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sabato 11 novembre 2017

Gunash - Great Expectations

#PER CHI AMA: Alternative/Grunge
I Gunash nascono in Piemonte nel 2003 da un’idea del cantante e chitarrista Ivano L. Zorgniotti e del batterista Danilo Abaldo, la line-up si completerà poi nel corso del tempo. Gunash è un gioco di parole tra Ganesh (la divinità indiana con la testa d’ elefante), Gunas (le quattro fasi della materia in trasformazione dell’alchimia indiana) e le parole inglesi Gun (pistola) e Ash (cenere). Una contrapposizione importante tra religione e materialismo, due estremi che rappresentano il dualismo insito nella vita ma anche nella band piemontese. La discografia della band include il loro album di debutto alla fine del 2005 e pubblicato dalla New LM Records e 'Same Old Nightmare', un concept album uscito nel 2012 con la partecipazione di Rami Jaffee, tastierista che milita tra gli altri in Foo Fighters e nei The Wallflowers. Questo terzo album 'Great Expectations' è stato prodotto dalla GoDown Records proprio con Rami Jaffee come produttore (peraltro anche tastierista nella release), quindi un po' di hype è d'obbligo. Il sound dei Gunash è tosto, un mix tra grunge ed alternative rock come quello che si riscontra in "Need to Bleed", song che colpisce per la timbrica vocale che vagamente ricorda gli Offspring e la parte strumentale in stile Seattle anni '90. Roccia dura e polverosa, come il suo riff di chitarra, mentre la sezione ritmica accompagna gli stacchi solisti del vocalist per dare enfasi ai vari stop & go che spingono il brano verso un headbanging da rocker stagionato. La title track addolcisce i toni e ci regala una ballata rock coinvolgente, fatta di chitarre acustiche che s'intrecciano in modo armonioso, cori e assoli lisergici. A conferma che il grande rock non è solo ritmi serrati e riff distorti, ma anche un brano strumentale che si adatta ai vari stati d'animo di chi ascolta e assapora il momento. Dopo l'energia e l'autocontemplazione, arriva il momento più malinconico e rabbioso, ovvero "Mean", brano dal testo graffiante e beffardo, dove la band dà prova della sua bravura nella scrittura dei brani. I Gunash infatti riescono sempre ad unire melodia ed energia senza cadere mai nella banalità, grazie ad arrangiamenti e scelte stilistiche che partono dalle loro influenze, ma che sanno reinterpretare in maniera convincente.Un brano lungo, dinamico, che progredisce solido e vibrante verso la meta. Nota particolare va a "Gunash Blues", un traccia strumentale dal sapore mediorientale, dove sitar e percussioni etniche ci trasportano a miglia di distanza in luoghi carichi di storia e cultura. Nel corso del brano si aggiunge la sezione elettrica per una perfetta fusione tra tradizione e modernità. Una perla strumentale che travolge con il suo flusso melodico che scorre nelle vene come ritrovasse un antico sentiero tracciato nella notte dei tempi. Un album notevole, maturo e dal respiro internazionale, non solo per la produzione e la collaborazione citata in precedenza, piuttosto per lo spessore artistico della band e la loro convinzione nel voler fare musica di qualità. (Michele Montanari)

(GoDown Records - 2017)
Voto: 85

https://www.facebook.com/gunashband/

domenica 17 settembre 2017

One Eyed Jack - What'm I Getting High

#PER CHI AMA: Post Grunge, Alice in Chains
Se vi state (carverianamente) domandando di cosa si stia sballando il buon vecchio Jack lo Sguercio quando suona questo 'What'm I Getting High', a mettere le cose in chiaro ci pensa la affilata linea di chitarra assolutamente "goodmotorfinger" nei primissimi secondi dell'introduttiva "Primetime". Nel prosieguo, l'album incede con granitica lentezza, aggirandosi rispettosamente tra i (numerosi) fantasmi di Seattle. Tanti momenti di scuola Staleyniana ("Washyall", "Dog Fight", quasi tutta "Shitting Blood"), compresa la melancolica ballata mad-stagionale "Soon Back Home", tanto distante dagli Alice in Chains quanto il Nostro dalla realtà, nella seconda strafattissima metà degli anni '90. Fungono da estemporaneo contrappeso il tiro (s)groove di "Sgrunt" e l'abbrivio inaspettatamente new-w. di "Drama Shit". Produzione devota ai riferimenti musicali e al loro tempo, ma a tratti eccessivamente affogata ("Little Junior Finally Grew a Beard", per esempio). One Eyed Jack, il fante di picche, è anche il titolo dell'unico film diretto da Marlon Brando e il nome del casinò-bordello dove fu verosimilmente adescata Laura Palmer la notte del suo assassinio ne 'I Segreti di Twin Peaks' (non serviva neanche stare a specificarvelo). Nel caso ve lo steste (carverianamente) domandando. (Alberto Calorosi)

Voto: 65

Ok, passi il termine post grunge anche se in realtà non l'ho mai capito, passi il ponte con la scena di Seattle ammettendolo solo in piccola percentuale ma non mi si tirino in ballo i grandi nomi che la resero grande come Soundgarden o Alice in Chains che proprio il paragone non ci sta. 'What'm I Getting High On?' è un buon album dai risvolti vintage, prodotto uscito per il coraggioso collettivo FIL 1933 group, con buoni risultati e con discreta originalità se si guardano i trend rock del momento, con un pizzico di psichedelia che non guasta ma senza la rabbia che ha portato il sound di Seattle a creare una generazione di mitiche band disadattate. Quindi, bisogna guardare il combo bresciano da una prospettiva diversa. Le uniche band dell'epoca in questione che, per attitudine sonora possiamo accostare al gruppo lombardo, sono gli Smashing Pumpkins agli arbori e in parte i primi Afghan Whings, quelli meno famosi e passati inosservati per tanto tempo. La prospettiva giusta è da ricercare nella musica che precedette il movimento grunge, tutte quelle rock band che volevano creare alla fine degli anni ottanta/inizio novanta, qualcosa di nuovo, spostandosi dal solito rigurgito punk, fuggendo dalla new wave ed evitando il metal, band come i Mega City Four, i Dag Nasty, i primissimi The Flamming Lips, Catherine Wheel o Band of Susans, tutte band strabilianti ma poco comprese perché i tempi non erano ancora maturi per la loro venuta. Quindi, osservati da questa angolatura, gli One Eyed Jack, hanno un motivo serio di esistere e di essere apprezzati per il coraggio della loro proposta fuori dal tempo, radicale e originale, un attitudine tra hard rock, leggera psichedelia e rock alternativo, riveduta e corretta in termini odierni. Bravi musicisti e soprattutto coraggiosi a presentare un album simile a dispetto dei paraorecchie che ci sono in giro oggi. Interessanti, trasversali, prodotti egregiamente e non annoiano mai; anche se qualche brano potrà risultare derivativo ma nel totale sono molto carini all'ascolto. Niente rivoluzioni, solo un occhio intelligente al passato, un gran bel disco di rock alternativo e la voglia vera di fare musica senza condizionamenti modaioli. "Primetime", "Little Junior Finally Grew a Beard" e "Drama Shit" i brani più rappresentativi. Fatevi coinvolgere! (Bob Stoner)


