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mercoledì 20 aprile 2016

Heartbeat Parade - Hora de Los Hornos & Some Sort of Naked Apes


#PER CHI AMA: Post-Hardcore/Math Rock
Dopo 'Digital Tropics' dei Mutiny on the Bounty, è la seconda volta nel giro di un mese che mi trovo alle prese con una band proveniente dal Lussemburgo. La musica del trio è un intrigante insieme di math, hardcore e post-metal strumentale, sul quale vengono però sapientemente innestati samples di spoken words provenienti da film, documentari, notiziari radiofonici o televisivi, per un risultato davvero interessante. Saranno state le aspettative non proprio altissime, ma confesso di essere rimasto piacevolmente sorpreso dalla freschezza di questi due album e di averli ascoltati molto piú a lungo di quanto non mi sarebbe stato richiesto ai fini della sola recensione. Niente di rivoluzionario, sia chiaro, ma di sicuro un concentrato di ottime idee realizzate nella migliore maniera possibile. Gli Heartbeat Parade sono musicisti dotati di ottima tecnica ma hanno l’intelligenza di non abusarne e in piú hanno l’inventiva che gli permette di trovare sempre soluzioni intelligenti e sorprendenti. 'Hora de Los Hornos' è il loro terzo lavoro, del 2013, il primo vero e proprio album e quello con cui arrivano alla piena maturità espressiva. L’equilibrio tra le componenti math e hardcore riesce sempre a reggersi in modo mirabile nonostante la sua fragilità, e la scelta dei campionamenti risulta sempre estremamente suggestiva, ovviando nel migliore dei modi all’assenza di un cantato vero e proprio. In particolare, questo espediente permette alla band di affrontare tematiche sociali affidandosi alle voci della cronaca, che unite alla loro musica travolgente, permettono di ottenere un risultato dall’alto tasso emotivo. 'Some Sort of Naked Apes' è invece il loro ultimo full-length, uscito sul finire del 2015, e rappresenta un ulteriore passo in avanti nella proposta della band lussemburghese, che si arricchisce di sfumature, cementa il suono e consolida un’intesa tale da raggiungere vette di quasi perfezione in brani quali “Choc et Stupeur”, “Another One Wipes the Dust” e “Bottom up!”, dove si realizza quell’ideale connubio di potenza e delicatezza, tecnica e passione che vorremmo fosse sempre presente in tutti i lavori di questo tipo. Dischi consigliatissimi (in particolare l’ultimo) per una band davvero notevole. (Mauro Catena)

