Cerca nel blog

domenica 14 febbraio 2016

Svartelder - Askebundet

#PER CHI AMA: Black Old School, Immortal, Ancient
Nostalgia nei confronti del black metal norvegese? Ho la soluzione che fa per voi. Vi presento i norvegesi Svartelder, band formatasi nel lontano 2005 per mano di Doedsadmiral (Nordjevel, Doedsvangr) e nelle cui fila militano anche AK-47 e Cobold, due loschi individui che hanno fatto parte o sono ancora membri, tra gli altri, di In the Woods, Carpathian Forest, Blood Red Throne, Ewigkeit e Den Saakaldte. Questo per dire che questo quartetto di Indre Arna, non è certo l'ultimo arrivato. E la nostrana Dusktone Records ci ha visto lungo, mettendoli sotto contratto e facendoli esordire con il loro EP 'Askebundet'. Quattro canzoni, 30 minuti di durata, fatto di suoni black mid-tempo rancidi, malefici e sinistri. La matrice ritmica è quella tipica norvegese: chitarre ronzanti, melodie orecchiabili, qualche tocco di synth in stile Burzum, fin dalla lunga title track che apre le danze. La voce di Doedsadmiral poi è in linea con le produzioni norvegesi, la associerei a quelle di Immortal e Ancient per timbrica e abrasività. I 10 minuti di "Askebundet" scorrono via piacevoli, tra qualche frangente che puzza di già sentito e qualche apertura più varia. Più interessante invece, la seconda "Bleeding Wounds", forse meno monolitica della opening track, e con qualche soluzione strumentale più fresca e ariosa, anche se mi rendo conto che questi due aggettivi potrebbero far storcere il naso ai puristi del genere, però voi dateci un ascolto e potrete anche riscoprire un che dei Satyricon degli esordi o un pizzico di epicità dei Bathory. "Ingen Vet Jeg Var...", la terza song, è più potente grazie a suoni più profondi e a un uso ancor più incisivo delle keys, sebbene il flusso sonico mantenga comunque l'intransigente glacialità degna del black. Incredibile la presenza di un melodico assolo nella sua seconda metà, laddove il sound dei nostri sembra richiamare anche quello dei conterranei God Seed. L'ultima traccia del dischetto è una versione demo di "Black He Stands", un brano che sinceramente non so da dove salti fuori, ma che comunque mostra l'intenzionalità da parte di Doedsadmiral e compagni di abbinare black old school con inquietanti tastiere e qualche sperimentazione anomala per il genere. Per ora accontentiamoci di 'Askebundet', un lavoro sicuramente gradevole, ma che non aggiunge grandi novità al verbo nero. Sia chiaro pertanto che dal futuro mi aspetto qualcosa di ben più convincente. (Francesco Scarci)

giovedì 11 febbraio 2016

CONTEST RUSTY PACEMAKER


I vincitori del contest "Rusty Pacemaker", che hanno risposto correttamente alle domande poste e vincono una copia dell'ultimo cd, 'Ruins', dell'artista austriaco sono:
The winners of the "Rusty Pacemaker" contest, that answered correctly to the questions and win a copy of the last album, 'Ruins', of the Austrian musician, are:

Caterina M. (Trezzo sull'Adda - Italy)
Michela M. (Coldrerio - Switzerland)
Piero S. (Breganzona - Switzerland)
Diego C. (Bardolino - Italy)
Giulio D.G. (Creazzo - Italy)

Malke - Days After Tomorrow

#PER CHI AMA: Post Rock/Post Metal, Russian Circles
Regnano sovrane la decadenza e l’introspezione nel mondo dei Malke, act proveniente da Barcellona. Il trio post rock strumentale è formato da David (chitarra), Mario (basso), Albert (batteria). Nel 2014 i catalani escono per la prima volta allo scoperto con "Santos", un singolo allucinato e surreale, in free download su Bandcamp. Il disco d’esordio 'Days After Tomorrow' viene invece pubblicato nel Novembre del 2015: qui il suono è oscuro e spettrale, a tratti maestoso, a tratti impalpabile. Tuttavia non mancano estatici spiragli di luce che conferiscono all’opera un respiro spirituale e profetico. La fantasia inizia a correre già guardando la copertina, una scelta a dir poco azzeccata! Una luna nuova ed un freddo cielo notturno fanno da sfondo ad un magnifico falco che plana ad ali spiegate tra i grattacieli di un’oscura città, probabilmente disabitata da centinaia di anni. In questo paesaggio post apocalittico un’umanità decimata dalle forze della natura si rifugia nel sottosuolo, sopravvivendo tra stenti e sofferenze e combattendo per ricostruire la civiltà. Aprendo il digipack in cartoncino, scopro stampato sul disco il muso del falco che mi fissa con i suoni tre occhi. Come il rapace vola muto sulle rovine della civiltà anche 'Days After Tomorrow' fa volare l’ascoltatore tra paesaggi surreali e sentieri inesplorati, il tutto senza proferire una parola. I dischi strumentali a volte riescono ad essere più suggestivi proprio perché esulano dal significato delle parole e permettono di immergersi completamente nelle sensazioni che la musica trasmette; i Malke di sicuro hanno fatto proprio e messo in pratica egregiamente questo concetto. I nomi dei brani contribuiscono a rendere più credibile lo scenario di desolazione e tenebre, uno su tutti "Reise Nach Dachau" (Recarsi a Dachau), probabilmente un invito a visitare il campo di concentramento nazista e magari riflettere su come l’uomo sia in grado di infliggere dolore e morte a se stesso. Quasi un avvertimento profetico quello dei Malke, ci esortano ad evolverci e a guardare dentro noi stessi, forse l’unico modo per evitare di dover vivere sul serio nel mondo descritto da 'Days After Tomorrow'. Parlando strettamente di suono è sicuramente da notare il metodo di registrazione, cioè quello della presa diretta live. Sicuramente questa scelta è a favore dello spirito dell’opera che risulta molto diretta e senza fronzoli. L’esecuzione a volte non è perfetta ma è questo il fascino esercitato dalla registrazione live, si sente chiaramente la componente umana, con il disco che sembra suonato davanti all’ascoltatore. La scelta dei suoni di chitarra non eccessivamente saturi, permette alla melodia di prevalere rispetto alla ritmica seppure il disco presenti interessanti cambi di metrica che rendono le canzoni movimentate e dinamiche. Si percepisce chiaramente l’attenzione posta nella composizione della musica più che alla sua “estetica”, in questo primo disco dei Malke prevale la ricerca del significato e dell’espressione ma anche dell’equilibrio spirituale. Il disco inizia con "1402 – 1923", song il cui nome sembra evocare una data, confesso di aver provato a cercare il significato ma il mistero si è rivelato più fitto del previsto. Comunque il pezzo offre un ambiente psichedelico ed etereo, rotto a metà del suo sentiero da un guizzo di pazzia distorta. Poi modula ritmica e intensità fino al termine creando un senso di insicurezza ed instabilità ma anche infondendo un certo grado di coraggio e determinazione, quella che serve per esplorare un posto sconosciuto in una notte d’inverno. La seconda traccia, "Alfas", richiama lo stile dei Russian Circles, ma con suoni più diretti, taglienti e senza fronzoli. Gli strazianti arpeggi distorti della chitarra di David coronano il brano dipingendo scenari di desolazione ed inquietudine. Il corposo basso di Mario crea degli ambienti mistici e spaziali, che ricordano band come i My Sleeping Karma o i Monkey3. Il brano presenta un buon equilibrio tra l’oscurità delle parti distorte e quelle più eteree e risulta in generale godibile e ben costruito. Segue la crudezza di "Maskirowka" che ci riporta a volare un po’ più in basso verso il tartassato suolo terrestre, dove la chitarra e il basso tracciano dei profondi solchi nell’asfalto dissestato mentre l’ipnotica batteria di Albert mantiene l’incantesimo. Arriviamo quindi a "Nebula" che inizia con note sognanti incalzate da una leggera ritmica, come fosse il falco che si posa sulla guglia di un palazzo in rovina che guarda la desolazione sottostante e d’un tratto, decida di spiccare il volo. Dall’alto guarda le strade e osserva la desolazione in cerca di qualche piccolo animale sopravvissuto che serva da sollievo alla troppa e intensa fame. Dopo un intenso intenso viaggio tra le anime delle vittime dei campi di concentramento di "Reise Nach Dachau" possiamo lasciarci cullare dalla coda "Tro", uno splendido regalo d’addio che i Malke ci regalano. Il falco oramai stanco per l’estenuante ricerca della preda si concede qualche ora di riposo al sicuro nel suo nido, sotto una grondaia di un edificio in frantumi, per cercare di raccogliere le energie prima che i morsi della fame tornino a farsi sentire. (Matteo Baldi)

