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lunedì 23 settembre 2019

Kora Winter - Bitter

#PER CHI AMA: Post-Hardcore/Math, Between the Buried and Me
Un paio d'anni fa, proprio in questo periodo, mi apprestavo a recensire 'Welk', secondo EP dei berlinesi Kora Winter. La band teutonica torna oggi con un lavoro nuovo di zecca, 'Bitter', il vero debutto su lunga distanza per i nostri cinque musicisti. Forti dell'esperienza maturata in tour con gente del calibro di Rolo Tomassi o The Hirsch Effeckt, la band ci offre otto isterici pezzi che proseguono con la proposta già ascoltata in passato, ossia all'insegna di un imprevedibile math/post-hardcore/screamo. "Stiche II" mette in mostra immediatamente tutto l'armamentario in mano ai nostri, con una dolce melodia su cui s'incagliano i vocalizzi psicotici (in lingua tedesca) del frontman; a dire il vero, il brano sembra più una intro che un pezzo vero e proprio, visto che è con "Deine Freunde (Kommen Alle in Die Hölle)" che emerge più forte la struttura canzone e con essa tutto il delirante approccio post-hardcore nelle partiture più ritmate e melodiche, che fanno da contraltare alla più ruvida e acida componente estrema della band, che sembra coniugare in poche ma efficaci accelerazioni post black, anche metalcore e mathcore, in un impasto sonoro davvero pericoloso quanto furente (ed efficace). I brani si susseguono in un altalenante mix di generi: con "Eifer" si parte in quinta, ma poi un chorus ed una linea di chitarra alquanto dissonante, ci conducono in territori stravaganti, quando, fermi tutti, la proposta dei Kora Winter, si sporca di influenze alternative, con tanto di voci pulite in una sorta di emo un po' ostico da digerire, almeno per il sottoscritto, che da li a pochi secondi, avranno comunque il tempo di abbracciare altri suoni che dire cattivi è dir poco. Ma niente paura, si cambia ancora registro con la spettrale title-track, che al suo interno sfodera sverniciate di violenza estrema, rallentamenti furiosi, aperture al limite dell'avanguardismo e di nuovo montagne di riff e rullanti infuocati, in un'altalena musicale ed emozionale spaventosa (che vede addirittura l'utilizzo di vocals evocative in stile Cradle of Filth). C'è di tutto qui dentro e se non si è abbastanza flessibili di testa, il rischio di switchare al nuovo album dei Tool, potrebbe rivelarsi assai elevato. Ancora suoni stravaganti con l'incipit di "Coriolis", in cui batteria e chitarra (e poi anche voci, in tutte le forme possibili) s'inseguono come in un gioco di guardia e ladri, in oltre otto minuti di frastagliatissime e funamboliche ritmiche che portano i nostri ad ammiccare un po' a destra e un po' a manca, e relegando alla seconda parte del brano, eleganti momenti post metal sulla scia dei connazionali e concittadini The Ocean. Prova convincente non c'è che dire, confermata anche dalla folle proposta di "Wasserbett", un pezzo che col metal, fatta eccezione per le pesanti chitarre, sembra aver poco a che fare. Scendono colate di malinconia, almeno a tratti, per la corrosiva "Das Was Dich Nicht Frisst", tra le song più tecniche dell'album, per questo ancor più complicata e sperimentale, soprattutto nella sua parte vocale. A chiudere quest'intrepida opera prima dei Kora Winter, ecco arrivare "Hagel", un'altra piccola perla che, se non avesse avuto il cantato in tedesco (per me il vero limite della band ad oggi), sarebbe stata ancor più convincente, visti i richiami anche ai Cynic e pure uno spettacolare assolo conclusivo. Per il momento accontentiamoci dell'incredibile portento sonoro offerto dai nostri, in attesa di altri sconvolgimenti futuri. (Francesco Scarci)

