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domenica 2 gennaio 2022

Orsak:Oslo - Skimmer / Vemod

#PER CHI AMA: Post/Kraut Rock
'Skimmer' e 'Vemod' sono due EP usciti rispettivamente in formato digitale a giugno 2020 e a dicembre 2021. La label tedesca Kapitän Platte ha pensato bene di prendere i due dischetti e schiaffarli su supporto fisico (vinile e cd) e darceli in pasto. Noi eravamo rimasti al loro album omonimo nel 2019 e quindi aspettavamo con un certo interesse una nuova uscita del quartetto norvegese-svedese, dato il positivissimo feedback sul precedente lavoro. Eccoci dunque accontentati con sei pezzi che propongono il classico sound post rock strumentale della band scandinava, sempre e comunque a cavallo con certa psichedelia e il kraut rock. A differenza del mio buon vecchio collega però, che osannava in un certo senso il sound dei nostri, io in tutta franchezza, non mi sento di dire che la proposta dei quattro musicisti sia cosi imprescindibile. Di album di questo genere, per quanto questo sia davvero ben suonato, ne sento e recensisco a bizzeffe, basti pensare a tutta la produzione Bird's Robe Records. Gli Orsak:Oslo alla fine non inventano nulla di nuovo, ci prendono per mano con il loro sound riflessivo ("Passage"), rilassante ("Skimmer"), estremamente atmosferico tra l'acustico e il graffiante ("Cloudburst"), l'ipnotico ("Vemod"), il pulsante ("Mod America", tra l'altro il mio brano preferito) e ancora quella proposta a metà strada tra post punk e post rock, guidato sempre da un'ispiratissima chitarra che per tutto il disco si prende la scena. 'Skimmer / Vemod' alla fine ci consegna una mezz'ora abbondante di suoni piacevoli, ma che non mi sento cosi propenso a rubare con gli occhi. (Francesco Scarci)

mercoledì 10 novembre 2021

Regen Graves - Climax

#PER CHI AMA: Electro Noise/Kraut Rock
Regen Graves è un personaggio istrionico dalle mille potenzialità. Noto produttore, bassista, batterista, songwriter, chitarrista e tastierista di tanti progetti, produzioni e collaborazioni, tra cui gli Abysmal Grief, Tony Tears, Apolion, Malombra e Damnation Gallery. Nel suo curriculum non poteva mancare un side project personale, dove poter dare libera espressione alla sua forma sonica più buia, surreale e futuristica. Una one-man-band che ha rilasciato negli ultimi anni una manciata di release molto attraenti, per i cultori del genere ambient, noise, elettronico-sperimentale. La sua ultima opera è intitolata 'Climax' ed evolve il suono dei precedenti lavori, sfruttando gli insegnamenti dei maestri del krautrock, dell'elettronica futurista e vintage di band come i Kraftwerk, il tutto quasi sempre rigorosamente strumentale, fatto salvo per piccole intromissioni di voci campionate. Dalle forme stilistiche ambientali in odor di space/horror dei precedenti 'Cruelty of Hope' e le atmosfere più intime e psicotiche di 'Herbstlicht', il musicista genovese, si evolve e amplifica il raggio d'azione utilizzando i synth in maniera egregia. Il sound è curatissimo e mantiene un particolare suono cosmico e caldo, pur presentando strutture compositive agghiaccianti e nerissime. Si aprono le danze con una lunga (ben 10 min), drammatica e robotica sequenza di organo, rumori metallici e campionamenti di voci in lontananza, stesi su di un vellutato ronzio di fondo che progressivamente prende il sopravvento sul resto di "Immutable Reality", che mostra anche nella distanza un tiepido battito ritmico. Una suite che introduce perfettamente l'ascoltatore nella meravigliosa "The Last Stage of Decline", una chicca costruita con l'intreccio di loop rimbalzanti dei synth, che penetrano nel cervello come il rumore delle biglie di vetro fatte cadere sul pavimento, coadiuvati da una voce narrante ed una tensione devastante in continua crescita che non lascia scampo. Da questo momento in poi, i brani si accorciano leggermente nella loro durata, senza mai perdere la prospettiva ipnotica e spaziale che caratterizza l'intero disco. La sensazione di ascoltare una vera e propria colonna sonora di qualche film di fantascienza di qualche decennio fa, si concretizza con "The Window", per poi passare alla violenza di "Diegetic Distortion", fatta di calda, rumoristica ed industriale sperimentazione sonora. "Nothing Will Be Better" è un drone di synth che trova il suo contraltare nella geniale inventiva di accostarlo ad un suono funebre di campane solenni, voci e rumori di varia natura. La conclusiva "Heat", che nella versione digitale è una bonus track, è un ulteriore passo verso l'universo kraftwerkiano, stravolto da un pianto di bambino che gela il sangue in un crescendo ritmico degno della migliore synthwave degli anni ottanta. Regen Graves, con questo nuovo lavoro, conferma la sua illuminata ispirazione, 'Climax' è un ottimo album, che merita ripetuti ascolti. Un disco spettrale con un'enigmatica copertina, curato nei dettagli, ricercato ed ispirato, per un pubblico sofisticato ed esigente, a cui consigliamo di ascoltare quest'opera anche in cuffia, oltre che in un buon impianto stereo, per apprezzarne a dismisura, l'intenso magma cosmico di cui sono costituiti questi brani. Ascolto obbligato. (Bob Stoner)

(Pariah Child/Yoshiwara Collective - 2021)
Voto: 80

https://regengraves.bandcamp.com/album/climax

sabato 21 agosto 2021

The Sun or the Moon - Cosmic

#PER CHI AMA: Psych Rock
Un altro debut album proveniente dalla sempre più brulicante scena tedesca, questa volta con i The Sun or the Moon, da non confondere con gli omonimi punkers inglesi. ‘Cosmic’ è un concentrato di psichedelia, progressive e kraut-rock, da leccarsi i baffi. Sette lunghi pezzi che rinfrancheranno gli amanti di sonorità lisergiche alla Pink Floyd o della synthwave alla Kraftwerk. L’opener, nonchè title track, in tal senso potrebbe essere la giusta sintesi delle due storiche band appena citate, coniugando l’elettronica con lo psych prog, il tutto sublimato da quel cantato di scuola teutonica, un po’ robotico, un po’ cibernetico. Erotiche percussioni di bossanova aprono “Twisted Kamasutra”, manco fosse la musica introduttiva di un qualche film porno degli anni ’70. Il ritmo è cosi rilassato, con forti rimandi a sonorità settantiane, vuoi anche per una voce, questa volta più calda e suadente, che prende le distanze da quella proposta in apertura. La musica poi fa poi tutto il resto muovendosi su ritmi decisamente compassati, e nel finale votati a sperimentalismi space rock. Un loop elettronico apre “Eldorado” (song le cui liriche prendono in prestito un testo di Edgar A. Poe), prima che la ritmica assuma toni ben più grevi e strizzino l’occhiolino ai Pink Floyd (soprattutto a livello vocale) lanciandosi in lunghi trip strumentali affidati alle sempre più dilatate e profonde melodie che caratterizzano questo pezzo e in generale questo esordio. Sperimentare è il mantra che contraddistingue i The Sun or the Moon e io non posso che esserne felice. Da questi suoni cosi ricercati può solo uscire tanta roba buona in grado di concretizzarsi nelle melodie orientaleggianti di “Julia Dream”, cover e tributo ai Pink Floyd da parte dei nostri, suonata cosi fedele all’originale da farla quasi sembrare loro. Ecco, l’originale del 1968 durava poco più di due minuti e mezzo, quella della band germanica otto, in quanto ripropongono il tema principale in loop aggiungendo in coda un bell’abrasivo bridge di chitarra. Suoni da videogioco anni ’80 per l’intro di “Trippin’ on Mars”, un pezzo fresco ed arrembante nel suo ipnotico incedere elettronico, tra chitarra, piano e synths. Il quartetto di Francoforte non finisce di stupire e con gli ultimi due pezzi, “Space Travel Agent” e “Quicksand”, trova modo di imbastire altri trenta minuti di musica avanguardistica assai accattivante, muovendosi in bilico tra eteree tastiere kraut-rock, ambient, dub, voci di pink floydiana memoria e chitarre sempre ispiratissime, in grado di catapultarci in uno stato di tranquillità surreale, tra visioni estatiche e viaggi interstellari in mondi lontani, che forse non esistono, se non nella nostra mente. (Francesco Scarci)