(Hora de Los Hornos - 2013)
Voto: 75

(Some Sort of Naked Apes - 2015)
Voto: 80

domenica 17 aprile 2016

Filth in My Garage - Songs From the Lowest Floor

#PER CHI AMA: Post-Hardcore, Amia Venera Landscape
L'Argonauta Records prosegue la propria politica votata alla scansione delle migliori realtà nostrane e non solo: dopo aver assoldato Nibiru, Wows e Kayleth, giusto per stare in casa nostra, l'etichetta ligure ha messo sotto contratto i bergamaschi Filth in My Garage, che giungono con questo 'Songs From the Lowest Floor', al tanto agognato Lp di debutto dopo due EP usciti nell'arco di quasi dieci anni. Non proprio prolifici è il caso di dirlo, ma la band ne ha la consapevolezza e comunque i nostri hanno speso il loro tempo con lunghi e proficui tour all'estero. Nel frattempo i lavori sono andati avanti per dare in pasto ai fan nuovi brani in una veste grafica davvero elegante. Il disco infatti esce in cd ma soprattutto in vinile, con un lavoro minuzioso fatto di scrittura a mano da parte di un calligrafo professionale e un booklet pazzesco (in stile cd) con delle illustrazioni deliranti, a cura del vocalist (chissà quali funghi allucinogeni avrà ingerito), associate ad ogni song del disco. Bando alle ciance ora e concentriamoci sulla musica dei cinque. Musica che si apre subito con una sorpresa: la sensazione è infatti quella di trovarci nel set del film 'Il Buono, il Brutto e il Cattivo' con tanto di colonna sonora firmata da Ennio Morricone, il classico spaghetti-western italiano. Neanche il tempo di adattarci a questa situazione che la band ci attacca con "Black and Blue" e il paragone potrebbe essere quello di un frontale con un bus. L'acido e contaminato post-hardcore dei nostri ci investe infatti con il proprio ritmo incalzante corroborato dall'ottimo scream/growl dell'allucinato Stefano, mentre i nostri ci concedono solo un brevissimo break che mi ha ricordato alcune cose degli At the Soundawn e degli Amia Venera Landscape. Il corrosivo sound dei nostri prosegue in "Devil's Shape", anche se qui le ritmiche non si rivelano cosi serrate come in precedenza, ma giocano piuttosto a rincorrersi tra cambi di tempo e break acustici, dove le voci abrasive vengono sostituite da un cantato pulito. "Greenwitch" è una strumentale che inzia col delizioso pulsare del basso di Simone, a cui via via si aggiungono gli altri strumenti per una rincorsa vorticosa contro il tempo per raggiungere "The Awful Path". Una song dal sapore quasi blues rock, a cui aggiungerei anche lo sludge, dove l'ensemble lombardo strizza l'occhiolino ai Neurosis, una traccia dall'incedere ondivago che mette in mostra la complessità strutturale della musica prodotta da questi ragazzi. Chi pensa infatti che l'hardcore sia semplice da suonare perchè mera derivazione del punk, e dei suoi suoni dritti, ascoltando 'Songs From the Lowest Floor', dovrà ricredersi completamente, dati i notevoli cambi di ritmo, di umori e tensioni che si avvertiranno durante l'ascolto del disco, che diventano ancor più profondi nella lunga e magnetica "Red Door", la traccia in cui fa capolino anche una certa influenza di scuola Isis: buone melodie, ritmiche che ondeggiano tra ipnotici downtempo e sfuriate di derivazione mathcore, alla The Dillinger Escape Plan, in una song davvero completa e massiccia, che non scorda neppure di palesare il classico break "prendi fiato". "The Lowest Floor" ci concede ancora il tempo di rifiatare con una traccia carica di groove ma anche della caustica attitudine screamo. Mi avvio a chiudere il disco con l'ascolto di "Owl Feather", un'altra, l'utlima traccia in cui il quintetto orobico ci delizia alternando momenti atmosferici e malinconici con sferzate di rabbioso hardcore. Insomma, 'Songs From the Lowest Floor' è l'ottimo biglietto da visita dei Filth in My Garage, far finta di niente e non concedergli un ascolto, sarebbe indegno da parte vostra. (Francesco Scarci)

(Argonauta Records - 2016)
Voto: 75

https://filthinmygarage.bandcamp.com/

sabato 16 aprile 2016

Swan Valley Heights - S/t

#PER CHI AMA: Stoner Rock, Colour Haze, Truckfighters, Fu Manchu
Potrei chiudere questa review all’istante. Vi basti sapere che sullo splendido packaging di questo lavoro del trio tedesco Swan Valley Heights c’è scritto “Please listen at full volume”. E che le sette tracce (mai sotto i 6 minuti l’una, più spesso oltre i 9) sono un capolavoro di fuzz e bigmuff con le rotelle a fine corsa, basso distorto e pulsante, batteria minimale ma sempre precisa, arpeggi spaziali imbevuti di delay e una voce pulita e distante (forse l’unico neo del disco, per la sua scarsa personalità), leggermente grunge nelle scelte melodiche. Se esistesse una scuola di riffing, gli Swan Valley Heights sarebbero i prèsidi onorari a vita: potenti, lineari, ossessivi, precisi. Talmente in fissa per il groove, che non ho trovato un singolo riff noioso, banale o semplicemente riempitivo. Vi sfido a non canticchiarvi in testa il giro portante della spettacolare "Mammoth" (11 minuti abbondanti tra crescendo magistrali e cavalcate in pieno mood Truckfighters), a non muovere la testa a tempo su "Let Your Hair Down" o a non stupirvi ascoltando i cinque quarti di "Caligula Overdrive". Non si corre, qui: c’è molto mid-tempo ben sfruttato. Un paio di pezzi rallentano fino allo spasmo, tingendosi di cupe tinte doom ("Slow Planet", "Mountain"). Poi, quando meno ve lo aspettate, il viaggio tra stoner e sludge lascia la terra e si spinge nello spazio: "Alaska", o l’intro della splendida "Caligula Overdrive" sono gemme di psichedelia lisergica. A completare questo lavoro, metteteci una produzione magistrale: tutto il suono vi arriva in piena faccia, come un pugno. Cassa, basso e rullante fanno sobbalzare il torace e rimbalzano nel cranio (sentitevi il minuto 4.00 di "Mammoth"); la voce è morbidamente in secondo piano, dove dovrebbe essere; la chitarra è definita pur restando pastosa, grassa, gorgogliante di distorsione. Sono senza parole: un disco straordinario, in grado di far incontrare lo psych-stoner più tedesco con la scuola americana, il riffing di derivazione blues con l’ispirazione metallara di un certo stoner di oltreoceano. Comprate questo disco. (Stefano Torregrossa)

