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domenica 16 giugno 2013

Deathember Flower - Architect

#PER CHI AMA: Fusion Death, Arch Enemy, Chimaira, Death, Dark Tranquillity
Della serie piccoli Dark Tranquillity crescono, ecco arrivare dall'Ucraina i Deathember Flower, quartetto capitanato dalla vocalist Christina, che ci regala quaranta minuti di sonorità apparentemente di chiara matrice swedish. Niente di male fino a qui: l'amore spassionato per i suoni di Michael Stanne e soci si manifesta nell'opener, "My True Face", con linee di chitarra (anche a livello dei solos) che richiamano palesemente i gods svedesi, growling vocals (complimenti Christina) belle incazzate che si alternano ad altre sussurrate. Si, insomma, niente di nuovo e tutto alquanto derivativo anche da altri mostri sacri della scena svedese. Rimango basito invece quando parte la seconda traccia, la title track, in cui i nostri spostano il baricentro della propria proposta, migrando negli States e andando a ripercorrere le gesta dei Death, udibile prettamente nei giri di chitarra del duo di asce formato da Andrey e Valentin, che ci regalano un favoloso assolo conclusivo; ma nella song si può ascoltare la cantante anche in una veste decisamente più pulita e inconsueta. Visibilmente scosso dalla nuova direzione intrapresa dal combo ucraino, mi avvicino a "Insidious" con una certa titubanza mista a curiosità, non sapendo cosa aspettarmi: e in effetti, una nuova sorpresa é ancora dietro l'angolo, con i Deathember Flower che si travestono da heavy thrash band, con vocals quasi speed metal. Ma che diavolo sta succedendo: controllo che in realtà "Architect" non sia una raccolta di più artisti, ma non posso che confermare che questo rappresenti il debut della band di Zaporizhia. E allora corro veloce ad ascoltare gli altri pezzi: "Chaos Theory" è un pezzo di techno death con vocals che si rifanno quasi alla nostrana Cadaveria, stridule e aggressive, mentre la musica viaggia su ritmiche serrate, ricche di cambi di tempo e stop 'n go. "Nano" è un'altra song interessante, in cui oltre a metter in mostra le doti canore della eclettica vocalist, brava sia in chiave clean che in quella growl, decisamente vicina per timbrica ad Angela Grossow, degli Arch Enemy, i nostri presentano anche un suono dall'attitudine più alternativa, che mantiene un certo contatto con la musica estrema solo nelle sue ritmiche cadenzate e pesanti. Il death/thrash di "See No Future" finisce per richiamare anche le sonorità degli Arch Enemy anche se è sempre la performance di Christina a tener banco, mentre il sound incalzante, mostra anche le eccelse doti tecniche degli altri membri della band. I nostri picchiano che è un piacere anche con il trittico conclusivo di song, che palesano anche altre influenze, non del tutto identificabili in un movimento ben definito, ma che in realtà rappresentano un po' la summa di quello che è il Deathember Flower sound: un concentrato inpetuoso di techno death, swedish, thrash, speed e heavy metal, insomma una fusion che nella conclusiva strumentale "A New Era" potrà forse dare risposta a tutte le domande che mi frullano in testa. Complimenti per il coraggio. Da tenerli monitorati, please... (Francesco Scarci)