(Auf Ewig Winter - 2019)
Voto: 76

https://korawinter.bandcamp.com/album/bitter

Vardan - Serial Demo III

#PER CHI AMA: Black, Burzum
Dall'Italia con furore: è il caso di Vardan, one-man-band catanese autore di oltre 30 lavori (tra full length e split) negli ultimi sette anni, un record, anche se il polistrumentista ci tiene a sottolineare che si tratta di lavori concepiti in tempi diversi. Quest'oggi il mastermind siculo si presenta con una demo di due pezzi, e chissà poi perchè una demo dopo questo mare di release, costituita da un sound che prosegue sulla scia del black depressive desolante espresso nei precedenti lavori, un sound che evoca inequivocabilmente il buon Burzum o gli Xasthur. È palese sin dall'opener "III - 5", dove sul rifferama monolitico di scuola norvegese, poggiano i vagiti del musicista nostrano. La proposta puzza inevitabilmente di già tremendamente sentito, però le melodie di sottofondo sulle quali poggia l'architettura del pezzo, hanno comunque il loro fascino. C'è molto del conte Grishnakh nella musica di Vardan, forse ancor di più nello spettrale black mid-tempo di "III - 6". La cosa che forse potrebbe far storcere il naso ascoltando questo 'Serial Demo III' potrebbe essere una certa ridondanza di fondo nelle linee di chitarra ma fortunatamente il lavoro si ferma dopo soli 14 minuti, il tempo sufficiente per non farci stancare della natura monocorde di questo two-track. (Francesco Scarci)

Wires & Lights - A Chasm Here And Now

#PER CHI AMA: Post-Punk/Darkwave, Joy Division, Bauhaus, The Cure
La teatralità e l’inganno sono strumenti potenti” è una frase ricorrente nella trilogia del Cavaliere Oscuro, con la quale il regista Nolan sottolinea come il nostro Batman, tanto privo di superpoteri quanto ricco di ingegno e furbizia, riesca ad avere la meglio su avversari più forti e numerosi grazie ad astuti trucchi.

In campo musicale non ci sono ovviamente vite innocenti in gioco, tuttavia al giorno d’oggi è in atto una sorta di lotta per la sopravvivenza in scene ormai saturate da mille proposte ed è quindi naturale che molte band scelgono di utilizzare alcuni “trucchi” per emergere, come puntare stilisticamente sull’usato sicuro e ammantarsi di un’estetica ben riconoscibile, in modo da stuzzicare l’attenzione di uno specifico target di pubblico.

Gli Wires & Lights con il loro atteso album 'A Chasm Here And Now' non si stanno certo facendo beffe di noi, anzi: ci troviamo di fronte ad un solidissimo album post-punk pensato e (ben) costruito per soddisfare le preferenze degli amanti di Joy Division, Sisters Of Mercy e The Cure, rimaneggiando i capisaldi del genere attraverso un sound più moderno.

L’intenzione della nuova creatura del cantante-chitarrista Justin Stephens (già noto nell’ambiente grazie al precedente progetto Passion Play) è evidente fin dalla prima traccia “Drive”, un dirompente singolo trascinato dalle dinamiche di batteria e dai giri avvolgenti del basso, dove le atmosfere sognanti della chitarra lasciano spazio ad esplosioni di rumore che si spingono fin quasi allo shoegaze.

Il tema portante di questo disco è per lo più la lotta contro i demoni interiori della depressione, ben rappresentata dalle atmosfere decadenti e tormentate che gli Wires & Lights ricamano attraverso le varie sfumature di post-punk, gothic rock e dark wave. Tuttavia, la band sembra voler descrivere uno scontro in cui il male è infine destinato ad essere sconfitto: ecco perché nello sviluppo di brani come “Swimming” e “Cuts”, traspare sempre una chiara determinazione ad uscire da queste paludi mentali e non mancano raggi di luce pronti a squarciare le ombre.

I dieci pezzi dell’album, quasi tutti della durata compresa tra i quattro e i cinque minuti, si susseguono piacevolmente riuscendo a mantenere vivo l’interesse dell’ascoltatore, tra raffinati richiami al passato e l’inserimento discreto di elementi moderni e più catchy. Menzione speciale per la struggente “Anymore”, l’evocativa ed etera traccia dark-wave “24h” e la seducente “Sleepers”, riuscitissime canzoni che si elevano su un insieme comunque di buonissimo livello.