(In Bloom Publishing - 2016)
Voto: 85

https://swanvalleyheights.bandcamp.com/releases

Valgaldr – Østernfor Sol

#PER CHI AMA: Black Old School, Satyricon
La nota tela di Theodor Kittelsen è un piacevole primo impatto con il debut album dei norvegesi Valgaldr. E proprio come il dipinto è stato più volte ripreso da altri gruppi (Burzum in primis), il duo propone un black metal privo di qualsiasi originalità. Purtroppo, questa scelta di riprendere gli stilemi anni '90 si scontra con una mancanza di oltranzismo che non riesce a esaltare il prodotto finito. Il disco si apre con “Tusen Steiner”, traccia energica e dinamica la quale mi rimembra la tipica aggressività di un arcinoto gruppo elvetico, mentre la seconda “Et Slott I Skogen” si addentra con il suo riffing sgargiante su territori riconducibili alle melodie tipiche di gruppi come Satyricon, le quali ritroveremo pure in “Slagmark”, la traccia a mio parere più inconsistente dell'opera. “Taakenatt” è veloce, granitica, diretta e grazie alla sua monotonia rispetta tutti i canoni della genuinità tipica del metal oscuro scandinavo. Questa song, insieme alla traccia successiva rappresentano le prime composizioni dell'opera capaci di evocare un minimo di oscurità, soprattutto “Aske Til Aske” con il suo arpeggio semplice ma efficace.“Vargnatt” segna l'inizio della seconda parte del disco e saccheggia spudoratamente la musicalità di 'In the Nightside Eclipse'. Questa seconda metà, grazie a tracce come “Over Fjellheimen” e “Begravelsesferd”, placa la rabbiosità e la grinta thrash/black per affacciarsi verso parti più pacate ed evocative grazie anche a un approccio corale a livello vocale. A livello sonoro invece, le pecche principali del disco si potrebbero ricondurre a un songwriting matematico e ripetitivo, il quale nonostante i plagi non riesce ad amalgamare pienamente il tutto. Inoltre, troviamo una batteria debole e prevedibile che manca totalmente della furia tipica del genere; infine, un taglio delle frequenze alte che invece di enfatizzare una ricercata cupezza o suono wannabe “old school” non fa altro che togliere dinamica alle ritmiche. In conclusione, questa prima fatica non colpisce granchè nel segno e la sua piattezza è gravata ulteriormente dal potenziale derivante da tutte le idee riciclate. Perseguire uno stile sorpassato e esaurito nel suo ambito non è un male anche se è limitante, ma la mancanza di creatività non può essere giustificata. (Kent)