Enshine - Origin

#PER CHI AMA: Death Atmosferico, Slumber, AtomA, Eternal Tears of Sorrow
Adoro questo sound, quello tipico finlandese di band quali Eternal Tears of Sorrow, Throes of Dawn o Black Sun Aeon; strano però che questa new sensation non venga da Helsinki o qualsiasi altra città della Finlandia, bensì da Stoccolma. L’ensemble della capitale svedese sfodera sin dalla sua opening track, “Stream of Light”, una prova attrattiva in termini di freschezza del sound, anche se sicuramente le origini di tale musicalità, vadano ricercate nel classicissimo “Brave Murder Days” dei pluricitatissimi Katatonia, ma anche nelle prove di Slumber o della loro reincarnazione AtomA. Non a caso cito gli Slumber, visto che proprio il chitarrista dei nostri è un ex membro di quella band. Pertanto attendetevi un bel po’ di sano feeling malinconico a farla da padrone, nelle melodicissime chitarre e nelle splendide aperture atmosferiche, in cui il five-piece mostra le migliori cose, con una riffing ritmato, su cui si installano splendidi assoli, come nel caso della mia traccia preferita, “Refraction”. Le tracce si mantengono tutte sui 4-5 minuti di durata, permettendoci di assaporare, assimilare e digerire alla grande la proposta del combo scandinavo, ed essere pronti a partire con la traccia successiva. Il combo svedese vede poi tra le proprie fila anche il vocalist dei francesi Fractal Gates, Sebastien Pierre, ma non lasciatevi ingannare perché la musica dei nostri prende le distanze dalla nuova “reincarnazione” degli Edge of Sanity. Siamo appunto lontani anni luce dai territori death di Dan Swano e compagni o da quelli della neo formazione francese: gli Enshine si concentrano su sonorità ben più accessibili in fatto di melodie, ambientazioni space rock, ariose aperture di synth, ottimi chorus e un cantato, prettamente growl, che trova la sua controparte pulita nella performance di Jari Lindholm. “Cinders” rimanda ai nostrani Novembre, mentre “Nightwave” inevitabilmente mi riconduce agli Slumber, che tanto avevo apprezzato nel loro esordio. Il (poco) death si miscela in modo fascinoso al sound delle realtà finniche, scritte poco sopra, ammantato di quell’enigmatico alone di tristezza, ritrovabile solo agli esordi dei Katatonia. Dopo “Astrarium” anche con “Immersed” finisco per immergermi in sonorità seducenti e strumentali, tipiche dello space rock settantiano, prima della robusta traccia doom death “Above Us” e della dinamica e brillante, ma ahimè strumentale, traccia conclusiva, affidata a “Constellation”, che avrebbe certamente avuto maggior efficacia se avesse presentato un cantato. Sono veramente felice di aver potuto ascoltare questo “Origin” degli svedesi Enshine; di band valide ce n’è bisogno ogni giorno e i nostri ci sanno davvero fare! (Francesco Scarci) 

(Rain Without End Records)
Voto: 75

http://enshine.bandcamp.com/album/origin

venerdì 14 giugno 2013

Mutilanova - Nera Lux

#PER CHI AMA: Black Symphonic metal, A Forest Of Star, Agathodaimon, Gehenna
La band in questione arriva dalla Francia, precisamente da Grenoble ed è al secondo full lenght, uscito nel 2012 per le Crepuscule du Soir Productions e ci porge questo bel lavoro dalle tinte oscure, epiche, folkloriche e barocche. Il loro balck metal si tinge di dissonanze e stravaganze stilistiche mescolate ad arte estrema con la furia e la velocità di un classico del genere symphonic metal. Quindi non stupirà il fatto di trovare suoni folk e clavicembalo all'interno di strutture tese e drammatiche, uno screaming perpetuo e tanta melodia. Gli spunti sono moltissimi, dicevamo, presi in prestito dal folk come dal barocco, ma quello che più colpisce è la semplicità con cui la band riesce a trasportare l'ascoltatore da un'estremità all'altra di tale musica usando sempre il verbo oscuro dell'extreme black metal. L'album è ipnotico e velocissimo, passa dall' immediata violenza a situazioni spiazzanti di pura melodia ancestrale, velato di un sonorità etniche che restano sempre leggere senza mai affondare nel folk metal, accennandolo solo il tanto che basta per aumentare la curiosità dell'ascolto. Potenza, melodia, fraseggi e assoli di chitarre power divisi con una tastiera versatile ed estroversa, iperattiva e multiforme, una concezione astratta del folk, come se gli Stille Volk volessero essere i Gehenna con chitarre rumorose e melodiche in stile Agathodaimon. Un lavoro da assaporare tutto d'un fiato, senza respiro e lasciandosi trasportare dalla sua nera eterea concezione. Complicato come il prog, rumoroso come il black, sinfonico e veloce come lo speed metal, onirico e incontenibile come il folk metal. Un gioiellino assolutamente da ascoltare! (Bob Stoner)