(Tonzonen Records – 2021)
Voto: 76

https://thesunorthemoon.bandcamp.com/album/cosmic-2

domenica 1 agosto 2021

Landskap - Landskap II

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Psych/Prog Rock
Sedimentato lo stoner tettonico della prima prova, rocciosa ma poco velleitaria, il secondo album dei Landskap, intraprende una ventosissima direzione eminentemente nordic-prog (a partire dalla copertina e, a conti fatti, dal nome stesso della band), attenta però al sunny-psych finesessanta tipo Doors (il finale "Sun of no North") e Iron Butterly (la portentosa "Leave it All Behind") con qualche inattesa sortita NWOBM (il Maiden-riff che apre la già citata "Leave it All Behind" e la turbolenza à-la-Fade-to-black che la chiude). Soltanto se immaginaste voi stessi alla guida del pulmino dei Motorpsycho dispersi nella tundra norvegese mentre canticchiate "Riders on the Storm" alla ricerca di un cazzo di albero per pisciarci contro, allora vi figurerete l'immanenza della performance vocale di Jake Harding e, per estensione, dei trentasei minuti complessivi di questo straordinario album. Dovesse capitarvi di sentirvi preda di una accesso deipnofobico tornate a casa, accendete il camino, procuratevi un plaid e mettete su questo disco, ma solo dopo esservi assicurati di aver terminato la legna e il single barrel. (Alberto Calorosi)

(Black Widow Records - 2014)
Voto: 75

https://landskap.bandcamp.com/album/ii

venerdì 23 luglio 2021

Captain Kickarse and the Awesomes - Grim Repercussions

#PER CHI AMA: Prog/Math Rock
Ancora Bird's Robe Records, ancora band australiane quindi, quasi sia un mantra dell'etichetta di Sydney arruolare realtà del proprio paese. La band di oggi è un trio strumentale che propone in questo 'Grim Percussion', un rock muscoloso davvero libero da ogni schema. A certificarlo subito le note della breve intro "Sixes and Dozens", che ci danno un'idea di che pasta siano fatti questi tre aussie boys, che sono in giro ormai dal 2009, quando uscì il loro EP di debutto, 'Falsimiles From The Facts Machine'. Con la seconda "Pogonophobe", ma sarà poi una costante lungo l'intero disco, quello che balza subito all'orecchio, è l'assoluta libertà da parte dei Captain Kickarse and the Awesomes di suonare quel diavolo che gli pare senza paura del giudizio esterno. Si va quindi dal jazz rock singhiozzante di questa song, alla più percussiva "Immaculate Consumption", dove ancora i fraseggi jazz la fanno da padrone. Certo si richiede una certa predisposizione a questo genere di suoni perchè dire che siano immediati da percepire e gradire, rischierebbe di essere una gigantesca bugia. E allora lasciatevi investire dalle sonorità un po' più grasse di questo pezzo e dalla sua delirante follia, affidata alla tecnica sopra la media dei tre musicisti, che in tre differenti occasioni, riusciranno a mettersi in mostra. Un breve intermezzo acustico e via per altri lidi di delirio musicale: ascoltando l'apertura di "Smallcastle", non si può non corrucciare le sopracciglia cercando di capire che cavolo i nostri stiano combinando con i loro sperimentalismi musicali. Dopo un paio di minuti, la traccia prende una sua forma meglio definita combinando prog e post rock, con un tappeto ritmico bello robusto e con ulteriori ammiccamenti a psichedelia e sludge. Il duetto di song costituito da "The Grapes" e dalla title track, si prende da solo quasi 21 minuti di musica stralunata, oscura ed imprevedibile (chi ha detto math-rock?), che saprà disorientarvi ancor di più rispetto a quanto fatto sin qui dal terzetto originario del Nuovo Galles del Sud. Non mancheranno infatti momenti estremamente riflessivi ed introversi, cosi come scariche di rabbia e frustrazione, colate di suoni ridondanti e roboanti che vedono a mio avviso, solo l'assenza di una dissennata forza della natura a urlare nel microfono, il che avrebbe reso la proposta dell'act australiano un po' meno ostico da digerire. Si perchè le cose si fanno ancor più complicate in "A Beard of Bees", un pezzo noise introdotto dal didjeridoo e affidato poi al caos primordiale, prima che "Fourth Party" metta la parola fine a questa fatica targata Captain Kickarse and the Awesomes, a tratti davvero complicata da affrontare. (Francesco Scarci)

(Bird's Robe Records - 2021)
Voto: 73

https://birdsrobe.bandcamp.com/album/grim-repercussions

mercoledì 30 giugno 2021

Mesarthim - Vacuum Solution

#PER CHI AMA: Electro/Cosmic Black
Il misterioso duo australiano dei Mesarthim torna con una nuova release che va a renderne più cospicua la discografia. Sempre sotto la guida esperta della nostrana Avantgarde Records e con un concept perennemente ispirato alla cosmologia, la band ci propone un sound ancora una volta intrigante, in grado di miscelare cosmic black con elettronica e space rock, in un favoloso mix di melodie che si esplicano alla grande lungo le cinque tracce qui incluse. Quello che più ho apprezzato di 'Vacuum Solution' è sicuramente l'utilizzo dei synth nella memorabile title track posta in apertura, che è impossibile non memorizzare e arrivare quasi a fischiettare. Non me ne vogliano i due musicisti australiani, ma questa rischia di essere una delle canzoni più melodiche della loro discografia, sebbene le screaming vocals provino a mantenere un ancoraggio con le produzioni precedenti. Certo che quel finale quasi EBM rischia di stravolgere (positivamente sia chiaro) il pensiero che mi lega da sempre ai Mesarthim. Con "Matter and Energy" le cose sembrano complicarsi ulteriormente, lasciandosi penetrare sempre più dal beat techno elettronico, con il solo cantato black a mantenere un ponte di connessione con la musica estrema. Con "Heliocentric Orbit" ci manteniamo in territori affini, con i due che provano a unire quel sound techno dei Samael di metà carriera con la musica trance e le ultime invenzioni vocali (quasi anime giapponesi) degli azeri Violet Cold. Audaci. Impavidi soprattutto in "A Manipuliation Of Numbers", un pezzo che prende in prestito le tastierine del dungeon synth e le mette a servizio di un sound più etereo che comunque riflette il trademark dei nostri. A chiudere, ecco "Absence" con il suo ambient nudo e crudo, una sorta di colonna sonora di film stile "Interstellar" o "Gravity", che chiude l'ennesimo viaggio nello spazio di questi due sognatori australiani. Ah, una piccola curiosità: l'artwork di copertina è realmente una foto della Nasa. (Francesco Scarci)