(Fallen Angels Productions - 2015)
Voto: 60

https://valgaldr.bandcamp.com/

A Time to Hope - Full of Doubts

#PER CHI AMA: Post Hardcore/Math
Gli A Time to Hope (ATTH) sono un quintetto di Montpellier (Francia) che debutta con questo interessante EP autoprodotto, ma promosso dalla Dooweet Agency. ll sound della band francese è un post-hardcore/rock potente ed evocativo, come se gli Architects si fossero fusi con i Mogwai e avessero tentato di intraprendere un nuovo percorso musicale. Il giovane quintetto ha le idee chiare ed una buona tecnica di base, lo si capisce subito da "RosaRosa", la opening track di questo EP. Una potente scarica ritmica di basso e batteria sostiene infatti i velocissimi riff di chitarra, mentre il vocalist si destreggia tra canto melodico e screaming, ad enfatizzare nella maniera corretta i vari passaggi della canzone. I suoni sono quelli giusti per il genere e la gli arrangiamenti sono ben fatti, dove la ritmica complessa si fonde a meraviglia con i diversi intrecci di chitarra, rendendo il brano ben fatto e piacevole. In alcuni frangenti si sembra di percepire una sorta di influenza math che non guasta, rendendo più personale il lavoro fatto dalla band. Il cantato in inglese aiuterà sicuramente la band ad internazionalizzarsi, anche perchè l'uso della lingua madre avrebbe comportato uno sforzo che difficilmente sarebbe stato ripagato. "VII" si sporca di elettronica con una drum machine ambient appena percettibile che lascia quasi subito spazio alla versione acustica della stessa, mentre le chitarre si destreggiano in un fraseggio post rock carico di riverbero a ricreare un'atmosfera evocativa ed onirica. Un brano breve ma sufficiente a dimostrare che gli ATTH sanno soffermarsi e divenire più introspettivi quando vogliono. Piccola dimostrazione di personalità e padronanza di stile. "Catfish" rimette le cose a posto riportandoci di punto in bianco a dove avevamo lasciato la band quanche minuto fa, cioè a un post hardcore sincopato. Ancora degno di nota è il cantato, con il vocalist che riesce a trasmettere una vena triste e riflessiva alle melodie grazie a una timbrica abbastanza originale. I riff di chitarra convincono sempre di più, con un innesto di arpeggio pulito e il ritorno della drum machine a completare il disegno. Molto bella la coda del brano che ci spinge verso l'alto e ci regala una pausa, perfetta per meditare ed assimilare questo 'Full of Doubts', il perfetto biglietto da visita di una band giovane, ma pronta a farsi valere. Ben fatto mes amis! (Michele Montanari)

Aidan Baker - At Komma

#PER CHI AMA: Post Rock
'At Komma' è uno dei tanti progetti di Aidan Baker (chitarrista) qui aiutato da Felipe Salazar (batterista dei Caudal, altro gruppo di Aidan Baker). Il Canadese Baker, in attività dal 2000, vanta numerosi album e collaborazioni tra Stati Uniti e Berlino. ed è proprio nel vecchio continente che nasce 'AT KOMMA'. cd registrato live nel febbraio del 2014 presso il centro culturale di Esslingen in Germania, e l'album e le tracce prendono il nome proprio dal locale, appunto Komma. dove spesso i suoi live sono improvvisati grazie al suo stile nel ricreare atmosfere dispersive tramite lenti e eterne sequenze di accordi e suoni che si mescolano tra loro e in loop ti portano altrove ("Komma 2" su tutte). La fragilità di un disco post rock, come quello prodotto da Aidan Baker, sta nel momento in cui lo ascolti. per cui non ne vieni immediatamente folgorato per la costruzione delle canzoni nemmeno dopo svariati ascolti. Devi essere particolarmente propenso a lasciarti trascinare e perderti, trasportato dalle onde sonore ("Komma 3") che Baker e Salazar sono riusciti a creare. Non trovo nulla di nuovo, ma è un buon sottofondo per certi momenti riflessivi che la vita ti richiede. "Komma 4" parte con un clima più festaiolo, 4/4 bello spedito, shaker in ottavi, che un po' ti rincoglionisce dopo 10 minuti di canzone, ma forse è proprio lo scopo prefissato dai due musicisti. Certo, da un album live non ci si può aspettare molto di più, quindi considerando l'attitudine ad improvvisare spesso, lo trovo anche ben strutturato. (Alessio Perro)

