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giovedì 28 marzo 2019

Sunless Dawn - Timeweaver

#PER CHI AMA: Prog Death, Opeth
Da quando gli Opeth si sono dati al rock progressivo, il prog death ha visto un più grande sviluppo nell'ultimo periodo, quasi la band di Mikael Åkerfeldt e compagni rappresentasse un ostacolo un po' troppo ingombrante per la crescita di altre realtà musicali. L'ultima mia scoperta arriva da Copenaghen e si chiamano Sunless Dawn, e 'Timeweaver' rappresenta il loro album di debutto. E che debutto. La band, che ha vinto il concorso Wacken Open Air Metal Battle nel 2016, propone un qualcosa davvero fresco che fin dall'opener "Apeiron" alle tracce successive, lascia intravedere le molteplici influenze dei nostri. Nella breve opening track ci sento una versione estremizzata di Devin Townsend, suonata con classe e cura certosina. Questa mia percezione positiva si conferma anche con la successiva"Aether", un brano che evidenzia il bagaglio tecnico di cui è dotato l'ensemble nordico fatto di cambi di tempo, ottimi assoli e melodie, senza dimenticare la prova convincente alla voce (costantemente in growl) di Henrik Munch ad impreziosirne i contenuti. Devo essere sincero però che una versione pulita di Henrik avrebbe reso ancor meglio l'output musicale di questo 'Timeweaver', ma sono quasi certo che dal prossimo disco ci sarà qualche novità da questo punto di vista, è fisiologico. "The Arbiter" sciorina una bella ritmica di scuola Opeth e un approccio solistico intrigante (sono pazzo o ci sentite anche voi un che degli Amorphis?). Con la strumentale "Biomorph I: Polarity Portrayed" si apre una sorta di mini concept all'interno del disco: il brano è raffinato, delicato, e apre a deviazioni sperimentali in stile greci Dol Ammad. Con "Biomorph II: Collide into Being" si torna invece a veleggiare nel death "opethiano": interessante qui il bridge iniziale ma in generale sono gli arrangiamenti a fare la differenza e poi beh, quell'assolo a metà brano è semplicemente da applausi e da solo vale l'acquisto del cd; poi il celestiale chorus a fine brano individua probabilmente quella che sarà il mio pezzo preferito del disco. Ma le sorprese sono dietro l'angolo perché strani cori aprono anche la terza parte "Biomorph III: Between Meadow and Mire", in una song dal funambolico incedere black melodico, preso in prestito da altri mostri sacri, i Ne Obliviscaris, a farmi probabilmente cambiare idea sulla mia song favorita. Ragazzi che bomba di album, qui ce n'e davvero per tutti i gusti (anche per chi apprezza gli Scar Simmetry o i Raunchy), soprattutto andando verso il finale della traccia dove la sezione ritmica ne pensa una più del diavolo e a mettersi in luce non sono solo le due asce, ma anche il basso tonante di Eskil Rask. Classe sopraffina confermata anche da "Grand Inquisitor", un pezzo più classico e tortuoso, ma che ha ancora modo di riversare tonnellate di riffs (soprattutto nel finale) e quintalate di groove, grazie all'apporto azzeccatissimo di synth mai invasivi. "Erindringens Evighed" al di là dell'eccelsa qualità musicale che ormai non fa più notizia, la citerei piuttosto per l'utilizzo a livello lirico della lingua madre dei nostri; però visto che ci siete ascoltatevi attentamente anche il finale mozzafiato della song che ci conduce a "Sovereign". Questa è la canzone che era stata scelta come singolo nel 2016, quindici minuti che sublimano il concetto di musica death progressiva, attraverso una scoppiettante prova, corredata da una complessità musicale davvero elevata, in cui mi sembra di percepire a livello di chitarre anche un che degli Edge of Sanity di 'Purgatory Afterglow'. Non so se siano clamorosi abbagli dovuti all'entusiasmo scatenato dall'ascolto di 'Timeweaver', ma ragazzi, un unico consiglio, fate vostro questo disco, non ve ne pentirete assolutamente, soprattutto se siete fan di Opeth, Ne Obliviscaris, Enslaved, Amorphis, Ihsahn, Porcupine Tree, Devin Townsend e compagnia, insomma quanto di meglio la scena abbia da offrire. Che altro state aspettando? (Francesco Scarci)