domenica 20 giugno 2021

Hans Hjelm – Factory Reset

#PER CHI AMA: Instrumental Prog/Kraut Rock
Hans Hjelm è un produttore e musicista svedese assai conosciuto in ambito alternativo, che vanta numerosi progetti e partecipazioni in un infinito numero di album. Questo suo primo disco da solista è anche la prima uscita interamente gestita dalla sua etichetta personale, la Kungens Ljud & Bild. In questo suo debutto dalla copertina futurista, Hans, ha suonato chitarre, synth, basso e programmato le basi, aiutato solamente da Jesper Skarin nel ruolo di batterista. Il noto chitarrista di Stoccolma milita in un nugolo di altre band di ottima fattura, tra cui Kungens Män ed Automatism, e si abbandona per questi sei brani strumentali ad un suono sofisticato, figlio dell'ammirazione verso certa new wave costellata di synth, profondi e cosmici, che entrano in armonioso contrasto con il suo modo originale di gestire le parti di chitarra, mettendo in luce i suoi studi in ambito jazz perseguiti in America, che caratterizzano il suo stile. L'appartenenza alle altre band si fa sentire sempre e comunque, anche se Hjelm ce la mette tutta per allontanarsi dalle precedenti multicolori avventure sonore: l'ombra dell'ultimo brillante disco degli Automatism, ad esempio, è qui costantemente presente, anche se, tra queste note, troviamo una sezione ritmica più evanescente, il basso resta sempre nelle retrovie e i synth e le chitarre cristalline per la maggior parte dei brani svolgono il ruolo di protagonisti. "Valley of the Kings" mostra perfino una verve ipnotica figlia della psichedelia dei Velvet Undergrond, riveduta in chiave newwave anni '80, mentre l'amore per i Depeche Mode esplode nella cover di "Nothing to Fear", estratta dallo storico 'A Broken Frame', e adattata in una veste più consona all'autore, piena di colori tra post rock e sonorità indie. Nel retro del cd troviamo un consiglio per l'ascolto scritto da Hjelm in persona, che lascia trasparire tutta la sua peculiarità, la sua meticolosa ricerca della qualità sonora, da musicista, da tecnico del suono e produttore di opere molto sentite a livello emozionale. La scritta recita:

Usa le cuffie stereo
Fai un respiro profondo e inizia a rilassarti
Chiudi gli occhi e lascia perdere tutte le preoccupazioni
Notare una frequenza leggermente diversa che raggiunge ciascun orecchio
Diventa consapevole del tuo respiro
Inizia a contare i tuoi respiri
Lascia che i suoni passino attraverso la tua mente inosservati
Immergiti nel processo di respirazione
Lascia che i suoni sincronizzino i tuoi schemi di pensiero
Ripetere il processo fino a quando non si verifica il ripristino

"Lights Turn Red" è invece la canzone più lunga del lotto e offre un'evoluzione lisergica di chitarra noise davvero interessante, che amplia il range della proposta del disco, che fondamentalmente si muove in un'ottica di ipnotica estasi sonica. Conoscendo e apprezzando gli altri lavori del polistrumentista svedese, posso dire che a differenza di altre sue uscite, 'Factory Reset' rappresenta qualcosa di diverso, più alla moda, un bel disco dalle dichiarate venature '80s rivisitate in un'ottica moderna, una release quasi perfetta, dal sound arioso, aperto, contemporaneo ed estremamente omogeneo, tendenzialmente meno rock, ma con un'anima sognante ai confini di un ambient che solo a tratti nasconde qualche sinistra insidia sonora. In tutto questo mi mancano le astratte evoluzioni compositive, tipiche di band come Sista Maj o Automatism, ma in effetti il lavoro di Hjelm in questo suo primo lavoro da solista non deve essere paragonato alle altre sue dimensioni musicali. Questo disco infatti vive di una propria reale identità, una luccicante, autonoma realtà compositiva che conferma una capacità straordinaria di creare universi sonori dalle mille entità diverse e colorate anche in veste solitaria. L'ascolto è consigliato, obbligatoriamente in cuffia, come raccomandato dall'autore! (Bob Stoner)

(Kungens Ljud & Bild - 2021)
Voto: 74

https://hanshjelm.bandcamp.com/album/factory-reset

domenica 9 maggio 2021

Tony Tears - The Atlantean Afterlife (...Living Beyond)

#PER CHI AMA: Occult/Doom/Esoteric Rock
Difficilmente riuscirò a recensire un nuovo lavoro dei Tony Tears che, per quanto di nicchia possa essere ritenuta la band di Anthony Tears Polidori, è da considerarsi un vero e proprio oggetto di culto nel panorama musicale europeo, un nome speciale, la cui fama nei circoli del doom esoterico è cresciuta costantemente nel tempo. Alla stregua di mostri sacri quali Paul Chain, The Black o Antonius Rex, e a seguito di una quantità enorme di uscite discografiche che da vent'anni a questa parte, dopo essersi messo in proprio sganciandosi dai altri progetti autorevoli tra cui gli ottimi Abysmal Grief, Mr. Polidori è da annoverarsi tra i personaggi più influenti nel panorama occult rock di matrice squisitamente italiana. Tuttavia le influenze che lo hanno generato sono da ricercare in band progressive internazionali degli anni '70 e nell'heavy classico di primi anni '80, il tutto rivisto con gli occhi della cultura esoterica, dell'horror in bianco e nero dei film con Barbara Steele, del doom nello stile Pentagram/Saint Vitus ed in una costante ricerca poetica, espressa tramite testi ermetici, sinistri e iniziatici, che affondando le loro trame nella cultura occulta, tra diavoli e demoni. Il nuovo 'The Atlantean Afterlife (...Living Beyond)' è però diverso dal suo predecessore, per stile ed evoluzione sonora: la prima parte cantata in lingua madre è la più interessante con soventi escursioni in territori non propriamente metal anzi, al suo interno troviamo divagazioni che affondano in sonorità acustiche ed esotiche del medioriente (come se fosse la soundtrack di un film), psichedelia ipnotica, cenni di kraut-rock ed elettronica vintage unita ad un'inusuale attitudine doom del compositore ligure, che emerge nelle ultime quattro tracce cantate invece in inglese, dai connotati più standard grazie a chitarre e ritmiche heavy, ad un sapore più maligno nel canto, che nella prima parte si mostra più in una forma poetica, tra Jacula e il Ballo delle Castagne (... al falso profeta la lingua sarà recisa – estratta da "Il Ritorno del Globo Alato"). Devo ammettere che il disco non sia di facile approccio, richiedendo infatti un ascolto multiplo per assaporarne le molteplici sfaccettature sonore. Magari con il libretto dei testi in mano sarebbe più facile capirne le dinamiche, le narrazioni di una antica profezia ed una nuova era atlantidea, il ritorno del culto ancestrale attraverso antiche divinità egizie. I brani in italiano emozionano di più e sono più variegati, fino a "Il Cantico delle Piramidi", che funge da spartiacque, un pezzo delizioso dalla chiara indole etnico/psichedelica mediorientale, dove si destreggia la ben nota vocalist Sandra Silver, una presenza, la sua, che aumenta ulteriormente la qualità della proposta, in quanto a teatralità e drammaticità. La parte inglese possiamo definirla più dura e rock, con perle solistiche che escono dalla musica facendosi notare positivamente, per cura del suono e bellezza melodica. Gradualmente la compagine composta dal vocalist David Krieg, Artorias al basso e Lawrence Butleather alla batteria, torna in territori più consoni al doom occult metal, vicino alle gesta di un ispirato Paul Chain ma caratterizzato dal tipico, raffinato e complesso stile dei Tony Tears. L'unico rammarico risiede nel constatare che la produzione poteva avere più tono ed in certi punti, la ricerca del suono vintage non esalta tutte le sue particolarità. Nel precedente disco le cose erano diverse, più dinamiche ed immediate, mentre questo nuovo lavoro richiede più attenzione ed un ascolto più coinvolto. Particolarità che non consiste in una mancanza o caduta, al contrario, a mio avviso porta l'ascoltatore in una dimensione particolarmente ipnotica e una salutare concentrazione di ascolto. Ma il nuovo album offre anche altre sorprese come l'intro psych della già citata "Il Ritorno del Globo Alato", dalle sfumature velate d'avanguardia, in odor di Canterbury sound. Analogamente, la splendida apertura de "Il Messaggero della Rosa Rossa" ricorda certe atmosfere dark dei mitici Virgin Prunes, per poi assumere una piega cosmica e poetica, alternando cadenze doom e caratteristiche tribali - pagane assai affascinanti. In definitiva 'The Atlantean Afterlife (...Living Beyond)' è un disco dalle mille anime, complesso e variegato in puro stile Tony Tears, raffinato ed oscuro doom metal dal tocco melodico, catacombale e cosmico. Un viaggio all'interno di una scena underground tutta da scoprire e riscoprire, magari partendo da questo crepuscolare, profetico ultimo interessante lavoro della storica band genovese. (Bob Stoner)