(Tokyo Jupiter Records - 2014)
Voto: 60

https://www.facebook.com/AidanBakerMusic/?fref=nf

venerdì 15 aprile 2016

Corinth - S/t

#PER CHI AMA: Stoner/Sludge
Lo sludge/stoner sembra andare parecchio di moda in UK. I Corinth sono infatti una band di Leeds formata da quattro simpatici burloni, come si evince dalla loro pagina facebook (andate a dare un'occhiata giusto per farvi due risate), che ha rilasciato a febbraio di quest'anno, un EP omonimo di tre pezzi che si aggiunge nella loro discografia, ad altri due EP usciti rispettivamente nel 2013 e 2014. Nonostante il loro buffo aspetto, l'ensemble di sua maestà la regina, offre un sound tipicamente melmoso che nelle sue corde, ha modo di inserire spruzzatine doom e heavy. Se l'attacco di "Solar Blaze" sembra abbastanza aggressivo e arrogante, nella sua evoluzione sonora, avrà modo di rendere la propria proposta musicale ben più tetra e pesante, definitivamente doom nel suo claustrofobico finale. Con "Those With No Eyes", il mood dei Corinth si fa ancor più cupo e ossessivo, con il cantato (nella sua duplice forma, sporca e pulita) del duo formato da Ben e Tom (rispettivamente anche chitarrista e bassista della band) ad emulare in una qualche maniera i Neurosis. Il riffing dei nostri è lento, quasi asfissiante ma trova comunque squarci di una certa eterealità nei momenti in cui il vocalist si cimenta con clean vocals evocative. Un approccio più stoner oriented invece si ritrova nella lunga e conclusiva "Ironclad", forse la migliore song del lotto, certamente la più completa. L'incipit stoner dicevamo, a cui seguono deliziosi e pulsanti momenti di psichedelico space rock, reso interessante da un cantato che si fa ancor più convincente lungo gli oltre nove minuti di una traccia ipnotica, lisergica e pachidermica, ma che sa anche divenire camaleontica, contorta e psicotica, e che in alcuni frangenti sembra persino rievocare lo spettro degli Isis. Insomma un disco quello dei Corinth che può essere un preludio a qualcosa di davvero buono. (Francesco Scarci)

(Self - 2016)
Voto: 70

giovedì 14 aprile 2016

Ashen Horde - Nine Plagues

#PER CHI AMA: Death/Black, Akercocke, Mithras
La seconda fatica per gli Ashen Horde, one man band californiana del polistrumentista Trevor Portz, è un concept album horror incentrato su nove piaghe che affliggono gli abitanti di un piccolo villaggio isolato. L'opera, oscura ma di brioso ascolto, non è di facile descrizione a causa delle sue numerose sfumature che ricoprono le composizioni, ma sin dall'inizio chiara e forte è l'impronta progressive in gran parte dei suoni che richiamano nomi del calibro di Morbid Angel, Immortal, Behemoth e Strapping Young Lad. “Desecration Of The Sanctuary” introduce epicamente l'opera e, subito dopo terminato l'accomodamento con le sonorità create dal nostro musicante hollywoodiano, non lascia scampo complici le sfuriate death/black e le ritmiche sincopate che con l'avanzare della traccia diventano sempre più serrate, innalzando malvagi muri di blast-beats. L'opener, insieme all'ultima song, “A Reversal Of Misfortune”, sono le composizioni più prolisse del disco con l'evidente compito di accompagnare l'ascoltatore dentro e fuori da questo concept e a mio parere sono anche le tracce meglio riuscite del disco grazie a questa loro funzione pedagogica capace di coinvolgere ulteriormente l'ascoltatore. Le piaghe invece centrali viaggiano su distanze più brevi e colpiscono dirette e precise, alternandosi tra furiose accelerazioni e rallentamenti marziali, trovando nel binomio creato da “Feral” e “Famine's Feast”, un accostamento a dir poco letale. Altri brani, come “Atra Mors” e “Dissension”, trovano invece la loro forza nel riffing sinistro che rende l'atmosfera fredda, gelida, notturna e soprattutto angosciante. Nonostante tutta la malignità che trasuda, il disco abbonda di melodia la quale, seppur mascherata da toni cupi e macabre pennate, esce palesemente negli assoli e pare essere il marchio che contraddistingue complessivamente il sound degli Ashen Horde (mi sovviene un'analogia con l'ossessiva passione per la scala minore armonica nei Death). Alla fine 'Nine Plagues' è fonte di linfa fresca per il metal estremo figlio delle classiche band death e black, che a livello puramente sonoro rimane ancorato al passato senza cercare particolarità come fatto da altri act quali StarGazer, Mithocondrion o Portal. Questo non significa che il disco suoni banale o semplicemente già sentito, anzi sono certo che gli amanti del classicismo apprezzeranno particolarmente le scelte di Mr. Portz. A livello più personale, una pecca che trovo in quest'opera, seppur riconosca la preparazione tecnica e l'alchimia ricercata dal mastermind statunitense, è la mancanza di una certa espressività nelle composizioni, in quanto il disco si muove costantemente a livelli massimi di rabbia e potenza. Non c'è alcun riff particolare o qualche passaggio che mi coinvolga realmente o mi rimanga in mente, ma sono conscio che 'Nine Plagues' sia certamente un lavoro complesso, pieno di elementi, che necessiti di numerosi ascolti per essere assimilato a pieno. Sono sicuro che con pochi accorgimenti, gli Ashen Horde potrebbero sorprenderci ancor di più in un (speriamo breve) futuro. (Kent)

