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sabato 21 febbraio 2015

Diversion End - Building a Maze

#PER CHI AMA: Groove Metal, Scar Symmetry, Soilwork
Come più volte ho scritto, è un vero peccato che alcuni album passino inosservati alla massa semplicemente perchè non c'è un'adeguata promozione sui giornali o in giro per il web. Credo che ormai dovremo farci il callo e andare in cerca, surfando in internet nei giusti canali, di titoli underground che un qualcosa di interessante da dire ce l'hanno pure. La mia corsia preferenziale è ovviamente bandcamp che oggi mi porta alla scoperta dei Diversion End, band finlandese dedita a sonorità moderne, grondanti di groove. E il terzetto formato da Simi, Liffe e Tupe si diverte sin dall'opening track con song che citano Soilwork, Scar Symmetry e Raunchy (tanto per fare qualche nome), calibrando poi la propria proposta con un limitato pizzico di originalità. Chiaro, nulla di mai sentito, ma comunque di sicuro interesse. La title track mostra la robustezza dei nostri in sede ritmica, ma anche il dualismo canoro growl/clean di Simi e l'utilizzo copioso ed esuberante di synth e tastiere che hanno modo di garantire suoni tanto piacevoli quanto ruffiani. E "As the Light Drowns Again" non può che esser da meno con le sue meravigliose linee melodiche, che non faranno certo gridare al miracolo, ma che comunque avranno modo di tenervi compagnia mentre percorrete con la vostra auto strade deserte, fischiettando la melodia accattivante dei Diversion End. "For My Shadows" è la terza traccia di questo mini EP, che si configura come la song più malinconica delle cinque contenute in 'Building a Maze'. Il che ci sta anche, per spezzare quel ritmo forse un po' troppo "happy" delle prime due tracce, dall'impatto easy listening. Non è infatti difficile ascoltare questo terzetto della prolifica scena di Oulu, che torna a spaccare con "Reverie", brano che offre il riffing preciso dei due axemen che va a plasmarmi benissimo con le percussioni chirurgiche di Tuomi in un sound ammiccante e piacione. La conclusiva "King of Illusions" chiude il dischetto, sciorinando un'ultima seducente ritmica cyber death. I Diversion End alla fine, pur rimanendo ancorati ad un genere che ha già detto molto, si lasciano comunque facilmente ascoltare. Per il futuro tuttavia, consiglierei una maggiore ricerca di originalità, diamine siete finlandesi e avete la genialità insita nel vostro DNA. Bravi ragazzi, ma ora serve un po' più di coraggio. (Francesco Scarci)

Love Club – Pearls Dissolve in Vinegar

#PER CHI AMA: Shoegaze, The Stooges, Rolling Stones
Quinto album per il sestetto di Philadelphia, capitanato da Mitch Esparza, dedito ad un rock piuttosto selvaggio, debitore tanto del r’n’r sporco e cattivo degli Stones di 'Exile on Main Street', quanto degli Stooges, ma anche pesantemente influenzato da una psichedelia meno rassicurante. Molto poco confortante è anche l’immagine di copertina, dove un’aquila dalla testa bianca, simbolo degli States, perde di colpo tutta la sua fierezza e maestosità, mostrandosi fragile e agonizzante. Che sia una non troppo velata critica alla grande nazione americana? Inserito il cd nel lettore, dopo un’intro strumentale, "New Phace" ci colpisce in piena faccia con il suo piglio stridente in stile Detroit anni '70. "Lonely Star" potrebbe essere il frutto di una jam sudata tra Stones e Iggy Pop, mentre "God Hates You" sarebbe un perfetto pop soul daclassifica, se non fosse suonato come non ci fosse un domani e cantato da uno sguaiatissimo ed efferato Esparza. Quale sorpresa quindi, riconoscere nella sua stessa voce nel pezzo successivo, "Need Somebody", ne piú ne meno che quella di Dylan, alle prese con una sgangherata ballad acustica. E se "Don’t Shoot me Down" spinge ancora forte sul pedale di un garage-punk ultra-saturo, è nella seconda parte del disco che i Love Club riservano le sorpese piú grosse e i colpi migliori, a partire dal raga psych-noise "Awaken Satan", 6 minuti di innodici gorghi chitarristici e voci zuccherose, come dei My Bloody Valentine piú grezzi. Non si fa in tempo a riprendersi dallo stordimento, che è la volta di "Murder by Contract pts. II & III", uno strumentale che parte dai set polverosi degli western dei Calexico e arriva, senza soluzione di continuità, all’Etiopia supersonica raccontata dai dischi degli Ex con Getatchew Mekuria, nella stessa estasi di chitarre e sax selvaggio. È ancora un sax basso e grasso a scandire il ritmo di "Blue Eyed Big Dicked Baby Faced Killer", rock blues sguaiato che potrebbe essere uscito dalle sessions di 'Funhouse'. Ancora psichedelia per la strumentale "The Mod Trade", con quelle accelerazioni chitarristiche vorticose che mettono il serio pericolo il nostro senso dell’equilibrio. Si finisce con la title track, altro apocrifo Dylaniano suonato, come sempre, non proprio in punta di fioretto. Davvero un bel lavoro, dal suono grezzo al punto giusto, che riserva sorprese inaspettate e tanta passione per un rock fieramente al di là delle etichette e al di fuori da ogni pretesa mainstream. Consigliatissimi. (Mauro Catena)

