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giovedì 3 aprile 2014

Bjarm - Imminence

#PER CHI AMA: Black Symph., Dimmu Borgir
Ho sempre trovato cosi affascinante la città di Arkhangelsk, non tanto per la sua architettura ma per quel nome che evoca qualcosa di spettrale ed etereo al tempo stesso. I nostri eroi di oggi arrivano proprio da quell'area, più precisamente da Severodvinsk, città della Russia subartica. Mi sarei aspettato pertanto sonorità glaciali, desolate o depressive, e invece fra le mani ho un disco che tributa l'amore della band per il black sinfonico dei Dimmu Borgir. La classica intro strumentale apre il lavoro e a seguire "Knowledge of Doom" che palesa nelle sue note, la voglia di affidarsi a pompose parti orchestrali per appagare i fan. E il risultato, per un amante del genere come il sottoscritto, si dimostra assolutamente positivo. Detto delle abbondanti parti sinfoniche che popolano la prima traccia, vorrei anche citare la magnifica voce maschile di Andrey Vait (un growling profondo ma ben chiaro), affiancato dalle vocals della soave fanciulla Anastasia Angie, tastierista della band. "Ominous Dreams" è una song che parte oscura affidandosi ad una ritmica mid-tempo con voci demoniache che si instaurano su un tappeto ritmico assai melodico, imbastito dal sestetto russo. A differenza della precedente traccia, questa si rivela meno bombastica e più lineare nel suo andamento, anche se i nostri non ci fanno mancare un bel break centrale assai affine a quelli di Shagrath e soci, di "Progenies of the Great Apocalypse" (ma questa sarà una certezza dell'intero lavoro). Se l'aggressiva "The Nine Worlds" rivela anche un certo influsso viking nelle sue note, "Fire Lord's Torment" evidenzia quanto la musica classica sia importante e si insinui nella matrice musicale dell'ensemble, grazie alla presenza costante delle tastiere della bella Anastasia, vero punto di forza ed elemento predominante di 'Imminence'. La strumentale title track si fa seguire dalla semi-acustica "Oracle" che mostra una componente vocale meno gutturale e più orientata allo screaming, mentre la song si mostra più pacata nei toni e venata da una forte componente malinconica. Ancora forti le influenze dei Dimmu Borgir nelle song conclusive, tra l'altro rifacendosi al periodo che ha fatto storcere il naso alla maggior parte dei fan, ma che invece a mio avviso, ha permesso di ampliare il pubblico dell'act norvegese. E si conferma anche il connubio extreme vocals vs voci angeliche. In "The Highest Hall" è forte la componente death, mentre la conclusiva "Tree on the Bones" è un pezzo assai atmosferico. Appurato che 'Imminence' non aggiunge nulla di nuovo ad un genere apparentemente morto, posso affermare senza vergogna che il lavoro mi è piaciuto, a tratti entusiasmato e che l'ho ascoltato fino al termine, pur sapendo sempre cosa mi sarei aspettato. Probabilmente c'è ancora molto da lavorare per rendere meno scontati i pezzi, ma direi che i sei ragazzi russi partono già da una solida base peraltro rinforzata da un'ottima produzione svolta da Tony Lindgren ai Fascination Street Studio. Insomma 'Imminence' è un buon punto di partenza, per dare linfa vitale ad un genere che sta traccheggiando da un bel po' di tempo. (Francesco Scarci)