Cosa manca dunque? Forse un po’ di temerarietà nell’andare oltre confini ben definiti: i nostri amici berlinesi mostrano di essere a proprio agio nell’affrontare i bassifondi del post-punk, sfoderando tutto il campionario di riferimenti e cliché del genere, ma evitando abilmente di apparire troppo stereotipati. Il costume di nuovi alfieri di questa scena pertanto calza a pennello agli Wires & Lights e bisogna ammettere che di 'A Chasm Here And Now' non è difficile innamorarsi, ma va anche detto che potrebbe essere altrettanto facile dimenticarsene. (Shadowsofthesun)

domenica 22 settembre 2019

Bodily Ruin - Malevolent Existence

#PER CHI AMA: Death Old School
Un'altra demo sulle pagine del Pozzo, questa volta ad opera degli americani Bodily Ruin. La band originaria di Los Angeles, ci propina un 3-track di death metal di vecchia scuola, in cui il tempo sembra essersi freezato ormai a 30 anni fa. Capisco la nostalgia per i grandi del passato, ma francamente non se ne può più, bisogna andare avanti, portar fuori il carrozzone da quel pantano in cui è tragicamente finito. Quindi servono idee e non scopiazzamenti ai primi Death come accade in 'Malevolent Existence', perchè poi la mannaia del recensore cattivo si abbatte senza pietà sulla testa della band di turno. Dei tre pezzi, l'unica nota significativa va ad uno stravagante (ma brevissimo) assolo che compare in "World of Nothingness", tutto il resto è francamente noia. (Francesco Scarci)

martedì 17 settembre 2019

Isonomist - Pillars

#PER CHI AMA: Metalcore/Djent, Meshuggah
Degli Isonomist dal web ho cavato meno di un ragno dal buco, zero informazioni a parte il fatto che il quartetto dal Texas si etichetta come progressive band. Ecco, partirei già col dire che allargherei un po' le maglie di questo stretto vestito, visto che la traccia di apertura di 'Pillars' ci consegna piuttosto una band che viaggia nei binari del metalcore. Comunque a parte questa necessità di etichettare le cose, c'è da dire piuttosto che la band propone cinque song parecchio vertiginose per ciò che concerne tempi dispari, ritmiche sghembe, melodie poliritmiche, tutte caratteristiche che identificano il djent, o comunque suoni affini ai Meshuggah o ancora una certa vena deathcore tipicamente americana. "Loss", "By a Thread", "Beta" e via via dicendo anche le altre song, viaggiano sui binari alquanto imprevedibili di tale musica, e in cui la definizione che ritenevo alquanto stretta di progressive, si potrebbe applicare esclusivamente per una certa perizia tecnica che contraddistingue questi musicisti. Per il resto, è il classico sound a cavallo tra metalcore e deathcore, con linee di chitarra non proprio lineari, i famigerati quanto stra-abusati stop'n go, le vocals che si muovono tra pulito e growl, e poco altro da segnalare, se non una più complicata fase digestiva rispetto agli originali, in quanto qui la melodia non è proprio una delle caratteristiche della casa, visto che il sound rischia addirittura di incancrenirsi in territori più estremi, come accade nella quarta "Fading". Manca ancora una traccia a chiudere l'EP, "Confessional", e apparentemente, sembra essere anche il brano più accessibile, sebbene ascoltandolo potreste pensare che il mio sia un eufemismo. Comunque 'Pillars' è un lavoro che rimane raccomandato per soli amanti del genere, per gli altri suggerisco come sempre di volgere lo sguardo agli originali. (Francesco Scarci)