giovedì 19 febbraio 2015

L'Alba di Morrigan - The Essence Remains

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Post Rock/Alternative, Katatonia, Novembre
Pelle d'oca, esaltazione e nodo alla gola. Quanti di noi possono dire di aver mai provato tali sensazioni ascoltando musica? Personalmente, durante i concerti più belli della mia vita, oppure ascoltando il nuovo album delle band che preferisco. Ma provarlo così, inaspettatamente, aumenta a dismisura l'esperienza sensoriale ed emozionale. Quando il lettore cd va a leggere le prime note di questo 'The Essence Remains' ti rendi conto che hai tra le mani qualcosa di speciale e allora ti lasci avvolgere dai quarantasette minuti che seguono, in caduta libera. La band nasce a Torino nel 2008 e dopo qualche cambio/assestamento di formazione, si consolida con gli attuali cinque membri che hanno dato vita al primo demo 'The Circle' nel 2009 e infine l'album in questione. Il sound si posizione tra post rock e alternative metal, ma quello che colpisce subito è la qualità della proposta, la minuziosa ricerca fatta per suonare ed incidere quelle precise sensazioni che la band regala dal vivo. Un mix tra Katatonia (hanno collaborato con il loro tastierista e questo spiega molte cose), gli ahimè scomparsi Novembre e gli Anathema. "Snowstorm" è una ballata lieve e leggera come fiocchi di neve che si appoggiano a terra senza fare rumore, tra arpeggi profondi di chitarra e il cantato che sussurra una ninna nanna che ci faccia dormire per sempre tra braccia calde. La ritmica non è scontatamene lenta, anzi, batteria e basso si intrecciano e si rincorrono sempre leggeri, ma decisi. In "Lilith" inizia a prendere forma la parte più aggressiva della band: il brano infatti è introdotto da un riff di chitarra, leggermente acido nel suono o comunque che ricorda le distorsioni di qualche anno fa. Il testo è in italiano e gli arrangiamenti sono sempre all'altezza, ben strutturati e che scorrono fluidi come l'acqua di un ruscello. Il riff iniziale ritorna e spezza brevemente la struttura di arpeggi e assoli, permettendo al brano di riprendere il suo mood iniziale. "24 Megatons" racchiude l'anima dei L'Alba di Morrigan fatta di dolcezza e decisione, una duplicità che convive perfettamente in un brano dove fraseggi puliti e cristallini aprono la via a riff potenti che sembrano ancora più decisi proprio perché vengono circondati da tutto in poco più di quattro minuti, ma sono sufficienti per apprezzarne ogni singolo cambio di direzione, come i passaggi math rock, dove la ritmica si protrae in una sequenza chirurgica e cadenzata. Solo alla fine ci si rende conto che è un brano strumentale, ma il lavoro fatto è talmente complesso e ricco di sfumature che sarebbe stato praticamente impossibile infilarci una linea vocale. Un ottimo lavoro questo 'The Essence Remains', peccato solo averlo recensito con qualche anno di ritardo. Personalmente avrei sperato in un suono più potente, ma si percepisce ogni singola vena di speranza ed emozione che solo una band matura e valida può condividere e trasmettere così bene. (Michele Montanari)