(Fono Ltd - 2014)
Voto: 70

Nausea Or Questra - Peccatori

#PER CHI AMA: Alice In Chains, primi Q.O.T.S.A. Melvins, Black Sabbath 
L'instancabile Santa Valvola Records (già madrina degli Stoner Kebab, recensiti qualche giorno fa) lancia il secondo album dei Nausea Or Questra (NOQ), quartetto stoner/alternative proveniente dalla zona di Prato. La cosa che mi ha intrigato sin da subito è la lineup: tre ragazzotti brutti e cattivi che si dedicano alla pressione sonora (voce/chitarra, basso e batteria) e una soave fanciulla che contribuisce con voce, violoncello e Farfisa (famosa azienda italiana produttrice di organi e tastiere che hanno contribuito alla storia del rock/punk e new wave). I presupposti per uno stoner diverso ci sono e quindi spariamoci nelle orecchie questa fatica italica. Il brano "Oscenità" viene introdotto da un giro di violoncello e basso distorto che insieme creano un riff elegante e facilmente assimilabile. Una sinergia che può sembrare spacciata sin dall'inizio, come un legame tra anime troppo diverse, ma che invece convincono proprio per queste caratteristiche. La voce maschile e femminile seguono la stessa idea e l'entrata della chitarra distorta segna un cambio di direzione che porta ad una overdose di energia, trascinando la sezione ritmica e travolgendo tutto quello che si para davanti. Un filone che caratterizza gruppi come i veronesi Le Maschere di Clara e che acquisisce credibilità con il tempo. Bel brano. "Safari" è una traccia da scavezzacolli, veloce e truce, ammorbidita dalle tastiere che non si vergognano dei propri suoni vintage. Anzi, te li sbattono in faccia e il riff diventa il filo conduttore dell'intero brano, mentre chitarra/basso/batteria sgomitano per prevalere, usando suoni grossi e pulsazioni da tachicardia. Due minuti per far capire che i NOQ si destreggiano in qualsiasi situazione sonora senza problemi. "Amsterdamn" invece risulta più stoner e psichedelica delle altre canzoni, sia per i suoni che per gli arrangiamenti. Meno fronzoli e più diretta. In generale, più ascolto le tastiere e più sono convinto che sia stata un'ottima scelta, se poi consideriamo che i NOQ si portano a casa voce femminile/violoncello/farfisa al prezzo di uno, direi che è l'affare dell'anno. Posso dire con certezza che i NOQ mi hanno piacevolmente sorpreso, perchè suonano pesante, ma allo stesso tempo mantengono eleganza e un sacco di sensualità, vuoi per il tocco femminile, vuoi per la scelta di strumenti non tradizionali per generi come lo stoner. E poi mi sembra di intuire un pizzico di ironia che non guasta, ci sono già troppi gruppi che si prendono sul serio. E di questi tempi meglio strappare un mezzo sorriso che lasciare indifferenti. (Michele Montanari)

(Santa Valvola Records - 20134) 
Voto: 70 

Aeris - Temple

#PER CHI AMA: Post metal strumentale, Jazz-metal, Math 
Il grande difetto del post metal strumentale (e di qualunque post-genere senza cantato, per inciso), l’ho già detto in passato, è la noia: anche un appassionato, di fronte a minutaggi infiniti di chitarra-basso-batteria che si ripetono fino all’ossessione con il solito trucchetto del veloce-lento-veloce, rischia lo sbadiglio automatico già a metà del primo ascolto. Fortunatamente, non è il caso di questo 'Temple' dei francesi Aeris: il quartetto d’oltralpe concentra in soli 28 minuti (avete letto bene: 28 minuti, quasi un record) una tale quantità di generi, sottogeneri e influenze da lasciare sbigottiti. Il lavoro è diviso in tre movimenti, per un totale di sette tracce. La opening track “Fire Theme” e la successiva “Rising Light” ruotano attorno ad un tema di memoria meshugghiana, condito da una potentissima sezione ritmica e una partitura di chitarra sulle note più alte che non può non ricordare i più famosi Gojira, anch’essi francesi. Incastonato tra le due tracce, il piccolo gioiello “Hidden Sun”, giocato su atmosfere drone (Sunn-O))) e Boris) di echi, feedback e violenza pronta ad esplodere. Le seguenti “Richard”, “Horizon” e “Robot” (tutte parti del secondo movimento), si spostano invece in territori più jazz-metal: gli strumenti sperimentano ritmiche meno aggressive ma altrettanto estreme nella costruzione, scale fusion e suoni tutt’altro che banali, dando prova della grande tecnica del quartetto d’oltralpe. Chiude il disco “Captain Blood”, vero capolavoro dell’album, capace di evocare le atmosfere dei primi King Crimson ripassati nel tritacarne del metal moderno: l’ossessività delle linee melodiche e la follia appena trattenuta degli assoli fanno da contraltare ad una sezione ritmica incredibilmente precisa e potente. Un parola anche sull’artwork, vera nota stonata del lavoro: la pur bravissima illustratrice Clémence Bourdaud non ha, a mio parere, uno stile coerente con quello della band, preferendo un tratto cartoon che, nonostante il soggetto inquietante (un vecchio prete, un cerbiatto, una donna col volto coperto e un piranha in una boccia), non riesce a rendere l’oscurità e il disagio della musica al suo interno. Non è un disco per tutti, non è un sottofondo da ascensore o da supermercato. 'Temple' è un album che richiede concentrazione, attento ascolto e predisposizione – anche e soprattutto perché dura (intelligentemente, direi) meno del solito. È un inno alla sperimentazione e alla creatività, in un genere che troppo spesso sforna mediocrità scopiazzate e dischi che si dimenticano al primo ascolto. (Stefano Torregrossa)

