico, sostenuto dai riff ossessivi del violoncello. I cinque minuti abbondanti della traccia rimangono sempre ad un livello che sembra voler esplodere, ma in realtà gioca su altri fattori, come i brevi assoli psicotici di violoncello. Non ancora soddisfatto, passo a "Out of Control", una vergata rock old school fatta di riff ballerini e ritmica figlia dei migliori moto raduni dagli anni sessanta ad oggi. In alcuni passaggi vocali sembra quasi che l'inossidabile Ozzy abbia prestato le sue corde vocali, in realtà il cantante è cresciuto a pane e rock come avveniva qualche anno fa. Anche qui il cello si inerpica in un assolo granitico, dimostrando che non ci vuole per forza una sei corde per scrivere qualche pagina di rock. "Now" è il brano più variopinto dell'intero disco, la struttura è classica, ma il tempo a disposizione permette di dare spazio al bass synth che probabilmente è un Taurus della Moog, a sentirne la cremosità delle frequenze. Anche il violoncello qui si arricchisce di effetti che insieme ai già sentiti excursus sclerotici, permette di inserire dei break che spezzano e rendono più vario il lungo brano. In generale gli Zlang Zlut sono un ottimo duo che brucia di rock come se non ci fosse un domani e nonostante sia restio a prendere la strada della sperimentazione, ne esce a testa alta, grazie anche alla lunga esperienza musicale che i due musicisti si portano sulle spalle. L'impressione è che i due si divertano un sacco, suonino quello che adorano e quindi vincano la loro sfida, senza il bacio accademico però. (Michele Montanari)

(Czar of Revelations - 2016)
Voto: 75