(Consouling Sounds - 2015)
Voto: 75

martedì 9 febbraio 2016

Nepalese Temple Ball – Arbor

#PER CHI AMA: Psych/Post Hardcore, Fugazi, Neurosis
Strano disco, questo. Strana band, anche. Da un gruppo che si fa chiamare come un leggendario tipo di hashish, ti aspetteresti musica rilassata o comunque un qualcosa che ti accompagni nei tuoi “viaggi” rendendoli piú piacevoli e consapevoli. Non certo un monolite oscuro, pesante e malsano fin dall’artwork (invero molto curato) che potrebbe rischiare di farti incontrare i tuoi mostri e indurti a perdere la testa per sempre. Perchè la musica dei Nepalese Temple Ball (NTB), quartetto inglese di Bournemouth, è un gigante barbuto e feroce, coi piedi ben piantati nel noise rock di matrice AmRep e due teste, una fieramente hardcore, l’altra dallo sguardo post-metal disturbato e folle. 'Arbor' risulta quindi un’impressionante opera prima che coniuga stili e influenze in modo tutt’altro che grezzo o ingenuo ma che anzi colpisce per maturità e riesce ad infondere un costante senso di minaccia lungo tutti i suoi 63 minuti. Molto merito va ascritto al peculiare utilizzo delle voci (spesso al microfono si altrenano un cantato di stampo piú classicamente declamatorio, alla Fugazi, e uno di scuola screamo) e di un suono che sembra come ricoperto di una patina di sporcizia, il che è un complimento, se capite cosa intendo. Per la gran parte del tempo mi sono trovato a gridare al miracolo, ci sono momenti in cui i NTB sembrano il figlio segreto nato dall’unione tra Fugazi e Neurosis, definitivamente conquistato dall’incompromissoria potenza dei riff, dalle percussioni furibonde e ritualistiche, come in “A Snake for Every Year”, monumentale cavalcata che apre il disco col suo furioso crescendo, o la maestosa e ipnotica “Gas Bird”. Splendide anche l’imponente (quasi) strumentale “Desert Baron” con le sue formidabili accelerazioni, “Astral Beard”, e le raggelanti urla di “The Axeman”, percorsa da folate psych su un incedere tribale, che chiude il disco come meglio non si potrebbe. Questi sono i passaggi che preferisco, quelli in cui il progetto sembra piú a fuoco e centrato, e quelli per cui (se fossero gli unici in scaletta) questo 'Arbor' potrebbe essere un vero capolavoro, rispetto ai brani in cui la violenza scream prende il sopravvento (“Knee Deep”), o all’anomalo psych death doom di “Statues in the Garden of Death”, che – per quanto validi - vanno forse un po’ a rovinare la coesione di fondo. In definitiva 'Arbor' è un esordio davvero importante, di quelli che fanno (o dovrebbero fare) molto rumore. Segnatevi il nome dei Nepalese Temple Ball e ascoltate questo disco, ne rimarrete conquistati. (Mauro Catena)

(Third I Rex - 2015)
Voto: 80

Vinnie Jonez Band - Supernothing

#PER CHI AMA: Stoner/Post Rock/Heavy
La via dello stoner continua ad abbracciare nuovi proseliti e altre band si aggiungono al già nutrito stuolo nazionale e non. I Vinnie Jonez Band (VJB) sono un quartetto romano (Palestrina per la precisione) nati dalle ceneri di band locali, che nel corso del 2015 hanno fondato la band e registrato questo EP. Cinque brani per raccontare la loro storia che si ispira a mostri sacri come Queens of the Stone Age, Mastodon, Deftones, ma anche a Mogwai, God is an Astronaut, Karma to Burn e Tool, con il mix che ne esce alquanto variopinto. A livello compositivo i ragazzi ci sanno fare, giocando spesso su cambi di ritmica, riff potenti e break che mantengono abbastanza alto il livello di attenzione dell'ascoltatore. Dico abbastanza perché spesso alcuni arrangiamenti sono frettolosi e il livello di qualità risulta scostante, una cura maggiore avrebbe sicuramente alzato il tiro e regalato un EP degno di nota. "Rose" ha la responsabilità di essere la prima traccia e porta con sè quanto detto fino ad ora. Il sound ricorda il grunge e l'alternative rock con un'attitudine punk, un mix che può convincere se sviluppato con cognizione, in realtà nei centocinquanta secondi il quartetto mette troppa carne al fuoco, come quell'assolo tipicamente heavy finale. Dopo questo turbinio un po' confuso passiamo a "To the Mountains" che ha un forte sapore Southern rock, che poi si appesantisce con sfumature metal e ritorna all'alternative sentito in precedenza. Il vocalist affronta la sfida, cerca di superare i propri limiti, l'esito è poco convincente. Gli strumentisti sono invece all'altezza anche se si sente la mancanza di un leader che mantenga le fila della composizione musicale in sede di scrittura. Il finale del dischetto conclude invece alla grande e fa dimenticare le precedenti incertezze. "Bleach" è la cavalcata finale che sale e scende, scorre fluida e si fa ascoltare con piacere con una chiusura prog/nu metal che stuzzica l'orecchio e conferma che i VJB hanno le capacità per fare buone cose, ma devono maturare una maggiore coscienza in se stessi che gli permetta il salto di qualità a cui sembrano mirare e che possono meritare. Ultima nota per la qualità audio dell'EP, discreta, non sacrifica né esalta le doti della band; piacevole anche la copertina che mostra uno stralcio del satellite lunare in un gradiente di giallo un po' vintage. Ora attendiamo fiduciosi il full length. (Michele Montanari)

(Self - 2015)
Voto: 65

domenica 7 febbraio 2016

Raventale - Dark Substance Of Dharma

#PER CHI AMA: Black Doom Esoterico
La Solitude Productions compie 10 anni e dagli esordi accompagna la mia maturazione musicale in ambito black/death/doom. Sono centinaia i dischi che abbiamo recensito qui nel Pozzo dei Dannati provenienti dalla label russa, band che ho visto passare e sbocciare, altre che dopo un solo disco si sono perse. Una band però mi è rimasta particolarmente nel cuore, forse perchè l'ho vista nascere e crescere lavoro dopo lavoro, sto parlando dei Raventale, da sempre guidati dal solo Astaroth Merc, che con questo 'Dark Substance Of Dharma', giunge al traguardo del settimo cd. Da parte mia nel corso di questi anni, ho cercato di fare la cronaca più o meno puntuale dei suoi lavori ufficiali o dei suoi side project. Eccomi quindi al cospetto del nuovo disco, che include sette nuovi brani e che vedono il mastermind di Kiev abbracciare forse una nuova religione (credo sia la dea Calì quella nella cover cd), incorniciata questa volta dal colore arancione. Faccio questa constatazione anche sulla base di quanto riportato nel titolo del lp, "Dharma", un termine sanscrito che presso le religioni dell'Asia meridionale riveste numerosi significati ("dovere", "legge", "ordine cosmico" oppure più semplicemente "religione"). Questa nuova direzione si riflette anche nei contenuti del disco che, muovendosi sempre nei territori del black doom, concede più spazio alla componente atmosferica, come certificato da "Destroying The Seeds Of Karma", che segue la classica intro. Il pezzo è un ottimo mid-tempo dove trovano collocazione evocative derive etniche e chorus che sembrano arrivare direttamente da qualche tempio tibetano. Suggestivi non c'è che dire, anche quando il ritmo si fionda su velocità più sostenute come nella title track, ma sono solo brevi attimi perchè poi l'intensità dei bpm rallenta per far posto a sognanti ambientazioni, ove sarà la vostra fantasia a guidarvi, se sugli impervi pendii dell'Himalaya, lungo le rive del Gange o semplicemente sotto un albero a meditare. Io ho chiuso gli occhi e mi sono lasciato condurre dalle tastiere ispirate di Astaroth, mentre la sua voce abrasiva come sempre, narra appunto delle religioni orientali. Non fatevi però ingannare dalle mie parole, non siamo al cospetto di un lavoro di musica spirituale, stile Buddha Bar o quelle nenie che accompagnano l'arte dello yoga, qui avrete a che fare con black metal, però intriso di melodia, parti solenni e sognanti, ma anche di brevi ed epiche cavalcate ("Kali's Hunger" e "I Am the Black Tara"), fino a giungere alla perla finale di “Last Moon Fermata”, un pezzo aperto da un suadente pianoforte che vi permetterà di raggiungere il vostro karma, una song dotata di un refrain che guarda a sonorità gotiche. 'Dark Substance Of Dharma' è il nuovo passo di Astaroth Merc verso la rinascita della sua anima e l'espiazione delle colpe. Io, un ascolto attento lo darei. (Francesco Scarci)