(Self - 2013) 
Voto: 80 

martedì 1 aprile 2014

Nevroshockingiochi - Scena 2

#PER CHI AMA: Post Punk/Industrial
Dopo diverso rock nelle mille sfumature possibili, inserire un cd come "Scena2" ti scollega il cervello e ti de-localizza fisicamente. Alla stregua di una terapia d'urto basata su immagini forti e disagianti (vedi Arancia Meccanica), i NEVROSHOCKINGIOCHI (NSG) amano disturbare e colpire la materia grigia con suoni industrial/elettronici. L'album, il secondo dopo l'esordio del 2009, contiene dieci brani divisi in tre capitoli (attacco, pseudosoggettiva, totale), cantati, sussurrati e urlati rigorosamente in italiano. Componente fondamentale della band è il binomio teatro e musica che li ha visti impegnati in diverse collaborazioni, puntando su atmosfere che riprendono quotidianità, mescolata a malessere esistenziale. Infatti i testi sono sempre molto duri, come i suoni che si insinuano e a primo impatto creano uno stato di malessere profondo, simile ad un incubo senza fine. Cigolii, martelli pneumatici, fischi e tutto quello che la nostra società industriale può offrire, integrano la classica ritmica composta da batteria e basso, a volte talmente snaturati che si fatica a distinguerli. Chitarra e synth/campionatori si preoccupano di completate il delirio sonoro che mira ad insinuare un insano senso di malessere metafisico. La sezione cantata ricorda, per alcune sfumature, il buon Battiato e Morgan nel periodo Blu Vertigo, mentre i testi mirano più a ricreare emozioni con singole parole e brevi frasi che dare un senso all'intera traccia. Pezzi come "ciNECROnica" prendono spunto dalla scuola Depeche Mode e in continuo crescendo ritmico che diventa ipnotico, sostenuto da synth altrettanto magnetici. "Piccoli Omicidi Fatti in Casa" esordisce con un basso distorto che accompagna campionamenti industrial, mentre il vocalist alterna parlato ed urlato per dare enfasi ai passaggi critici della canzone. Preciso che considero quanto appena scritto una pura descrizione personale delle mie percezioni sensoriali. Un disco come questo non necessita di classificazioni o altro, ma di essere ascoltato e vissuto anche visivamente, come proposto dai NEVROSHOCKINGIOCHI. (Michele Montanari)

(Only Fucking Noise - 2013)
Voto: 70

Ocean Districts – Expeditions

#PER CHI AMA: Post Rock, God is an Astronaut, Team Sleep, Explosions in the Sky
Gli Ocean Districts vengono da Talinn in Estonia e ci porgono questo loro primo lavoro autoprodotto rilasciato i primi giorni del 2014, dal titolo 'Expeditions'. Il quartetto si muove agile nei meandri di una musica suggestiva completamente strumentale che attinge a piene mani sia da un certo metal psichedelico di nuova generazione che dal post rock. Niente di nuovo sotto la coltre di neve raffigurante la copertina perchè la commistione di generi è stata triturata da diverso tempo e da tante band sparse per il mondo anche se per questi ragazzi possiamo spezzare una lancia in più a loro favore, poichè tra le tracce, si sente una maturità raggiunta che la band sembra già veterana della scena, cavalcando agiatamente tutti gli scenari sonori offerti dai brani. Passando dalle soffuse atmosfere di chiara impronta post rock fino ad arrivare alle belle aperture di rock umorale piene di malinconia, dalla capacità visionaria e cinematografica, si sentono i profumi di ensemble come God is an Astronaut, This Will Destroy You, Explosions in the Sky, Team Sleep e il new metal emotivo dei Palms di Chino Moreno. In alcuni casi i nostri si divertono a mostrare anche i muscoli, come nella bella "Endurance", dove fanno uscire dal cilindro magico sonorità e somiglianze musicali di matrice stoner, quello europeo, quello space oriented degli olandesi 35007 che non a caso, potrebbero essere un buon punto di riferimento per comprendere il sound della band estone. Gli Ocean Districts conoscono il fatto loro e giocano le loro carte nel migliore dei modi, sicuri dei loro mezzi, carichi di buone idee e forti di una registrazione/produzione di tutto rispetto. Sicuramente conoscono i limiti commerciali di un simile lavoro ed il suo posto di nicchia, ma il coraggio di affrontare un sound di questo tipo è dimostrazione di carattere e maturità per la band e chissà se un giorno verranno scoperti e premiati dal grande pubblico! Album godibilissimo! Consigliato l'ascolto! (Bob Stoner)