Moodie Black - MBIII

#PER CHI AMA: Noise/Experimental/Hip Hop
Pensavo che l'hip hop avesse le strade chiuse di questi tempi, le idee fossilizzate, un futuro poco costruttivo, una morte imminente dopo tanti anni dalla sua nascita, fino a quando non ho ascoltato 'MBIII', nuovo EP dei Moodie Black, band losangelina piena di fantasia e di geniale abilità nel ridare lustro a questo genere. Il duo presenta, esasperando e rinvigorendo lo stile tipico che lo contraddistingue (una tipologia di suono di rottura, spesso non apprezzata dalle comunità hip hop più tradizionaliste), quattro tracce dall'incedere lento, sulla base del trip hop, reso agghiacciante e drammatico, grazie alla scelta ingegnosa di usare sonorità vicine all'ambient noise e all'industrial più sperimentale e tanto lontane dal tipico sound, commerciale, pop e metropolitano. La voce profonda si muove tra spoken word e rap, lacerata di continuo da una serie di distorsioni che la fanno apparire inumana e fantascientifica, una litania aspra e dura, un sermone acido, seguito da musiche rigurgitate dopo un'overdose di rumori glaciali, divisi tra digital hardcore e il Gary Numan di 'Jagged', inoltre posso aggiungere che, inverosimile ma vero, queste melodie industriali potrebbero andare a braccetto tranquillamente con gli ultimi Godflesh (ovviamente immaginati in veste hip hop), mostrando fieramente la poca attinenza con i padri luminari della scena e puntando ad una genuina quanto incisiva forte personalità. Quindi, immagini violente, cupe, notturne, rigide riflessioni e sofferenza, sono la chiave di lettura di questi quattro brani dalla potenza inebriante, brani al vetriolo che superano la soglia del sentito fino ad ora, fatti per alzare l'asticella della qualità e portare in alto la voce dell'hip hop sotterraneo, al di fuori degli schemi, mischiandolo con improbabili sonorità, proprio come a suo tempo fecero i Cypress Hill in maniera impeccabile. L'impegno per la causa transgeder (LGBTQ), che vede coinvolto di persona il frontman Chris Martinez (alias Kdeath), ha permesso a questa band di portare in musica una serie di problematiche, paure ed emozioni, spaccati di vita vissuta, in maniera artistica esemplare, componendo un album durissimo ed intenso, certamente degno di nota, un disco traboccante di originalità e veramente estremo. Ottima release! (Bob Stoner)

The Pit Tips

Francesco Scarci

Saor - Forgotten Paths
Paara - Ritti
Phlebotomized - Deformation of Humanity
 
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Five_Nails

Chapel of Disease - . . . and as We Have Seen the Storm, We Have Embraced the Eye
Frost Giant - The Harlot Star
Disencumbrance - The Betrayal

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Alain González Artola

Rotting Christ - The Heretics
Sacrificia - Pestilencia
Proceus - Maharaja

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Dominik

CBF - Malvarma
Sacristy - Masters of Baphometic Devastation
Grafvitnir - Venenum scorpionis

domenica 24 marzo 2019

Gloomy Grim - Obscure Metamorphosis

#PER CHI AMA: Black/Death, primi Dimmu Borgir
Dei finlandesi Gloomy Grim ho amato alla follia 'Blood, Monsters, Darkness', loro primo album ormai datato 1998. Da allora, ogni qualvolta usciva un lavoro della band, speravo potesse accadere il miracolo della ripetizione di quel fantastico debutto, ma niente da fare. Ultimamente, quando tra le mani mi è capitato l'EP 'Obscure Metamorphosis', devo ammettere di aver avuto il solito sussulto, speranzoso di ritrovarmi un piccolo gioiellino che attendo ormai da oltre vent'anni. Purtroppo l'aspettativa è stata delusa anche questa volta, non perchè le quattro tracce qui contenute siano delle ciofeche, semplicemente perchè lo standard qualitativo non riflette ancora quello altissimo dell'esordio dell'act di Helsinki. Quattro brevi tracce (per un totale di poco più di 13 minuti) di black vecchia scuola, sporcato qua e là da venature sinfoniche-orrorifiche ("Stars Above Me") che hanno più di un rimando ai primi Dimmu Borgir. La band non si scorda nemmeno come ci si lancia in cavalcate death come nel finale di "Crawling Saviour". "The Lord of Light" è la perfetta sintesi tra black e death, tra atmosfere cupe, ottime fughe chitarristiche (interessante l'assolo posto ad inizio brano) e qualche buon inserto di tastiere che si ripetono anche nella conclusiva "Impressive Physical Sight", una song molto atmosferica che abbina un riffing black con uno a tratti di scuola Morbid Angel e stop'n go spettrali che ci danno modo di capire che la band è viva e vegeta, nonostante gli ampi rimaneggiamenti a livello di line-up. Quel che voglio portarmi a casa è soprattutto la voglia della band di tornare a proporre qualcosa fuori dagli schemi. Per ora il risultato è uscito solo a metà, ma la strada imboccata potrebbe anche essere quella giusta. (Francesco Scarci)

(Grimm Distribution/Murdher Records - 2018)
Voto: 67

https://gloomygrim.bandcamp.com/album/obscure-metamorphosis-ep-2018

Ni - Pantophobie

#PER CHI AMA: Mathrock/Avantgarde/Noise Rock, Fantômas, Zu
Chi, per passione o per lavoro, scrive si sarà trovato almeno una volta a sperimentare un blocco creativo: le ore e i giorni passano, l’illuminazione non arriva e il foglio desolatamente vuoto davanti a sé, inizia a generare un’ansia crescente. Questa spiacevole sensazione, comunemente chiamata “blocco dello scrittore”, pare abbia un nome scientifico: leucoselofobia, letteralmente “il terrore nell’osservare una pagina bianca”, che probabilmente trascende la dimensione puramente letteraria e finisce per accomunare un po’ tutti gli artisti, compresi i musicisti alle prese con un nuovo album.

I Ni avranno mai sperimentato questa fobia? Io me li immagino chiusi nella loro sala prove di Bourge-en-Bresse, mentre suonicchiano senza convinzione alla disperata ricerca dell’accordo giusto, del riff efficace, di quella vibrazione interiore che all’improvviso spinge le dita di chitarristi e bassisti a muoversi veloci sulle tastiere dei propri strumenti e i batteristi a pestare con energia le pelli dei tamburi. Mi piace pensare che sia stato proprio il tentativo di esorcizzare un blocco creativo ad ispirare 'Pantophobie', quarto album di questo eccentrico quartetto transalpino, incentrato come da titolo sulla “paura di tutto”.