(Self - 2019)
Voto: 60

domenica 15 settembre 2019

Chaos Over Cosmos - S/t

#PER CHI AMA: Melo Death, Scar Symmetry
È un progetto internazionale quello dei Chaos Over Cosmos che ci propinano, in questo loro EP uscito esclusivamente in digitale, tre tracce che fanno l'occhiolino in modo quasi malizioso ed inequivocabile agli Scar Symmetry e più ad ampio raggio, ad un prog melo death sci-fi che trova ampi consensi anche tra i gusti del sottoscritto. Tre tracce dicevo per questo EP omonimo, che arriva a distanza di un anno dal debut 'The Unknown Voyage', che si aprono con "Cascading Darkness", song che chiarisce immediatamente la direzione musicale del combo austral-polacco, che dai maestri svedesi non raccoglie solamente le linee di chitarra ma anche il classico dualismo vocale (growl/clean, anche se quest'ultimo è da rivedere). A livello musicale, i nostri se la cavano davvero alla grande, non fosse altro che alla chitarra c'è questo musicista polacco, tal Rafał Bowman, un virtuoso della sei corde, mentre alla voce il bravo vocalist australiano Joshua Ratcliff, già visto nei Resurgence ed ex Born of Chaos. Comunque la band ci sa fare ed il secondo brano conferma se addirittura non migliora, quanto proposto nell'opener. "Consumed" è infatti una song di otto minuti, in cui i nostri ci dilettano con quanto di meglio ha da offrire la casa, soprattutto a livello tecnico, palesando un ottimo gusto per le melodie con l'ottimo lavoro alle chitarre e synth da parte di Rafał. La band si dice ispirata da band quali Iron Maiden, Dream Theater, addirittura Vangelis e Depeche Mode per ciò che concerne l'ambito elettronico; a mio avviso, i due musicisti sono degli ottimi mestieranti, in grado di mettere su pentagramma suoni accattivanti, sicuramente un po' ruffiani (basti ascoltare anche la strumentale traccia conclusiva "Asimov") in un esercizio di stile, sicuramente non indifferente. Per me è si, e sono quasi certo che i Chaos Over Cosmos avranno tutte le carte in regola per farsi strada nella jungla del death melodico. (Francesco Scarci)

Vile Nothing - Pessimist

#PER CHI AMA: Crust/Hardcore
Un po' di insano punk-crust-hardcore proveniente dalla Svezia è quanto proposto oggi dai Vile Nothing e dal loro 'Pessimist'. Si tratta di un EP di quattro pezzi che irrompono con la ferocia molestia di "In Disgrace, With Fortune", un brano breve ma incisivo, costituito da chitarre sparate ai 200 km/h e da una batteria al limite del grind, per poi rallentare paurosamente sul finale con una tirata di freno a mano da cappottamento garantito. "Erased" prosegue con un'altra ritmica al fulmicotone su cui s'installano le vocals sbraitanti del frontman; da notare che come sul finire della traccia in apertura, cosi anche in questa seconda song, sono presente i classici bombastici tonfi del deathcore a contaminare ulteriormente la proposta dell'act di Stoccolma che con il proprio sound non fa altro che darci un sacco di schiaffoni. Vi basti ascoltare la ficcante proposta della terza "Dåren Är i Lådan" un pezzo di 67 secondi devoti ad un tremebondo mathcore. Il finale apocalittico è dispensato dalle note furenti di "Abhorrence", l'ultimo straripante ed iconoclasta inseguimento dei Vile Nothing. Paurosi. (Francesco Scarci)

Petricor - First Breath

#FOR FANS OF: Instrumental Post Rock
'First Breath' is the 2019 release from Italian post-rock band Petricor, released on Fluttery Records. The opening track "8" begins with calm progressive synths and twinkling melodic guitars with its enthusiastic melody leading the album with its soft-rock roots. "People" follows transitioning into almost hard-rock with darker melancholy sounds revealing Petricors true intentions by deviating from the generic rock formula. "Naked" returns to the more relaxed sound of the album constantly chasing a climactic melody feeling like a film score for a romantic coming of age independent indie movie. "Last Breath", "Unbroken Horses" and "Saudade" see the album start to become repetitive, stuck in a soft-rock loop with a sound that initially seemed optimistically refreshing but becomes increasingly stale, although "Saudade" does hold some of the charm of the opening tracks. The same can't be said for the closing track, "Super8 (Remix)" which is a welcomed departure from the formulaic structure, almost feeling like Hot Chip, with its electronic emphasis deviating from the conformity of a standard progressive pop-rock sound, feeling more experimental, giving hope for Petricors future. (Stuart Barber)