(Self - 2014)
Voto: 70

Amoral - Fallen Leaves & Dead Sparrows

#PER CHI AMA: Heavy Progressive
Lo ammetto, non sono mai stato un fan della formazione finlandese che calca la scena ormai da una quindicina di anni: troppo death oriented agli esordi, power nella seconda metà della carriera. Ebbene, quando per pura curiosità ho dato un ascolto a 'Fallen Leaves & Dead Sparrows' per capire se dovevo continuare a mantenermi alla larga dai nostri, l'istinto primario è stato quello di scrivere alla band e sono rimasto sorpreso nel ricevere un feedback quasi istantaneamente e dopo una decina di giorni vedermi recapitare il nuovo album nella mia cassetta postale. Il nuovo lavoro, oltre a presentarsi con una eccellente veste grafica, presenta anche delle novità a livello musicale che hanno fatto salire notevolmente il mio interesse. Quando "On the Other Side pt. I" si accende nel mio stereo, mi accorgo che qui di power metal non v'è traccia e tiro pertanto un bel sospiro di sollievo. La musica del combo di Helsinki segue la scia del rock progressivo, in cui ogni tanto compare qualche bel giro di chitarra di scuola finlandese (Children of Bodom) e che largo spazio concede alla fantasia dei suoi musicisti con un songwriting di tutto rispetto, in cui tutto è collocato al posto giusto, anche le vocals leggerine di Ari Koivunen. Non bazzicando troppo questa scena, non mi sarà facile darvi delle coordinate stilistiche per collocare la nuova proposta degli Amoral, ma quello che posso dirvi è che l'ho trovata brillante: "No Familiar Faces" è un bel brano rock, in cui accanto ad una graffiante ritmica, i due axemen si divertono a tessere ottimi assoli che giocano a rincorrersi l'un l'altro in caleidoscopiche scale che regalano sussulti di piacere. "Prolong a Stay" attacca con i suoi schizoidi giri di chitarra e con una potente componente orchestrale che fa posto ad un bel riffing corposo su cui si piazzano le vocals di Ari e addirittura cede il passo ad un infernale attacco in stile black, con tanto di blast beat. Ma è solo un fuoco di paglia, non temete. Il combo finnico sa come mantenere la soglia di attenzione elevata e lo fa con tutta una serie di accorgimenti tecnico-compositivi che ne impreziosiscono il risultato finale. "Blueprints" attacca con un bel giro di chitarra acustico che sembra miscelare il blues ai Guns'n Roses, e che mette in luce le capacità tecniche dell'assai dotato vocalist. Ancora un intro acustico, ed è il turno di "If Not Here, Where", lunga traccia di oltre nove minuti, che sembra suonare come una sorta di semi-ballad, tra intermezzi arpeggiati e uno stralunato riffing techno death, in cui l'eterea voce di Ari si schianta contro il growling di Ben Varon e in cui gli splendidi assoli finali vengono annientati da un micidiale assalto death. Non hanno paura i nostri di osare, mischiando il sacro col profano e fanno bene, perché quanto emerge dalle note di 'Fallen Leaves & Dead Sparrows' si rivela assai intrigante e originale e all'appello manca la strumentale e vibrante "The Storm Arrives" che mette in luce le esagerate qualità tecniche dei due chitarristi, evocandomi la proposta progressiva dei fratellini dei Cynic, i Gordian Knot. "See This Through" è apparentemente la ballad del disco, come andavano tanto di moda negli anni '80, con un assolo stile "November Rain" dei già citati Guns. Chiude il disco "On the Other Side pt. II", che mette in luce qualche influenza alternative a livello delle ritmiche e ripropone le growling vocals. Per concludere, 'Fallen Leaves & Dead Sparrows' si presenta come un lavoro decisamente rock, capace tuttavia di muoversi con ampia disinvoltura tra progressive e alternative ma che ogni tanto rigurgita anche schegge di un passato estremo. Intriganti, ma il sound andrà sicuramente meglio plasmandosi con le prossime release. (Francesco Scarci)