domenica 25 aprile 2021

Sounds of the New Soma - Trip

#PER CHI AMA: Krautrock/Psichedelia/Ambient
Nel loro universo costellato di numerose release, in un tempo relativamente breve, il duo di Krefeld, mostra nomi illustri nell'indicare le fonti della propria ispirazione, citando artisti del calibro di Nick Turner e degli Hawkwind, fino ad ammiccare con un titolo di un album, 'Moebius Tunnel', nel 2016, alle opere dello sperimentatore sonoro e mitico guru del movimento krautrock, Moebius. Detto questo, noto con piacere che proprio al krautrock il duo tedesco volge sovente lo sguardo. I nostri presentano brani intrisi di psichedelia, ma con un suono attualizzato e una veste più moderna, spesso spinto da una certa propensione all'elettronica più ipnotica e ambientale (la mente vola ai dischi della Ultimae Records). Sono tanti gli album interessanti e variegati della band teutonica, esplorano lo shoegaze ed alcune teorie amate dai Death in Vegas, sposandole con l'ambient mistico del già citato krautrock in molte delle sue famose forme, concedendosi poi escursioni nel postrock più morbido e a volte strizzando l'occhio perfino a certa elettronica, cosparsa di avanguardia. In questo nuovo 'Trip' i Sounds of the New Soma si concedono il lusso di immaginare il proprio sound scarnificato e quasi in assenza totale di ritmo, dove piccole, mirate variazioni, cambiano il tema portante di un unico brano lunghissimo che sfiora i 43 minuti di durata. Si parte con un tema ambient dal clima estatico, di memoria Brian Eno, tocchi leggeri per un'armonia fluttuante quasi a voler rincorrere certi canoni dei Boards of Canada. Lentamente ci s'incammina sulle atmosfere che animeranno l'intero brano, ovvero il tema robotico/cosmico, rivisto con suoni attuali ma con un'anima legata all'elettronica primordiale ed un cuore vintage. Lo scandire di un sax rarefatto e spettrale, detta le variazioni e le evoluzioni nel segno dei Kraftwerk, sempre in maniera pacata, scarna e minimale, cosi come le chitarre cristalline leggere come l'aria. Quando dopo il primo quarto d'ora di musica, rispunta il magico sax, il cosmo ci appare ancora più vicino. Il suono si fa qui più interessante con rumori astratti di percussioni, mentre l'ingresso di un canto rituale avvolto in suoni ciclici, ci incanala verso una vera e propria sinfonia robotica in balia delle teorie sonore dei maestri elettronici di Dusseldorf. Il sax è sempre un'arma letale in questo disco, quella che precede il tutto e lo rende così d'avanguardia, che ridona umanità alla ghiacciata musica elettronica delle macchine. 'Trip' è un buon album di ambient/psichedelia, per veri appassionati del genere, un disco ostico per via della durata ma allo stesso tempo delicato, stratificato ed etereo, ideale per stimolare la propria psiche. L'ennesimo tassello di una serie di opere tutte da scoprire, un nome, quello dei Sounds of the New Soma da segnare nella propria agenda dei futuri ascolti preferiti. (Bob Stoner)

lunedì 12 aprile 2021

Mur - Truth

#PER CHI AMA: Post Black/Post Hardcore/Experimental
Recensiti proprio dal sottoscritto un paio d'anni fa in occasione del debut 'Brutalism', i parigini Mur tornano con un EP nuovo di zecca intitolato 'Truth'. Cinque brani, di cui una cover dei Talk Talk, per una mezz'ora abbondante di suoni che combinano post-black con il post-hardcore, ma non solo. L'eccelso stato di forma del sestetto francese è confermato dal roboante pezzo d'apertura, "Inner Hole", che ci stritola con suoni davvero corrosivi, che hanno il pregio di sfoderare un break elettronico che rompe quella furia primigenia, comunque pregna di melodia, che contraddistingue il brano. Un pezzo pervaso da un senso di impotenza e forte malinconia tipici del post-hardcore, proposti con l'irruenza di un black dai tratti sperimentali, ormai marchio di fabbrica delle produzioni Les Acteur de l'Ombre Productions. Il finale è a dir poco devastante, miscelando suoni estremi dai più svariati ambiti musicali, a confermare le ottime doti dei sei musicisti. Che i suoni non siano troppo scontati ce lo conferma anche la successiva "Suicide Summer" con la sua ritmica psicotica e irrefrenabile, un rullo compressore impazzito in grado di asfaltare ogni cosa si ponga sulla sua strada. Il black schizoide dei Mur trova la sua massina espressioni in balzani synth che coniugano estremismi black con il mathcore, scatenati suoni elettronici, screaming efferati, cavalcate poderose, break inaspettati e deflagrazioni caotiche altrettanto imprevedibili, quasi geniali. Al pari quasi dell'inizio di "Epiphany", che sfodera chitarre assai strambe, percussioni tribali, harsh vocals, suoni contaminati da un'alternative rock e altre sonorità più o meno stravaganti per una proposta di questo tipo, che comunque ha un suo filo logico che ci conduce alla cover "Such a Shame", un brano che francamente amo. Ecco, la riproposizione della song dei Talk Talk è quasi irriconoscibile, fatto salvo nel coro dove compare chiara l'ndimenticata melodia del brano. Altrove regna il caos sovrano, un caos calmo, un caos controllato, ma comunque un caos nell'accezione figurata della sua definizione, disordine o disorientamento tumultuoso, una confusione senza uguali, soprattutto laddove credo ci sia una sorta di assolo conclusivo controverso e delirante. In chiusura di 'Truth', ecco gli ultimi dieci minuti strumentali della title track. Intro affidato ad un lungo giro di synth che ci porta direttamente al krautrock teutonico degli anni '70. Break ambient di 90 secondi tra il terzo e il quarto minuto e poi una seconda parte assurda di sonorità synthwave, prog, sperimentali, che ci confermano quanto i Mur siano davvero pazzi, stralunati ma tremendamente fighi. (Francesco Scarci)