Voto: 70

martedì 15 agosto 2017

Neo Noire - Element

#PER CHI AMA: Alternative/Grunge, Alice in Chains, Smashing Pumpkins
I Neo Noire (NN) sono un quartetto proveniente da Basilea, in Svizzera che qualche mese ha pubblicato 'Element', il loro album d'esordio. Dietro tutto ciò troviamo la Czar of Revelations Records e Raphael Bovey (GOJIRA) che hanno permesso l'uscita di questo lavoro in bilico tra l'alternative rock e il metal. La band stessa annovera tra le proprie influenze Smashing Pumpkins e Jane’s Addiction, ma diverse altre contaminazioni si percepiscono ascoltando le otto tracce del disco. "Save me" è una canzone che porta con sé il bagaglio grunge del quartetto, con l'atmosfera che richiama molto gli Alice in Chains e gli Stone Temple Pilots più oscuri e malinconici. Nei quasi sette minuti di esecuzione, l'esortazione a salvare il protagonista si poggia su riff potenti e penetranti che cercano una via di riscatto con le accelerazioni e il ritornello. Il break psichedelico ci mostra il lato lisergico della band e l'assolo di chitarra allunga il brano senza renderlo monotono e regalando una variazione sul tema. Cambiamo traccia e sound con "Shotgun Wedding", canzone più sostenuta con una sezione ritmica che pulsa, dove il basso è ben amalgamato nel mix sonoro e la batteria è registrata in modo eccellente. Una classica cavalcata hard rock/metal che si fa spazio con allunghi e stop&go per modulare al meglio il suo svolgimento, invece il ritornello è assai orecchiabile e raggiunge l'obiettivo di scavarsi una nicchia nel nostro cervello. Il vocalist/chitarrista convince su tutti i fronti, ha una timbrica grintosa e matura di chi persevera nel rock da sempre, nonostante stili e generi diversi si siano accavallati negli ultimi tempi, l'estrazione anni '90 è solida come il granito. A metà album troviamo "Element" e non si può che confermare l'influenza della band capitanata da Billy Corgan, quella del periodo 'Siamese Dream', per capirci. Questo si concretizza dal cambio di stile del cantato e dagli arrangiamenti più soffici ed eterei tipici delle ballate prodotte dalla band di Chicago. Un cambio che spiazza in principio, ma si amalgama abbastanza bene grazie ai giri di chitarra che si destreggiano bene in entrambi gli stili mantenendo una proprio identità. Un brano facile, che con il suo crescendo risulta piacevole e di più facile assorbimento, ottimo modo per accontentare anche ascoltatori dediti a melodie più soft. "Neo Noire" sposta l'ago della bilancia verso lo stile più graffiante e introspettivo dei NN, infatti il brano convince per la struttura alquanto semplice, ma con arrangiamenti studiati nel minimo dettaglio a confezionare una song che scorre fluida senza infamia. Un debut album solido, ben fatto e che porta tutto il bagaglio musicale di una band maturata in altri progetti e che si ritrova ancora ad amare il rock e volerlo suonare davanti ad un pubblico che condivide la loro stessa passione. Da prendere ed ascoltare senza controindicazioni. (Michele Montanari)

(Czar of Revelations - 2017)
Voto: 75

https://neonoire.bandcamp.com/album/element

lunedì 1 maggio 2017

CRNKSHFT - S/t

#FOR FANS OF: Heavy/Hard Rock/Post-Grunge, Alice in Chains, Pantera
I’ve to admit that my first impression of CRNKSHFT wasn’t the best. Not only because of the no-vowels all-caps stupid-looking monicker, my inability to guess the correct pronunciation (“Crankshift”? “Crunkshift”?), or the album cover, which reminds me too much of something that Five Finger Death Punch would come up with, but also the fact that they mention groups like Shinedown, Godsmack, and other butt rock bands I totally despise as influences. But some people say you don’t have to judge a book by its cover, or a band by the way they chose to present themselves, and CRNKSHFT manage to overcome my prejudices, most of them created and developed by years of liking to talk a lot about things I don’t like, with their debut EP. Not sounding that much like the aforementioned bands, or at least not in the way I use to remember them, this Canadian group delivers four songs of good “modern” hard rock, with heavy guitars and catchy choruses. Instrumentally, they sometimes remind me of the rockier Metallica, and the vocals sound in-between Alice In Chains and the typical post-grunge “clean growls”. Without being mindblowing in any shape of form, I never wanted to skip any of this songs while I was listening to them, which is a lot more than what I can say about any fucking Puddle of Mudd song. If I had to pick a favorite, “Breaking The Silence” would’ve been played to death at Mtv, and the catchyness of “Tears Me Apart” is really hard to miss. The mixing and production are great, very professional without sounding overproduced. There are some things to improve, obviously: CRNKSHFT don’t seem very interested in taking many risks, with the songs being a little samey-sounding in repeated listens. And sometimes they come as a little over-dramatic, although their subtly socially conscious lyrics makes it a little more palatable than with other bands of the same style. Overall, CRNKSHFT’s self-titled debut EP is a pleasant surprise. I’d recommend it to anybody who likes any of the aforementioned bands. And if you don’t like them, you can listen to it and rock some tunes without any guilt. (Martín Álvarez Cirillo)