(My Kingdom Music - 2012)
Voto: 85

People are Mechanisms - VII

#PER CHI AMA: Doom/Rock Depressive
Quest'album è un viaggio in cui la meta passa in secondo piano. Armatevi di torce, bussole e fuoco. Vi serviranno quando vi troverete sperduti in quelle terre dimenticate dalla coscienza, abitate solo dai fantasmi della vostra anima. “Envy”, questo il brano d’esordio in cui la materialità della terra diviene avulsa allo spirito, in favore della risacca del vento. Turbina la musica, sprigionando abbracci immaginati, in cui il tepore è solo un’illusione. Mentre ascolto questa strumentalità, apparentemente asettica, sento che in essa vi è il potere di alienare freddo e solitudine. Questa essenza in musica, ha l’arroganza e la forza di smemorizzare il cuore, rendendolo un guerriero che vincerà, dopo aver pagato l’obolo del contrappasso. La velocità del nostro viaggio cambia con “Gluttony”. La batteria marcia incalzando gli spazi tiepidi che aveva scavato “Envy”, per poi mescolarsi a corde metalliche di chitarre sprezzanti, quanto definite in un evolvere metal che fa togliere cappello e vestiti, tanto è il calore che si solleva dalla carne in un ballo ipnotizzante descritto da quest’altra song strumentale. Se vi sono sembrata predata romanticamente dal dark, con “Lust”, stravolgerò le vostre percezioni. Vi invito a stringere tra i denti il vostro pensiero più ossessivo. Trattenetelo, perché nel mettere a volume questa traccia potrebbe confortarvi. Ci addentriamo con “Lust”, in verbalizzazioni squisitamente metalliche in cui si avvicendano ottoni violentati, bassi sguaiati, rimembranze sensualmente spinte in accordi graffiati. Un orgasmo sonoro dall’anima nera. Ben fatto. Straziante. Coinvolgente. Riprendetevi in fretta. Perché “Sloth” non vi lascia respirare. Bissiamo “Lust” in un tutt'uno di batteria, gesti secchi sulle corde di chitarre elettriche dallo stomaco ben carburato. Questi due brani sono appendice, l’uno dell’altro. Ora prendete le vostre torce, le vostre bussole ed i vostri fuochi. Spegnete. Buttate. Soffiate. Questa “Proud” ce la assaporiamo avvolti dal buio pesto che non filtra né speranza, né salvezza, né possibilità. Chiudiamo con un catenaccio ferroso la porta dell’anima. Lasciamo che “Proud” ci guidi nei sentieri bui delle paure. Lasciamo all'udito il beneficio del dubbio che questa band russa, possa farci non solo perdere, ma trovare. Lascio il passo al vostro riascolto. Consiglio agli astanti questo viaggio, ma lasciando a casa l’armatura. (Silvia Comencini)

(Self - 2014)
Voto: 75

Red Hills - Pleasure of Destruction

#PER CHI AMA: Melo Death
Uscito nel 2014 per la label Total Metal Records, il CD di questi cinque ragazzi ucraini arriva tra le mie grinfie con grandi aspettative, in quanto il booklet e l'artwork davvero ben curati, indicano che probabilmente ci troviamo di fonte ad un bel disco, fatto secondo i sacri crismi. La formazione è composta da voce, due chitarre più basso e batteria, e inizia subito forte, martellando a più non posso su ritmi cari al death metal scandinavo più classico (ascoltando i Red Hills, si capisce quanta scuola hanno fatto gruppi come In Flames e co.), con una voce però che cerca di fare il verso al Chuck Schuldiner anni '90 (Control Denied compresi ovviamente). L'abbinamento all'inizio potrebbe spiazzare, ma poi piace, anche se non finisce di convincermi appieno. Doppia cassa onnipresente, ottimo il lavoro di chitarre, i Red Hills continuano la loro marcia lungo i 26 minuti del disco andando a ricalcare, il che si palesa dopo qualche ascolto, terreni già toccati dai Children of Bodom anni or sono. Ecco il punto cruciale di 'Pleasure of Destruction', la poca personalità. Formalmente il disco va oltre la sufficienza, grazie a suoni meritevoli, precisi e degni di un disco metal moderno; tuttavia, le canzoni sembrano davvero tutte uguali e anche dopo svariati ascolti, si fatica a riconoscerle. Tra le song emergenti, per la qualità dei refrains, vi cito la canzone in apertura, “Hard to Be a Good Man”, e la notevole “Nocturne”, mentre tracce come “Whispering in My Mind” e “Bullet in My Head” rimangono piuttosto anonime nell'economia del disco, risultando monotone e poco originali. Un punto a favore dei nostri va invece nella durata delle composizioni, che si attestano su una media di 3 minuti a canzone, rendendo l'ascolto agile e per niente noioso. Tirando le somme quindi, 'Pleasure of Destruction' è un disco piuttosto innocuo, che non aggiunge e non toglie nulla al panorama attuale del genere, barcamenandosi dignitosamente intorno alla sufficienza. Sul filo del rasoio i Red Hills strappano una sufficienza; neanche mezzo voto in più, sarebbe davvero troppo. (Claudio Catena)