La genesi dell’opera è stata ovviamente tutt’altro che frutto del caso: ascoltando questi undici brani (in realtà nove più due inquietanti tracce di silenzio assoluto in apertura e chiusura) e dando un’occhiata alla storia della band, è chiaro che i Ni, dotati di grande tecnica ed impressionanti abilità compositive, abbiano progettato l’opera nei minimi dettagli, offrendoci un disco volutamente nevrotico ed imprevedibile, basato su ritmi concitatissimi e repentini cambi di dinamica su cui vengono sviluppati intrecci ed armonie allo stesso tempo stravaganti ed eleganti. È difficile attribuire un’etichetta alla proposta musicale del gruppo, ma possiamo tranquillamente parlare di un math/noise rock strumentale in cui tempi dispari, i riff storti ele sequenze bruscamente troncate la fanno da padrone, ma nel calderone vengono riversate influenze avantgarde metal, hardcore, jazz e persino qualche pennellata di ambient e post-rock; l'eco di Mr. Bungle, Fantômas e delle varie creature di Mike Patton sono evidenti, ma è possibile cogliere anche richiami ai nostrani Zu.

Il tutto pare realizzato col preciso obiettivo di non dare alcun punto di riferimento e lasciare l’ascoltatore costantemente spiazzato, quasi a voler riprodurre in musica lo stato di confusione e il senso di minaccia provato da chi soffre di una delle fobie che danno il nome ai pezzi: “Leucosélophobie”, “Héliophobie” (la paura della luce del sole), “Alektorophobie” (paura delle galline), “Kakorraphiophobie” (paura del fallimento), tanto per citarne alcune, sembrano termini usciti da un’enciclopedia psichiatrica per definire terrori assurdi, nei quali possiamo leggere una sottile ironia da parte della band nel ritrarre una società sempre più spaventata ed in balia di apprensioni spesso prive di senso.

In 'Pantophobie' il tema della paura non si limita dunque a fare da sfondo all’estro compositivo degli strumentisti: l’intero lavoro si presenta come un vero e proprio "Urlo di Munch" musicale, la perfetta rappresentazione di un’epoca priva di certezze e dominata da un’inquietudine di cui è difficile cogliere le radici. La cura proposta dai Ni, celata dietro tempi composti e ritmiche folli, è piuttosto semplice: imparando a non prenderci troppo sul serio forse ci accorgeremmo che i nostri mostri non fanno poi così paura. (Shadowsofthesun)


sabato 23 marzo 2019

Liles/Maniac - Darkening Ligne Claire

#PER CHI AMA: Ambient/Experimental/Drone/IDM
Devo ammettere che mi aspettavo qualcosa di più da questo super duo ma, riconoscendo che la musica di questo lavoro è solo una parte di un progetto d'arte visiva ben più esteso, incentrato sulle opere del signore del logo metal, Christophe Szpajde, posso assaporarlo e giudicarlo solo a metà, ascoltandone esclusivamente la musica. Andrew Liles (artista e produttore, con Nurse With Wound e collaboratore dei Current 93) e Sven Erik Fuzz Kristiansen aka Maniac (ex cantante dei Mayhem) ci offrono in questo 'Darkening Ligne Claire' sette brani dal taglio duramente sperimentale, dove la voce di Maniac viene smembrata e frantumata in mille parti da una serie infinita di effetti fino a farla flirtare con una sorta di ambient minimale ed astratto. Difficile parlare di forma canzone o soundtrack, le composizioni risentono della mancanza visiva (sono state prodotte solo sette copie fisiche speciali di questo album!) e si percepisce che avrebbero un senso completamente diverso ascoltate di fronte ad un'immagine e non così, nude e crude. La musica s'interseca tra suoni isterici rubati ai seminali The Residents e l'elettronica più moderna, con spunti e intuizioni veramente vintage e datati. A volte troviamo anche retaggi sonori provenienti dal mitico 'Scream With a View' dei Tuxedomoon (in versione destrutturata e sgretolata per bene) e stupisce poi l'uso dell'harmonizer, quanto l'assenza totale del ritmo scandito solo da accenni ricavati dal parlato di Maniac. Un lavoro ostico e difficile da inquadrare, sicuramente singolare conoscendo il background dei due artisti, misteriosa l'idea di battezzare tutti i brani con un nome di una band black metal o comunque appartenente al circuito metal estremo di cui Szpajde ne ha disegnato il logo, un singolare tributo a queste band oppure un'originale fonte d'ispirazione? "Enthroned" è un finto brano di elettronica drum'n bass scarnificato e disossato di tutto, lasciando con solo piccole frazioni di suono a dettar legge, "Slauther Messiah" con "Wolves in the Throne Room" sono i due brani che mi hanno colpito maggiormente, il primo per la sua veste così drammatica e il secondo per la sua apertura cosmica verso un ignoto buio astrale. Come già accennato, il disco si presenta con un suono di confine non accessibile a tutti e fatto apposta per intenditori voraci di musica ultra sperimentale, anime mai sazie di nuovi orizzonti, come il sottoscritto. 'Darkening Ligne Claire' alla fine è un album tutto da interpretare e di difficile approccio, solo per appassionati del genere. (Bob Stoner)