Abaton - We are Certainly not Made of Flesh

#PER CHI AMA: Sludge/Postcore, Fyrnask, Neurosis, Altar of Plagues
Sono certamente toni tetri e minacciosi quelli che si celano nel secondo capitolo della discografia dei forlivesi Abaton, 'We are Certainly not Made of Flesh'. Dopo quattro anni (fatto salvo uno split con i Viscera///), il quintetto romagnolo rompe il silenzio con un lavoro sporco, intriso di rabbia e avvolto da una coltre di caligine che induce il soffocamento. Il nuovo album è una brutta bestia d'affrontare, uno di quei serpenti costrittori che ti avvolge tra le sue spire, stringe e stringe fino a che non sopraggiunge la morte per asfissia. Il suono dei nostri fa altrettando con una rarefazione a livello sonoro che non lascia scampo. Nove pezzi, anche piuttosto brevi visto il genere, devoto al doom sludge più cupo, ma in cui ovviamente non si disdegnano fughe in territori più estremi. "[I]" apre le danze con il suo fangoso mood, fatto di una sezione ritmica in cui si riconoscono chiaramente le sue chitarre morbose e un basso ipnotico che guidano la proposta dei nostri in una direzione che richiama, in certe disarmoniche linee di chitarra, anche Deathspell Omega. Sebbene la traccia duri poco meno di quattro minuti, la sensazione è quella di essere sprofondati per una eternità negli abissi desolanti dell'inferno. "Ananta" è miele per le mie orecchie, per cui quella sensazione di annaspare nell'acqua svanisce quasi del tutto: la song ha un cupissimo flavour sinistro che mette i brividi, è lenta, atmosferica, delicata, ma si capisce che presto accadrà qualcosa, deve, per forza. La voce di Silvio viene fuori, graffiante come sempre, vetriolo urticante che si amalgama alla perfezione con il sostrato musicale che soggiace nelle tenebre. Malsani e suggestivi, non c'è altro da dire e lasciarsi trasportare dal flusso che conduce a "[II]", un altro brevissimo pezzo (meno di tre minuti), in cui un drumming marziale e chitarre roboanti, coesistono alla grande in un frammento di follia omicida. Un breve intermezzo e poi l'acredine di matrice post black (Deafheaven, Fyrnask e Altar of Plagues, giusto per citarne alcuni) incendia l'aria con una serratissima ritmica che farà ben presto posto ad anfratti insalubri di suoni ondivaghi lenti e austeri, il cui unico fine è partorire ansie primordiali. E gli Abaton ci riescono alla grande. Ancora mistero con lo pseudo noise di "Flesh", a cui seguono gli interminabili minuti di "[IV]" ove compare alla voce in qualità di guest (presente anche in "Nadi"), Sean Worrel dei Nero di Marte. La preparazione è formidabile, la band ci cucina a puntino con una serie di suoni destrutturati, pregni di angoscia e alienazione sonica. È drone, doom, sludge, funeral, noise, post-core, ambient, black, psichedelia, crust, hardcore? Non mi è dato saperlo e francamente me ne frego in questo caso di etichette, lasciandomi intrappolare nel delirio perpetrato da questi stralunati ragazzi che a scuola hanno studiato Neurosis, Cult of Luna e Locrian. Delle inquietanti atmosfere si addensano anche nelle conclusive "Eco" e "[V]", altri due episodi di somma catarsi che segnano l'eleganza e la grandezza degli Abaton. Tanta roba, complimenti! (Francesco Scarci)

(Drown Within Records/Unquiet Rec/Martire - 2015)
Voto: 85

https://abaton.bandcamp.com/album/we-are-certainly-not-made-of-flesh

sabato 6 febbraio 2016

Fitzcataldo & The Trivettes - S/t

#PER CHI AMA: Post/Dream Rock
Non sono un fan del genere pop rock lo sapete: dopo aver scritto oltre 800 recensioni in ambito estremo però sono arrivato a confrontarmi con sonorità che pensavo di non dover mai abbracciare. Colpa (o merito) di un concerto del venerdi sera, ove mi sono imbattuto in questo interessante trio lombardo, dal moniker assai peculiare, Fitzcataldo & The Trivettes appunto. Questo è il titolo anche del loro debut album autoprodotto, e uscito negli ultimi mesi del 2014. L'album include dieci song che si muovono tra il post rock dell'opener "Bees" al punk passando per il brit rock, fino alla conclusiva "Salem". È proprio la opening track a catalizzare la mia attenzione per il suo mellifluo sound che strizza l'occhiolino a Editors e Dredg, sia a livello vocale che musicale. La band si lascia piacevolmente ascoltare in quello scorrere lineare delle sue chitarre, senza ricercare nulla di particolare, nessuna invenzione o estro, semplicemente rimanendo se stessi e lasciando che siano gli strumenti a guidare il tutto. "Gaialavita" mostra invece un mood tipicamente punk, grazie a quel suo riffing british e quel suo andamento di matrice Sex Pistols. In "Gagliardo", il power trio composto da Lorenzo, Stefano e Claudio prova ad emulare i maestri Coldplay e Muse e il risultato non è affatto male, però troppo commerciale per il sottoscritto. Mi muovo allora alla successiva "Velvet Smooth" ed è ancora il sound intimista degli Editors a venire a galla con un ritmo compassato che fa breccia solo quando le chitarre si aprono e si lanciano in uno splendido e arioso bridge. L'ordinato e fluido lavoro alla batteria di Claudio Rei ci introduce a "Tulips on the Jubilee Street", song votata ad un post rock notturno e psichedelico. "Tracey" è una bella traccia dal sapore dark che ha evocato in me un qualcosa dei The Cure, anche se la calda voce di Lorenzo Galbiati prende decisamente le distanze da quella di Robert Smith. In "Aurora Soul" ecco in sottofondo l'angelica voce di una fanciulla a delineare i tratti sognanti di questa song, mentre in "Mournign Doze" ancora forte è il richiamo agli Editors, con la performance di Lorenzo sempre più vicina a quella di Tom Smith, frontman della band inglese e un finale in un climax ascendente da brividi. In "Little Tony", convergono punk, brit pop e rock nella song più ruvida del disco. A chiudere, ecco "Salem" e 10 minuti di sonorità che sembrano allontanarsi dalle precedenti nove song, quasi a voler delineare il nuovo percorso che il terzetto andrà a percorrere in futuro. Da applausi qui il pulsare ansimante del basso di Stefano Redaelli, vero protagonista in questa traccia aggressiva (anche a livello vocale), ma anche più orientata ad un post rock dilatato (e forse anche metal) degno dei Mogway. Fitzcataldo & The Trivettes, bella scoperta davvero! (Francesco Scarci)

(Self - 2014)
Voto: 75

https://fitzcataldo.bandcamp.com/

Doomina - S/t

#PER CHI AMA: Post Rock
Sta davvero diventando difficile scrivere di questo tipo di dischi. Quali e quante altre parole potrei trovare per descrivere un disco di post rock strumentale, ben suonato e discretamente avvincente senza essere davvero memorabile, che non suonino già sentite un milione di volte? Forse nessuna, e la recensione potrebbe chiudersi qui, forse peró il punto non è questo. Esattamente cosí come il punto, per i Doomina, non è quello di suonare musica che sia per forza originale e mai sentita, quanto piuttosto di farlo nel miglior modo possibile, con perizia e passione, e confezionare un lavoro che sia quanto di meglio nelle loro possibilità. E questo è, difatti, l’album eponimo di questa band austriaca, sulle scene dal 2006. Il disco è disponibile in digitale o in vinile, dove di sicuro si potrà godere appieno della bella immagine di copertina e di una perfetta resa del suono caldo e avvolgente di queste 5 tracce la cui durata media, come prevedibile, si attesta sui 10 minuti. Il meglio arriva alla fine, quasi a voler premiare l’ascoltatore: i poco più di 10 minuti di “Prince of Whales”, densi di crescendo chitarristici e accelerazioni improvvise, sono quelli piú a fuoco dell’intero lavoro e quelli in cui meglio emergono le qualità della band nel costruire brani epici, potenti e, vivaddio, emozionanti. Per quanto il senso di già sentito sia sempre difficile da scacciare, qui i Doomina colgono nel segno. Non sempre si puó dire lo stesso del resto del programma in scaletta. L’opener “Keira” ha il merito di farci entrare bene nel mood del disco, con un andamento classico arpeggio-distorsione-arpeggio piú rarefatto distorsione-accelerazione che non stupisce ma piace per il gusto e la misura. Allo stesso modo anche le successive “Kepler 10b” e “Pangea” si lasciano ascoltare e apprezzare per la piacevolezza, pur senza davvero mai emozionare. Se potete immaginare il concetto di post-metal da sottofondo, questo secondo me ci si avvicinerebbe molto. “Behold... The Fjørd!”, la traccia piú lunga, cattura l’attenzione per mezzo dei suoi oltre 11 minuti di crescendo ondivaghi e poderosi, il primo dei quali culminante in una frase spiccatamente melodica che, ma forse sono le mie orecchie malandate, a me ha ricordato addirittura “Bed of Roses” dei Bon Jovi. In definitiva, un disco senz’altro ben fatto, suonato e registrato molto bene, che gioca bene le sue carte e si propone, per gli appassionati del genere, come ottima alternativa ai soliti nomi. Se amate il post rock strumentale, probabilmente lo amerete. (Mauro Catena)