(Total Metal Records - 2014)
Voto: 60

domenica 15 febbraio 2015

Plateau Sigma - The True Shape of Eskatos

#PER CHI AMA: Death/Doom, My Dying Bride, primi Anathema
È abbastanza impegnativo l'ascolto di 'The True Shape of Eskatos', full length di debutto dei liguri Plateaus Sigma. Il disco, composto da sette tracce, scorre infatti lungo 68 minuti di musica tormentata, straziante, che già si presenta di per sé angosciante, grazie a una spettrale cover. Una lunga intro ci introduce al cuore del disco, "Satyriasis and the Autumn Ends", nove minuti di suoni tenebrosi venati da forti pulsioni funeral doom, enfatizzati dal profondissimo growl del duo formato da Manuel Vicari e Francesco Genduso, abili peraltro nel tessere affannose linee di chitarra che contribuiscono a caratterizzare il sound dei nostri ma soprattutto a rimarcare la plumbea matrice sonora dei Plateau Sigma, che in alcuni spunti ho trovato simile ad un certo sound di origine ellenica, che non riesco ancora a definire. Forse gli esordi degli On Thorns I Lay o forse altro, lo capirò strada facendo. Certo gli agganci ad altri memorabili dischi death doom del passato non mancano. I sofferenti 14 minuti di "Stalingrad" mi conducono ad esempio a 'Turn Loose the Swans' dei My Dying Bride, soprattutto a livello di clean vocals, l'accostamento a Aaron Stainthorpe in "Sear Me MCMXCIII", lo trovo piuttosto scontato. Non sto muovendo una critica nei confronti della band di Ventimiglia, anzi un plauso per provare a richiamare un vecchio classico che pare ormai scivolato nell'oblio. Belli i giri di chitarra che si muovono ansimanti in questa song, che nel suo incedere trova anche modo di assumere connotati più death metal oriented, cosi come fatto recentemente dai già citati MDB; altrettanto suggestivo il finale che invece richiama ancor più palesemente gli Anathema di 'Eternity'. "Ordinis Supernova Sex Horarum" è una lunga e inusuale traccia strumentale, che si muove tra un riffing tipicamente death e onirici frangenti atmosferici (dove fa capolino un etereo chorus), prima di regalarci un finale ancor più singolare, con tanto di assolo jazz affidato ad un incredibile sax, in una cornice musicale che non avrebbe certamente stonato nell'ultimo 'The Endless River' dei Pink Floyd. In "The River 1917" fa la sua comparsa un ospite alquanto inatteso: Efthimis Karadimas dei redivivi Nightfall, presta la sua voce in una song per lunghi tratti monolitica e sfiancante, fatto salvo quando a prendere il sopravvento sono le porzioni al limite dell'ambient, che sottolineano la maniacale cura negli arrangiamenti da parte del four-piece italico. Un'altra montagna da scalare è quella dei 13 minuti abbondanti di "Angst": la voce pulita del vocalist ne semplifica l'approccio e la sua vena stile 'Alternative 4' degli Anathema, me ne fa apprezzare enormemente il flusso sonico. Certo poi che la direzione marcatamente death che la traccia intraprende, mi fa un po' storcere il naso: non era forse meglio continuare a regalare suoni più intimisti e malinconici piuttosto che quel death doom che forse nell'est Europa sanno fare meglio? Questa la critica che muovo alla band nostrana. Le carte in regola per offrire musica indimenticabile ci sono, tuttavia spesso non vengono valorizzate o utilizzate nel modo migliore e i nostri scadono in suoni già ampiamente sentiti e alquanto banali. Meglio cavalcare un'onda bene (e io opterei per la rilettura in chiave Anathema/MDB più eterei) piuttosto che diverse e differenti nella sostanza, pregiudicandosi in questo modo una fetta di fan non troppo avvezzi a sonorità estreme. Grandissime potenzialità quelle dei Plateau Sigma ma non sfruttate al meglio. 'The True Shape of Eskatos' è un buon album che poteva diventare un top, se non si fosse caduti in errori legati ad una certa disomogeneità musicale che alla fine rischia di dividere i fan. Scegliete una direzione ragazzi e percorretela al meglio delle vostre possibilità. Comunque vada, sarà un successo. (Francesco Scarci)