(Self - 2017)
Score: 70

https://soundcloud.com/crnkshft

domenica 2 aprile 2017

Chaos Being - S/t

#PER CHI AMA: Stoner Rock/Grunge, ultimi Metallica, Cathedral
I Metallica con i primi tre album hanno fatto scuola a decine, forse centinaia di band, cresciute a pane e 'Master of Puppets'. Poi si sa, i quattro cavalieri di Frisco hanno imboccato una via diversa, più alternativa e contaminata da altre sonorità. Chi come il sottoscritto pensava che un album come 'St. Anger' non avrebbe mai rappresentato fonte di influenza per le generazioni a venire, dovrà ricredersi. Basti ascoltare infatti "Don't Understand", traccia numero due (dopo l'intro) del debut album dei milanesi Chaos Being, per capire come il quartetto meneghino abbia nelle proprie corde gli ultimi insegnamenti di James Hetfield e compagni. Parlo qui di un utilizzo di chitarre e soprattutto batteria che evocano inequivocabilmente uno degli album più controversi dei The Four Horsemen, anche se l'impostazione vocale ricorda quella del James di 'Kill'em All'. A chi pensa che la traccia sia una mera scopiazzatura degli illustri colleghi statunitensi, si ascolti il finale quasi western di questa coinvolgente song. Quando con curiosità mi avvio all'ascolto di "Sway", ecco che lo scenario cambia, si fa più mutevole, rimbalzando tra lo stoner dei Cathedral, una vena punk ed un hard rock di zeppeliana memoria, con la voce del buon Riccardo che emula sempre quello del frontman dei Metallica. Con "Oblivious" entriamo nei meandri di un suono più psichedelico che strizza l'occhiolino addirittura a sonorità grunge, anche se il suono non è proprio pulitissimo e c'è ancora da fare qualche aggiustamento. "J" colpisce per le sue chitarre in preda a una dose di LSD, ad un suono più compassato e ad un chorus assai catchy. Un riffing più thrash oriented apre "Listless" e qui riemergono le influenze dei Metallica nella loro versione di coverizzatori all'epoca di 'Garage Inc.', un po' rock, un po' thrashettoni, un po' punk. Cosi si muovono i nostri, ripercorrendo la strada aperta da Diamond Head, Blitzkrieg, Misfits e Black Sabbath. Siamo arrivati nel frattempo alla title track, una song strana che abbina la schiettezza di un suono dritto, a dei cori un po' difformi e ad una successiva fase assai ritmata che si chiude in un epilogo punk, chiaro no? Nel finale, la classica outro che chiude un album dai suoni controversi, sulla strada dei loro maestri... (Francesco Scarci)

(Self - 2016)
Voto: 65

venerdì 31 marzo 2017

Dinosaur Jr. - Give a Glimpse of What Yer Not

#PER CHI AMA: Psych Rock
Se ancora non vi siete stufati, ritroverete quel ruvido fuzz-chitarrismo ormai giurassico (junior) e quell'inconfondibile melanconismo rauco alt-prepensionistico da nonno freak (poco) carino e (evidentemente non) disoccupato. Il songwriting di J Mascis è tuttora fervido di consolidate ed elementari melodie domestiche eppure moderatamente avvincenti (dappertutto, ma soprattutto nelle iniziali furbette "Going Down" e "Tiny") e passaggi chitarristici tra il buono ("Be a Part") e l'ottimo ("I Walk for Miles"). Insolitamente all'altezza i due contributi del riottoso gregario Lou Barlow (soprattutto "Love is..."). Se ancora, dopo tutti questi anni, il vostro morbido cuoricino di flanella fa tum-tum quando passano in radio i figliocci prodighi Dave Grohl e Morgan Shaun, allora ascoltatevi questo disco e poi sparatevi tutta la prima serie di Friends in DVD. Probabilmente non vi ricordavate che Lisa Kudrow fosse così carina, nella prima stagione. (Alberto Calorosi)

(Jagjaguwar - 2016)
Voto: 75

http://www.dinosaurjr.com/

lunedì 13 marzo 2017

Monolith Wielder - S/t

#PER CHI AMA: Stoner Rock, Kyuss
Argonatua Records è un vascello carico di merci pregiate in rotta verso l’aldilà. E questa volta, tra le sue mille scorribande, è riuscita ad accaparrarsi questi fantastici stoners desertici, i Monolith Wielder. Al solito la grafica del disco è la prima cosa che salta all’occhio ed in questo caso le immagini introducono adeguatamente la musica. Una processione di figure incappucciate che avanzano in linea retta nel deserto all’ombra di una pigra collina oscura. Non ci è dato sapere per quale motivo queste anime si trovino in quel luogo, potrebbe essere la loro dimora oppure potrebbero essere intenti ad un rito di magia nera o ancora potrebbero essere in fuga da una rovinosa catastrofe e ora quindi vagano senza meta nel deserto, assetati di vendetta. Saltando dall’immagine al suono, la fantasia non smette di correre sorretta dalle sapienti mani del quartetto di veterani della scena stoner di Pittsburg. L’incipit “Illumination” pone le fondamenta per le altre nove monolitiche tracce con i suoi suoni dalle tinte marroni e dagli angoli spigolosi, con la voce roca e graffiante di Gero (no, non è il big boss di Argonauta, ma solo un caso di omonimia) e con le ritmiche minimalistiche ed irriducibili di Ben. Viaggiando tra le composizioni compatte, ostinate e piene di energia si possono ammirare interessanti influenze primitive che sembrano scendere dall’alto dei cieli dove sta 'Welcome to Sky Valley' oltre che per una stretta vicinanza al timbro vocale dell’imperatore King Buzzo. Per di più qualcosa mi fa pensare che senza l’influenza dei Motorhead, questa band non sarebbe mai esistita. Il pezzo da non perdere è sicuramente quello che porta il nome della band e del disco che, caratterizzato da un lirismo audace che tocca addirittura riferimenti biblici nel verso “You will deny me three times before sunrise” , porta un messaggio forse un po’ difficile da leggere tra le righe ma sicuramente significativo. Il messaggio che percepisco io è che la canzone sia una sorta di incantesimo per liberarci dall'immotivata vergogna di essere ciò che si è e di affrontare la paura senza passi indietro e rialzandosi sempre. I testi non sono una cosa lasciata a se stessa in questo lavoro, le parole sono scelte con uno spiccato gusto per il mistero e per le sonorità aspre. È inoltre evidente la propensione poetica ed ermetica che raggiunge il suo apice nel testo dell’ultimo pezzo, una poesia ombrosa e profetica sulla discesa di un certo Hellion dagli zoccoli pesanti che firma il suo passaggio con scie di sangue e violente carneficine. Questo è un disco da ascoltare quando mancano le energie e le motivazioni, quando tutto sembra un immenso deserto senza fine, i Monolith Wielder sanno perfettamente dove si trovano le oasi di acqua limpida e, prestandogli ascolto, anche l’ascoltatore potrà dissetarsi e proseguire per il proprio cammino. (Matteo Baldi)