giovedì 21 marzo 2019

Triste Terre - Grand Oeuvre

#PER CHI AMA: Black/Doom
Torna la Les Acteurs de l'Ombre Productions e con essa un nuovo carico grondante di estremismo sonoro, questa volta in compagnia dei francesi (ormai cosa acclarata) Triste Terre. Si tratta di un duo proveniente da Lione che manco a farlo apposta, propone in questo 'Grand Oeuvre', del black metal contaminato. Interessante notare come la band, all'esordio sulla lunga distanza dopo tre EP all'attivo fino ad oggi (più una compilation), individui Bach come unica fonte di influenza, un unicum direi in ambito estremo. Questa potrebbe essere identificabile nella opening track "Œuvre Au Noir", dove accanto ad un black mid-tempo dalle forti tinte atmosferiche, si pongono degli inserti di organo che possono evocare in realtà un qualsiasi compositore classico, ma mi piace immaginare che quello che ci ho sentito io, sia davvero il buon Sebastian. A livello vocale invece, Naâl si pone con uno screaming cupo alternato ad un cantato sguaiato quasi pulito ma sofferente, là dove il criptico sound avanza tra marcette militaresche ed immersioni al limite del funeral. I pezzi durano parecchio, vi basti pensare che l'opener, la traccia più lunga del cd, sfiora i tredici minuti, mentre le altre canzoni si assestano tra i nove e i dodici. Un attacco post black irrompe in "Corps Glorieux", una song che si riappropria ben presto della sua indole oscura, navigando in stagnose acque blackened doom, anche se non mancano le vorticose e caotiche accelerazioni in blast-beat. Diciamo che gli ingredienti tipici che si riscontrano nelle release della LADLO Prod, ci sono tutti e questo inizia un po' a far scricchiolare, a mio avviso, la strategia di selezione dei gruppi da parte dell'etichetta francese. Chiaro che fintanto che i dischi rilasciati otterranno un discreto successo, la ragione starà dalla parte della piccola ma potente label di Champtoceaux, però il consiglio è quello di cercare qualche soluzione alternativa per evitare di bollare ogni singola release con il marchio "è il solito sound della LADLO", sarebbe davvero un peccato. Però non posso far finta di niente e anche di fronte ad un più che discreto brano come "Nobles Luminaires", l'unica cosa che mi preme sottolineare è quel bridge di musica classica che si ritrova a metà, che risveglia in me echi lontani mai assopiti dei Windir di 'Arntor' o dei Dispatched di 'Motherwar', ma con le dovute differenze, perchè qui non c'è il medesimo e forte approccio da musica da camera che avevano le due band scandinave. Sembra che ai Triste Terre l'influenza classica rimanga bloccata in canna e faccia fatica ad emergere potente, probabilmente intrappolata nelle congiure di un tentacolare doom claustrofobico. Non so se sia un bene o un male, ma il disco prosegue a rilento con i rimanenti tre brani, per un'altra mezz'ora buona di musica lenta ed insana che, passando attraverso le discordanti melodie di "Grand Architecte", altra song dai profondi organoni e dall'incedere angosciante, arriva a condurci a due passi dal precipizio. "Lueur Émérite" apre con un semplice arpeggio, che cede il posto ad un liturgico cantato sorretto da una ritmica che somiglia più ad un mitragliatore M60 piuttosto che al trittico formato da chitarra/batteria/basso, il che lo leggo come un tentativo di regalare qualche variazione in più al tema, che talvolta sembra soffrire di una scarsa dinamicità di fondo. Il disco non è affatto brutto sia chiaro, però, si c'è un però, stenta a decollare. Forse è con la conclusiva "Tribut Solennel", ove la band si lancia nuovamente in sghembe melodie dissonanti di scuola transalpina, che la band diventa finalmente credibile in quello che fa, sfoderando soprattutto un esplosivo finale da applausi che sancisce, tra qualche difficoltà, la fine di quest'opera prima dei Triste Terre. 'Grand Oeuvre' è in definitiva un lavoro che si muove tra luci ed ombre, che palesa tuttavia le potenzialità ancora non completamente a fuoco di un duo che in futuro avrà modo di togliersi diverse soddisfazioni se solo si levasse di dosso quell'impersonale ruggine compositiva che talvolta ammanta il loro sound. Forza e coraggio. (Francesco Scarci)