(Le Crepuscule du Soir Productions)
Voto: 75

https://myspace.com/mutilanovagroupe

Krepuskul - Game Over

#PER CHI AMA: Metal sperimentale
Prodotto curioso quello propostomi dai Krepuskul, band di difficile catalogazione proveniente dalla Romania. L'album non è eccessivamente estremo pur avendo sonorità che richiamano il black, death e affini, e nonostante ciò il disco è di arduo ascolto a causa delle varie parti che difficilmente si incastrano tra loro e che portano l'opera in bilico tra l'avantgarde e il nonsense. E non nascondo che svariati ascolti sono stati insufficienti per assimilare completamente l'opera del trio rumeno. Un grande punto debole di questa pubblicazione è, come detto in precedenza, la mancanza di parti estreme: dopo un'introduzione che si poteva tranquillamente evitare, bisognerà infatti aspettare la quarta traccia "Fall" per avere una parvenza di movimento, dato che l'opera è quasi totalmente in mid-tempo. Un'altra song degna di nota, per le sue proprietà anti-sonnifere è "Voice", accoppiamento azzeccato con la precedente "Mediu Orient" che nonostante la sua peculiarità percussionistica, si rivela un po' troppo priva di sostanza, gran bel intermezzo in ogni caso. La parte centrale del disco si chiude bene con il singolo estratto "Hamsters", per giungere dopo un intermezzo alle due tracce di chiusura con la melodica "Awake" e la title-track. "Game Over" è un album abbastanza facile da analizzare, esattamente all'opposto del suo ascolto con le composizioni tutte simili tra loro, con strane parti mid-tempo di metal estremo con intermezzi esotici (a volte su tonalità e scale completamente differenti). La formula potrebbe risultare vincente se presente su alcune tracce ma purtroppo lungo il disco, ci troviamo alla loro sistematica applicazione; e lo stesso discorso dicasi riguardo i groove proposti. In definitiva un lavoro con molti spunti ed idee ma ancora completamente acerbo. (Kent)

(Self)
Voto: 65

http://www.krepuskul.com/

Xerion - Cantares das Loitas Esquecidas

#PER CHI AMA: Black Folk
In tutta onestà, non conoscevo il gruppo artefice del lavoro che mi appresto a recensire per voi. Basta poco, tuttavia, per capire che la penisola iberica è la fonte da cui traggono origine i titoli dei nove pezzi qui inclusi. La copertina dell’album fa presagire toni cupi fra melodie folk e quindi, date queste premesse, ero pronta all’ascolto. Come sempre, anche con gli Xerion, mi sono lasciata trasportare dalla mia più naturale inclinazione: fare paragoni fra le cose, in particolare fra la musica e tutto il resto. Ho provato a immaginare le tracce come se fossero una vacanza. Immaginate anche voi quindi, un viaggio in Galizia, luogo d’origine della band. Ma ditemi, vi è capitato di sognare delle ferie perfette che poi si riveleranno un flop? Sbagliare la prenotazione, arrivare nella stagione delle piogge o ritrovarsi con la gastroenterite, eccolo il quadro completo del mio paragone! Mi spiego meglio: dall’intro, un roboante temporale, l’album mi ha dato l’impressione che ci si potesse impegnare di più per onorare le origini celtiche della propria terra. Alla fine mi ritrovo un black metal melodico con spunti folk che risulterà essere poco convincente, non incisivo. Alcuni pezzi sono si affascinanti, come “O Espertar do Xerion” e “Nas Verdes Fragas de Amh-ghad-ari” perché vi si mescolano le sonorità incalzanti tipiche dello spirito latino con i più canonici dictat del black metal classico. Un tocco di personalità è dato dall’uso del galiziano, ma non trovo nulla che sia originale fino in fondo, quindi una potenzialità mal sfruttata. Nota di merito a Nocturno, ideatore di questa one-man-band nata nel 2001, che per questo lavoro è affiancato da altri tre musicisti: piacevoli le sue linee di basso e buona l’idea dell’album “circolare” con l’ultimo brano che richiama l’intro. La Galizia è un posto magico, ricco di quell’atmosfera ancestrale a noi tanto cara, e questo poteva essere reso in musica in modo migliore. Per fortuna non tutto è da buttare, una buona base c’è, ma se proprio vi va di prendervi una vacanza e ve ne andate in Galizia, per lo meno ci si aspetta di tornare pienamente soddisfatti. (Ar-Pia Scarpelli)