(Imperial Cassette - 2014)
Voto: 75

domenica 30 marzo 2014

Ellende - S/t

#PER CHI AMA: Black/Shoegaze, Alcest, Agalloch
Il vento soffia timido tra le fronde degli alberi in un paesaggio al limite della desolazione. Solo poche montagne circondano il rarefatto panorama. Questo è quanto dipinto dagli austriaci Ellende nel loro omonimo lavoro che ne rappresenta anche il full lenght d'esordio. Album che si apre con la semi acustica "Wind" che delinea alla perfezione la proposta del duo di Graz: un post black dalle tinte autunnali. La opening track apre con un bell'arpeggio malinconico che va evolvendosi in una traccia nostalgica in cui la componente black ferale (urla lontane e una ritmica serrata in stile Austere) ha la meglio su quella più ambient, solo in pochissimi frangenti. Segue "Berge", e lo shoegaze a la Alcest si palesa nel sound dei nostri andando a cozzare con le partiture più rozze del black cascadiano. Musica decisamente da pelle d'oca, in grado di emozionare l'animo anche dei più tenebrosi black metallers. Lukas (responsabile di tutti gli strumenti) e Anne (alla viola e violino) sanno come prenderci per mano e condurci nel loro mondo in bianco e nero, in cui la serenità riesce a convivere con una straziante malinconia. Un paradosso si, ma è il sentimento che si percepisce dall'ascolto di questo album incredibile. Echi armonici dei Katatonia di 'Brave Murder Day' si avviluppano al folklore degli Agalloch, intrisi da quell'amore per l'acustica che invece hanno gli inglesi Falloch. Eccoli i riferimenti principali che si possono ritrovare nella matrice musicale degli Ellende, ovviamente rivisti con una certa personalità e diverse buone idee. 'Ellende' non è un album lunghissimo, quindi non vi stancherete certo di ascoltarlo: sei brani, la cui durata media si assesta sui 7 minuti, in cui anche voi vi innamorerete delle struggenti melodie disegnate dagli archi, e meravigliosa a tal proposito la strumentale "Aus Der Ferne Teil I". "Feuer" è una song un po' più canonica, che non spinge mai sull'acceleratore e che vive i suoi momenti più emozionanti, quando il sound viene congelato su ritmi rallentati che emanano un profondo senso di disagio, complici anche le arcigne vocals di Lukas. Lo spettro post rock/shoegaze di Neige e soci aleggia assai percettibile sui nostri, ma non confondete il plagio dall'ispirazione. In questo lavoro assai importante è la formazione classica dei due musicisti austriaci che viene profusa in tutte le tracce qui contenute, anche nella lenta e depressiva "Meer" ove su un ritmica mid-tempo, i violini ricamano splendide e tenue melodie che ammorbidiscono la proposta del combo. A chiudere anzi tempo la release, arriva la seconda parte di "Aus Der Ferne Teil II", song più rabbiosa in cui coesistono tutte le componenti umorali di 'Ellende', quella estrema, l'anima eterea post rock, la classica, e una più spirituale neo folk, per un finale che conferma le enormi potenzialità degli Ellende, a cui mi sento di suggerire l'impiego anche di qualche clean vocals a placare l'ardore selvaggio delle malefiche scream vocals. Grande debutto. (Francesco Scarci)