(LADLO Productions - 2019)
Voto: 70

https://ladlo.bandcamp.com/album/grand-oeuvre

mercoledì 20 marzo 2019

Frozen Moon - Legend of East Dan

#PER CHI AMA: Extreme Folk, Skyclad
Ci hanno impiegato quasi vent'anni i cinesi Frozen Moon per rilasciare un lavoro ufficiale. Formatisi infatti nel 2001 a Jinzhou, dopo varie vicissitudini che hanno portato a molteplici split e cambi di line-up all'interno della band, finalmente si arriva alla tanto agognata release, un EP, speriamo come antipasto per un più prelibato lavoro su lunga distanza. La proposta viene erroneamente accreditata come black metal, sappiate che qui siamo al cospetto di qualcosa di ben più ricercato e raffinato. L'opening track, "Abuka I - Sacrifice" mi catapulta infatti in territori mediorientali che mai mi avrebbe lasciato pensare invece ad una band dell'Estremo Oriente. Il sound proposto è un black (ma non credo sia corretta questa definizione) mid-tempo, assai atmosferico corredato da melodie di carattere folklorico e qualche scorribanda estrema a livello ritmico, il che mi fa pensare ai nostri ad una sorta di Skyclad cinesi. "Abuka II - Evocation" sembra invece trascinarmi in Africa centrale, durante un qualche evocativo rito voodoo che peraltro si traduce anche a livello vocale tra grida ed invocazioni ritualistiche, mentre la musica scorre via tribale, affidandosi ad una ritmica serrata dal suono tuttavia scarno. Un peccato perchè un miglior apporto di chitarra e batteria, avrebbe trasformato il lavoro da intrigante a davvero spettacolare. Le melodie di fondo non nascondono le origini orientali dei Frozen Moon e cosi la proposta che inizialmente percepivo calcare terre africane, improvvisamente si sporca di melodie della tradizione cinese. "Invade of Bohai" si riferisce al mare di Bohai sul quale si affaccia la città dell'ensemble di quest'oggi. È ancora una certa tribalità africana però a governare la proposta della band in una sorta di danza attorno alle fiamme di popolazioni indigene. La musica poi prende la sua strada un po' più estrema, ma in realtà solo le vocals gracchianti del frontman costituiscono l'unico punto reale di contatto col black metal, perchè io parlerei di sonorità sperimentali folk pagane tribalistiche. Questo per dire che la compagine della regione del Liaoning propone un qualcosa di davvero originale, forse non suonato in modo impeccabile, ma sicuramente affascinante. La title track chiude il disco tra cavalcate black (qui posso finalmente dare il benestare alla definizione di musica estrema) inframmezzate però dalle immancabili melodie orientali, da partiture di chitarra acustica e classica e ancora da parti folk metal. Insomma pur essendo solo 22 minuti di musica, io li ho trovati francamente molto interessanti. Spero di avere nuove sulla band quanto prima, perchè se queste sono le premesse, credo che i nostri, aggiustando la produzione e limando qualche errore puramente esecutivo, abbiano davvero delle ottime potenzialità. (Francesco Scarci)

(Pest Productions - 2018)
Voto: 76

https://frozenmooncn.bandcamp.com/

martedì 19 marzo 2019

Stormhaven - Liquid Imagery

#PER CHI AMA: Prog Death, primi Opeth
Originari di Tolosa, gli Stormhaven sono un quartetto prog death che non va confuso con l'omonima band americana. I quattro francesi tornano a distanza di un paio d'anni dall'LP di debutto 'Exodus' con questo nuovo 'Liquid Imagery', dieci pezzi per farci capire come il sound dei nostri sia evoluto in questi 24 mesi e quale sia il loro attuale stato di forma. Il lavoro, che dovrebbe essere una sorta di concept album, narra la storia di un uomo in barca pronto ad affrontare la furia della tempesta. Il cd si apre con l'intro "A Wayward Course", che sembra proprio riflettere la narrazione del protagonista mentre si trova in mezzo alle onde del mare. Poi ecco palesarsi la burrasca attraverso il riffing di "The Storm" e la prima associazione mentale che mi viene spontanea è con il sound degli Opeth periodo di mezzo, anche se in questa traccia, le sfuriate ritmiche sfociano in un techno death talvolta parossistico che prende un po' le distanze da Mikael Åkerfeldt e soci. C'è da dire che comunque la proposta del quartetto transalpino è comunque varia in fatto di cambi di tempo, ed un certo cambio stilistico è da denotare anche a livello delle vocals, che si sbrogliano attraverso un growl possente e a delle altre più graffianti ma pulite. Interessante la porzione solistica con un intreccio di chitarre dal forte sapore classic metal. "Tides", il terzo brano per il quale la band ha peraltro rilasciato anche un video (peccato solo che si vedano i quattro musicisti suonare su sfondo nero e non ci sia alcuna attinenza con quanto dovrebbe richiamare il titolo), sottolinea la capacità di ricerca melodica che appartiene alla compagine originaria dell'Occitania. Dopo i suoi quattro minuti, arriva l'apertura acustica di "Starless Night" a narrare come il cielo stellato sia oscurato dall'incessante pioggia, quasi un parallelismo con la vita tormentata del protagonista. La traccia si presenta elegante e raffinata con ottime malinconiche melodie sia a livello vocale che di linee di chitarra. Poi l'esplosione di "Contemplation", l'unica tappa strumentale del disco, robusta ma sicuramente ispirata, pronta ad introdurre la lunga "Sirens", nove minuti in cui il progressive sembra avere la meglio sugli estremismi sonori della band. La song è di certo assai ritmata, qui gli Stormhaven non lesinano sulle rincorse della sei corde, le parti atmosferiche e i chiaroscuri ritmici, in quella che a mio avviso è la mia song preferita del disco. Ferocissima e dal piglio black è invece "Abyss", una scheggia incontrollabile di ritmiche frenetiche e schizoidi. Ancora un'intro acustica per i secondi iniziali di "Aurora", poi la song vira verso un sound atmosferico a cavallo tra death e black, che vede i nostri ammiccare pesantemente, in un altro break centrale acustico, sia a livello vocale che musicale, agli Opeth. Il disco va migliorando con le partiture prog death di "Vesper", una song piacevole e al contempo più ostica da ascoltare per quel suo rifferama destrutturato e contorto che trova un attimo di quiete nella parte centrale dove le clean vocals si affiancano all'acustica in una parte delicata, malinconica e decisamente più accessibile al pubblico. Il momento di quiete non dura però troppo, il growling maligno e il muro ritmico sono pronti a riprendere là dove avevano sospeso, pronti a ripartire con l'ultima "Echoes", dodici minuti in cui la compagine transalpina mette in campo tutto il proprio repertorio, passando più volte dall'acustica al black epico fino al prog death. Insomma, 'Liquid Imagery' è un disco ben architettato, ben concepito ed in ultimo anche ben suonato, che vede gli Stormhaven proseguire il loro percorso ripercorrendo le orme degli Opeth che furono. Speriamo solo non facciano la stessa fine. (Francesco Scarci)