(Schwarzdorn Production)
Voto: 60

http://www.otronodexerion.com/

martedì 11 giugno 2013

Sleestack - Book of Hours

#PER CHI AMA: Heavy Psychedelia, 50ft of Pipe, Cathedral, Monster Magnet
Affrontare questa band di Milwaukee non è facile, descriverla senza essere fraintesi altrettanto, ma ascoltarla è sensazionale. Un'evoluzione stilistica spettacolare ha fatto in modo che questa band, al terzo album autoprodotto (i primi due hanno caratteristiche diverse, sempre ancorati al genere space rock ma con meno virate vintage) partorisse un disco così maturo e ricercato dal titolo “Book of Hours”. Parliamo di stoner rock e psichedelia pesante come da tempo non si sentiva in giro, e non di sludge metal non di doom metal come troviamo scritto sul loro bandcamp. Prendete la pesantezza dei Cathedral senza l'aurea plumbea, aggiungete la psichedelia dei 500ft of Pipe senza l'ascendente garage, mescolatelo ai primi lavori dei Monster Magnet come quando agli inizi degli anni novanta fecero uscire il singolo “Tab” e avrete una minima parte di ciò che si ascolta in questo terzo album della band americana in questione dal nome Sleestack. Lucida follia rock di casa Thee Hypnotics ma più dilatata, lenta e ribassata come il sound dei primi Orange Goblin con voci dal vago sapore vecchio film horror e un suono che più naturale e ipnotico di così si muore... in “Lone Wolf” sembra di ascoltare i The Doors appesantiti e in acido dal sapore ‘70s stile Soft Machine in un delirio rock gravido di viaggi interstellari e catarsi totale sulla scia dei Cream. Eppure l'intero lavoro mantiene caratteristiche d'ascolto accessibilissime, anzi si fa ripetutamente ascoltare e amare alla follia. L'originalità qui è di casa e il risultato è impressionante: chitarroni grassi e cosmici, organo e strutture progressive, effetti space oriented e allucinazioni, acido a ‘go ‘go, un fantastico viaggio verso l'infinito. Il cd è un lusso e uno spasso per gli amanti della vera psichedelia, quella suonata e fusa nel segno del rock, quella senza remore, quella dei funghetti allucinogeni. Qui non troverete spazio per Kyuss o Queen of the Stone Age, non è musica del deserto come va di moda ultimamente ma super psichedelia inquietante, pertanto non avvicinatevi troppo se non per adorarli, rischiate di bruciarvi con un simile capolavoro. Colori e psichedelia deviante e deformante, lasciatevi andare e divinizzateli, non rimarrete delusi... erano anni che non ci arrivava dallo spazio cosmico un mostro alieno di tale bellezza. (Bob Stoner)

Milk+ - Man on Wire

#PER CHI AMA: Progressive, Space Rock, Mars Volta, Muse
Un gruppo amante delle citazioni, gli austriaci Milk+, a partire dal nome, ripreso dalla bevanda preferita di Alex De Large, protagonista di “Arancia Meccanica”, fino ad arrivare al titolo di questo loro terzo album, esplicito omaggio alla figura del funambolo Philippe Petit, che nel 1974 camminò in equilibrio su un cavo metallico teso tra le Torri Gemelle del World Trade Center, impresa alla quale è stato dedicato un bellissimo documentario dal titolo, appunto, “Man on Wire”. E così come Petit, i tre viennesi cercano di avanzare con passo cauto ma sicuro, in perenne e labile equilibrio tra la classica forma canzone, con strofa, chorus e durata contenuta, e la voglia di sperimentare e andare un po’ oltre ai canoni. Lavoro estremamente curato, “Band on Wire”, dall’artwork ai suoni scintillanti, curati da Isaiah Ikey Owens, tastierista dei Mars Volta, qui in veste di produttore e strumentista in una manciata di brani. E le affinità coi Mars Volta non si esauriscono qui: speso e volentieri, infatti, i Milk+ paiono una versione in qualche modo “normalizzata” della band statunitense; meno schizofrenica e logorroica, in un certo senso meno dispersiva ed estenuante, ma anche, va detto, meno eccitante. Se i Mars Volta innestano il prog su una base post-hardcore e condiscono con spezie latine senza pressochè freni inibitori, i Milk+ risultano un po’ più controllati e meno eccessivi nel loro mix di progressive+alternative+jazz, e stanno sempre bene attenti a mantenere il minutaggio al di sotto della soglia di guardia. Perizia strumentale sugli scudi, quindi, per un rock compresso e ipervitaminico, ricco di sfumature, cambi di tempo e aperture melodiche che lambiscono spesso e volentieri l’epicità di band quali i Muse, ma con un senso della misura decisamente più sviluppato di Bellamy e compagni. I brani sono tutti degni di nota, ma mi piace menzionare almeno “Venus Breakdown” con il suo incedere jazzato e coinvolgente, “The Cigarette's Arsonphobia” (quello dei titoli complicati è un altro vizietto mutuato dai Mars Volta, si vedano anche “Elaptophon” o “Kollaptra”), impreziosita dall’hammond di Owens, e la delicata “Melaforint”, dove spicca la magnifica voce dell’ospite femminile Clara Luzia. In definitiva, “Band on Wire” è un disco riuscito e molto interessante. Dove ancora manca qualcosa per spiccare il definitivo salto di qualità è forse nella scrittura di pezzi che siano davvero indimenticabili e non solo “molto carini”. (Mauro Catena)