(Noise Appeal - 2015)
Voto: 70

https://doomina.bandcamp.com/

Enisum - Arpitanian Lands

#PER CHI AMA: Shoegaze/Black Atmosferico
Poco meno di un anno fa, il Pozzo dei Dannati descriveva il terzo lavoro dei piemontesi Enisum, 'Samoht Nara', come un miscela di cascadian black e shoegaze. A distanza di 11 mesi, spetta a me raccontarvi di 'Arpitanian Lands', quarta fatica del trio della Val di Susa. L'ingresso nella lunga title track strizza l'occhio agli Alcest e immediatamente conferma quanto descritto dal mio collega nella precedente recensione. Una voce di donna, Epheliin, apre infatti questo brillante disco con i suoi eterei vocalizzi posti su di un arpeggio dal forte sapore folk. Inizia qui il racconto delle terre dell'Arpitania, che abbracciano territori di Italia, Francia e Svizzera, tributandone l'amore della band. La musica di Lys e soci ci accompagna lungo questo viaggio di scoperta, deliziandoci con il loro peculiare black dotato di passaggi atmosferici e frangenti di oscura magia, che hanno il ruolo di esaltare un suono già di per sè assai convincente. "Alpine Peaks" offre la visione estrema delle Alpi che dominano un paesaggio per certi versi estremo, conducendoci per mano sulla cima di quel gigante, creando quel senso di vertigine da far tremare le gambe. Poi alzi lo sguardo, ammiri l'orizzonte, l'apice delle montagne, respiri lentamente e a pieni polmoni con il cuore che rallenta i suoi battiti, e finalmente assapori la bellezza dello scenario che si dipana di fronte agli occhi. La canzone si muove contestualmente, tra arrembanti cavalcate black e frangenti più rallentati che ci danno modo di guardarci attorno e godere. Ma è con "Chiusella's Waters" che i nostri riescono finalmente a fare breccia nella mia anima e inebriarmi con le loro ataviche melodie che narrano del torrente omonimo che scorre in quelle terre e il cui fragore è richiamato da una certa effettistica inserita nel brano, che si muove tra epiche cavalcate e il dischiudersi di splendide melodie. "Mountain's Spirit" si fa notare per la profondità del drumming e comunque, come per le precedenti song, si muove nell'alternanza tra sciabolate black (con tanto di blast beat) e rallentamenti mid-tempo. Le frustrate estreme continuano ancor più violente nella successiva "Rociamlon" (in dialetto piemontese indica il Rocciamelone che è una montagna delle Alpi Graie), anche se qui, le brusche frenate perpetrate dalla band, rischiano quasi di sconfinare nel doom. La voce al vetriolo di Lys si conferma poi come una delle migliori del panorama estremo italico. Un altro arpeggio ed è il momento di "Fauna's Souls", una song permeata di una malinconica aura ancestrale che s'incontra e compenetra con l'irruenza del black degli Enisum, soprattutto a livello del folkloristico break centrale. "The Place Where You Died" include altri otto minuti di estremismi mid-tempo, decadenti melodie inneggiate dallo screaming lacerante di Lys, in una traccia che reputo la più matura e varia del cd. La riflessiva "Desperate Souls" e infine l'incalzante "Sunsets on My Path" (ove i gorgheggi di Epheliin tornano a palesarsi) completano un disco che conferma l'equilibrata evoluzione abbracciata dagli Enisum e paventano la possibilità di aprire a nuovi paesaggi compositivi. (Francesco Scarci)

Lambs - Betrayed From Birth

#PER CHI AMA: Sludge/Post Black, Converge
Una manciata di minuti (13 per l'esattezza) bastano ai romagnoli Lambs, uno degli ultimi acquisti in casa Drown Within Records, per dimostrare di che pasta sono fatti. Tre pezzi, "Fear is Your Key", "You Will Follow Me Down" e "And Your Time Will Be Collapsed", per mostrare la bontà di una proposta che racchiude in sè un suono che combina il post hardcore moderno, quello decadente e malinconico, con le oscure tenebre del post black alla Altar of Plagues. Il cd irrompe con un riffing che sembra quasi di "katatonica" memoria (era 'Brave Murder Day'), che lascia subito spazio ad un approccio più votato a psichedelia e crust punk, contrappuntato da ritmiche serrate che sconfinano nel post black e a sperimentalismi di natura francese (Blut Aus Nord e Deathspell Omega), con uno screaming efferato a condire il tutto. Non mancheranno anche vertiginosi rallentamenti al limite del doom a rendere il contesto ancor più accattivante. La seconda traccia ha un mood punkeggiante, lanciandoci a razzo con una bella cavalcata selvaggia, interrotta da un muro su cui forte è il rischio di sfracellarsi. Rallentamenti in stile Converge infatti, sono in grado di garantire alla song un interessante effetto onda, tra frustate hardcore e melmose decelerazioni sludge. Il ritmo infernale viene mantenuto anche nel terzo brano, in cui l'andatura si fa ancor più schizofrenica e in cui probabilmente, la band palesa anche la maggior maturità compositiva, e una certa abilità nel muoversi sia in territori tirati che in quelli più ragionati, cervellotici e anche intimistici, in cui la componente melodica si fa maggiormente apprezzare. 'Betrayed From Birth" è di sicuro un buon biglietto da visita, ora mi piacerebbe gustarmi un prodotto più organico e strutturato che segua questo trend. (Francesco Scarci)

giovedì 4 febbraio 2016

Slowrun - Resonance

#PER CHI AMA: Rock atmosferico/Ambient
Se avete paura di sostare nel purgatorio delle anime, deviate il vostro ascolto a musiche più convenzionali e scontate. Diversamente, rimanete con me armando le vostre mani. L’una, d’una fiaccola accesa di fuoco e di benzina. L’altra, di speranze malinconiche e rabbiose che attendono quel gancio alla vita che ha il sapore del sangue già versato e pronto ad essere ancora messo in gioco. Benvenuti nel deserto di velluto degli Slowrun. Faremo diversamente stasera. Io per ogni traccia, anziché dire, chiederò, e voi ascoltando, replicherete a voi stessi, certo, non a me. Giochiamo. I dadi li metto a giro. La posta è alta solo se giocherete al mio gioco. Il nostro casinò lo inaugura “Ascent”. La traccia non è musica, ma stridere strumentale ferroso di maglie dissonanti e troppo vicine, rugginose e stanche. Perché non assecondate i suoni, il silenzio, la malinconia perdendo senso e sapore del giorno? Cosa cerchi? Cosa vuoi? O forse cosa vorresti che non hai il coraggio di chiedere? Ecco “Blinding Light”: la song dei quattro finlandesi ha l’arroganza pudica che tu non avresti. È deciso, è stellato nelle punte callose della chitarra, è immaginoso e concreto. Da e toglie. Toglie e da. Poi termina con un riff che trasla in un altro giro sgranato di corde. Ecco un’altra domanda. Cosa vuoi essere? Non c’era nulla prima. C’era una soffitta polverosa. Eri solo. Poi. Hai alzato il volume. Vita ed incanto. Rabbia e pace. “Remember”. Ascoltate. Come se non ci fosse stato il tempo. Questa “Fragments” accarezza gli estimatori d’anime nel vento. Scioglie i pensieri di chi sa scordare la propria anima alla fine del giorno. Come vi fa vibrare questa traccia? E ora “Introspection”. Si ripete la ritmica. La song cerca l’ipnosi dei sensi. Accarezza per accarezzarsi. È culla al cullarsi. E voi? Quando è stato l’ultima volta che avete cullato un pensiero? Torno. State comodi. Torno al vostro antro ambient maliconico ed oscuro. Ai chiaroscuri dell’anima, al sorseggiare vino rosso da calici medievali. Si. Torno con “First Hour”. Per questo pezzo ho solo una domanda : “cosa provate la notte svegliandovi avvolti da buio e silenzio ed ombre?” Siamo alla settima traccia. “The Way”. Il titolo della song è curativo. Scevro da domande. Impossibile alla gogna. Lasciatemi dire che il chiedere non è che il dire. Lasciatemi dire che la musica è parole anche se strumentale. Lasciatemi dire che l’ispirazione provata è proporzionale alla qualità dell’ascolto, così vi invito nella grotta degli Slowrun. Vi perdere, ma solo se vorrete. Tra domande e torce avrete le vostre risposte. Buon ascolto. (Silvia Comencini)