(Mandol Records - 2015)
Voto: 70

Absent/Minded - Alight

#PER CHI AMA: Death/Doom/Sludge, Neurosis
La Baviera non è solo crauti, birra e wurstel, oggi potrebbe essere equiparabile a un piccolo spicchio di Bay Area, dove lo sludge imperversa da quasi trent'anni grazie ai Neurosis. Ne avevamo già parlato in occasione del loro secondo album, 'Earthone', torniamo a recensire gli Absent/Minded in occasione del terzo lavoro, 'Alight', uscito lo scorso autunno. Differenze sostanziali rispetto al suo predecessore non se ne scorgono, i quattro di Bamberg continuano nel proporre un death doom sludge dall'incedere monolitico, circolare, che tuttavia mostra una certa freschezza nei suoi suoni. Questo per dire che se ascoltando "Light Remains", la sensazione è quella di schiantarsi con l'automobile contro un muro di cemento armato, data una certa durezza nel rifferama contorto e melmoso (tipicamente sludge), con la successiva e strumentale (fatto salvo per alcune voci campionate) "Stargazin'", la musica cambia e di parecchio, acquisendo una certa celestialità che la rendono decisamente abbordabile ai più. L'arpeggio iniziale di "Clouds", accompagnato dalle flebili vocals di Steve, non fanno altro che confermare quanto detto, anche se poi la ritmica assume certi connotati di pesantezza e profondità, con il growling cavernoso del vocalist quasi a spaventarci. Nessuna paura però, perché il fluido sound dei nostri troverà ancora modo di addolcirsi per scatenarsi successivamente nel roboante rifferama di questi artisti. I suoni fluttuano nell'aria rincorrendo gli insegnamenti dei già citati Neurosis, ma anche dei bostoniani di nascita e los angeliani di adozione, Isis. La proposta degli Absent/Minded è un crescendo di intensità, che in "Arrivers" ha da offrire una ritmica sincopata, quasi etnica, che entra dentro come un battito del cuore e si insinua nell'anima cosi come nella testa. Il ritmo è tutto in salita e contribuisce ad aumentare l'adrenalina in corpo, per un finale, in cui le vocals sembrano le urla del muezzin in preghiera nel minareto. C'è una minacciosa calma apparente nelle note iniziali di "Skies of no Return", segno che presto la tempesta si abbatterà sulle nostre teste e infatti non mi sbaglio: il tonante riffing dei quattro teutonici torna a pestare, mantenendo comunque sempre intatto il mid-tempo che guida l'intera release. Splendido l'acustico break centrale che interrompe il pachidermico avanzare dei nostri anche se la sua oniricità sarà da li a poco frantumata dal più violento intervento ritmico, quasi al limite del post black. Con ‘So Dark, the Con of Man’ arriviamo all'epica conclusione di 'Alight': ancora un lungo e semplice incipit acustico accompagnato da voci campionate, e poi la rabbia degli Absent/Minded esplode sotto forma di riff incandescenti ultra distorti, volti a prenderci a pedate nel culo. 'Alight' conferma le ottime doti dell'ensemble bavarese, abile nel muoversi nei territori ostili dello sludge e mostra anche come, pur non avendo stravolto il mondo musicale con chissà quali trovate artistiche, sia ancora possibile offrire musica di qualità e di sostanza. Ben fatto ragazzi! (Francesco Scarci)