(LADLO Productions - 2021)
Voto: 80

https://ladlo.bandcamp.com/album/truth

lunedì 1 marzo 2021

Love Machine - Düsseldorf - Tokio

#PER CHI AMA: Garage Rock/Psichedelia
Avevo lasciato i Love Machine con il buon album 'Times to Come' del 2018, perdendomi tuttavia 'Mirrors & Money' nel 2019, che solo di recente sono riuscito ad ascoltare. Nel 2021 i cinque teutonici presentano questo nuovo album intitolato 'Düsseldorf - Tokio', mostrandosi più bizzarri che mai, con un lavoro che presenta una geniale novità, ovvero il cantato in lingua madre, a rimarcare la totale alienità di questa band dai confini classici del rock a cui fanno riferimento. Il canto in tedesco mostra tutta la durezza della sua pronuncia e porta molto bene ai Love Machine perchè, mi si passi il termine, suonano ancor più estroversi e krautrock, anche se decisamente in un contesto di psichedelia assai diversa dal quel filone musicale dei '70s. Le influenze musicali sono molte per la band tedesca e spostarsi dall'easy listening/lounge dei sixties al Johnny Cash di 'Ride This Train' è una cosa quasi scontata, il passo poi risulta breve anche tra il Presley di 'Viva Las Vegas' e certo garage punk'n'roll che, al cospetto del fantasma dei Birthday Party, riportano in vita l'anima malata della band australiana ed in chiusura del disco, sfornano due ottime tracce di rock sgraziato e selvaggio, "That Mean Old Thing" e "The Animal", i soli due brani cantati in lingua d'Albione. Queste due canzoni sono le uniche dotate di una certa scarica elettrica e vitalità ritmica, con cori stralunati e un'indole distruttiva, molto diverse spiritualmente e ritmicamente dal resto delle tracce. Comunque, se in un disco appaiono solo due canzoni veramente ritmate, non vuol dire che il resto sia da buttare anzi, direi che il vero stile dei Love Machine risieda proprio in quelle ballate miti e patinate tra glam, rock sulfureo e sonorità psichedeliche da pseudo figli dei fiori. Inoltre, se aggiungiamo una voce sensuale e profonda come Barry White, che incrocia la tenebrosità di certe interpretazioni a metà strada tra il Blixa Bargeld di 'Nerissimo' e i Crime & the City Solution, le cose si fanno più interessanti. Basta osservare il brano "Hauptbahnhof" dove, al minuto 1:53, nel bel mezzo di un contesto musicale tra il noir e il romantico di una ballata sonnolenta, un glaciale grido disperato cambia le sorti del brano, elevandolo a gioiello di disperazione per antonomasia. Prendendo atto della magnifica e spettrale voce baritonale da oltretomba di "100 Jahre Frieden", dove plasticata felicità e tristezza si fondono per esplodere in un assolo di chitarra tagliente come un rasoio, la proposta musicale diventa molto suggestiva. L'album continua tra sporadiche e assassine stilettate di chitarra, ritmiche allucinate a suon di morbido rock e di tanto visionaria quanto pacata psichedelia. Il tutto è guidato da un'interpretazione vocale impressionante a cura del vocalist Marcel Rösche, che racconta con stile da crooner vissuto, di una città malata e sofferente, vizi e disperazioni presentati con vellutata saggezza e ruvida sfrontatezza in memoria della coppia Bowie/Reed, tra raffinatezza e spazzatura, proprio come descritto nelle note del disco. Un vero album bohémien, che non teme confronti nè paragoni, poiché vive di luce propria e si nutre di una certa originalità artistica sanguigna, cosa che porta la band di Düsseldorf a ritagliarsi una scena tutta propria nel vasto mondo del retro rock. Il che spinge l'ascoltatore a porsi di fronte ad una scelta obbligata, amare od odiare lo stile di questa singolare band. A mio parere 'Düsseldorf - Tokio' è un ottimo album, originale ed interessante, un mondo sonoro tutto da scoprire! (Bob Stoner)

martedì 29 dicembre 2020

Queen Elephantine - Tribute to Atrophos Vol II

#PER CHI AMA: Experimental/Kraut/Psych
Li avevamo incontrati qualche mese fa in occasione dell'EP Vol I di questa serie digitale intitolata 'Tribute to Atrophos'. Ritroviamo ora i Queen Elephantine con il secondo dei tre volumi di improvvisazione musicale. Questo nuovo capitolo include tre lunghi pezzi che ci condurranno nei meandri più bui delle menti di questo collettivo che dall'India ha messo poi radici a Philadelphia. Qui i nostri, in periodo di clausura da Covid, si sono divertiti a ridefinire gli spartiti del proprio sound imbastendo estemporaneamente fraseggi free-jazz guidati da un basso ipnotico e sovversivo ("Synthetic Mist"). Diciamo che qui di regole scritte non ce ne sono, la band fa un po' come diavolo gli pare senza seguire dettami specifici di un genere piuttosto che di un altro. Come avevo già sottolineato in precedenza del primo EP, la band sembra giocare a strimpellare con i propri strumenti come se fosse alla ricerca del riff perfetto da buttare nero su bianco per il prossimo album. E allora ecco il giochicchiare con le chitarre, un drumming quasi impercettibile che potrebbe far pensare alle deviazioni più psichedeliche e malate dei The Doors. La seconda "Burning Spectre" è anche più cerebrale, fortuna nostra che il brano va poco oltre i sette minuti, mai una passeggiata da affrontare con questi pazzi furiosi. C'è da divertirsi nel capire che cosa possa venir fuori da queste sperimentazioni, quindi l'ideale è non aver alcun tipo di pregiudizio e lasciarsi guidare da quello che potrebbe poi evolvere in blues rock, prima del finale affidato ai 13 lunghi minuti di "Ash". Una combinazione di kraut rock, noise, psych e urla sciamaniche contraddistinguono un pezzo che si conferma noiosetto almeno fino al minuto 5, prima che i nostri si mettano a danzare attorno al fuoco con una danza etnica che troverà il suo finale approdo in tremebondi suoni dronici. Solo per pochissimi fan. (Francesco Scarci)