(Beyond Productions - 2014)
Voto: 75

Forest Whispers - Magiczny Las

#PER CHI AMA: Black Metal, Burzum, Nokturnal Mortum
La scena metal polacca può vantare nomi del calibro di Behemoth, Vader, Hate, Lux Occulta e Devilish Impressions, tanto per citarne solo alcuni. Ora si arricchisce di una nuova entità, i Forest Whispers, one man band formatasi nel 2013, e fuori sul finire del 2014, con un debut album intitolato 'Magiczny Las'. La creatura di Hern suona un black old school, che andava di moda negli anni '90 e che, con una certa nostalgia, riporta in auge gloriosi temi pagani e il proprio omaggio alla natura. Niente di nuovo quindi, per un cd che ha da offrire otto tracce che possono trovare un qualche punto di contatto con i Nokturnal Mortum più seminali o i Burzum più spietati. Dopo la classica intro, ecco scatenarsi la ritmica tagliente di "Nieskończona Potęga", guidata da una melodia di fondo folk black e dalle harsh vocals del mastermind polacco. Il martellare nevrotico della prima traccia prosegue anche in "Godzina Dusz", song mid-tempo che gioca su accelerazioni black che strizzano l'occhiolino all'humppa finlandese, per trovare poi in frangenti acustici, un attimo di ristoro. Il sound è secco e il drumming molto spesso assai serrato. Ci pensano le aperture arpeggiate ("Ziemia Praojców") o i numerosi ed efficaci break acustici a smorzare la furia insita nel DNA del nostro druido polacco. La quinta traccia mi fa sobbalzare dalla sedia: si tratta infatti di una breve cover degli Ulver estratta da 'Kveldssanger', "Høyfjeldsbilde" per l'esattezza. Con la title track, il musicista polacco torna a pestare con le solite linee di chitarra acuminate, mentre "Król Przeznaczenia i śmierci" è un lungo brano assestato su tempi medi che richiama nuovamente i vecchi classici del panorama scandinavo, con i tipici riff reiterati all'infinito, sulla scia del modus operandi di Burzum. La song tuttavia ha un finale abbastanza atipico, in cui una chitarra spagnoleggiante gioca ad intrecciarsi con quella elettrica. A chiudere il disco ci pensano i synth dell'ambient "Wyzwolenie", che conferma l'amore del bravo Hern per sonorità da un po' finite nell'oblio. Discreto esordio per i Forest Whispers che, se sviluppato con maggiore personalità e minore furia sonora, potrà regalare interessanti sviluppi futuri. (Francesco Scarci)