(Dunk! Records - 2015)
Voto: 75

Sailing to Nowhere - To the Unknown

#PER CHI AMA: Power/Hard Rock
Un marinaresco monologo di violino accompagna il corso di un veliero nell'infinità dell'oceano. Le placide onde marine cominciano ad infrangersi con crescente intensità sullo scafo: sarà una notte burrascosa. Con la tempesta sopraggiungono anche i pirateschi riff di Andrea Lanzillo, chitarrista e songwriter dell gruppo, che ci introducono nel brano opener “No Dreams in My Night”. Questi 7 minuti di “notte senza sogni”, mettono subito in mostra qualità e peculiarità dei romani Sailing To Nowhere: l'aggressività conferita dall'ottimo lavoro di Lanzillo alla sei-corde e dalle cavalcate in doppia cassa di Giovanni Noè, arriva sempre a sfociare in chorus fortemente melodici, anche se spesso questi energici sprazzi di potenza vengono fin troppo sovrastati. L'impianto melodico della band rappresenta infatti (da buoni italiani), la sua caratteristica dominante, con le linee vocali di Veronica Bultrini e Marco Palazzi (rigorosamente in pulito) e cori quasi epici che rimangono fissi in testa all'ascoltatore fino alla fine dell'album. Brano che incarna alla perfezione tutto ciò è sicuramente la seconda traccia, "Big Fire", che possiede senza dubbio i chorus più orecchiabili del disco, insieme alla semi-ballad "Lovers On Planet Earth", sempre sostenuti da un sound azzeccato che riesce a metterli in risalto nella giusta misura. Molto pregevoli anche le parti di tastiere: suoni semplici ma assai azzeccati e, soprattutto, gli viene conferito il giusto spazio: non vengono limitate solamente ad “accompagnamento”, ma in diverse occasioni si fanno largo nel sound ed emergono con dei buoni passaggi strumentali (vedi per esempio nell'opener track). Questo senza comunque mai esagerare e sfociare nella monotonia, come spesso accade in questo genere, per quegli onnipresenti tappeti di archi, che, se eccessivi, portano alla noia e di conseguenza non vengono valorizzati. Fila spedita invece (dopo che le atmosfere si erano smorzate con la più lenta "Strange Dimension"), l'omonima traccia "Sailing to Nowhere", la quale sembra rappresentare lo spirito dei sei navigatori, compagni in questo viaggio senza meta, che incontra riff potenti e un drumming incalzante dall'inizio alla fine. Come ultima song, troviamo inaspettatamente una cover di una canzone pop, ovvero “Left Outside Alone” di Anastacia, riarrangiata però in chiave metal, o meglio, in chiave Sailing To Nowhere. Come da loro stessi affermato infatti, seppure si tratti di un brano che non c'entra con l'album, fa parte in qualche modo della storia del gruppo, dato che era un brano che veniva da loro utilizzato come riscaldamento in sala prove. Si conclude dunque in questo modo il primo full-length dei Sailing To Nowhere, gruppo che negli ultimi tempi sta riscuotendo un discreto successo all'interno del panorama metal italiano, grazie soprattutto alla release di questo lavoro. I “navigatori” della capitale si sono presentati al pubblico con il loro suono melodico, non sempre apprezzato dai puristi del metallo, ma che comunque rappresenta una diffusa branchia del genere. In ogni caso l'album è ben realizzato, si percepisce che è frutto di un lavoro che ha richiesto lungo tempo e grande collaborazione fra tutti i componenti (ed anche di un'ottima produzione). La prima prova per l'ensemble romano ha mostrato di che pasta sono fatti, ma aspettiamo nuove notizie dall'oceano, per osservare come evolverà il percorso stilistico di questi marinai! (Emanuele "Norum" Marchesoni)

(Bakerteam Records - 2015)
Voto: 75

The Fifth Alliance – Death Poems

#PER CHI AMA: Post Black/Sludge, Made Out of Babies, Red Sparrowes
Entrare lentamente e in totale stato d'animo degradato, nell'ottica di amare alla follia 'Death Poems', è una sensazione unica, violenta, disturbante quanto illuminante e liberatoria. Sentire l'urlo straziante, carico di tensione, la rabbia, la gelida cognizione della realtà, la morte che, come esprime il titolo di quest'album di debutto della band olandese, si finge affascinante per illuderci ancora una volta, mostrandosi bella in tutta la sua maestosità. Paragonarli ai Battle of Mice e unirli al suono rarefatto, catartico, primitivo degli A Storm of Light, all'estraneità mistica degli Jesu, non è sufficiente per descrivere questo cd autoprodotto dalla qualità davvero notevole. Il ruvido delle loro composizioni si tinge del feeling astratto tipico dei Red Sparowes ma con tratti nervosissimi e virate interstellari, con cataclismi umorali dai connotati doom, ottimi per un brusco ritorno alla realtà più cruda e drammatica. Considerateli sludge e vi avvicinerete ai Fall of Efrafa, pensate agli sperimentalismi black e li immaginerete seguaci dei Solstafir, vedeteli post hardcore e li troverete discepoli dei Made Out of Babies, ascoltateli alternative rock e ammirerete lo spirito selvaggio dei mitici Queen Adreena con la splendida voce femminile (la vocalist Silvia è incredibile!) dalle doti e abilità al di sopra della media, vicina proprio alle delizie della migliore Katie Jane Garside e all'immortale Julie Christmas. Gli undici minuti dell'iniziale "Your Abyss" sono l'eclissi per ogni forma di luce, senza speranza ne via d'uscita, il mondo nero e oscuro vissuto come in un abisso infernale. Questo primo lungo brano, apre l'iniziazione e segna il passo a ciò che ci si deve aspettare dalla musica del combo olandese, un contorto e psichico trattato di moderno doom acido, frammentato e suonato con l'ardore dell'hardcore più lisergico, che in tempi moderni si riassume col termine un po' anonimo di post hardcore. Un album con una personalità fortissima, soluzioni sonore nevrotiche e granitiche che portano avanti il verbo dei già citati Made Out of Babies, che lo amplificano e lo caricano di nuovi stimoli sonici, lo rivisitano e lo rivitalizzano. Siamo di fronte all'emotività fatta musica, quindi, dimenticate i tecnicismi inutili e fatevi investire da questa pioggia di lava incandescente, alla fine ne rimarrete affascinati. Album semplicemente stupendo! (Bob Stoner)

(Self - 2015)
Voto: 90

lunedì 1 febbraio 2016

Consciousness Removal Project - Tides of Blood Part I

#PER CHI AMA: Post Metal, Isis, Neurosis, Tool
È la sesta proposta questa dei Consciousness Removal Project che si concretizza in 'Tides of Blood Part I'. Se vi piacciono 'Panopticon' o 'Oceanic' degli ISIS, andrete letteralmente fuori di testa per questa “Marea di Sangue”. È il caso di riflettere sul nome della band e sul titolo del disco, che sono stati pensati e collegati con maestria. Consciusness Removal Project, la rimozione dello stato di coscienza è l’obiettivo di qualsiasi meditazione e serve a staccare l’anima dal corpo terreno per sollievo al nostro spirito imprigionato in questo corpo terreno, e 'Tides of Blood' per una mezz’ora vi permetterà di provare quest'esperienza. Antti Loponen, principale compositore ed esecutore del disco, assieme all’egregio batterista Artturi Makinen, ha ideato delle maree di sangue ('Tides of Blood' appunto) che si alzano e si abbassano a tratti lentamente e a tratti per assolvere al compito di rimozione della coscienza. A parer nostro l’esperimento è largamente riuscito! In generale, il disco alterna lunghi ambienti onirici ad efferate spinte di rabbia, una dicotomia che è ereditata dal genere e che costringe l’ascoltatore ad espandere la propria percezione. La presentazione grafica è forse l’unico punto debole di quest’opera, la scelta del font sia interno che esterno e in generale l’artwork, a mio avviso, non rende giustizia ad un’opera così bella. In ogni caso per una piccola mancanza per gli occhi, le orecchie ringrazieranno e chiederanno a gran voce un altro play. Siamo di fronte ad una composizione particolare anche nella divisione delle tracce. Troviamo due nodi principali su cui gira tutto il disco, “Beyond the Line” e "Brute Force Majeure", gli unici pezzi in cui è presente la voce. Questi due mostri di suono sono incorniciati da una breve intro che dà inizio al disco come fosse un rituale ed infine troviamo un ultimo pezzo strumentale di coda, che racchiude perfettamente lo spirito della registrazione e dà un giusto commiato all’opera. Il significato dei testi, presenti all’interno del cd, è molto profondo, seppur presentino una poetica ed una terminologia molto semplice che non sempre contribuisce a conferire più suggestione alla musica. Antti dice di non avere paura ad oltrepassare la linea perché anche se in questo modo tutto ci sembra più verde, in realtà dall’altra parte, regnerà la pace eterna. Alcune immagini che ci regalano i testi sono ben riuscite, come le linee disegnate sulla sabbia del deserto che vengono lavate via dalla marea di sangue ed altre invece sono meno efficaci ma fortunatamente è la musica in sé ad essere densa di significato tanto da farci dimenticare il significato delle parole. Tolti questi piccoli appunti, il messaggio di pace che 'Tides of Blood' porta in dote nelle sue liriche ci appare chiaro e forte ed è sicuramente da elogiare. Ora però parliamo di musica. L’opera inizia con una preghiera in una lingua sconosciuta di un monaco eremita che sembra ripreso dall’interno di una grotta, la voce del santone sfuma per atterrare dolcemente sul vacuo incipit di “Beyond the Line”. Il pezzo come detto è uno dei due pilastri del disco, e si estende per più di dieci minuti di ineffabile leggerezza e truce realtà. La chitarra di Antti a volte infligge potenti sferzate di frequenze basse e oscure e a volte si allarga in splendidi arpeggi sorretti da voci lontane. La batteria di Artturi segue con molta carica emotiva l’evolversi del pezzo ed incatena con le sue ritmiche tutti gli scenari che il pezzo offre, e sono molti. Punto di forza sicuramente la performance vocale di Antti con uno screaming basso, sporco e potente in stile Aaron Turner, inoltre la scelta delle voci di accompagnamento crea un’aura religiosa e mistica che ricorda a tratti gli OM e i Tool. Dopo un poderoso finale si apre ”Brute Force Majeure”, un’altra apocalittica composizione di quasi dodici minuti che costituisce forse il pilastro più importante del disco. Il pezzo inizia con un crescendo che trasforma la canzone da esile ed eterea a potente e rabbiosa, proseguendo con sognanti intrecci di basso e chitarra dal sapore molto Toolliano fino ad arrivare ad intensi passaggi di riff distorti e di ritmiche serrate proprie dei primi ISIS. Gli ambienti onirici sono egregiamente valorizzati da dolcissime voci femminile e spaziali interventi di lap steel guitar. Anche qui è forte la componente religioso-esoterica, efficace nel dare al tutto un sapore misterioso e primordiale. Arriviamo infine a “A Thousand Hollow Words”, pezzo di chiusura del disco introdotto da una piccola traccia di suoni malati. La sensazione è quella di essere nel mezzo di una radura in un fitto bosco ed osservare gli animali che si rincorrono, le foglie che sfregano tra loro e le nuvole che fanno il loro corso. D’un tratto il tempo si rompe, le nubi scaricano pioggia e l’ambiente diventa ostile e minaccioso. Ma un senso di protezione e forza interiore permea l’intera opera, tanto da far sentire l’ascoltatore al sicuro da qualsiasi cosa possa accadere. Consiglio ai fan di ISIS, Tool, Neurosis, Rosetta e a tutti gli appassionati di post metal, l’ascolto di 'Tides of Blood Part I', sarà un dolce naufragare in questa marea di sangue. (Matteo Baldi)