(Atypeek Music - 2020)
Voto: 68  
 

lunedì 16 novembre 2020

Gong Wah - S/t

#PER CHI AMA: Experimental Kraut Rock/Noise Pop
Si apre il sipario su un insieme di brani che vi sorprenderanno. Tutte le tracce sono vive in essere e vitali in divenire nello stesso disco. L’ascolto dell'omonimo album dei tedeschi Gong Wah è un ritorno al futuro. Partiamo da "Let’s Get Lost". Voce carismatica quella di Inga Nelke. Raggi di criptonite che incalzano le pause strumentali. Avvolgenti i ripetuti del ritornello che diviene ipnotico lasciando il passo al velluto della voce della frontwoman che incalza intercalari ritmati. L’atmosfera in cui ci accolgono i Gong Wah è un ibrido tra il rock e l’ambient. Cambiamo del tutto l’attesa con "I Hate You". Qui lo strumentale è un ribattere, calco di gesso dinamico quasi aggressivo che si frantuma in un istante ripetuto. Una rabbia di zucchero filato e molto zuccherino che cristallizza esplodendo in un senso cosmico. Polvere di stelle. Le sorprese incalzano quando parte "Supersized Kid". Lei voce pop estremamente sensuale, ci porta indietro di 25 anni. Canta, accarezza l’ascolto. Canta, sa come far vivere il passato nel presente. Canta e complimenti a chi ha arrangiato il brano perché è un salto senza paracadute negli anni '90. Andiamo oltre ed accontentiamo i viaggiatori del tempo, quelli che mettono la musica in cuffia e si alienano dalla realtà. "With Him". Ora la carica nostalgica cresce sino a far godere pienamente della condivisione tra pop e shoegaze. Non sarete ancora sazi spero! Incalza il mio preferito tra questi pezzi "Sugar & Lies". Volume. Volume. Qui abbiamo un insieme di così tante sonorità e di annate musicali che gira la testa solo ascoltandolo. Adoro il suo incedere, così come la sua traccia definita e la sua arroganza nell’essere tutto e nel non somigliare a nulla di pregresso. Mandatelo in loop. Quando l’entusiasmo trova un picco succede spesso debba avere la sua contropartita, eppure "Contaminated Concrete" mi ferma il cuore per portare i battiti ad un altro livello. Ascoltando questa traccia ho vissuto momenti di pura intensità, istanti di un brivido graffiante, tempo dilatato e lento. Un'alchimia tra la musica, la voce e le sonorità distorte. Siamo a "Not This Time" e l’aria è ferma. È questo è il pezzo che quando parte con il suo mix di post-punk e electro dance la muove sul serio l’aria. La musica si muove. La voce si muove. Non inizio a respirare, ma ad ansimare. La musica chiama. Non è lo stile, il ritmo, il genere, ma l’alchimia dell’insieme. Concludo l’ascolto con questo inferno retroattivo ed eloquente. È il tempo di "Just Sayin'". Che dire. I sensi si risvegliano uno ad uno seguendo il ritmo deciso ed urgente di questo pezzo. Voci congiunte. Suoni stridenti armoniosamente agganciati agli strumenti. Pause strumentali lunghe, emozionanti, accattivanti. Le voci entrano in assonanza con gli strumenti. Una degna chiusura di un album da avere. Un viaggio tra il noise pop, il kraut rock, la psichedelia, lo shoegaze. Eppure, per ogni traccia si sente la forza della musica che mescola i generi e rinasce come fenice a vita indipendente. Artistico. Intenso. Eclettico. (Silvia Comencini)

(Tonzonen Records - 2020)
Voto: 78

https://gongwah.bandcamp.com/album/gong-wah

lunedì 12 ottobre 2020

Automatism - Immersion

#PER CHI AMA: Psych/Prog/Kraut Rock
Da Stoccolma ecco giungere dritto nel mio stereo gli Automatism a stemperare quella colata lavica di black che ha saturato le mie orecchie cosi tanto ultimamente. Si perchè il quartetto scandinavo in questo nuovo 'Immersion' è autore di uno psych rock strumentale, uno di quelli che ti permettono di stravaccarti in poltrona, mettere delle luci soft e assaggiare un bicchiere di whiskey con giusto un cubetto di ghiaccio, mentre in sottofondo vanno le ispiratissime linee di chitarra della band svedese in un ipnotico viaggio musicale. Si parte con le melliflue melodie di "Heatstroke #2", un pezzo che si muove tra prog e kraut rock con una vena psichedelica fortemente preponderante. È il turno poi della eterea "Falcon Machine", una song sinuosa dal piglio post rock, che parte con somma delicatezza e va salendo gradualmente in intensità, affidando il driving della traccia al fraseggio di una splendida chitarra solista che sembra muoversi all'interno di una fitta coltre di nebbia. Le melodie sono davvero fantastiche e sembrano sopperire alla solita cronica mancanza di un vocalist in questo genere. Tralasciando mestamente questa mia sterile polemica senza fine, non mi rimane che focalizzare la mia attenzione sulle ritmiche lisergiche trasmesse dai quattro ottimi musicisti nordici. In "Monochrome Torpedo" i ritmi sono assai cadenzati, quasi da lounge bar, tra luci soffuse e qualche donnina che si muove eroticamente attorno ad un palo da lap dance, in un'atmosfera fumosa ma intrigante, di scuola pink floydiana, che tuttavia sulla lunga distanza, tende un pochino a stancare. Allora meglio skippare sulla successiva "New Box", traccia che nel suo saliscendi chitarristico, sembra nascondere melodie mediorientali, comunque inserite in un contesto costantemente a cavallo tra psichedelia e rock progressivo. Citavo poc'anzi delle atmosfere fumose, sarebbe stato ancor meglio affibbiarle a questa "Smoke Room", song dal ritmo ovviamente assai lento, in cui le chitarre sembrano lanciarsi in improvvisazioni e rincorrersi tra loro mentre eleganti percussioni creano un substrato dal forte sapore blues. A chiudere 'Immersion', ecco "First Train" altri sette minuti abbondanti di suoni tenui ma al contempo palpitanti, complice l'utilizzo di una effettistica che sembra evocare l'utilizzo del mellotronin una traccia da vaghi richiami jazz che completa un disco ambizioso, non di facilissima presa ma sicuramente affascinante per mille motivi. (Francesco Scarci)