(Taste of Winter Production - 2014)
Voto: 65

Reciprocal - New Order of the Ages

#FOR FANS OF: Technical Death Metal, Beyond Creation, Brain Drill, Decrepit Birth
One of the more politically charged Tech-Death outfits in the genre, these Hollywood bruisers offer up one of the more ferocious and complex assaults in recent years with their second release that only suffers from minute flaws. Ripping through a ravenous swarm of challenging and complexly-arranged riffs played at mind-boggling speeds with enough variance to make for another couple albums’ worth of material, the most imposing part of the band’s attack is most certainly the riff-work that comes flying fast and hard throughout here and becomes all the more imposing when meshed alongside the bass-lines and drum-work. Content to once again utilize the spindly noodling common in most recent Tech Death outfits, here it comes off as far more prominent in their attempts at utilizing deep, heavy chugging scattered along the rhythms so the more ravenous riffs get pushed to the forefront even more. Likewise, the blazing drumming and pounding fills manage to provide the necessary spark to the hard-hitting rhythms that make for such a loud, ferocious beast of a release here that does work well enough to hold off the albums’ lone aggravating flaw. While the notion to have a series of samples and speeches along the album, the fact is the ones here are just maddeningly overdone. Each and every single track here comes complete with at minimum an extra 90 seconds with the extra time devoted to extended speeches tacked on afterward, some of the longer ones here exceeding two minutes of time and really driving up the time here doing this one each and every track. In truth, this should be a 45-50 minute album rather than the 70 it actually comes out to be which gives you some kind of idea about the overlong duration of some of the excess spoken words featured here. Intro ‘New American Century’ sets things in motion quite well with blazing riffing, dizzying rhythms and absolutely blasting full-throttle drumming that displays a vast proficiency at utilizing those complex riffs within a dynamic and devastating framework to become one of the album highlights. ‘Esoteric Agenda’ isn’t quite as breakneck in terms of speed but certainly matches that in terms of pure unbridled rage and ferocity of attack with some of the best drumming found on the entire release, while ‘Profit Before Protocol’ also manages to get plenty of dynamic and furious breakdowns that recall an attack more in common with the recent Deathcore scene than the Technical Death featured elsewhere on here. ‘Guilty Until Proven Innocent’ continues more in league with the first track here with more of those ravenous tempos, dizzying changes and a relentless charge generated through complex riffs and challenging arrangements to make for another stand-out effort. ‘Illuminati’ is even more dynamic and vicious in regards to unloading it’s whirlwind of riffing, blasting drumming and chugging bass-lines into a thunderous, crushing effort that’s one of the albums’ best, much like the title track which best fuses each of the bands’ styles here with dazzling technical whirlwinds sweeping and bombing through the rhythms while being offset nicely by the deep, heavy chugging rhythms featured throughout. The overwrought ‘Saintan’ uses more spindly bass-weaving and slow, droning patterns amid drawn-out chugging that tends to drag out the pacing quite a bit for what is best skipped over in terms of how enjoyable the others are against this one. Thankfully, ‘Mystery, Babylon the Great, Mother of All Harlots and Abominations of the Earth’ gets things back on track with dynamic riffing, a thunderous drumming charge that allows for plenty of firepower alongside the dexterous rhythm changes to allow for a pretty enjoyable effort. ‘Tyrannicide’ offers one of their most deliriously enjoyable riffs swirling through a rather furious series of rhythm changes and rhythm shifts with the odd drum-machine blast furiously charging through the intense rhythms, producing one of their most dynamic entries as ‘Oblivion’ continues blasting through the tight, swirling riffs blazing with plenty of thunderous riffs, charging drumming and wholesale series of scorching riff-work augmented by the first real melodic interjections in the album which definitely proves the band has more in their arsenal than they let on which is quite pleasing overall. Lastly, the instrumental ‘RIP (Memento Mori)’ uses a light piano intro before kicing into high gear by running through a vast majority of the riffs and variations found elsewhere within this, effectively being a fine sampler of what to expect here but definitely ending this on a whimper without the original material. Still, beyond the incessant need for the sampler speeches here this would’ve really been something special. (Don Anelli)

(Self - 2013)
Score: 80

sabato 14 febbraio 2015

Kubark - Obedience

#PER CHI AMA: Alternative/Post Rock, A Perfect Circle, A Swarm of the Sun
Sono un fan dei Kubark e non lo nascondo, ciò non toglie però che non possa muovere delle critiche alla band nostrana. Sono rimasto infatti un po' deluso per la minimalista cover cd che ritrare la band in una spettrale fotografia in bianco e nero, e per un riduttivo booklet interno con i testi delle canzoni. Che diavolo, tanto mi aveva entusiasmato il precedente EP, dalla coloratissima copertina dai risvolti urbani, che questo 'Obedience' mi ha lasciato un po' di amarezza in bocca. Per carità, i contenuti del dischetto (7 le tracce qui comprese) potranno farmi anche travalicare le mie considerazioni puramente estetiche. E allora passiamo all'ascolto attento delle song incluse in 'Obedience', tracce tutte assestate sui 3-5 minuti, tanto da far arrivare il cd alla mezz'ora scarsa di musica (altra critica, non me ne vogliate ragazzi). Il disco apre con "Phantom" e la sua rabbiosa carica elettrica che viene stemperata quasi immediatamente da una ritmica soffusa, in cui il basso di Enrico Crippa assurge a ruolo di assoluto protagonista, mentre pian piano crescono gli altri strumenti fino all'arrembante finale. Con "Bleach" vengo catturato dal sensualissimo carisma vocale di Andrea Nulla, una delle voci che più prediligo nel panorama italiano e che potrebbe tranquillamente prestare la sua voce a qualche band più blasonata d'oltreoceano. La song è lenta e suadente, dotata comunque di un'umoralità mutevole che si palesa in una nervosa sezione ritmica curata dal drumming sempre preciso di Federico J. Merli e dalla sei corde di Elia Mariani. Rumori più o meno indefiniti aprono "Blind Games", mi sembra quasi di essere in una qualche torneria di provincia. La musica qui è meditativa, intimista, contraddistinta da una profonda malinconia di fondo, valorizzata dalla performance vocale del sempre bravo Andrea. "Find the Cost of Freedom" è la traccia più lunga del disco ma anche quella che maggiormente si perde in un prolisso ed onirico prologo ambient. Finalmente la traccia decolla e il dualismo chitarra/basso raggiunge il suo apice nelle note di questa song, con i suoni dei due strumenti che sembrano accarezzarsi avvicendevolmente. Eccolo il brivido che andavo cercando, quell'emozione che scaldasse il mio cuore, la song straziante (anche nei suoi brevissimi contenuti lirici), la song perfetta. "Song of May" appartiene a quelle tracce che fanno l'occhiolino tanto alle band statunitensi (A Perfect Circle) quanto a quelle nord europee (A Swarm of the Sun, The Isolation Process) dove il genere sta dilagando a macchia d'olio: l'animosità del brano mostra una certa irrequietezza di fondo dimostrata anche dai vocalizzi più incazzati di Andrea. "Obedience Class" è un altro bel pezzo mid tempo che sfocia nel finale in un post metal di "isisiana" memoria, e mostra un peculiare fascino che potrebbe aprire le porte a una internazionalizzazione della band italica. Chiude il cd una interlocutoria "Shut You Down", una song che poteva essere sviluppata in altro modo e che alla fine mi lascia frustrato e infelice, perché avrei gradito un altro paio di brani che potessero finalmente placare la mia irrequieta esistenza. (Francesco Scarci)