(Self - 2015)
Voto: 85

domenica 31 gennaio 2016

Blot – Ilddyrking

#PER CHI AMA: Viking Pagan Folk Black Metal, 
Sulla pagina facebook di Pagan Storm Webzine, la band norvegese dei Blot era in lista per la corsa alla vittoria tra i migliori album pagan folk black metal del 2015. A ragione e in pieno merito si aggiudicano il nostro plauso per aver dato vita ad un album veramente entusiasmante, dal suono fiero e guerriero, prodotto divinamente e in totale indipendenza. Caricate quindi le vostre armi e spiegate le vele che cavalcheremo i mari a bordo di una qualche nave vichinga alla ricerca di conquista, sorretti da una colonna sonora di tutto rispetto, gelida e tagliente e dotata delle dovute diramazioni acustiche cariche di suggestioni disseminate negli angoli dei nove insidiosi e aggressivi brani ("God of War" è una gemma in tal senso). Tutti i pezzi ivi contenuti sono violenti e velenosi, velocissimi e carichi d'atmosfere bellicose, con lo screaming micidiale, cosi come la batteria e i riff di chitarra. La lunghezza dei brani è moderata e consente un ascolto molto easy dell'intero lavoro, molto impegnato ma piacevole e fluido. Attivi dal 2007 e provenienti da Kristiansand, non dovrete confonderli con l'omonima band di Oslo; i nostri dopo aver fatto uscire un EP nel 2009, si rivolgono ora al grande pubblico con un full length, ricercato e curato nei dettagli, pieno di carattere, e pronti per uscire dai sotterranei dell'immenso oceano del black metal a sfondo epico, pagano e folk alla maniera di Nordheim, Tyr, gli immancabili Bathory, Bifrost e primi Enslaved. L'anima dei Dissection è intrinseca nel DNA di questa band norvegese e la cover di "Where Dead Angels Lie", usata come bonus track in fondo al cd, ne è la dimostrazione e la conferma di quanto il loro suono paghi il tributo alla band svedese, risultando comunque, sempre originali, genuini ed interessanti. I Blot sono alla fine un'ottima band, dalla struttura saldamente legata alle origini di questo genere ma in grado di mostrare un lato più versatile e carismatico, un'alta qualità d'esecuzione e una certa padronanza tecnica, in un lavoro egregio contenente cinquantadue minuti di cristallina e gelida potenza. Immancabile l'ascolto per i guerrieri più puri del pagan metal. (Bob Stoner)

(Self - 2015)
Voto: 80

sabato 30 gennaio 2016

Opera IX - Back to Sepulcro

#PER CHI AMA: Occult Black
Sono passati più di vent'anni da quando vidi per la prima volta gli Opera IX dal vivo, in compagnia degli Evil, in un piccolo paese sperduto nella provincia di Verona. Da allora di cose ne sono cambiate parecchie in seno alla band, con una serie di avvicendamenti, il più clamoroso dei quali è stato quello di Cadaveria, che hanno portato ad avere oggi il solo Ossian come membro fondatore della band, con tutti i nuovi elementi che si sono uniti allo storico frontman nel 2014, tra cui la nuova e convincente vocalist Abigail Dianaria. Questo 'Back to Sepulcro' è una raccolta di vecchi brani ripresi e reinterpretati dalla nuova line-up, più un nuovo pezzo, "Consecration" che vuole dare un assaggio di quello che saranno i nostri nel futuro. Vorrei iniziare col mettere subito in guardia i fan di vecchia data della band che si può vivere tranquillamente anche senza quest'album, che rispolvera vari classici del passato, dotandoli di una nuova veste occulta. Inviterei piuttosto nuovi proseliti ad avvicinarsi agli Opera IX e assaporare la sacralità di "Sepulcro", un pezzo vecchio di 21 anni ('The Call of the Wood'), che mette in luce le eccelse qualità della nuova singer, che quasi quasi apprezzo più di Cadaveria, e di un sound che continuo a percepire anche a distanza di anni, come magico ed esoterico, e di riuscirmi ancora ad emozionare sulle note di quest'infinita traccia, guidata dalle magiloquenti tastiere di Alexandros. Fantastica e ispirata anche la più violenta "The Oak", estrapolata dalla seconda fatica della band piemontese, 'Sacro Culto'. La song mette ancora in evidenza un uso più importante delle keys e più in generale di arrangiamenti che enfatizzano e rendono più ampolloso il sound del quintetto. Con "Act I. The First Seal" ci si muove al terzo lavoro degli Opera IX, quello dell'apertura a un pubblico più vasto, 'The Black Opera': la versione 2.0 dei nostri conferma l'intenzione di Ossian e compagni di avvalersi di orchestrazioni assai bombastiche. "Maleventum", estratta dall'album omonimo, è qui graffiante come l'originale, però la voce di Abigail Dianaria le conferisce un surplus che me la fanno preferire di gran lunga alla song del 2002. Arriviamo alla nuova e etenebrosa "Consacration", che palesa delle orchestrazioni di chiara matrice Dimmu Borgir (ricordate "Progenies of the Great Apocalypse"?) anche se poi le ritmiche sono più essenziali e scarne, ma comunque di grande effetto. In definitiva 'Back to Sepulcro' è un bel biglietto da visita per gli Opera IX per assoldare nuovi adepti nella loro confraternita dedita ad esoterismo e alchimia. (Francesco Scarci)

The Pit Tips - Best of 2015

Emanuele "Norum" Marchesoni

Luca Turilli's Rhapsody - Prometheus
Hollow Haze - Memories of an Ancient Time
Arcturus - Arcturian
Amorphis - Under The Red Cloud
Nightwish - Endless Forms Most Beautiful

---
Francesco Scarci

Sunpocrisy - Eyegasm, Hallelujah!
Vola - Inmazes
Thy Catafalque - Sgurr
Enslaved - In Time
So Hideous - Laurestine

---
Don Anelli

Marduk - Frontschwein
Omnia Malis Est - Viteliu
Hartlott - Proliferation
Disloyal - Godless
Obscure Infinity - Perpetual Descending into Nothingness

---
Mauro Catena

Riley Walker – Primrose Green
Iosonouncane – Die
Algiers – S/t
Giöbia – Magnifier
Oiseaux Tempête - Ütopiya

---
Samantha Pigozzo

Lindemann - Skills in Pills
Paradise Lost - The Plague Within
Oomph! - Monster
Eisbrecher - Schock
Queens of the Stone Age - Lullabies to Paralyze

---
Roberto Alba

Serpent Noir - Erotomysticism
Mgła - Exercises in Futility
Sulphur Aeon - Gateway to the Antisphere
Tribulation - The Children of the Night
Lychgate - An Antidote for the Glass Pill