(Talheim Records - 2013)
Voto: 80

http://www.ellende.at/

sabato 29 marzo 2014

Albinö Rhino – Return of The Goddess

#PER CHI AMA: Stoner/Doom/Psych Rock
Lo ammetto, ho qualche (grosso) problema con questo disco d’esordio dei finlandesi Albinö Rhino (attenzione alla “ö”, per non confonderli con i quasi omonimi americani Albino Rhino): la musica contenuta in questi 35 minuti di doom lisergico mi piace almeno tanto quanto ne odio l’assurda produzione. Sia che si tratti di una deliberata scelta di missaggio, sia che ciò sia dovuto alla povertà dei mezzi, questo disco è registrato in modo che definire dilettantesco equivarrebbe a fargli un grande complimento. Conosco persone che, nello scantinato di casa propria, riuscirebbero a tirar fuori una cosa che, al confronto, suonerebbe come 'The Dark Side of the Moon'. La batteria sembra sia suonata con i fustini di detersivo, le chitarre un ronzio sullo sfondo, e in generale la sensazione è quella di essere rimasti fuori dal locale dove il gruppo sta suonando: si sente qualcosa, e anche qualcosa di molto interessante, ma il punto è che siamo sempre fuori, sul marciapiede, al freddo… E il rimpianto è notevole, proprio perché quello che si intuisce lascia davvero sperare per il meglio: irresistibili riff, downtuned come si conviene, pezzi che sembrano validi e, ed è quello che li caratterizza maggiormente, un’attitudine psichedelico-lisergica davvero sorprendente. Nel brano d’apertura “Master Kush” fanno bella mostra di sé (o almeno così sembra, da quello che si riesce a cogliere) un wurlitzer e addirittura un theremin, ma i veri capolavori per me sono la title-track e “Mazar!”, con le loro acidissime chitarre wah contrapposte alle ritmiche marziali e le voci cavernose, quasi una versione doom degli Amon Düül II di 'Yeti'. A breve dovrebbe uscire il loro nuovo lavoro, e per farne un disco epocale, basterebbe che risuonassero questi stessi pezzi con qualcuno in grado di registrarli degnamente. Il voto non può quindi che essere una media tra l’ottima musica e la pessima resa sonora. Peccato. (Mauro Catena)

(Bad Road Records - 2013)
Voto: 65

https://www.facebook.com/albinorhinodoom

venerdì 28 marzo 2014

Enthroning Silence – Throned Upon Ashes of Dusk

#PER CHI AMA: Depressive black metal, Burzum, Yayla, Coldworld
La band piemontese attiva discograficamente sin dal 2002, interrompe un silenzio lunghissimo rimettendosi in pista con questo lunghissimo e drammatico album, datato 2013 e licenziato via Dusktone. Alfieri del genere depressive black metal, i nostri non si smentiscono e sfornano un album catatonico, malato, depressivo e colto al punto giusto. Chitarre dissonanti, zanzarose ed echi lontani di ritmiche aggressive, la voce in presenza sporadica e di cupo effetto, un'alchimia estraniante ed un sostrato di effettivo rifiuto del mondo così come lo conosciamo; sei pezzi che oscillano tra gli otto e i quattordici minuti racchiusi in un artwork dalle sembianze deliziosamente tetre. Un forte aspetto psicologico governa questo tipo di musica, una via di liberazione attraverso le lande del dolore infinito, la ricerca del vuoto che permette di creare qualcosa. Alla base di tutto questo si celano gli insegnamenti del più isolazionista Burzum ma anche di realtà diverse e meno famose ed altrettanto intriganti come Yayla o i Coldworld, anche se qui, a differenza delle composizioni della band tedesca, l'elettronica non c'è e nemmeno l'ambient. Certamente coesiste una matrice atmospheric black che accomuna questi progetti così diversi. Il sound è alla deriva del miglior black sotterraneo e non mostra compromessi presentandosi come un lungo funereo cammino di riflessione, carico di delusione e rammarico che comunque nasconde una grossa vena romantica nel suo essere così drammatico, una sorta di reinterpretazione sonora del 'Dracula' offerto nell'interpretazione di Klaus Kinski, con lo stesso effetto isolazionista che la colonna sonora del film curata dagli Popol Vuh riusciva a dare. Drammatico, sepolcrale e illuminato. (Bob Stoner)