(Self - 2015)
Voto: 75

https://www.facebook.com/Kubark

giovedì 12 febbraio 2015

She Hunts Koalas - E.P.1

#PER CHI AMA: Post-Rock/Alternative, Tool, Lingua
Da una band che si chiama She Hunts Koalas che genere di musica vi aspettereste? Mah, di primo acchito mi attenderei un qualcosa di irriverente o comunque fuori dall'ordinario. Mai però avrei pensato di sbagliarmi cosi tanto nella mia prima impressione. Il quartetto di Tolosa suona infatti uno stoner post-rock e questo 'EP 1' ne costituisce il loro debutto. Il dischetto (in un elegante digipack) si apre con il noise di "Heathen Faith" che lentamente cresce a livello ritmico con delle robuste chitarre e delle alternative vocals. L'incedere è ipnotico, ma un po' troppo statico per esaltarmi. Passo alla successiva "In the Breeze Again", che esordisce con un sognante basso e con vocals dal forte sapore shoegaze. L'atmosfera è di certo sognante, ma nello spirito dei nostri baldi giovani, convivono un'anima sensuale che si riflette in una gamma delicata di suoni, e una più dannata, che sfocia in roboanti strappi elettrici, che comunque ben si amalgama con la precedente, come un uomo e una donna che fanno l'amore. "Owls on the Road" è l'ultimo pezzo di questo mini cd di poco più di 17 minuti di musica. Il lungo incipit prepara all'acida ritmica sorretta dal drumming di Julien Aoufi e alle chitarre del duo formato da Alex Gavalda e Nathan Benichou, mentre la voce di François Cayla potrebbe ricordare quella dei nostrani Kubark. Il sound si irrobustisce, anche se un break centrale strizza l'occhiolino contemporaneamente ai Tool e agli ahimè disciolti Lingua. Il finale è un trip psichedelico lungo poco più di un minuto che ci consegna una nuova band da tenere sotto stretta sorveglianza. Ora mi interesserebbe solo sapere il perché di She Hunts Koalas... (Francesco Scarci)