---
Michele Montanari

Sunpocrisy - Eyegasm, Hallelujah!
Elder - Lore
Torche - Restarter

Acid King - Middle of Nowhere, Center of Everywhere
WOWS - Aion

---
Bob Stoner

Arcturus - Arcturian
Yukko Haii/Macchinamorbida - The Universe in Jorge Doon (split)
Monster Magnet - Cobras and Fire - The Mastermind Redux
Paradise Lost - The Within Plague
Temple of Baal - Mysterium


---
Alessio Perro

Living as Ghosts With Buildings as Teeth - Rishloo
Building An Empire - Demians
Underworld - Symphony X
Fire make Thunder - OSI
Dodge & Burn - The Dead Weather

---
Claudio Catena

Iron Maiden - The Book of Souls
Calibro 35 - Space
Motorhead - Bad Magic
Il Teatro degli Orrori - S/t
Symphony X - Underworld

Voltumna - Disciplina Eterna

#FOR FANS OF: Black/Death Metal, Vorkreist, Behemoth
The second full-length from Italian black/death metallers Voltumna is a rather finely-honed mix of black, death and more modern elements to create a rather intriguing landscape. Full of scorched riffing, tremolo-picked rhythms and a choppy series of drum-blasts, this is firmly-entrenched in the black/death metal mold that serves as the fine basis here for the material at hand as this tends to race between frantic, intense bursts or more charging mid-tempo vibes throughout. As that forms up the majority of the work here, that leaves this one with some rather fun, stylized moments throughout here with this one getting quite enjoyable with that series of riffing featured here, especially once it starts to adopt slightly-stylized chugging riffing found from most Metalcore bands. Though still keeping firmly within the more extreme style of the genre, this sort of riffing gets introduced mainly as a way of integrating a more down-beat tempo throughout here in exchange for the constant blasting and tremolo riff-work found elsewhere here and it doesn’t really come off all that intriguing as there’s not a whole lot of really intriguing work done to mix those into the music proper. It comes off as rather lazy and doesn’t keep the intensity of the rhythms featured elsewhere, coming off as distracting when it’s in the midst of more promising ventures throughout here. Even the symphonics here are much more promising even if they’re in brief spurts that don’t really continue on through the rest of the album at large. The other small issue present is the faint, tiny drum-sound here that’s pretty weak and not all that damaging as it tends to simply go through some rather enjoyable rhythms but is so far down in the mix the true power of the drumming is severely weakened here which holds this back somewhat. Still, the songs here aren’t all that terrible. Intro ‘Roma Delenda Est’ opens with a slow-building riff into a dynamic series of swirling rhythms and dexterous double-bass blasts as the raging tempos fly through intense, frenzied patterns with stylized tremolo riff-work that carries into razor-wire patterns in the solo section on through the finale which makes for a strong opening effort. ‘Prophecy of One Thousand Years’ offers a more melodic tremolo riff with swirling rhythms alongside the gradual influx of grandiose double-bass drumming with a fine mixture of sprawling mid-tempo rhythms and intense blasting that continually forces through the more restrained and melodic rhythms in the final half for a solid enough effort. The title track brings along a tight, lock-step styled rhythm with dexterous drumming that rips into a rather frantic series of swirling tremolo-picked riffs full of dizzying energy that continually rips through the up-tempo sections before settling on a mid-tempo chug for the finale in a rather decent-enough effort. ‘The Alchemist’ blisters through raging drum-work and a furious series of swirling tremolo riffs with the frantic patterns and straightforward pace keeping the charging tempo and dizzying rhythms throughout as the dynamic riffing continues charging through the final half for a strong overall track. Instrumental ‘Bellerofonte’ features ripping razor-wire riffing with plenty of intense rhythms alongside the gradually building drumming as the chug-heavy patterns carrying this one through the grandiose rhythms featured in the symphonic-laden finale that serves as a fine mid-album breather. Blasting back into ‘Bringer of Light’ opens with blistering double-bass drumming and tight, frantic chugging riff-work keeping the dynamic energy throughout here with the slightly more melodic sections balancing out the more furious rhythms with the dexterous patterns keeping the blasting rhythms on track throughout the final half for a grand overall highlight effort here. ‘Tages, Born from the Earth’ slowly fades into an epic series of chants against the droning riff-work and drumming that quickly becomes a solid mid-tempo groove-styled chug with pounding drumming alongside the occasional symphonic washes as the churning mid-tempo energy continues through the solo section into the admittedly-intense finale for an overall expendable track. ‘Carnal Genesis’ features a bouncy up-tempo rhythm with plenty of dirty tremolo-picked rhythms against the frantic drumming while allowing for the frantic energy found throughout the main riffing as the strong charging patterns and stuttering chug riff-work carries along through the final half for a dynamic, enjoyable effort. ‘Measure the Divine’ uses grandiose symphonic washes into a simple chugging rhythm with plenty of mid-tempo riffing and plodding drumming keeping this one moving along at a lifeless pace with the churning riffing getting held back here in place of the symphonic keys and chugging patterns that move through the finale for another disappointing and overall unneeded effort. ‘Teofagia’ goes for a grander symphonic scope as the rumbling guitars and plodding drumming settle into a fine mid-tempo charge with the furious riff-work bringing the first half into a more energetic pace as the pounding drumming coincides with the increased tremolo-riffing patterns whipping through the intense final half for a solid enough effort. Their cover of the Venom classic ‘Black Metal’ features the same kind of whirlwind energy and savage attack featured in the original while the lowered drumming patterns keep this from reaching the same classic status by going through a respectable homage that doesn’t really do anything new that others have done to the track before them. Album closer ‘Tirreno’ features a mid-tempo series of chug riffing with plenty of symphonic works alongside the raging drumming the blasts through the swirling tremolo riffing with rather frequent and charging up-tempo drumming keeping the fine rhythms alongside the disjointed melodic final half gives this a solid if rather disheartening closing shot. Overall this one was a slightly disappointing effort but still comes off rather nicely at times. (Don Anelli)

(Self - 2015)
Score: 75

https://www.facebook.com/voltumna

venerdì 29 gennaio 2016

Nýr Gata – Seraphin

#PER CHI AMA: Black/Death, Dissection, Satyricon, At the Gates
A quanto pare l'album di debutto dei teutonici Nýr Gata è un complicato concept cantato in lingua madre, incentrato sulla figura biblica del Serafino, angelo adoratore di Dio, citato nel libro di Isaia come agente purificatore per espiare i peccati. Il duo tedesco di Nohfelden si è formato nel 2014, e nel nell'agosto del 2015 ha rilasciato questo interessante cd autoprodotto, dividendo i compiti sonori a pari merito tra Nordmann, che ha mixato l'intera opera e Sarghas che si è incaricato anche della ottima presenza vocale. Nei trentotto minuti di esplosiva merce sonica, i due espongono tutto il loro carattere, ossia un nervoso black/death, melodico ma molto radicale, con velocità e radici ben salde nel metal scandinavo dei Dissection. Musica tagliente ma coinvolgente, dotata di velate ossessioni progressive, chitarre dai riff ammalianti e nascosto tra le bordate di una batteria disumana, un basso con una verve pulsante, guida il tutto. Un black metal quello dei Nýr Gata che al primo ascolto può apparire ostico, conservatore e chiuso tra le solite fila dei riferimenti illustri, ma che ad un ascolto più attento, ha il merito di offrire tante sfaccettature e una sua propria originalità, ovvero risultare duri e violenti, pur suonando raffinati e dinamici, garantendo sprazzi d'atmosfera e solidi momenti d'impatto, tutti allo stesso tempo. Ascoltate ad esempio "Hinab Von Lichte" per farvi un'idea, o "Im Reich Der Leere", con il suo finale dolente e orchestrale, e capirete di che pasta è fatto questo duo, due brani splendidi. L'intero album viaggia su standard compositivi ed esecutivi altissimi; con una veste più mainstream, sono certo sarebbero pronti anche a spiccare il volo verso lidi più ambiziosi. Così, con tanto orgoglio, mi voglio gustare 'Seraphin' in questo immaginario plumbeo e underground, ottimo e ricercato materiale per pochi fortunati, visto che il cd è uscito in appena cinquecento copie limitate. Con la forza attrattiva dei Satyricon, il tiro dei Children of Bodom e l'ossessivo malato grido di battaglia inneggiante il culto degli At the Gates, questo lavoro prende tutti i meriti possibili e si candida ad occupare i primi posti nella classifica degli album da ascoltare senza alcuna limitazione. Ottimo debutto! (Bob Stoner)