mercoledì 7 ottobre 2020

Jack Ellister – Lichtpyramide

#PER CHI AMA: Psych/Kraut Rock/Kosmische Musik
Jack Ellister è un artista difficile da catalogare, l'unica cosa che possiamo affermare è che la sua passione per la psichedelia è molto radicata e che le sue composizioni, seppur orientate sempre verso una calma apparente, sono visionarie, appassionate e allucinogene. Certo, non che tutto sia alla portata di tutti, certe composizioni necessitano di un buon background di Kraut rock radicale, kosmische musik, soffice ambient folk dalle tinte calde e colorate ("D.A.E.L." è un buon esempio), elettronica retrò e futurista. 'Lichtpyramide' è il seguito di 'Lichtpyramide 2' uscito qualche mese prima e punta la sua voce nel valore assai sperimentale della sua musica, con brani corti, fraseggi veloci, bozze di idee per un vortice multicolore di poliedricità compositiva. Una morbida colonna sonora acida, minimale ed accompagnata dalla voce narrante di Jack, proveniente da un'altra dimensione, per un'insieme di articolazioni sonore che saranno attrazione solo per i veri ossessionati cultori di psichedelia evoluta ed estrema, nel senso più astratto ed allucinato del termine. Come il trip mentale che attraversa la barrettiana, "You've Only To Say The Word" o il mantra sprigionato dalle note di "Festtagszug" ai confini con i lidi meno ritmati e più ipnotici del debut degli Ash Ra Tempel e di 'In Den Gärten Pharaos' dei Popol Vuh. Anche le sperimentazioni chitarristiche di Manuel Göttsching, come il folk acido dei 60's e lo shoegaze, giocano un certo ruolo nei brani di Ellister, che si conferma un grande conoscitore dei generi fin dagli arbori. Scritto, suonato e registrato in solitudine nel suo Bedroom studio, questo album ha una buonissima qualità sonora ed il formato vinile e digitale porta brani in più e alcune variazioni dalla forma in cd distribuita dalla Tonzonen Records/Fruits de Mer Records. Direi che l'artista londinese con questa ultima uscita, evolve naturalmente il proprio sound, nato dall'amore viscerale per Syd Barrett e portato avanti con caparbia, tenacia, sicurezza e ottime capacità esecutive in una forma decisamente più astratta, tralasciando la forma canzone classica per buttarsi a testa bassa in un calderone di suoni ed esperimenti ipnotici decisamente affascinanti e suggestivi. 'Lichtpyramide' alla fine è un disco interessante e pieno di ottimi spunti, ovviamente per veri e soli amanti della psichedelia più radicale. (Bob Stoner)

(Tonzonen Records/Fruits de Mer Records - 2020)
Voto: 71

https://jackellister.bandcamp.com/album/lichtpyramide-album

venerdì 25 settembre 2020

Queen Elephantine - Tribute to Atrophos Vol I

#PER CHI AMA: Avantgarde/Psych/Jazz
Il Covid-19 è tutt'ora fonte di grande dolore ma è stato anche innesco di diverse opere artistiche (libri, dischi, cortometraggi). I Queen Elephantine sono tra quelli che hanno sfruttato il momento di difficoltà proponendo i rilascio di nuovi EP in formato digitale. Il collettivo di Hong Kong, originario però dell'India e con base oggi a Philadelphia, ha rilasciato ad aprile, nel pieno della prima ondata di coronavirus, il cui presente 'Tribute to Atrophos Vol I', primo (di tre?) EP votati all'improvvisazione totale. Li avevamo lasciati sul finire del 2019 alle prese con 'Gorgon', li ritroviamo oggi più stralunati che mai con quattro nuovi eterei pezzi che miscelano casualmente psych e kraut rock, avanguardistico, jazz, drone e stoner con un'alchimia sciamanica misticheggiante. Questo almeno quanto trasmesso dalla trascendentale opening track, "I Alone Am Right", che per undici minuti entra nel mio cervello e con la sua infima retorica cervellotica, insidia i pochi neuroni residui nella mia materia cerebellare, con un sound lisergico e desertico. Ancor più complicata "I Am Left Alone", proprio perchè sa di jam session a tutti gli effetti, quasi che il collettivo indiano si sia messo li un angolino a strimpellare in attesa di far uscire le idee migliori da registrare. Quindi, non è il caso di aspettarsi nulla di travolgente visto che si tratta di pura improvvisazione dettata dalla noia che sembra per lo meno cresca in intensità perchè si è trovata la giusta chiave per costruire una song. E anche con le seguenti "Surfacing" e "Sunk", il canovaccio della estemporaneità non cambia. La prima delle due song ha un andamento oscuro quasi dronico, bloccato in un ipnotico loop di chitarra astrale. La seconda invece è più noise rock oriented (sebbene qualche accenno in sottofondo alla musica indiana), con chitarra e batteria lasciate come cani sciolti a cazzeggio per quattro minuti di puro divertimento. (Francesco Scarci)

domenica 24 maggio 2020

Smokemaster - S/t

#PER CHI AMA: Psych Rock
Gli Smokemaster arrivano dalla Germania, più precisamente da Colonia, con l’evidente missione di rendere felici tutti gli amanti del rock psichedelico e delle sonorità valvolari. Diciamolo subito: la passione per questo genere sembra davvero intramontabile, malgrado sia impossibile negare che il filone, sfruttato da un’infinità di formazioni provenienti da ogni parte del globo, abbia ormai esaurito la sua capacità di offrire materiale innovativo o, quantomeno, che non guardi costantemente al passato. Questi cinque ragazzi teutonici ne sono evidentemente coscienti e hanno costruito ciò che si rivela senza mezze misure un disco per nostalgici: si passa dal pezzo strumentale in stile My Sleeping Karma (per altro connazionali) “Solar Flares”, che ci stuzzica con le sue suggestioni kraut-rock, allo stoner-blues scuola Orange Goblin di “Trippin’ Blues”, mentre la lunga “Ear of the Universe” pesca a piene mani dall’hard-rock anni settanta, con tanto di organo hammond d’ordinanza e persino un’armonica ad enfatizzare il gusto retrò. Il lato B dell’album ripercorre grosso modo l’andazzo del precedente con l’aggiunta dell’escursione country di “Sunrise in the Canyon”; a spiccare sono però “Astronaut of Love”, brano mosso dal pulsante giro di basso e genuinamente stoner-rock, e “Astral Traveller”, divertente cavalcata psichedelica dalle intriganti ritmiche di batteria, infiniti solo di chitarra e liquidi effetti elettronici che si disperdono nell’etere. 'Smokemaster' è un ascolto piacevole e un ottimo compagno tanto per eventuali trip verso l’ignoto quanto per le lunghe e non sempre facili giornate che stanno caratterizzando il periodo del suo rilascio. È però un disco che si mantiene ostinatamente nella sicura ombra di opere del passato e rivolto ad una platea ben precisa, mentre per lasciare il segno occorrerebbe qualcosa di più. (Shadowsofthesun)

(Tonzonen Records - 2020)
Voto: 61

https://smokemaster.bandcamp.com/

martedì 17 marzo 2020

Salmagündi - Rose Marries Braen (A Soup Opera)

#PER CHI AMA: Avantgarde/Krautrock/Noise Jazz
Ottima seconda uscita per questa band proveniente dalla provincia di Teramo che ci inebria con un album dal contenuto eclettico e variegato, classificabile solo con la dicitura avantgarde. Provate ad immaginare suoni new wave, sintetici e astratti a la The Residents mescolati all'ultra psichedelia rock dei 500 Ft. of Pipe, un sarcasmo zappiano, un post punk trasversale con una voce salmodiante a metà tra Jim Morrison ed il canto gotico dei Bauhaus, dei synth cosmici, krautrock e follie soniche alla Mike Patton e i suoi Mr. Bungle, per avere lontanamente idea del miscuglio ben generato e ragionato e con effetto molotov di questi Salmagündi, band raccomandata per appassionati di musica cerebrale, schizoide, senza confini nè limiti. I riferimenti sonori sono molteplici e ci si diverte parecchio durante l'ascolto di 'Rose Marries Braen (A Soup Opera)' nel cercare le connessioni con le varie influenze. Detto questo, bisogna ammettere che la band abruzzese, nelle sue evoluzioni strutturali progressive, ha un potenziale di originalità assai elevato e, a discapito di altre band sperimentali, i Salmagündi (il cui significato la dice lunga sulle intenzioni della band - trattasi infatti di una ricetta gastronomica franco-inglese, il salmigondis, che prevede un miscuglio o un mix di ingredienti eterogenei), nonostante la complessità dei brani, si lasciano ascoltare con facilità ed un certo interesse in quanto sono atipici e fantasiosi (l'organico è composto da un synth, due bassi, batteria) e con composizioni storte e intelligenti, mai improntate sul mero virtuosismo, semmai atte a sguinzagliare l'estro creativo dei musicisti, che ripeto, sono assolutamente senza barriere e confini strumentali. Il quartetto si sposta infatti in continuazione tra le note di un brano e l'altro, facendo apparire l'album come un viaggio multicolore, stralunato e folle, per raccontare la storia del pazzo mondo di Braen (un personaggio da Carosello, quel vecchio programma televisivo in onda tra il '57 ed il '77), arrivando a toccare vette di noise-jazz istrionico, come in "Cheese Fake" o "Cockayne". In altre composizioni invece, i nostri assumono tempi lenti e funebri, con il jazz di matrice zappiana, il rock in opposition e quella gradevole goliardica verve teatrale che ritroviamo anche nel disco capolavoro, 'Primus & the Chocolate Factory With the Fungi Ensemble" e che consentono ai nostri di scardinare definitivamente la supposizione che quest'ottimo gruppo rientri nella normalità. Un ascolto obbligato, per veri intenditori! (Bob Stoner)