(Self - 2014)
Voto: 65

Firefrost - Inner Paradox

#PER CHI AMA: Epic Black Metal, Windir
Da un po' di tempo mi pongo questa domanda: perché la maggior parte delle one man band suona black metal? Non credo che sia cosi semplice infatti mettere in pista un progetto musicale che possa dire qualcosa, ed essere gestito da una sola persona. Questo per introdurre i Firefrost, act transalpino in mano appunto ad un solo losco figuro, che ci inocula un black metal dalle venature epiche. Aiutato alle chitarre da Chris in Lust e alle clean vocals da Gaëtan Fargot (ma solo in un paio di pezzi), il mastermind bretone ci propina otto tracce all'insegna di un sound furente che solo a tratti riesce a essere mitigato nella sua veemenza, da frangenti acustici o da miti vocalizzi. Musicalmente i nostri non aggiungono grandi novità ad un genere che ormai da parecchio tempo tende ad autoreferenziarsi. Si tratta di suoni brutali assestati su un mid-tempo classico, con brani che non soffrono di durata eccessiva. "Languid Day" ha un'epica melodia di sottofondo, che mi rimanda ai Windir, e che stempera il ferale screaming del musicista francese. L'atmosfera che si respira nelle song è spesso lugubre: in "Black Wave" ad esempio, il pulsare del basso crea una certa animosità che genera inequivocabilmente uno stato d'ansia, amplificato peraltro da una ritmica serrata. In mezzo ai brani, a spezzarne l'incedere estremo, si collocano sovente dei break che mirano a rendere più varia la proposta del combo francese. "Remaining Wraith" apre con una semplice chitarra acustica, prima di cedere il passo a una song dalle sfumature folk, nella vena dei norvegesi Einherjer. Questo tipo di approccio ritornerà anche nelle song successive (tipo nella splendida "Dark Light" e quel suo macabro finale), sebbene la proposta musicale dei Firefrost sia più estrema rispetto a quella dei ben più famosi colleghi scandinavi. Talvolta questo loro estremismo rischia di rendere poco intellegibile il flusso sonoro, sfociando nel caos totale (ascoltate la malvagia "Endless Journey"). Un ferino intermezzo strumentale ci apre le porte infernali della lunga e conclusiva "Emphasium". Probabilmente la song più tranquilla del lotto ma anche quella più inquietante per quelle sue clean vocals d'oltretomba che preparano all'apocalittico finale. I Firefrost, sebbene possano risultare ancora un po' acerbi, hanno tutte le potenzialità per offrirci la loro personale visione di black metal. (Francesco Scarci)

(Black Metal Breton - 2015)
Voto: 65

mercoledì 11 febbraio 2015

The Great Northern X - Coven

#PER CHI AMA: Indie/Folk/Rock
Come anticipato nella recensione dei Rosario di qualche settimana fa, la zona di Montagnana (PD) dimostra la sua vitalità con un'altra band prodotta dalla In the Bottle Records. Questa volta parliamo dei THE GREAT NORTHERN X (TGNX), quartetto che nasce nel 2009 dalla fusione degli Art of Wind (progetto solista di Marco Degli Esposti) e Flap (trio strumentale post-rock). La band veneta è alla seconda fatica e rimane fedele al suo sound post folk, sospeso tra sonorità pop e rock con quell'atmosfera che qualche anno fa qualcuno avrebbe definito indie. La qualità audio dell'album è buona e adatta al genere, qui suoni moderni o super compressi non troverebbero spazio e farebbero a pugni con il sound semplice e spontaneo dell'ensemble patavino. Il vocalist ha un timbro che ricorda il cantante dei The Connels, band famosa negli anni novanta per il singolo "'74, '75". Una timbrica molto particolare che risulta facilmente riconoscibile tra tante e può essere quindi un valore aggiunto. L'album apre con "Skunk", brano caratterizzato da riff di chitarra e ritmica incalzante, tenuti insieme dal cantato che si posa sopra leggero e aggraziato, quasi a smussare le note graffianti degli strumenti. Tre minuti scarsi per concentrare il più possibile le sensazioni ed evitare di disperderle in una brano più lungo che avrebbe richiesto l'introduzione di altri arrangiamenti. "Machine Gun Stars" è una suadente ballata, dove le sonorità post rock hanno maggior voce in capitolo, i riff si arricchiscono di riverbero/delay che regalano spazialità, respiro e una nota nostalgica. Il brano è di per sé ben strutturato, nei quasi sei minuti si alternano varie strutture, anche se il fraseggio principale richiama alla memoria melodia già sentite. Comunque poco male, l'atmosfera tiene unito il tutto, rendendo piacevole ogni battuta. "Dead Caravan" cambia le carte in tavola e si veste con un sontuoso abito rock finemente rifinito di cattiveria e rabbia. Le chitarre trascinano la band, iniettando adrenalina nelle vene della sezione ritmica che coglie l'occasione per togliersi un po' di polvere da dosso. Il basso diventa pulsante e la batteria scandisce ossessivamente il tempo, spingendo anche il cantato ad adattarsi e sporcarsi le corde vocali. Un breve assolo dissonante aumenta la sensazione di ansia che pervade il brano. Bravi i nostri TGNX, se l'album avesse seguito più il filo conduttore di quest'ultima song, avrebbe fatto breccia anche nei cuori dei rockettari che di solito snobbano contaminazioni folk e post-qualcosa. Ma poi dopo tutto, ha davvero importanza? (Michele Montanari)

(In the Bottle Records - 2014)
Voto: 70