Wolf Counsel - Destination Void

#PER CHI AMA: Doom/Sludge, Saint Vitus, The Obsessed, Cathedral, Candlemass
A poco più di un anno di distanza dal terzo full-length 'Age of Madness / Reign of Chaos' (recensito qui sul Pozzo, come il precedente 'Ironclad' del 2016) tornano gli svizzeri Wolf Counsel con un nuovo gioiellino sludge/doom che farà sbavare i fan di Candlemass, Cathedral e Saint Vitus: preparatevi ad un’esondazione di riff, oscurità, esoterismo, metallo e — vi piaccia o no — continui rimandi ai classici del genere. I quattro musicisti sono ormai più che navigati, e si sente: nessuna esitazione, nessun calo di pathos, pochissime falle nel songwriting, il tutto condito da una produzione a cinque stelle — non è un caso che il disco esca per la russa Endless Winter, probabilmente una delle più stimate etichette specializzate in doom metal. L’apertura di 'Destination Void' è affidata ad una citazione evangelica in lingua spagnola (“Padre perdonali, perché non sanno quello che fanno”), che fa da intro all’esplosiva “Nazarene”: un riff a tutta chitarra costruito su una drittissima doppia cassa, su cui una voce alla Wino allestisce un indimenticabile ritornello. Fanno capolino i Black Sabbath in “Nova”, e subito il brano diventa una lentissima e ossessiva preghiera a qualche divinità oscura. C’è una nota epica nella successiva “Mother of All Plagues” che vi costringerà a ondeggiare la testa avanti e indietro, mentre le chitarre orchestrano un perfetto gioco a due voci nel bridge centrale. Sorprende l’intro con un solitario basso in tonalità maggiore di “Men of Iron Men of Smoke”: ma è solo un attimo — l’entrata delle chitarre sposta subito l’asse del brano verso un mood nero e fumoso come l’inferno, dove sono ancora i giochi tra chitarra ritmica e solista a guidare le danze. Silenziatosi l’inquietante organo che apre la title-track, gli Wolf Counsel ci riportano in territori di dannazione e malvagità con le ormai caratteristiche chitarre a battere il quattro (ecco i Candlemass, di nuovo) su un tempo lento e ossessivo, che torna poi epico con il contributo della melodia vocale. Un riff in palm-mute fin troppo citazionista dei Sabbath (cosa non lo è, nel doom metal, dopotutto?) apre “Tomorrow Never Knows”, mentre “Staring Into Oblivion” chiude il disco con i suoi dieci minuti di non originalissime chitarre monolitiche e scariche di doppia cassa, che lasciano poi spazio a quasi quattro minuti di solo ruvido e metallico fino al fade-out finale. Dunque, la domanda finale: il doom ha ancora qualcosa da dire o finirà per ripetere all’infinito i suoi canoni? Questo 'Destination Void' è una risposta: un lavoro che ha il sapore dei classici, ma suona come un disco moderno, peraltro nel solco dei precedenti lavori dei quattro svizzeri. Niente fronzoli, niente editing feroci o effettistica: solo ampli al massimo, passione per l’oscurità (e per la vecchia scuola del doom, chiaramente) e capacità più che rodata negli anni di scrivere pezzi memorabili. Se amate il doom ma non cercate a tutti i costi la sua evoluzione futura, amerete questo disco alla follia. (Stefano Torregrossa)

Membrane - Burn Your Bridges

#PER CHI AMA: Post-hardcore/Noise, Time To Burn, Today Is The Day
È evidente che ci sia una forte correlazione tra la musica e il contesto sociale di un paese, e se diamo un’occhiata ai gruppi che negli ultimi anni sono venuti alla ribalta nell’underground francese (in precedenza piuttosto snobbato dalle nostre parti) ci accorgiamo di una realtà parecchio incazzata: i vari Celeste, Time To Burn, Birds In Row e Daïtro, hanno iniziato a portare questo disagio sui palchi dell’Europa ben prima che questo diffuso malessere esplodesse nelle tensioni e nelle confuse proteste che oggi dominano la cronaca d’oltralpe.

I Membrane, terzetto nato in una piccola cittadina di provincia, non hanno goduto della visibilità ricevuta invece da molti altri compatrioti delle scene hardcore e metal, cosa che appare strana vista la carriera quasi ventennale caratterizzata da una vivace attività live, puntellata da periodiche release e ora coronata dall’ultima uscita, questo 'Burn Your Bridges' che nulla ha da invidiare agli album di band più blasonate e che già dal primo ascolto ci travolge come un fiume in piena ingrossato dalle acque di tumultuosi affluenti noise rock, post-metal e post-hardcore. Parliamo di sette tracce dense e scurissime, caratterizzate da ritmiche di batteria telluriche e linee di basso feroci a supporto dei soffocanti accordi di chitarra e del cantato rabbioso, perfetta colonna sonora per un viaggio tra le macerie della vita e le perdite che ognuno di noi deve affrontare.