(Self - 2015)
Voto: 80 

Fallen - S/t

#PER CHI AMA: Funeral Doom
I Fallen sono norvegesi e suonano funeral doom fin dal lontano 1996; hanno prodotto un demo e un album nel 2004 dal titolo 'A Tragedy's Better End'. Nel 2015 hanno pubblicato una raccolta per la Solitude Productions, riproponendo il vecchio lavoro arricchito da una splendida cover di "Persephone - A Gathering of Flowers" dei Dead Can Dance e di un altro brano fantastico dal titolo "Drink Deep My Wounds". In assoluto questa compilation è un lavoro stupendo, ricercato, che colpisce profondamente, un geniale colosso sonoro, romantico, malinconico ed ipnotico, un album che nessun appassionato del genere deve farsi mancare, un lavoro da rispolverare in pompa magna. Niente di nuovo sia ben chiaro ma semplicemente un mastodontico capolavoro di ottanta minuti dove il trio scandinavo non lascia superstiti, tra folate di vento gelido, ritmi al rallentatore, riff strazianti, morenti, decadenti, una qualità sonora egregia ed aperture pianistiche in pieno spirito classico ("The Funeral" è a dir poco fantastica e magnificamente inserita nell'album), puntuali come non mai nell'infliggere il colpo di grazia allo stato d'animo di chi ascolta. L'evocativa voce baritonale di Kjetil Ottersen è il perfetto Caronte della situazione, a traghettarci nell'Ade cavalcando le lente e drammatiche litanie della band, in un infinito inferno della psiche, spingendo al massimo la crescita artistica del gruppo e in generale di un genere tanto affascinante quanto di nicchia. Tornando a "Drink Deep My Wounds" la eleggo a mia song preferita, un capolavoro gotico, di tristezza profonda e imperiale che supera il confine del mondo metal accostandosi più all'opera teatrale, alle colonne sonore, alle opere maestose ed epiche di certa imponente musica classica e lirica. I quindici minuti circa di questa canzone sono il condensato della musica dei Fallen, una band che punta all'oscurità e che vuol lasciare parlare solo la propria musica, piena di risvolti sonori inaspettati ma sempre coerenti al genere ma al tempo stesso rivitalizzanti e suonati in modo inusuale. Con un artwork lodevole, 'A Tragedy's Better End' si conferma uno tra gli album più apocalittici ed interessanti degli ultimi anni, in cui i Fallen sono riusciti a valorizzare il modo di intendere il rock, emulando in modo egregio i grandi miti del genere, trovando però una propria inconfondibile, potente e distinta personalità. La mia massima ammirazione per la band che è riuscita a comporre un'opera simile, immortale, infinita e a oggi ancora stupenda nonostante il tempo passato. (Bob Stoner)

(Solitude Productions - 2015)
Voto: 90

mercoledì 13 aprile 2016

Demons of Old Metal - Dominion

#PER CHI AMA: Thrash/Heavy/Nu, Pantera, Slipknot, GWAR
Una macabra intro in stile King Diamond, apre il nuovo album dei britannici Demons of Old Metal, band grottesca nel look (in stile GWAR, tanto per intenderci) ormai in giro dal 2010, che con 'Dominion' giunge al traguardo della quarta uscita discografica. 'Dominion' è un disco di heavy metal corrotto, che nei suoi 11 pezzi vanta richiami a varie band del più recente passato. Le danze si aprono con il martellare grooveggiante di "Fakesin", una song che sembra miscelare il mosh di Exodus e Pantera con il Numetal degli Slipknot e sonorità un po' più classiche a la Megadeth e Anthrax. La ritmica arrembante non lascia scampo e l'assolo conclusivo rende più appetibile un brano che vivacchia nel limbo del "già sentito". Un bel riffone contaminato (una costante per il disco), accompagnato dalle vocals altrettanto sporche di Tombstone Cowboy, ci guida in "You Version 2.0", altra song che preferisco ricordare più per l'aspetto solistico che per quello ritmico, troppo tributante a Slipknot e a tutti coloro che cercano di donare un aspetto tribale al proprio sound. "Dance of the Damned", 'la Danza dei Dannati", probabilmente si addice con la filosofia del nostro sito, tuttavia un riffing troppo sincopato con flares elettro-industriali, lo rendono poco affine ai miei gusti. Chi invece ama sonorità rabbiose e al tempo stesso ruffiane, avrà di che divertirsi con questo pezzo. Si rimane nei meandri della contaminazione pesante con "Open Wide and Scream", un brano che sebbene un cantato "alternative", mi piace per quel suo intrigante e malsano feeling di fondo. Con "The Quiet Ones" solchiamo i territori di un rock oscuro e malmostoso, che se non fosse per quel vocalist che fatico a digerire, risulterebbe come mia song preferita, soprattutto per la thrashettona ritmica infernale che si scatena nella sua seconda parte. Non male, ma questo cd poteva essere affine ai miei gusti 20 anni fa, per questo genere non c'è più spazio nella mia collezione. Qualche altro brano interessante in 'Dominion' c'è ancora: la "panterosa" "Behind the Mask" ad esempio, però a non convincermi è la solita timbrica del vocalist. "The Star of Your Nightmare" è una traccia dove mal si adatta l'utilizzo delle tastiere in background e dove le chitarre sono forse un po' troppo leggerine e si riprendono solo nella fase solistica. Il disco volge al termine con "See How They Die" e "Get Outa Dodge", in cui  il quintetto britannico continua con un sound carico di groove, scomodando i System of a Down nella prima traccia e offrendo un'inutile forma di heavy southern rock'n'roll nella seconda. 'Dominion' alla fine è un lavoro che vive tra le ombre di un passato che fu e di un presente a cui nessuno sembra più essere interessato. Rinnovarsi please. (Francesco Scarci)