(Fluttery Records - 2019)
Score: 63

https://petricor-band.bandcamp.com/releases

Virtual Time – a.gò.gi.ca

#PER CHI AMA: Post Rock/Alternative
Devo confessare che ci ho messo un po' di ascolti per comprendere il nuovo album (uscito per la GoDown Records) di questa band veneta, i Virtual Time, le cui uscite precedenti non mi avevano entusiasmato più di tanto e per cui nutrivo forti dubbi e perplessità anche a riguardo di una loro nuova release. Dubbi e perplessità che sono svaniti dopo variegati ascolti di 'a.gò.ci.ca'. Valutando a fondo questo lavoro, si denota infatti una maturazione musicale enorme, le composizioni si arricchiscono, hanno più stile, sono più aperte e strutturate, lasciando trasparire un amore per il rock anni '70, quello più colto, complicato, cerebrale e sofisticato, Pink Floyd oriented per intenderci ed il rock dei grandi album concettuale dei The Who, il tutto, mescolato con abili mani ad aperture dal sapore alt country e sonorità moderne rubate a Muse e agli Arcade Fire. Ottima la commistione sonora, molto intrigante, che strizza l'occhio al buon ascolto e all'immediato, lasciando sempre trasparire una trama ben costruita ed un groove radicato e profondo, cosa che la verve sbarazzina di cui la la band si rivestiva nei dischi precedenti, riusciva a nascondere quasi del tutto. Dei bravi musicisti questi Virtual Time, che accantonano il voler divenire a tutti i costi una rock band modaiola, per salire di grado e presentare una manciata di brani adulti, originali, pieni di pathos e molto spesso dal sapore malinconico e visionario, talvolta anche intrisi di una solida base free rock molto avvincente. L'uso di parti elettroniche, rumori e suoni di fondo, l'eco della voce sullo stile dell'ultimo Springsteen, calano l'asso vincente, le aperture timbriche ariose ed esplosive alla maniera dei maestri canadesi, sciolgono l'anima in una catarsi vorticosa e sebbene il disco apra con un tempo truffaldino molto cool, ben presto ci si accorge di essere di fronte ad una suite sonora intensa e costruttiva. Un artwork di copertina assai intrigante, una produzione con i fiocchi ed un suono ricercato, una forma classica ma che si avvale di un sound fresco e moderno, con echi degli ultimi U2. Da sottolineare poi l'intensa prestazione vocale di Filippo Lorenzo Mocellin, che sfodera con grazia e vigore, le sue qualità canore sullo stile del buon vecchio prog rock di matrice '70 e l'interpretazione da navigata rockstar sempre a portata di nota. Dal lotto di brani si ergono a superstar, la perla oscura "Falling Away", la floydiana, contorta e sognante "Moonshadows", la psichedelica "She" ed il brano conclusivo dalla bella coda finale esplosiva, "Distant Shores". Un disco da gustare nota per nota, scoprirne il valore ed apprezzare una band che ha trovato il modo giusto di diventare adulta artisticamente, rinnovandosi, evolvendo in maniera originale. Ottimo disco! (Bob Stoner)

(GoDown Records - 2019)
Voto: 72

http://www.virtualtimemusic.com/

lunedì 9 settembre 2019

Exhumation - Seas of Eternal Silence

BACK IN TIME:
#FOR FANS OF: Death Metal, Death
Alongside Shadows Fall, Jungle Rot, and Hecate Enthroned, the Greek incarnation of Exhumation released its first album in 1997 to round out a diverse expanse of underground metal debuts during this waning period of the '90s. What makes Exhumation stand out among that list of comparatively more successful releases is how deep a diamond this band is in the rough. Finding few friends among the three other stillborn starts from other outfits under the same name by that year (and five more since) this Greek iteration finds itself digging its heels into the thrashier end of the death metal spectrum in order to provide a staunch bedrock on which to build its more melodic moments.

Engulfed in erratic percussive energy, lamentatious guitar is swallowed by whirlpools of melancholy washed with orchestral swings as Exhumation attempts to navigate its 'Seas of Eternal Silence'. Where the Hellenic quintet is characterized as melodic death metal for its flowing guitars hinging on accessible arrangements that end up enchanting with delicate diminishing measures, this outfit doesn't shy away from the intensive thrashing roots of death metal that so many bands in the melodic offshoot seemed to have shunned in subsequent years when infusing their own styles into the substantial beatdown necessary to elicit such anguished harmonies.