(Argonauta Records - 2016)
Voto: 75

https://monolithwielder.bandcamp.com/releases

sabato 4 marzo 2017

Stellar Temple - Domestic Monster

#PER CHI AMA: Post Grunge, Alice in Chains
La scena rock francese si è arricchita di una nuova band alla fine del 2013, quando Thomas e David, già militanti in altre formazioni, decidono che è il momento di dare scacco alla noia e rispolverare il vecchio rock anni '80-90 alla ZZ Top e Billy Idol, fondendo hard rock, stoner e un po' di blues in questi Stellar Temple. I due amici recuperano quindi altri due elementi e il quartetto è pronto per scrivere il primo album, 'Domestic Monster', uscito a Maggio dell'anno scorso per la New Deal Music. I brani sono dieci e mantengono la promessa di voler riproporre la musica di trent'anni fa vestita a festa col chiodo della domenica e catene annesse. Il digipack è ben fatto con cartoncino pesante che dà un senso di qualità, mentre nella grafica predomina il rosso e ci svela qual è l'animale domestico protagonista dell'album. "Overture" apre senza tanti convenevoli, come una bella testata sul naso al primo stronzo che ti taglia la strada, con il mood piacevolmente thrash metal con riff belli taglienti. Interessante la ritmica stoppata che insieme a basso e chitarre, sembrano imbrigliare una potenza inaudita che deve essere tenuta a bada per non travolgere tutto e tutti. "Fucking Miles Away" è la naturale evoluzione del brano precedente, dove finalmente la band si può sfogare in allunghi veloci e arrangiamenti potenti quanto melodici. Trova posto anche un brevissimo stacco di basso distorto che fa da starter in una gara di cani da corsa con la bava alla bocca per quanto sia incontenibile la voglia di correre. Il vocalist mette in chiaro di che pasta è fatto, gran timbrica, perfetta, anche nella pronuncia inglese, bravissimo a destreggiarsi in questo brano hard rock. A questo punto i Stellar Temple lasciano per un po' la loro parte da bravi ragazzacci e si addentrano in atmosfere morbose che ricordano il grunge oscuro dei Soundgarden anni '90. I beat si abbassano e le chitarre si affidano a giri armonici che ci scaraventano sulle rive del Mississipi mentre il sole soffocante ci fa colare il sudore sugli occhi. Nonostante il brano suoni un po' old school, la band francese si affida a suoni meno vintage per forgiare un sound potente e granitico. Anche "Rumors" ha lo stesso feeling, forse più simile agli Alice in Chains, pure troppo in certi momenti. Il cantante si lancia in fraseggi ruvidi e potenti mentre gli altri strumenti puntano su linee melodiche e ritmiche costanti. Immancabile l'assolo di chitarra finale che racchiude anni i di rock genuino senza tanti fronzoli, se non qualche sample elettronico nella coda che chiude il pezzo. Non posso non menzionare "Helly Days", altro brano ben fatto che si porta dietro contaminazioni orientali probabilmente proposte solo nella versione studio, ma apprezzabili ed equilibrate. Lo stop centrale è potente e propone un mix di suoni moderni e di altri tempi, dimostrando la voglia degli Stellar Temple di fare qualcosa di diverso e personale. Devo dire che aspettandomi uno dei soliti gruppi rock con grosse influenze stoner, mi sono sorpreso a scoprire una band assai brava e con vedute più ampie. Dopo anni di attività ci sono ancora musicisti che si mettono in gioco e sudano sangue per confezionare un album di spessore come questo 'Domestic Monster'. Complimenti e chapeau! (Michele Montanari)

(New Deal Music - 2016)
Voto: 85

martedì 29 novembre 2016

Less Than a Cube - S/t

#PER CHI AMA: Indie/Noise Rock/Grunge, primi Alice in Chains
Ascoltando per la prima volta questo disco, lo si potrebbe facilmente attribuire ad una qualche band americana, basata tra New York e Chicago, e non credo di andare troppo lontano dalla realtà pensando che questo potrebbe essere un gran bel complimento per i Less Than a Cube, che di nome fanno Fabio Cubisino (chitarra e voce), Alessia Praticò (basso e voce) e Alessandro Mautino (batteria) e vengono invece da Torino, Italia. Quest'album omonimo è il loro esordio e appare evidente come i tre siano riusciti a riversare in queste 9 tracce tutto il loro amore per quanto di meglio il rock americano abbia prodotto negli ultimi 25 anni, dal noise rock di stampo Touch & Go al grunge e al post rock, con un occhio però sempre ben puntato sulla forma canzone. In poco più di 40 minuti sono condensate le inquietudini nevrotiche dei Come (nell’opener "Monovolt"), la solennità sgraziata degli Afghan Whigs ("Not Forget", cantata ottimamente da Alessia Praticó), ma anche gli umori metropolitani degli Interpol (la solenne e marziale "Revolution"). In generale, il vero punto di forza del disco è un songwriting di tutto rispetto, solido e umorale, scuro e uggioso come l’immagine di copertina, ma sempre centrato, tanto è vero che nessuno dei brani in scaletta ha il sapore del riempitivo ma anzi ogni canzone è in grado di reggersi bene in piedi sulle proprie gambe, basti pensare alla drammatica e scurissima "Night Song", percorsa da un violoncello che la scuote e la fa vibrare dal primo all’ultimo istante dei suoi oltre 7 minuti, oppure alla splendida "Blue Grass", vicina a certe cose dei Dinosaur Jr, che ospita la chitarra di Amaury Cambuzat (Ulan Bator), da sempre vicino alle realtà più vitali della nostra penisola. Disco prettamente “chitarroso”, molto convincente anche se non privo di difetti (veniali), soprattutto nella produzione (qualcosa da registrare nel missaggio di alcuni brani) e nel cantato (non sempre perfettamente centrato), che stanno al limite tra scelte volutamente lo-fi e il rischio di un risultato un po’ sciatto, imputabili però più che altro all’inesperienza. In definitiva un lavoro di ottimo livello, e una band da tenere d’occhio per sviluppi futuri che potrebbero essere estremamente interessanti. (Mauro Catena)

sabato 3 settembre 2016

Bear Bone Company - S/t

#PER CHI AMA: Hard Rock, Black Label Society
I Bear Bone Company (BBC) sono un power trio svedese formatosi quattro anni fa e solo l'anno scorso si sono lanciati nel vasto mondo discografico con questo Self titled album. I tre ragazzotti non hanno più vent'anni e la loro maturità musicale si sente tutta, un concentrato di rock duro e crudo, sanguigno e immediato, come si faceva un tempo. Le dodici tracce sono ben bilanciate, arrangiate con cura e potenti come ci si aspetta da questo genere, basti ascoltare la opening track "Fade". È una cavalcata veloce e cadenzata, con riff classici che ci portano indietro di quindici-vent'anni e fanno l'occhiolino ai Black Label Society e company. Il vocalist si fa notare sin da subito per la sua ottima estensione vocale, lanciandosi in acuti che farebbero impallidire una vocalist femminile. Alcune influenze grunge portano a galla i gusti retrò della band, come in "Kiss N Tell" che sulla falsariga degli Alice in Chains o STP, si sviluppa in aree più heavy. Il chitarrista (nonché cantante) mette in piazza i suoi studi, con accelerazioni e rallentamenti, il tutto condito da un bell'assolo che scalda le corde fino a farle divenire incandescenti. La band si cimenta anche in brani più lenti, "Down in Flames", trovandosi a proprio agio, anche se gli arrangiamenti avrebbero voluto qualcosa di meno scontato. Per fortuna l'enseble di Örebro non hanno voluto opprimerci con la solita ballata che spesso le band includono per accontentare tutti, quindi rendiamo grazie al trio svedese. Traccia dopo traccia, tutto scorre fluido, forse troppo, nel senso che nonostante il livello generale sia più che buono, si rischia di cadere in uno stato catatonico per una certa mancanza di stimoli. Questo rischio aumenta se non amate il genere, oppure se lo avete lasciato da parte da un po'. L'esordio dei BBC è buono ed essendo una band matura non aspettiamoci evoluzioni particolari, ma facciamo tesoro del buon rock che questo trio scandinavo può regalare ora ed in futuro. (Michele Montanari)