L’ipnotico arpeggio di chitarra e le due voci supplicanti che ci accolgono nella prima traccia “Stand in the Rain” ci ingannano con la loro sacralità: l’apparente catarsi termina dopo un minuto e mezzo, spezzata da un riff tonante che possiamo tranquillamente accostare a quelli dei Neurosis più indiavolati: dei Membrane colpisce proprio la disinvoltura nell’accostarsi ad alcuni mostri sacri e la capacità di combinare diverse influenze in modo omogeneo e dare spazio ad elementi che coprono un ampio spettro musicale, dal furioso hardcore di “Childhood Innocence” agli isterismi ritmici di “Battlefield”, brano a cavallo tra noise e sludge, lanciato all’inseguimento dei Today Is The Day e dei Breach.

Ritroviamo una chiara ispirazione a Scott Kelly e compagni in “Burn Your Bridges”, breve traccia che funge da spartiacque dell’album a cui dà peraltro il nome, con i tristi accordi di chitarra pulita e le voci ora sussurrate, ora lancinanti nell’esprimere il bisogno di “bruciare i ponti” con un passato doloroso o forse con un presente alienante. Scendiamo la china, o meglio, precipitiamo a folle velocità durante “Fragile Things”, dove fanno capolino influenze post black metal e crust, e affrontiamo la tempesta di “Windblown”, altro pezzo di pura disperazione da percorrere tra grida strazianti, percussioni implacabili e le dure sferzate di chitarra e basso. In chiusura troviamo “At Long Least”, che si apre con un angoscioso giro di basso prima di consumare l’ultimo e più pesante carico di rabbia, che al minuto 3.20 raggiunge il limite del sopportabile.

Efficace, diretto e ben prodotto, 'Burn Your Bridges' è un disco che colpisce subito al cuore, in cui dominano le fiamme della ribellione in contrapposizione alla dilagante oscurità del disagio esistenziale e della depressione: difficile dire quale dei due elementi alla fine trionfi, ma l’energia trasmessa dai Membrane va letta come un invito a reagire anche nei momenti più bui. Insomma, i ponti da bruciare e le paure da sconfiggere sono prima di tutto dentro di noi. (Shadowsofthesun)


domenica 17 marzo 2019

Allegiance - Beyond the Black Wave

#PER CHI AMA: Symph Black, primi Emperor, Limbonic Art
In arrivo dalla Francia una colata di black metal infernale. Causa di tutto questo male è attribuibile agli Allegiance, al debutto con 'Beyond the Black Wave'. I cinque musicisti di Tolosa, da non confondere con gli omonimi svedesi, si lanciano all'assalto con otto tracce votate alla fiamma nera, quella che strizza l'occhiolino alle lande scandinave, e che vedono negli Emperor e nei primissimi Dimmu Borgir, la loro principale influenza. Un tuffo negli anni '90 dunque a ripescare suoni che credevo ormai persi ma che ultimamente stanno tornando sempre più alla ribalta. Dicevamo delle otto song che si aprono con la classica intro che lascia il posto alle luciferine ritmiche di "The Fall of Black Heroes" e alle partiture atmosferiche che chiamano in causa gli Emperor dei primi due album, non rinunciando quindi alle fantomatiche e rabbiose accelerazioni black thrash. Anche le grim vocals di Asgorn sono in linea con quelle dell'esimio collega norvegese e il disco non può che beneficiarne. Chiaro che la proposta del quintetto transalpino è quanto mai derivativa, anche quando in "I Wrath I Death" vengono fuori le cleaning vocals del frontman a palesare del tutto l'amore verso la scena nordica. Bombastiche anche le keys di Delok, in pieno stile black metal sinfonico, ideali per non snaturare un sound che seguendo i propri dettami, certamente farà la gioia dei fan più accaniti di questo genere, compreso il sottoscritto. Alla fine però bisogna essere degli imparziali valutatori e fare le dovute precisazioni in merito: se il disco da un lato mi esalta proprio per la sua capacità di ricondurmi indietro nel tempo, a quando mi avvicinai al black nei primi anni '90, e brani come l'epica (quasi viking) "The Entity Behind the Wall of Flames" o la conclusiva "The Phantom Coach", incarnano alla perfezione il mio mood dell'epoca, devo anche ammettere che di dischi di simile o miglior entità, nell'ambito di questo genere, nel corso di questi ultimi 25/30 anni, ne sono usciti davvero parecchi. Diamo però a Cesare quel che è di Cesare e gustiamoci senza troppe pretese e ricerca di similitudini, un lavoro che suona genuino, melodico al punto giusto, senza essere eccessivamente pomposo, ma risultando ben suonato e con qualche idea neppure da scartare. Ascoltando il cd poi ecco affiorare altre influenze inevitabili per l'act francese: penso ad un pizzico dei primi Limbonic Art in "Soreceress Queen", la cui magia sembra in realtà ammantare l'intero album degli Allegiance. Un lavoro la cui unica pecca potrebbe essere forse una produzione alquanto freddina, che non inficia però la riuscita complessiva del disco. In definitiva, se avete amato alla follia 'In the Nightside Eclipse' degli Imperatori, beh 'Beyond the Black Wave' potrebbe essere la soluzione alternativa che vada a tamponare la vostra sete cronica di black sinfonico anni '90. (Francesco Scarci)