Exhumation shines by taking a quintessentially Death sound in “Dreamy Recollection” right off its strict rails into a broad melodic tangent through such a drastic deviation that it would definitely satisfy Schuldiner's more progressive sensibilities. Starting out with the hammering snare and rolling double bass from Pantelis Athanasiadis, shredding guitars from Panos Giatzoglou and Marios Iliopoulos provide an imposing thunder thickened by the bass handled by John Nokteridis as his vocals give a gruff scream until a raucous chorus comes up. Curt bellows of heaving melody crash into the meter and fall back into the atonal treble rhythm like white caps appearing in a battleship grey surf. Holding onto its hammering initial structure and squeezing it into a kaleidoscope of creativity puts this song evenly on the fence between 'Leprosy' and 'The Sound of Perseverance' in a way that honors the waning career of Death while Exhumation also forces itself forward from miring in its own grief to actively embracing the coming storm. While the band cannot help but mollify its passages in “Ceaseless Sorrow” and let its anguish flow, Exhumation makes sure to fight through its anguish with the furious trappings of extreme metal to make for a fruitful journey rather than a fitful forlornness.

Regal synth sounds common to albums like 'In the Nightside Eclipse' or 'Dark Requiems... and Unsilent Massacre', usually employed in ominous interludes between aggressive moments, end up becoming a beautiful baying backdrop to the crumbling curls of emotional melodies expanding the title track from its furious base into a melancholic motion. In “Forgotten Days” this synth seamlessly blends into the breathy space between brash lead guitar notes and whips the groovy mechanical rhythmic interlude into majesty as this synthetic orchestration, hammered by the desolation of the drumming, meets the human acumen for improvisation to ramp up the delirious depression before becoming trapped in a melodic whirlpool with its tentacular appendages inhaled by the sea.

Still, what becomes increasingly noticeable throughout this album is that Exhumation, while plotting out some compelling endpoints to its apogees, has trouble forging the path to those places without losing its way in filler where it would benefit to make a clean break. Where the band's ideas are expansive, shortening some of its songs and tightening up its structure would likely allow a wider range of ideas to come forth. Cutting off one grotesque head in order for two to come up, Exhumation could conjure its own hydra without losing itself in the tumultuous middle passages of each voyage. Though it is true that storms like these provide the drama necessary to start a shanty, not every cruise leaves a fleet as lost as Odysseus. This uncertainty seems as much due to Exhumation's influences, starkly sourced from Sepultura in the likes of “Passing Suns”, as it seems the band was wowed by the achievements of early Death and the increasingly extreme thrashing troupes throughout the style's early years and provides an honest attempt at emulation but simply has trouble rounding itself out as gracefully as it had in “Ceaseless Sorrow”.

Regardless, Exhumation's forthright and impressive first full-length is made even more inspiring in its placement in time. Released six months and five days prior to Amon Amarth's first full-length, 'Seas of Eternal Silence' is an album that harbors its intensity with the foreboding contraction of an ocean and expresses itself in the indefatigable onslaught of a tsunami when it finally rips out of its malaise. “Guilts of Innocence” riles itself up from the thrash drum cadence into roiling blast beating that provides apogee to its assault and finally is able to blend itself into the aggressive atonality that compliments with percussion the lofty ambitions of the treble that, through this frantic piece, pits Death's thrashier momentum up against the increasing velocity of an emerging generation. A curious aspect of Exhumation's art is in how closely it sticks to the oldschool elements of early death metal. Showing its uneasiness with the hyper-aggressive approach of the new blood, Exhumation comes across as a demonstration of this transitional time in the traditional death metal approach, showing an appreciation for the aggression of the previous years while attempting a more artsy attitude in its own execution. (Five_Nails)