(Self - 2015)
Voto: 75

giovedì 28 gennaio 2016

Io Apreo - Plateau

#PER CHI AMA: Post Metal, Cult of Luna, Neurosis
Originariamente uscito nel 2013 in autoproduzione, l’etichetta russa Nios ha ristampato l’esordio dei connazionali Io Apreo, combo di Samara con all’attivo anche un paio di split e un EP, con l’aggiunta di una bonus track. 'Plateau' è quello che si può definire, senza mezzi termini, una mazzata tra capo e collo. Una quarantina di minuti di post metal, fortemente virato verso l'HC, violentissimo e feroce, urlato come si conviene, che non lascia scampo e promette di non fare prigionieri. I riferimenti principali possono essere trovati da qualche parte tra i Converge, gli Entombed, i Dillinger Escape Plan e i Neurosis, fino ai Cult of Luna. La traccia di apertura, "Aerpa", è un perfetto biglietto da visita, con i suoi sei minuti fatti di muri chitarristici impervi e vertiginosi, urla gutturali e una batteria che sembra una grandinata in pieno agosto, alternati a momenti piú calmi e riflessivi, senza però che la tensione venga mai meno. Il quartetto russo combina sapientemente la furia post-metal stemperandone i tecnicismi con l’approccio incompromissiorio dell’hardcore e buone dosi di sporcizia death, senza disdegnare di rallentare ogni tanto il ritmo per poi pestare piú forte (come in “Insand” quando ci si avvicina addirittura al doom) o viceversa rarefarsi fino a scomparire (le strumentali “Xenization” e “Zugzwang”). “Fourth” è il brano piú lungo (piú di nove minuti) e articolato, con i suoi saliscendi emotivi in cui emergono tutte le componenti del suono della band, mentre “Nios” e la conclusiva “Hamartia” alzano ancora l’asticella della violenza lasciando l’ascoltatore senza forze, esausto ma soddisfatto. Disco potentissimo, non per tutti i momenti della giornata, ma molto molto interessante. (Mauro Catena)

(Nios - 2015)
Voto: 75

sabato 23 gennaio 2016

Consecration - Grob

#PER CHI AMA: Alternative Rock/Psichedelia
Ogni volta che esce un lavoro dei serbi Consecration tremo perchè non so mai cosa aspettarmi. Il combo di Belgrado ha infatti esordito con un album che ammiccava agli Opeth, sterzando poi il proprio sound verso Anathema e Porcupine Tree, per poi puntare decisi ad un alternative/post metal con il precedente 'Universum Zna', che citava addirittura Isis e Black Sabbath. E ora 'Grob', un lavoro uscito peraltro solo in vinile e digitale (che scazzo!). 'Grob' include cinque lunghi pezzi che già con "Debeli Leptir" preludono a sonorità che si muovono tra stoner e psichedelia, non disdegnando però lunghe fughe post rock e richiami alla musica balcanica, grazie anche all'utilizzo di sax, tromba, theremin e soprattutto fisarmonica. Me ne sono già innamorato, non fosse altro per la voce di Danilo Nikodinovsk che sembra costantemente sotto l'effetto di acidi nella sua catartica performance. Però se riuscirete anche voi a sorpassare questo scoglio, ma se amate alla follia gli Ufomammut non ci farete neppure caso, perderete la testa anche voi per 'Grob' e le ubriacanti linee di chitarra di "Sheed", che si muove deliziosa tra passaggi lisergici e frangenti blues rock e jazz, avvolti tuttavia da un alone doom. Interessante no la miscela che ne viene fuori? Io confermo e sottoscrivo. Mi rilasso con il lungo intermezzo strumentale di "Sećanje na Ameliju", che potrebbe essere colonna sonora di un qualche film drammatico franco-tedesco e mi rilancio all'ascolto dell'infinita title track (12 minuti) che dopo un preludio ambient, si muove seducente su sonorità morbide e compassate, semiacustiche e dove anche la voce di Danilo assume connotati quasi umani. Magari alle nostre orecchie stonerà il cantato in serbo (o qualche stonata qua e là), ma anche qui basta farci l'abitudine e farsi rapire dal rock mellifluo dei Consecration che peraltro regalano uno splendido lungo assolo di chitarra dal feeling autunnale assai malinconico e a dir spettacolare. Non tradiscono neppure questa volta i ragazzi serbi e con la conclusiva "Ejmi (1983-2011-201?)", i nostri ci deliziano con altri 12 minuti di rock atmosferico, saliscendi emozionali, sprazzi spacerock e un finale a sorpresa che apre a nuovi intriganti sviluppi sonori. Ottimo ritorno ragazzi, però la prossima volta fatemi contento con una uscita anche in cd! (Francesco Scarci)

(Geenger Records - 2015)
Voto: 75

http://consecration.band/album/grob  

Lifestream - Post Ecstatic Experience

#PER CHI AMA: Black Atmosferico, Emperor, Dissection
Ancora Francia, ancora Les Acteurs De l’Ombre Productions, nella sublabel Emanations, ancora black metal di classe, questa volta con i malatissimi Lifestream e un sound oscuro come la pece, che non fa prigionieri. Una tempesta di metallo nero che si abbatte sulle nostre teste attraverso nove pezzi che, pur non inventando nulla, colpiscono per quell'insana melodia che i cinque musicisti di Bordeaux sono riusciti a creare e infondere con questo 'Post Ecstatic Experience'. Dicevo nove pezzi per la versione in cd, nella tape ne troverete invece sette. Il disco apre con la mefitica e breve "Introspective Maze" che prepara a "An Unfathomable Dereliction" che irrompe a gamba tesa con un riffing serrato contrappuntato da ottime melodie che potrebbero evocare i fasti di un passato glorioso dello Swedish black dei Dissection unito all'intransigente sound di Deathspell Omega o le estranianti melodie dei Blut Aus Nord. In Francia il black è di casa e ha ormai soppiantato quelle nazioni nordiche che hanno dato le regali origini al genere. I Lifestream sono l'ennesima band partorita dai cugini transalpini, che propongono una nuova rilettura di una musica che non ne vuol sapere di passar di moda. Non stupitevi quindi delle fosche melodie di "Lifeless Solace" che rievocano gli Emperor nelle loro parti più atmosferiche. I cinque galletti sanno quello che fanno e lo fanno davvero bene, segno che la LADLO Productions ha avuto ancora una volta l'occhio lungo. "Parasite Glory" è un pezzo che unisce saggiamente la violenza del black con alcune partiture heavy, e un vocalist che offre una componente vocale più improntata al growl che allo screaming. Gli spettri del sound scandinavo dei primi Dimmu Borgir, di Samoth e compagni, e tutta la combriccola inclusa nella seconda ondata black di metà anni novanta, rivive in questa traccia, in cui rallentamenti doom e suggestioni horror, la identificano come la mia song preferita del disco, soprattutto considerati i suoi lunghi 10 minuti di durata. Se "Celestial Scourge Subjugation" strizza l'occhiolino ai Ved Buense Ende per le sue disarmoniche chitarre, "Sad Thoughts Overdose" colpisce per il malinconico feeling sprigionato dalle sue ancestrali melodie. Il disco scivola via offrendo una certa fierezza nei suoni, interessanti partiture corali, plumbee parti atmosferiche, ipnotiche ritmiche serrate (nella lunga e tortuosa "Two Faces") e talvolta malinconici riff di chitarra a suggellare un'altra bella uscita discografica da parte dei nostri vicini francesi, intelligenti peraltro nel puntare sempre sulle band di casa propria. Lo capissimo anche noi in Italia, e non vedremo certo le nostre più talentuose band migrare verso le grosse etichette indipendenti. Gran bell'album comunque 'Post Ecstatic Experience', la cui unica pecca potrebbe essere identificata nella sua eccessiva durata che va oltre l'ora di musica. (Francesco Scarci)

InTechnicolour - S/t

#PER CHI AMA: Alternative Rock/Stoner, Baroness
Fighi gli InTechnicolour, peccato solo abbiano rilasciato un EP di 3 pezzi che per di più dura non oltre i 12 minuti. Minuti sufficienti però per inquadrare la band, che vanta membri di Porshyne, Delta Sleep e Physics House Band, e che partorisce un sound figlio dei Baroness. Il quintetto di Brighton esordisce con i brillanti tre minuti di "Lend Me A Crushed Ear" e una proposta che sia nel suono che a livello vocale, si ispira chiaramente al gruppo georgiano. Chitarre fuzzate tra lo stoner dei Mastodon e lo stile desertico di Kyuss, conducono le danze tra atmosfere oscure e aperture melodiche, e con i vocalizzi di Tobie Anderson ad emulare quelli del frontman statunitense, almeno in questa prima traccia. Si, perchè nella successiva cover del 1970, "Hey, Who Really Cares", di Linda Perhacs, la rilettura dei cinque di quel pezzo folk, richiama a livello vocale Lingua/The Isolation Process, e in termini musicali sterza, avvicinandosi all'alternative rock dei Tool. Con il riffone iniziale di "We Are All Losing Sleep", gli InTechnicolour acquisiscono ancor più personalità e, combinato con le sempre più convincenti vocals di Tobias e una ritmica d'impatto, i nostri elaborano una traccia fresca, varia e che offre uno splendido e caldo break centrale, accompagnato da un ottimo chorus, che ci consegna una band già in palla e pronta al salto di qualità, se ben supportata. Inatessi quanto sorprendenti. (Francesco Scarci)