(Sliptrick Records - 2015)
Voto: 65

mercoledì 31 agosto 2016

Bone Man – Shapeshifter

#PER CHI AMA: Psych Stoner/Grunge
Album uscito ormai quasi da un anno, questo dei Bone Man, trio basato a Kiel nel nord della Germania, ma di cui sarebbe davvero un peccato non parlare. Si tratta infatti di un lavoro oltremodo affascinante, che prende le mosse da un hard-psych influenzato tanto dallo stoner dei Kyuss quanto dal grunge di Seattle, nel quale si respira un ché di viscerale, una rabbia ancestrale che sembra affondare le proprie radici in oscuri culti nordici e che riesce a conferire al disco una magia tutta particolare. È una musica tutto sommato semplice, quella dei Bone Man, in cui gli ingredienti sono pochi, ben riconoscibili ma dosati sapientemente. Le chitarre macinano riff oscuri e si lasciano trasportare spesso da impeti psichedelici che rimandano sovente agli Screaming Trees, la ritmica è tonante e precisa e la voce davvero bella e affascinante, dotata di una pasta grumosa, un timbro cavernoso e potente che ricorda in qualche modo Glenn Danzig. Quello che fa la differenza, come sempre succede, sono le canzoni. E qui ce ne sono di davvero belle e memorabili. La tripletta iniziale, per esempio, è fenomenale: la title track e "Bad Fashion" sono ottimi esempi di quell’effetto selvaggio e soprannaturale che i tre riescono a conferire ad un genere che non avrebbe più niente di nuovo da dire. Allo stesso modo "The Wicker Man" è un trascinante capolavoro che riesce a porsi al di fuori dal tempo e ricorda in qualche modo i canti dei pirati del settecento. Il resto del programma non delude e riesce a mantenersi su livelli di eccellenza pressoché costanti fino alla fine. Una splendida sorpresa, un disco dalla bellezza solenne e selvaggia da ascoltare a ripetizione e custodire gelosamente, in attesa di un seguito che, stando ai rumors, non dovrebbe farsi attendere molto a lungo. (Mauro Catena)

(Pink Tank Records - 2015)
Voto: 75

https://bonemankiel.bandcamp.com/album/shapeshifter

venerdì 15 luglio 2016

Mallory - Sonora R.F. Part 1

#PER CHI AMA: Rock/Grunge/Blues
Avevamo lasciato i Mallory a marzo dello scorso anno, quando il quartetto parigino ci aveva fatto pervenire il precedente lavoro '2'. Oggi abbiamo tra le mani il nuovo 'Sonora R.F. Part 1' e devo dire che è già qualche settimana che gira in loop nella mia auto, il posto migliore per godere appieno dei Mallory e della loro musica on the road. La band era matura allora e un altro passo in avanti è stato fatto con quest'album, mantenendo quel loro mix personale di rock, grunge e blues. Ad un primo ascolto, le atmosfere sembrano essersi incupite ulteriormente, in realtà molte tracce hanno un'alta capacità introspettiva, unita ad una malinconica dose di rabbia, come in "On The Shelf". Dopo un'intro parlata in castigliano, le chitarre si sporcano di polvere, la ritmica lenta tiene le redini, ma non cela perfettamente quella collera mascherata da tristezza ed accidia. Una ballata grunge come non si sentiva da anni, interpretata perfettamente dal vocalist, a cui dobbiamo riconoscere una timbrica pressoché perfetta. In "Zero" scatta qualcosa nei Mallory che ora cantano in francese, mentre le melodie di basso e chitarra si fanno nervose grazie alla batteria che scandisce accenti come un profeta inascoltato. Il crescendo non si fa attendere, ottima l'esplosione che non necessita di distorsioni estreme e si affida ad un unisono di suoni ed esecuzione. La scelta della lingua francese potrebbe rivelarsi rischiosa, tuttavia è stato fatto un ottimo studio delle metriche che qui calzano a pennello. Rimane solo il dubbio che il testo non sia uscito così spontaneamente, comunque onore ai Mallory. In "Shu", l'influenza dei vecchi Pearl Jam si fa sentire, ma la band riesce a tirar fuori qualcosa di buono da un semplice classico giro armonico. Consapevoli di ciò, il quartetto ha finito egregiamente i compiti per casa in termini di suoni (difficile non riconoscere la timbrica del single-coil della Fender) accostata ad un'interpretazione che esprime al meglio lo struggimento di una generazione che va per i quaranta ma si sente ancora tradita da una società in cui non si rispecchia. Anche "Silex" segue il medesimo filone e si incastra perfettamente nelle note di questo 'Sonora R.F. Part 1' che probabilmente è stato pensato e suonato nell'ottica di un concept album. I suoni ruvidi ma curati di chitarra si abbinano perfettamente alla timbrica vellutata del basso, a creare un ipotetico amplesso sessuale coronato dalla voce sempre graffiante del frontman con le ritmiche che si rivelano semplici e variopinte. Il gran equilibrio dei Mallory sta nel regalare un'accelerazione nel momento giusto in cui la si desidera, lo stesso vale quando i nostri decidono di abbassare i toni per dare maggior risalto al cantato o alle melodie intimistiche, che svolgono un ruolo importante nel tessuto sonoro dell'act transalpino. Un gran bell'album, forse non una vera evoluzione verso un obiettivo ben definito, ma un'altra tappa sulla loro personale mappa che ha bordi sfuocati come quelli di una vecchia foto. A dimostrazione che abbia più importanza il viaggio che la meta, siamo felici di seguire i Mallory e portare la loro bella colonna sonora nella nostra vita di tutti i giorni. Che tu abbia venti, quaranta o sessant'anni... (Michele Montanari)