(RRS/Vic Records - 1997/2019)
Score: 87

https://www.facebook.com/exhumation

sabato 7 settembre 2019

Narrative - Late Valediction

#PER CHI AMA: Post Metal strumentale
Della serie chi fa da sè fa per tre, ecco arrivare dalla Germania i post metallers strumentali Narrative con un lavoro DIY, 'Late Valediction', che consta di quattro pezzi per quasi venti minuti di musica. La proposta del terzetto di Tübingen combina una ritmica post-metal con delle aperture atmosferiche ultra riverberate tipiche del post rock, il tutto narrato da una serie di spoken words che suppliscono alla grande all'assenza di un cantante in carne ed ossa. E sapete quanto io ci tenga, ritenendo la voce uno strumento essenziale per la buona riuscita di un disco. Però in questo caso, sin dall'opener "Freeze", non avverto la mancanza di un vocalist forse perchè la musica si muove in anfratti chiaroscuri di un post qualcosa, dove peraltro si evidenzia una buona caratura tecnica dei singoli musicisti. La seconda "Moloch" sembra voler enfatizzare il lavoro di accompagnamento del basso a chitarre e batteria in un brano caratterizzato da un saliscendi melodico di tutto rispetto. Si prosegue con "In All that Dark, in All that Cold", un pezzo dalle atmosfere più soffuse, in cui non manca il classico tremolo picking del post-rock e le ormai immancabili spoken word. Ma poi mi domando, anzichè usare il parlato non si può mettere un vocalist a tutti gli effetti? Che diavolo cambia? Mah. E allora senza farsi troppe domande, meglio godersi le ispirate melodie di chitarra, interrotte da un riffone più aggressivo di cui francamente avrei fatto a meno. Scelte personali come quella di "The Self Under Siege" che chiude il digipack dei Narrative con un pezzo ritmato dal carattere più meditabondo e malinconico. Sicuramente interessanti, ma c'è ancora molto da lavorare. (Francesco Scarci)

giovedì 5 settembre 2019

Grabunhold - Unter dem Banner der Toten

#PER CHI AMA: Black, Mayhem, Windir
I Grabunhold sono un quartetto proveniente da Dortmund, palesemente ispirato al black metal di metà anni '90 al contempo anche alla letteratura tolkiana, dal momento che il moniker si rifà agli spettri dei Tumuli citati proprio da J. R. R. Tolkien in uno dei suoi scritti. 'Unter dem Banner der Toten' è l'EP di debutto dopo che nel 2017, i nostri avevano rilasciato un promettente demo intitolato 'Auf den Hügelgräberhöhen'. Dicevamo delle influenze della band: dall'ascolto della tumultuosa opener "Gespenster", i richiami ai vecchi classici sono evidenti: si va infatti dal fare riottoso dei Mayhem al più sinfonico degli Agathodaimon o al più epico dei Windir, come sottolineato dalle melodie in apertura di "Hexentanz", la seconda song. Il quartetto suona in modo comunque convincente e pur non inventando nulla di nuovo, si lascia piacevolmente ascoltare, alternando ritmiche infuocate con dei fraseggi di epica vastità che conferiscono una certa ariosità alla proposta del combo germanico. La seconda song vede peraltro i nostri abbandonare il cantato in screaming per delle spoken words, mentre il sound va dilaniando le carni con frustate di blast beat e chitarre in tremolo picking. "Von Gefallenen Helden und Vergess" è il classico bridge che ci conduce a "Grabunholde", ultimo atto di questa prima prova per la compagine germanica. La song è delle quattro quella che mi ha convinto meno, sebbene rimanga visibile il marchio di fabbrica dei Grabunhold che qui arrivano a palesare più forte anche una certa componente malinconica, oltre che delle orchestrazioni che sembrano evocare i Dimmu Borgir di 'Stormblast'. Alla fine, quella di 'Unter dem Banner der Toten' è una prova onesta che mette in luce pregi e difetti della band ma che lascia un discreto margine di crescita per il futuro della band in un genere sempre più scarno in fatto di idee. (Francesco Scarci)