Suum - Buried Into the Grave

#PER CHI AMA: Doom, Candlemass, Saint Vitus
La scena italiana brulica in tutte le sue forme e manifestazione, ma è solo grazie ad etichette come la russa Endless Winter che le band nostrane riescono a rilasciare i loro lavori. Non siamo infatti dietro a nessuno nel mondo in alcun genere, e i romani Suum lo dimostrano con una prova convincente che avvicina il sound dell'act italico a band quali Candlemass, Solitude Aeternus o Cathedral. Fatta questa premessa, addentriamoci un pochino di più nel debut 'Buried Into the Grave', un disco che inizia con "Tower of Oblivion" che al di là della classica ritmica doom alquanto ficcante, mi colpisce per una prova vocale che mi porta addirittura agli Heroes del Silencio, un gruppo rock spagnolo degli anni '80/90. Gli ingredienti per fare bene ci sono tutti, dal songwriting ineccepibile agli ottimi suoni messi in pista dal quartetto capitolino, passando attraverso una prova convincente di sette capitoli, mai troppo lunghi di durata, a dire il vero. I quasi cinque minuti di "Black Mist" mostrano più di una affinità con i Candlemass, soprattutto a livello vocale, mentre la musica lenta e sinuosa si affida ad un comparto ritmico formato da Marcas al basso, Rick alla batteria e Painkiller alla chitarra che con la sua sei corde sciorina una serie di ottimi spettrali assoli (notevole quello della title track), mentre il bravo Mark Wolf alla voce, continua ad offrire un'ottima performance, come già ci aveva abituato nei Bretus, o in passato, nelle altre innumerevoli band a cui aveva prestato la sua voce. Questo per dire che per quanto 'Buried Into the Grave' risulti a tutti gli effetti un debut album, abbiamo in realtà a che fare con musicisti alquanto navigati. Certo, sia ben chiaro che i Suum non reinventano il genere, però ne offrono la loro quanto meno personale visione e reinterpretazione, sfoggiando qua e là qualche brano davvero azzeccato. Personalmente oltre alla title track, ho apprezzato sicuramente la malinconica verve di "Last Sacrifice", che pur essendo meno tecnica rispetto alle altre, ha invece un quid melodico, che mi ha colpito più delle altre. Più monolitica ed orientata al versante doom dei primi Cathedral invece "Seeds of Decay"; poi la band ha ancora modo di offrire una traccia strumentale ("The Woods Are Waiting"), che funge più che altro da ponte d'interconnessione con l'ultima "Shadows Haunt the Night", ove le chitarre continuano a regalare riffoni old-school che ci portano indietro di quasi trent'anni, a farci capire che il doom è ancora vivo e vegeto e che forse mai morirà fintanto che nell'aria risuoneranno i riff che gli immortali Black Sabbath iniziarono a suonare ormai cinquant'anni fa e di cui ora si va in cerca solo dei degni eredi. (Francesco Scarci)

Black Yen - Lure

#PER CHI AMA: Instrumental Post-Rock/Doom
Il bassista dei deathsters austriaci Nekrodeus, nonchè musicista live dei post black metallers Ellende, Sebastian Lackner, ha cambiato mestiere, dando vita al proprio progetto solista, i Black Yen. Coadiuvato alla batteria da Paul Färber, il buon Seb rilascia tre brani strumentali che poco hanno a che fare con la violenza tritaossa della sua band madre o con l'irrequieta emotività degli Ellende. Partendo con l'ascolto di "Lure", la title track dell'album, è evidente che i propositi del buon factotum austriaco siano, almeno in apparenza, quelli di rilasciare una musica che spazi tra la pesantezza del doom e l'eteree atmosfere del post-rock. Il risultato sembra dar ragione a Seb, che si lancia in lunghe fughe sognanti, chitarre in tremolo picking, qualche cruda accelerazione post black (retaggio degli Ellende, ma anche un qualche ammiccamento ai Deafheaven) che prova a non farmi soffrire troppo per l'assenza di un vocalist. Decisamente diverso l'approccio della seconda traccia, "Drag", molto più morbida rispetto all'irruenza sprigionata dall'opening track di questo 'Lure'. Il sound è ritmato, forse un po' troppo minimalista per i miei gusti e che nei quasi otto minuti della song, fatica a decollare, almeno fino a quando, a due minuti e mezzo dalla fine, sembra scaldare i motori per un finale più dirompente, che tarda a venire e comunque a soddisfare appieno le mie aspettative. Con una voce a ricamo, probabilmente avrei sofferto meno questa frustrante attesa. Arriviamo alla lunga canzone conclusiva, i dodici minuti di "Throat Pain" e sono le plettrate di chitarra ad aprire, in un frangente acustico a tratti suggestivo. Il clima è rarefatto, spoglio, malinconico, qui le influenze post-rock di Sebastian convergono a creare un'attesa per un qualcosa che non tarderà a venire ossia l'esplosione di un cangiante rifferama che ancora si muove tra dilatazioni post, qualche sporadica accelerazione black e delicati arpeggi acustici. Interessante la scoperta dei Black Yen, sicuramente c'è ancora da lavorarci per definire una propria personalità, ma le premesse sono positive, se poi ci fosse una vocina qua e là... (Francesco Scarci)

(Self - 2018)
Voto: 68

https://black-yen.bandcamp.com/