mercoledì 6 aprile 2016

Pearls Before Swine – Lay the Burden Down

#PER CHI AMA: Grunge/Stoner, Alice in Chains
Se decidi di usare per la tua band lo stesso nome di un’oscura formazione di culto degli anni sessanta, devi accettare il fatto che, almeno all’inizio, ogni ricerca in rete relativa a quel nome restituisca nelle prime due pagine di risultati solo indirizzi relativi a quel gruppo. A questo punto, quindi, non rimangono che un paio di opzioni: o si cambia nome o si diventa molto piú famosi degli altri, come pensarono bene di fare i Nirvana (sfido infatti oggi ricordarsi degli altri Nirvana). Così, mentre “quei” Pearls Before Swine erano lo pseudonimo dietro il quale Tom Rapp celava le sue psicosi apocalittiche riversandole in dolcissimi dischi psych-folk dalle copertine che riproducevano Bosch e Bruegel, questi altri sono un trio proveniente da Münster, Germania, usciti sul finire dello scorso anno con questo loro secondo EP, ricco di spunti interessanti tanto quanto lasci intravedere ampi margini di miglioramento. Grunge e stoner gli ingredienti alla base di una ricetta che, se non brilla certo per originalità, si fa apprezzare per passione e sostanza. Se l’iniziale “Valar Morghulis” è uno strumentale piuttosto innocuo, la successiva “Misfortune Cookies” ci riporta immediatamente nella Seattle di metà anni 90, tra Alice in Chains, Screaming Trees e Mad Season, anche per via dell’impressionante somiglianza della voce del vocalist con quella di Layne Staley. Allo stesso modo in ”On My Own”, blueseggiante come potevano esserlo i Temple of the Dog, e nella conclusiva “Shattered Dreams”, dalla lunga intro orientaleggiante, i nostri pescano a piene mani da quello stesso florido bacino e lo fanno con il giusto rispetto, quasi timore reverenziale, riuscendo però a cogliere nel segno anche e soprattutto grazie a capacità di scrittura decisamente sopra la media, tanto che questi tre brani non sfigurano nel confronto con le fonti di ispirazione. Resta da dire di una “I, Jekyll” non proprio a fuoco nel suo voler essere troppe cose e nessuna, e di un artwork non proprio memorabile e forse anch’esso nostalgico degli anni '90. Al netto di qualche ingenuità, la stoffa è evidente, e personalmente sono molto curioso di assistere a sviluppi futuri. Attesi alla prova di un album intero, con l’augurio che possano in futuro comparire come primo risultato di una ricerca in google (per il momento, direi che Tom Rapp può dormire sonni tranquilli). (Mauro Catena)

(Self - 2015)
Voto: 70

sabato 14 novembre 2015

Sumer - The Animal You Are

#PER CHI AMA: Post Metal/Prog/Grunge/Alternative
I Sumer sono una band inglese di 5 elementi, formatasi nel 2010, che esce solo nel 2014, con 'The Animal You Are', l'album di debutto, costituito da nove tracce intriganti. È quasi inutile dire che nel loro sound si sentono molto le influenze dei Karnivool e dei Tool, tuttavia i nostri londinesi provano più volte a distaccarsi dai dettami dei gods sopraccitati e dai clichè del genere, lasciando spazio ad esempio a una leggera vena grunge nel cantato, che conferisce al quintetto britannico una certa dose di personalità. Le song si dimostrano tutte assai interessanti: con “The Animal You Are”, la title track, i Sumer portano una carica che coinvolge e disorienta, fatta di introspettive atmosfere post metal che colorano molto l’album, caricate da riff scuri e potenti, nonché da controtempi ben centellinati. “Lure” invece sposta l’attenzione alle armonizzazioni a due voci ben curate, mentre “Vanes” si fa notare per certe aperture con ritornelli, da cantare facendo lenti headbanging al braccio. Tre chitarre son sempre difficili da gestire, ma i Sumer riescono ad equilibrarle perfettamente e, ben calibrati alla sezione ritmica, fan capire subito il loro elevato livello tecnico. E con “Progenesis” lo dimostrano alla grande: ti vien infatti voglia di suonare la batteria mentre la ascolti e in un attimo ti ritrovi a fare air drumming come nel video di “New Millenium Cyanide Christ” dei Meshuggah. Personalmente spero, ma credo siano già sulla buona strada, che i Sumer continuino a sperimentare con la loro musica, per potersi levare di dosso il continuo confronto che viene spesso da fare con Maynard & Co. e possano creare finalmente una propria e definita identità. Comunque meritevoli di tutta la vostra attenzione. (Alessio Perro)

sabato 17 ottobre 2015

Dream Circus – China White

#PER CHI AMA: Grunge, Alice in Chains, Soundgarden
Allora, confesso di trovarmi un po’ in difficoltà con questa recensione, essenzialmente per tre motivi principali. Primo: ho amato, e amo tutt'ora, l’alternative dei primi anni '90. Che lo vogliate chiamare grunge o meno, che venisse da Seattle o meno, i dischi di gente come Soundgardene e Alice in Chains (ma anche Nirvana, Pearl Jam, Screaming Trees, Mudhoney) sono stati i miei primi amori musicali, quelle sbandate da cui è difficile riprendersi. Secondo: tanto ho amato quella musica, cosí allo stesso modo ho provato sentimenti che vanno dalla noia al disgusto per tutta la pletora di band che, sull’onda dell’entusiasmo delle major, hanno cercato di cavalcare l’onda di quel successo. Penso quindi ai vari Candlebox, Creed, Staind, Bush, per tacere di Puddle of Mudd o Nickleback, davvero impresentabili. Terzo: i Dream Cricus si ispirano dichiaratamente ai primi (Alice in Chains in particolare) ma finiscono per assomigliare molto di piú ai secondi. Cercando di essere il piú possibile oggettivi, non si puó non riconoscere alla band lusitana la capacità di saper suonare con potenza e convinzione non inferiore a quella delle band sopra citate, non si possono non riconoscere il talento e le ottime qualità del vocalist James Powell, bravo a mantenere una certa personalità senza cadere nell’imitazione di questo o quel modello di riferimento. Cosí come l’esordio datato 2012, anche questo EP di sei brani, per poco piú di venti minuti di durata, conferma pregi e difetti che i Dream Circus condividono con buona parte di chi ha fatto il loro stesso percorso. Ovvero sono di sicuro bravi e capaci, i pezzi spingono molto sul pedale della potenza e dell’impatto, enfatizzando il lato metal del suono con gran dispiego di chitarroni e doppia cassa, ma non sono sempre memorabili. Un lavoro ben fatto, piacevole; e forse questo è quello che conta, anche se, in sostanza, 'China White' rimanda un’immagine bidimensionale, dove a potenza e aggressività non si aggiunge una terza dimensione, quella della profondità, che era ed è (basta ascoltare uno qualsiasi dei dischi del Jerry Cantrell solista) la vera marcia in piú di quella formidabile stagione. (Mauro Catena)