Evil/Siege Column - Split EP

#PER CHI AMA: Thrash/Death, Sodom
Ormai il nostro è un mondo in cui il cd sta scomparendo quasi del tutto per tornare a far posto ai vinili e alle vecchie cassette quali formati fisici. Non ne sono immuni nemmeno le due band di oggi che insieme condividono questo split album: si tratta dei giapponesi Evil e degli americani Siege Column, con tre pezzi per i primi e due per i secondi. Il cd si apre con la furia distruttiva dello spaventoso trittico di song formato da "Paramount Evil", "Welcome to Satan" e "Rasetsuten". Il primo dei tre pesca direttamente dagli anni '80, citando band del calibro di Sodom o Sarcofago. Quindi un bel thrash/death old school per il quintetto di Tokyo che nella seconda sulfurea song (direi più un interludio di connessione fra la prima e la terza traccia), non nasconde delle influenze provenienti dai Black Sabbath. Si arriva cosi velocemente al terzo brano, un pezzo diabolico che in tre minuti liquida egregiamente la pratica Evil per lasciarci agli statunitensi Siege Column. Una band questa, che include l'onnipresente Joe Aversario, uno che deve essere membro di una cosa tipo dodici band (tra cui gli Abazagorath e gli Altar of Gore) ed ex membro di altre sette. Qui i pezzi sono due: "Mayhemic", soffocante esempio di death metal old school sempre di derivazione ottantiana e "Fight of Destruction", un pezzo di caotico death brutale mal suonato e pure mal registrato che poco nulla mi ha lasciato al termine del suo ascolto. Alla fine comunque, comprendo la scelta operata dall'etichetta per ciò che concerne l'uscita fisica, vista l'obsolescenza dei contenuti di questo Split EP. Ah dimenticavo, ai punti i giapponesi Evil surclassano alla grande gli statunitensi Siege Column e il voto complessivo è figlio della media delle due performance. (Francesco Scarci)

lunedì 2 settembre 2019

Frost - Out in the Cold

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Heavy Metal
Ci sono musicisti che proprio non riescono a stare fermi, neppure per un attimo: Jack Frost è uno di quelli. Oltre ad essere stato membro di Savatage e Metalium (e diverse altre band), essere il fondatore dei Seven Witches, Jack ebbe il tempo e la voglia di rilasciare anche questo solo album nel 2005 (il secondo da solista), dove avvalendosi di una serie di ospiti illustri, diede vita a questo 'Out in the Cold'. Io, che mi aspettavo un cd prevedibilmente costituito da esibizioni solistiche di Jack, sono rimasto parzialmente deluso, perchè in realtà, come già successo in passato, ci si trova davanti un platter di musica classic metal al 100%, con ritmiche rocciose, tanta tecnica e buone melodie che si fissano istantaneamente nelle nostre testoline, il che placa per lo meno la mia parziale delusione. Jack è bravo nell’alternare brani potenti ad altri più catchy e maggiormente immediati evitando, come già detto, ogni raffinatezza stilistica. Il disco si apre con l’alternativa “Wating Your Luv”, brano che sembra esser stato preso in prestito da 'St. Anger' dei Metallica, per un uso abbastanza simile della batteria; da segnalare qui l’ottima prova alle voci di Ted Poley dei Danger Danger. Si prosegue con la sabbatiana “Hell or High Water”, brano che francamente non mi ha convinto più di tanto. Ben altri sono i pezzi che meritano invece una certa attenzione, dovuta anche alle guest star che suonano o cantano nei vari pezzi, e quindi è abbastanza interessante notare come artisti diversi conferiscano un diverso appeal alle varie song. Vi ricordo infatti, che questo lavoro di Mr. Frost, ospitò artisti provenienti da Anthrax, Symphony X, Racer X, Malmsteen, gli stessi Seven Witches, WASP e molti altri, band peraltro inserite in diversi contesti musicali e che quindi hanno in un qualche modo influenzato in una direzione o nell'altra la proposta di Mr. Frost, con il proprio stile musicale. Alla fine il risultato che ne viene fuori è buono, anche se c’è qualche pezzo che suona troppo morbido o fuori dal coro, come “Passage to the Classical Side”, ballad dal forte sapore ottantiano. Ottime invece, le aggressive e mai noiose “Crucifixion”, “Sign of the Gipsy Queen” e “Covered in Blood”, senza dimenticare la triste e melodica “Cold as Ice”. Insomma, un buon lavoro da parte di Mr. Frost, piacevole da ascoltare, ma non completamente ispirato, complici brani non proprio originalissimi. Tuttavia un ascolto, l’album lo merita sicuramente. (Francesco Scarci)