(Monkey, 2013)
Voto:75

http://milkplusmusic.bandcamp.com/

sabato 8 giugno 2013

Fortid - Pagan Prophecies

#PER CHI AMA: Black Epic, Immortal, primi Enslaved
L’Islanda, quale luogo misterioso e fatato deve essere quella lontana isola sperduta nell’Oceano Atlantico? Completamente distaccati dal vecchio continente, immagino che gli islandesi non possano godere degli influssi e delle tendenze che imperano sulla terra ferma. E cosi spuntare da quel fascinoso posto, band o artisti strani e stravaganti. Penso alla più famosa di tutte, Bjork, ma anche a realtà un po’ meno famose come Sigur Ros o band molto più di nicchia, come quella di quest’oggi, i Fortid. Fortid che rappresentano il progetto solista di Einar Thorberg, meglio conosciuto come Eldur, musicista di Cursed e Potentiam. Il buon Eldur dopo aver completato la sua personale trilogia iniziale, “Völuspá”, e dopo essersi trasferito in Norvegia, ha stravolto la sua creatura, scegliendo dei musicisti in pianta stabile e da qui la nascita di questo nuovo interessante capitolo, “Pagan Prophecies”. Sette lunghe tracce di black dalle tinte pagane, che spostano le precedenti influenze vichinghe verso sonorità più architettate e progressive, nella vena dei primi Enslaved. Apertura fin da subito affidata alla title track, la song che abbraccia immediatamente la nuova direzione stilistica intrapresa dai nostri, in cui vengono immediatamente sguainate le spade e la danza tribale affidata ad un riffing di chiara matrice black, sorretto da ottime ed impetuose melodie di chitarra. Con la seconda “Spirit of the North” respiriamo maggiormente le atmosfere pagane dell’act nordico, con un feeling ricco di emozionale epicità, affidata a lunghi intermezzi strumentali. Con “Electric Horizon” il quartetto scandinavo torna ad infierire col proprio black fatto di scorribande battagliere, blast beat iperveloci e l’incursione selvaggia interrotta solo dall’eco di una guerra in lontananza ad infrangersi contro il muro sonoro del violento combo nordico. Mi stupisce a fine brano la presenza di uno splendido assolo, cosa assai rara nel black. Un arpeggio introduce “Lesser Sons of Greater Fathers”, la song più tranquilla del lotto, in cui Eldur mette da parte addirittura il proprio efferato screaming, lasciando posto ad una più calda performance vocale, in una song che sa molto di “Twilight of the Gods” dei Bathory. Con “Sun Turns Black” si torna a viaggiare su ritmiche tiratissime, infernali e nere come la pece, con il buon Eldur che torna a rimpossessarsi delle sue diaboliche vocals, e lanciarsi in una roboante cavalcata epica, condita dal classico intermezzo acustico e sorprendentemente da un altro assolo, che mi permette di apprezzare ulteriormente il lavoro della band. “Ad Handan” riparte con gli stilemi classici del genere: intro acustica ad esplodere nella consueta cavalcata black epica, in cui anche i segni oscuri degli Immortal, si alternano nel sound apocalittico dei Fortid, in una lunga ed estenuante traccia. La cupa outro, “Endalok” chiude un album che potrà permettere ai nostri di farsi conoscere un po’ di più nel mondo del black estremo. Convinto tuttavia che con “Endelok” mi trovassi alla conclusione del disco, ecco spuntare la classica ghost track, una ventina di minuti, conditi dai suoni tipici dei temporali che squarciano i cieli più prossimi al circolo polare artico. Glaciali ma epici! (Francesco Scarci)

(Schwarzdorn Production)
Voto: 70

https://www.facebook.com/fortid