(Ethereal Sound Works - 2015)
Voto: 65

https://www.facebook.com/DreamCircus

mercoledì 7 ottobre 2015

Fashion Queens – Infiniti di Forme Rosa e Blu

#PER CHI AMA: Hard Rock/Blues/Grunge
Uscito sul finire del 2014, questo EP di debutto dei padovani Fashion Queens, fuori per la Jetglow Recordings, mostra una band affiatata e ben avviata. Le sei tracce del disco ci vengono presentate dall'etichetta come il perfetto connubio tra musica rock stoner, velata da un retrogusto blues e liriche poetiche, che in parte può esser vero e in parte no, visto che di stoner qui non v'è traccia se non in qualche apertura vocale alla John Garcia (ai tempi degli Unida) sparsa qua e là tra i brani. Più visibile è un rimando a formazioni grunge del passato nazionale, che poi cantando in italiano, per forza di cose ci si accosta ai lavori di Timoria o Karma. Il fatto di volersi accostare al mondo stoner a forza, toglie quello che realmente si cela tra le note di questa band, ossia un buon hard rock blues di stampo classico con chiaroscuri tipici della musica alternativa italiana e buone aperture soniche molto classic rock. Contornati da un canto singolare di buone doti ma che sinceramente manca di spirito psichedelico e predilige spesso una tonalità che poco si prestano al trip, e sovente si spostano verso territori hard rock, rappresentano alla fine il vero territorio di conquista della band patavina. Buone le composizioni, fantasiose e ben radicate, come detto in precedenza, nel blues (il brano "3/4"), il disco presenta una qualità di registrazione ottima, pulitissima, anche se manca il tocco che spacca o che la rende veramente unica, però ben fatta, forse un pizzico più di polverosa U.S.A. e di calore nel sound non sarebbe guastato. Centrato anche il brano "George Jung" ove affiora maggiormente la vena più metal con all'interno un bel innesto recitato di ottimo effetto; infine è una pillola rock dal velato accenno Afterhours quello della conclusiva "Unaware". Fashion Queens, un buon inizio che lascia ben sperare. (Bob Stoner)

(Jetglow Recordings - 2014)
Voto: 70

giovedì 1 ottobre 2015

Dead Shed Jokers – S/t

#PER CHI AMA: Grunge/Hard Rock, Queens of the Stone Age
Suonare come nessun altro, eppure risultare immediatamente familiari. Sarebbe probabilmente il sogno di buona parte delle band che popolano il pianeta, e ogni tanto qualcuno ci riesce. I Dead Shed Jokers sono una band strana, ci vuole tempo per metterli a fuoco, eppure non ci si riesce mai del tutto. Come osservare un dipinto in cui la prospettiva è leggermente ingannatoria, non ci si sente mai del tutto a proprio agio, solleticati da un leggero e indefinibile senso di disagio. I cinque ragazzi gallesi, al loro secondo album, propongono un hard rock che è sí debitore dei gloriosi '70s, quanto influenzato dal grunge o dai Queens Of The Stone Age. L’istrionico cantante Hywel Davies ha una voce pazzesca e uno stile a metà tra Robert Plant e Chris Cornell, ma con un’attitudine alla teatralità piú spiccata, cosa che rende davvero peculiari molti dei brani in scaletta. A sorreggere Davies ci pensano gli altri quattro (due chitarre, basso e batteria) e lo fanno come meglio non si potrebbe: riff granitici, una bella varietà ritmica e la capacità di costruire brani complessi e mai scontati, senza perdere un grammo in termini di energia. Il tutto è poi ben supportato da un suono sporco e per nulla patinato. Il mix che ne viene fuori ha un certo non so che di originale, qualcosa che non si riesce del tutto ad afferrare mentre si cerca di individuare tutti i riferimenti, che all’inizio sembravano evidenti. Dopo molto ascolti non sono ancora riuscito a capire bene di cosa si tratta, ma dev’essere nascosto nelle pieghe della voce e dalla personalità di Davies, che non si limita a cantare, peraltro benissimo, ma sembra sempre volerti raccontare una storia in modo molto serio, riuscendo quasi sempre a catturare la tua attenzione. Degli 8 brani, nessuno può essere considerato un riempitivo, e si viaggia dal rock dritto e tirato dell’opener “Dafydd’s Song” alle sfumature folk di “A Cautionary Tale”, ai riff irresistibili di “Memoirs of Mr Bryant’s” (scelta come singolo e della del quale vi invito caldamente a visionare il delirante e bellissimo video), fino al tiro pazzesco di “Rapture Riddles”, in un’incedere dance punk che non avrebbe sfigurato nel post-punk revival britannico di inizio millennio, tra Bloc Party e The Music. Si chiude poi con la ballata pianistica in stile glam “Exit Stage Left”. Disco sorprendente, che riesce a coniugare al presente il verbo del rock d’annata in un modo credibile e a suo modo originale. Forse non li troverete mai nelle liste delle next big thing di oltremanica, ma dopotutto, quante delle band citate in quelle liste vi ricordate oggi? I Dead Shed Jokers, invece, ci sono per restare. (Mauro Catena)

(Pity My Brain Records - 2015)
Voto: 75

martedì 29 settembre 2015

Manitu - Raw

#PER CHI AMA: Grunge/Hard Rock
Dal cuore della Svizzera, i Manitu sfornano il loro, se non erro, terzo album, con un titolo che è un manifesto programmatico. 'Raw', ovvero grezzo, selvaggio, poco incline alla morbidezza. Dieci brani per circa 40 minuti di rock duro, dal respiro decisamente internazionale. Quello che spicca prima di ogni altra cosa è la voce e la personalità di Manna Lia, una ragazza che ci sa fare e sa come catturare l’attenzione e tenerla desta lungo tutta la durata del disco. In realtà la cantante non è esattamente alle prime armi, avendo alle spalle diverse esperienze anche oltreoceano. La sua innegabile energia, unita ud un timbro che ricorda ora Alanis Morrisette, ora una sorta di versione femminile di Eddie Vedder, sembra contagiare i suoi compagni di avventura (David Grillon alle chitarre, Lionel Ebi al basso, Fabio Duro alla batteria) che risultano convincenti nel loro declinare un rock fortemente influenzato dagli anni '90, a metà strada tra il nu-metal, il grunge piú metallico di Soundgarden e Alice in Chains, e il rock da stadio di Foo Fighters o Skunk Anansie (paragone plausibile non solo per il fatto di avere una cantante donna). I Manitu piacciono quando spingono sul pedale dell’acceleratore, come nella trascinante opening track “What you Realize”, o in “Blind” dove fa capolino anche un’interessante vena protopunk alla Stooges, e si dimostrano capaci anche di inaspettate aperture melodiche di grande respiro e potenziale come nel chorus di “The Edge”. Ma i momenti in cui si fanno preferire, quelli in cui riescono a sfoderare una personalità piú definita, sono quelli in cui i ritmi rallentano e la componente emotiva reclama piú spazio: “24/7”, “Another Lie” o i saliscendi della conclusiva “Mary”. Nulla di nuovo sotto il sole quindi, tuttavia 'Raw' è un lavoro sincero e appassionato, che potrà sicuramente guadagnare ulteriori punti nella sua riproposizione live. (Mauro Catena)