venerdì 14 febbraio 2020

Palmer Generator/The Great Saunites - PGTGS

#PER CHI AMA: Psych/Kraut Rock
Un anno e mezzo fa mi ero preso la briga di recensire 'Natura' dei Palmer Generator. Oggi ritrovo i nostri in compagnia dei lombardi The Great Saunites, per uno split album di un certo interesse in ambito psych acid rock strumentale. La family band marchigiana apre con un paio di tracce da proporci, "Mandrie" pt 1 e 2. La prima delle due mostra la rinnovata attitudine post-rock della famiglia Palmieri con un sound che strizza l'occhiolino agli americani *Shels. La song ammalia per le sue venature psichedeliche mentre la sua seconda parte stordisce per quell'incipit noise rock sporcato però da ulteriori influenze che chiamano in causa i Pink Floyd, in quel basso pulsante posto in primo piano e quelle ridondanze lisergiche che non fanno altro che ammorbarci ed infine ipnotizzarci. La song scivola via eterea, liquida, quasi dronica in un finale dai lunghi svolazzi siderali e caratterizzata da un impianto musicale che non fa che confermare quanto di buon avevo avuto apprezzato in occasione di 'Natura'. È il momento dei The Great Saunites e della lunghissima "Zante", quasi 18 minuti di psych kraut rock di stampo teutonico. Il comun denominatore con i Palmer Generator risiede sicuramente in quella ossessiva circolarità dei suoni, visto che la pseudo melodia creata da quelli che sembrano strumenti della tradizione indiana, continua a ripetersi allo sfinimento tra un tambureggiare etnico-tribale, suoni elettronici assai rarefatti e sussurri appena percettibili, che ci accompagneranno da qui fino alla conclusione della song. Prima, quella che credo sia una chitarra, prova ad insinuarsi all'interno di questo avanguardistico ammasso globulare sonico generando un effetto a dir poco straniante. Ci prova poi il clarinetto di Paolo Cantù (Makhno, A Short Apnea) a innescare atmosfere tremebonde ed orrorifiche che fanno salire la tensione a mille, accelerando il battito cardiaco, e rendendo, ma non solo per questo, la proposta del duo lodigiano davvero interessante. Sebbene la musica non sia certo di facile presa, lo split album di Palmer Generator e The Great Saunites non fa che mostrare le eccelse qualità di una scena italiana in costante ascesa e di un rinnovato desiderio di competere con i mostri sacri internazionali. Ben fatto ragazzi. (Francesco Scarci)

(Bloody Sound Fucktory/Brigadisco/Il Verso del Cinghiale - 2020)
Voto: 74

http://palmergenerator.blogspot.com/
http://thegreatsaunites.blogspot.com/

venerdì 7 giugno 2019

Karakorum - Fables and Fairytales

#PER CHI AMA: Kraut Prog Rock, Marillion
Il pericolo numero uno per una prog band è sempre quello di scadere nel solito clichè di suoni e stereotipi legati al genere. Fortuna vuole, che ci sia un numero nutrito di band, che riescono, almeno in parte e in vari modi, a sfuggire, dalle grinfie del classico sentito e risentito. Una di queste band risponde al nome dei Karakorum, combo tedesco, ben affiatato, dotato di deliziose capacità compositive e strumentali. Arrivano in questi giorni al secondo full length, 'Fables and Fairytales', con un lavoro fresco e carico di adrenalina e fantasia, importanti doti che permettono al quintetto di Mühldorf, di stare in equilibrio tra passato e presente nel vasto universo della musica progressiva. Il lavoro è lungo e variegato, diviso in soli tre brani di media/lunga durata, con un suono praticamente perfetto: ottimi gli scambi stereofonici, assai belli da assaporare in cuffia, esemplare la tecnica dei musicisti. A dire il vero, avrei azzardato un design più carico sull'artwork di copertina per renderlo più intrigante e aggressivo, sul lato visivo, proprio per colpire di più la curiosità dell'ascoltatore. Il primo brano, "Phrygian Youth", si impone con un carattere moderno, molto rock oriented, dal tocco melodico di scuola ultimi Marillion e dalla vitalità tipica del suono degli Echolyn, senza dimenticare l'innovativo gusto retrò alla Anekdoten. Così, organo e chitarra fanno la gara per primeggiare su tappeti pulsanti e pause dal sapore kraut/jazz rock, il canto è decisamente sulla rotta di un rock emozionale che offre alla composizione una direzione inusuale e intelligente, mentre la coda del brano è una corsa strumentale psichedelica, dai mille colori, con un finale dai toni duri e drammatici. "Smegmahood" è il brano che rilegge la tradizione sulle tracce di mostri sacri come i Gentle Giant e Yes, qui rievocati con un'impronta canora a più voci, magistrale, studiata ad arte per caratterizzare la canzone, che già nella parte musicale si rivela come uno scrigno d'oro di innumerevoli fughe sonore e stravaganti intermezzi strumentali di memoria zappiana con divagazioni crimsoniane che mostrano quanto sia grande la cultura musicale di questi artisti, in assoluto il mio brano preferito. Non pienamente soddisfatti, i nostri cavalieri si lanciano in una nuova sfida alquanto dura, la composizione di un terzo brano dalle tinte cupe, con una veste iniziale, etnico mediorientale e una bella attitudine per la colonna sonora. Ventitrè minuti di luce e ombre all'insegna di una sperimentazione d'avanguardia che fu, anni or sono, campo di battaglia per band gloriose come Magma (epoca Köhntarkösz) e Art Zoyd e le intuizioni sonore più melodiche, sempre di casa Marillion, vicine alla forma del brano d'apertura. Per concludere, posso dire che 'Fables and Fairytales' è un ottimo disco, curato, ispirato e composto con stile, grazie a suoni caldi e avvolgenti, una bella produzione, che soddisfa anche i palati più fini del rock progressivo con una carrellata di stili variegata e convincente, un album che vale la pena approfondire con ripetuti ascolti proprio per godere al meglio la bellezza di questo lavoro, che si colloca decisamente al di sopra della media. Ben fatto! (Bob Stoner)