(Self - 2015)
Voto: 60

domenica 10 aprile 2016

Teverts - Towards the Red Sky

#PER CHI AMA: Stoner/Psych/Alternative
Se sentite il bisogno di un disco ruvido, oscuro e ricolmo di energia incendiaria, i Teverts fanno al caso vostro. Il progetto è orgogliosamente italiano, i ragazzi sono di Benevento, cattivi come il veleno. Un primo disco è uscito nel 2013 intitolato 'Thin Line Between Love & Hate' ed ora abbiamo tra le mani 'Towards the Red Sky' che ci arriva tramite la Karma Conspirancy Records. La copertina è suggestiva e rende giustizia alla musica: corvi famelici e possenti con i cactus che si stagliano davanti ad un gigantesco sole rosso. L’attitudine è stoner non scevra però dalla sperimentazione e dalle derive psichedeliche. I trenta minuti scarsi di questo LP scorrono velocemente e accendono gli animi, come fare rafting in un fiume in piena. Le chitarre, gigantesche, sembrano quasi bruciare ad ogni accordo e la voce al napalm di Phil Liar, che ricorda a tratti il compianto Lemmy Klimster e a tratti King Buzzo, è come vento sulle braci. Dino Sauro e Head Bomb, rispettivamente basso e batteria, sono talentuosi strumentisti che oltre tutto non si prendono poi così tanto sul serio. A parte la vena ironica della band, quello che passa chiaramente è che non c’è nessuna paura di andare avanti, nessun ostacolo può fermare la cavalcata di 'Towards the Red Sky', tutto viene travolto e divorato. La prima song “Control” fa subito capire in che direzione andiamo, con pensanti riff sabbathiani, assoli lisergici in stile Josh Homme e un incedere da panzer tedesco. La title track non è per niente da meno, grazie alle sferzate di chitarre distorte dritte in fronte e lanciafiamme alla mano. Quella dei Teverts non è rabbia, è voglia di arrivare, una tensione all’esplorazione e una ferma convinzione di proseguire sul percorso intrapreso. Avanzando verso il cielo rosso incontriamo “Charles Dexter Ward”, in cui lo stile è quello dei Melvins sia nella scelta delle note che nel modo di cantare, tuttavia il titolo del pezzo nasconde una storia interessante. Questo strano nome è infatti preso da un romanzo del maestro dell’horror H.P. Lovecraft: si tratta della storia di un ragazzo, appunto Charles Dexter Ward, che, ossessionato dalla fama di stregone di un suo lontano parente, inizia a praticare le arti magiche oscure finendo quasi per perdere la ragione. A proposito di “Two Coins on the Eyes” invece vi è uno strana somiglianza con “Blue” degli A Perfect Circle, non facilmente individuabile perché il sentimento dei Teverts è nettamente più disilluso e impassibile rispetto agli eterei e sognanti APC, ma la parte di batteria e alcune lunghezze risultano simili, a riprova della capacità dei Teverts di iniettare diversi stili nella propria musica, riuscendo ad allargare la normale portata dello stoner inteso in senso classico, cioè per come ci è stato donato da band come Kyuss e Fu Manchu. Degno di nota e sicuramente di un ascolto è poi la particolarissima chiusura del disco, “Sanctuary”. L’intro ricorda ambienti dei Pink Floyd che vengono trasfigurati in un vortice di un cinico e impetuoso stoner per poi ritornare graziosamente calmo e sfociare infine nel silenzio. 'Towards the Red Sky' è un concentrato di fiamme e roccia, un viaggio verso il tramonto nella consapevolezza che il sole, come ogni giorno, sparirà dietro le montagne. (Matteo Baldi)

(Karma Conspirancy Records - 2016)
Voto: 85