(Self - 2015)
Voto: 70

domenica 28 giugno 2015

Ophite – Basic Mistakes

#PER CHI AMA: Blues Grunge Rock
Sono giovani e carini, risultano freschi e dinamici, vengono direttamente da Parigi ma sono multietnici e trendy e suonano un pop intelligente pieno di colori e variegate influenze. Il funk, il rock, il britpop e un certo tipo di hip hop, suonato veramente, con attitudine artistica e non esclusivamente commerciale. Ricordano la freschezza dei primi Texas e la verve di Martina Topley-Bird nelle atmosfere cool ed energiche, un soffio di riot girl alla Sleater Kinney, le indimenticabili Elastica e il blues rock spinto dal fascino retrò anni '90 dei The Duke Spirit. Un ingorgo di suoni che ruotano nell'ellisse del sistema solare del pop di buona fattura, ben suonato e ben calibrato, fatto appunto per il semplice piacere di essere ascoltato. Basso e voce danno un supporto eccezionale a tutte le sei tracce del cd ma anche la batteria e le evoluzioni chitarristiche, suonano deliziose con le sonorità che resero grandi i 4 Non Blondes e Alanis Morrissette negli anni '90. Un vero e proprio tuffo nel passato con un'ottica di ristrutturazione moderna ed efficace dai suoni pieni, centrati e filtrati a dovere. Ottimi suoni che vanno d'amore e accordo con le sonorità dei The Roots del capolavoro 'The Seed'. Una band atipica per il mondo odierno ma tutt'altro che scontata, se le venisse data una produzione d'alta classe e una visibilità adeguata, sicuramente ne aumenterebbero le possibilità di riuscita commerciale. Una musica inventata e ragionata per essere apprezzata sotto tutti i punti di vista. Magari non risulteranno del tutto originali ma sicuramente la proposta è molto buona e convincente, con una vocalist di tutto rispetto (ascoltate l'acustica "My Pretty Columbine" per rendervi conto delle sue qualità!) e una composizione talmente gustosa e di qualità da fare invidia a molti, anche nei richiami reggae alla Police di "Phoenician Sailors". Un EP ben riuscito e di gran classe. Questa giovane band ha tutte le carte in regola per crescere a dismisura e questi primi sei brani autoprodotti sono da ascoltare a timpani spiegati! (Bob Stoner)

(Self - 2014)
Voto: 75

giovedì 23 aprile 2015

Limerick - S/t

#PER CHI AMA: Alternative/Stoner/Grunge
I Limerick sono tornati e lo hanno fatto con il botto. Se fossi costretto a riassumere il loro nuovo album in poche parole, queste sarebbero quelle giuste. Avevamo lasciato la band verso la fine del 2012 con il loro precedente cd e già a quei tempi si capiva che il trio avrebbe riservato grandi sorprese. Nel frattempo la band vicentina ha lavorato duramente, continuando ad esibirsi dal vivo e questo self-titled segna un traguardo importante per la loro crescita artistica. Il cd si presenta con un bel jewelcase, dalla copertina tenebrosa e disegnata ad hoc per quest'album, ben riuscita e che trasmette il mood dei brani contenuti. La prima traccia è semplicemente "Track 1", della serie meglio un titolo anonimo che uno scelto a caso e già dalle prime note si percepisce la buona qualità della registrazione. Dopo alcune folate di vento campionate, inizia l'ipnotico arpeggio di chitarra che sarà l'elemento trascinante per gran parte del brano. Una ninna nanna dal tono sommesso, ma che cresce piano piano, con una struttura semplice e solida fatta di batteria e basso intrisi di psichedelia. Il cantato segue la scia tracciata dagli strumenti e si alterna ad altre linee di chitarre cariche di effetti come riverbero e delay. Dopo questa brano introduttivo, il cd prende il volo con "Red River Shore", pezzo veloce e pesante fatto di puro stoner. La voce di Amedeo non lascia dubbi e la sua timbrica si riconosce facilmente, ruvida e ben definita che richiama influenze grunge; nel frattempo Flavio (batteria) e Giordano (basso) creano il tessuto pulsante del brano senza mai perdere tono. A metà pezzo arriva il break che permette all'ascoltatore di prendere fiato e iniziare a ballare una danza quasi dimenticata, mentre suoni dissonanti di chitarra slide ci trascinano in un vortice sempre più veloce che ci riporterà al riff iniziale, per poi chiudere in bellezza. Gli arrangiamenti dei Limerick vantano un tocco di personalità e aumentano la riconoscibilità dei brani, una mossa vincente che permette una maggiore visibilità tra le molteplici band in circolazione. "Wet" è un tributo al sound dei QOTSA (quello di "Songs for the Deaf" per capirci), ma le similitudini si fermano al riff iniziale perché poi i Limerick stravolgono le cose e fanno capire che non hanno certo bisogno di fare il verso ai gods statunitensi per convincerci. Infatti, dopo poco la canzone evolve, basso/batteria cominciano a scalciare indomabili e le chitarre s'ingrossano a dismisura. Gli arrangiamenti si confermano raffinati e studiati nel dettaglio, con un velo malinconico e oscuro che piace e convince. "Buried Love" è quel brano che finisce presto (poco meno di tre minuti), ma che c'incatena davanti alle casse dello stereo mentre la pressione sonora riempie i polmoni di aria calda del deserto. Uno schiaffo in piena faccia fatto di riff arroganti, un drumming propulsivo che sembra uscire dagli speaker e le linee di basso che si stringono intorno al collo come serpi assetate. In tutto questo non mancano le finezze in sede di sovraincisione, come la seconda voce del buon Flavio che finisce per cavarsela egregiamente. Un brano che dal vivo scatena il pubblico e da testimone non posso che confermare la capacità del trio nel regalare da sempre concerti degni di essere vissuti; tre musicisti che non sentono minimamente la mancanza di un sostegno addizionale perché loro bastano e avanzano. In definitiva un ottimo album che non deve mancare assolutamente nella vostra raccolta e che meriterebbe una versione in vinile quanto prima per poter gustare al meglio ogni singola sfumatura di questo album omonimo; anche uno split con un'altra band non sarebbe male, ma sono certo che presto avremo altre novità dai Limerick. Ormai il sentiero è tracciato, ora va seguito con convinzione. (Michele Montanari)

(Self - 2015)
Voto: 80