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domenica 26 maggio 2013

Siechenheim - German Black Metal

#PER CHI AMA: Black Old School, Absu, Avsky, Beherit, Absurd
Questa band tedesca proveniente da Hannover è al suo secondo lavoro licenziato dalla Obscure Abhorrence Productions nel 2012 dopo un EP del 2010. Il cd di ben 11 brani cantati in tedesco, reca la scritta nel retro – demo recordings from June 2011/June 2012 – e questo ci fa capire nell'immediato la labile qualità audio dell'intero lavoro. La band si rifà ad un grezzo black metal senza fronzoli mostrando comunque, soprattutto nella delirante interpretazione vocale, una ricerca musicale personale accentuata. Purtroppo non tutto riesce alla perfezione e sono molte le cose che andrebbero riviste o bisognose di un ulteriore mixaggio ed editing finale per migliorare il risultato dell'intero lavoro. Ribadendo la nota positiva dell'incursione violentissima e sgangherata del vocalist e chitarrista Kobold, ci rendiamo conto fin da subito dei limiti esecutivi della band che avrebbe buone idee ma con doti tecniche altisonanti come in “Ewigkeit”, dove fa da padrona una chitarra solista molto discutibile e sconcertante in un brano dall'aria indovinata e accattivante che potrebbe funzionare. Purtroppo la media della creatività rimane bassa brano dopo brano, sicuramente colpa della registrazione scadente da puro demo e riteniamo di salvare solo la prestazione vocale per la sua prova a cavallo tra depressivo horror punk e screaming al limite della nevrosi che solleva e invita comunque l'ascolto di questa raccolta di brani tutti da rivedere. Da dimenticare i cori scarichi e non convincenti di “Weiss” e il cantato pulito di “Absurd”. In generale l'album non è da scartare in blocco ma necessita di una revisione in più parti dalla composizione all'esecuzione e quindi non può aspirare ad una grande visibilità. La strada da seguire secondo noi è quella del brano “Tot” dove i Siechenheim si mostrano più convincenti con un sound oscuro, scarno e diretto, molto violento e dalle reminiscenze horror punk. Elaborando le strutture e le sonorità questa band può ancora crescere e dare vero onore ad un titolo importante come German Black Metal. Aspettiamo evoluzioni con ansia! (Bob Stoner)

(Obscura Abhorrence Productions)
Voto: 55

https://www.facebook.com/pages/Siechenheim/133072303414805

Repetitor - Dobrodošli Na Okean

#PER CHI AMA: Sonic Youth, Nirvana, Mudhoney, Fugazi
Problema di meta-matematica: dato un quadrilatero che abbia per vertici “Bleach” dei Nirvana, “Daydream Nation” dei Sonic Youth, “13 Songs” dei Fugazi e “Superfuzz Bigmuff” dei Mudhoney, si trovi l’area della circonferenza inscritta in tale quadrilatero, sapendo che il suo centro è a Belgrado. La soluzione a tale problema si avvicina molto a questo dischetto dei serbi Repetitor, il loro secondo album, se non erro. I primi tre pezzi di questo album breve e compatto sono davvero paradigmatici nello scoprire le carte e definire i confini in cui si muove il trio: la potente opening track “Devojke idu u Minhen” declina i Black Sabbath in salsa punk, come faceva il giovane Kurt Cobain, mentre “Biću Bolji” sembra quasi una cover dei Sonic Youth più viscerali e “Šteta” richiama i primi Fugazi. Il resto del programma non si discosta mai troppo da queste coordinate, rispettandone anche il suono ruvido e furioso, tanto che il lavoro potrebbe essere stato benissimo inciso nel 1989, anno in cui, probabilmente, i tre Repetitor (due ragazze ed un ragazzo) erano appena in fasce, a giudicare dalle belle facce esibite nella foto presente nel libretto del cd, dove sembrano giovani attori di un film indipendente su una band indie newyorkese. A favore dei tre giocano un entusiasmo e un energia davvero notevoli e una sincerità di fondo che emerge da ogni singola nota, come sembra confermare la scelta di cantare nella loro lingua madre. Forse mancano dei pezzi davvero indimenticabili, ma una volta finito il gioco del “questo somiglia a”, tutte le nove tracce sono comunque godibili e scorrono senza che venga mai la tentazione di pigiare il tasto “skip”. In definitiva, un lavoro derivativo e citazionista fin che si vuole, ma suonato con passione, idee e una furia punk che condensa in meno di mezz’ora tutti gli ingredienti essenziali di una musica che continua a rimanere essenzialmente furi dal tempo. (Mauro Catena)

(Moonlee Records, 2012)
Voto: 70

http://repetitor.bandcamp.com/

Never Void (Nvrvd) - Coma

PER CHI AMA: Sludge, Hardcore, Metal, Converge, Gojira
I NVRVD (noti anche come "Never Void") sono un trio tedesco, ormai al terzo full-lenght album, che si muove nelle coordinate comprese tra l'hardcore metal, i suoni ruvidi e grezzi tipici dello sludge metal e qualche accenno di post. L'impressione al primo ascolto di "Coma" è di sporcizia, cattiveria, ruvidità: l'album è rumoroso, violento, a tratti persino brutale, con ogni strumento quasi costantemente on-your-face. Nei rari silenzi tra un segmento e l'altro dei brani non mancano fischi, feedback e urla, quasi a non voler lasciar respiro all'ascoltatore. Ogni strumento ha la sua specifica posizione e un ruolo ben definito: il basso è ben distinto, le chitarre hanno distorsioni profonde, la batteria è aperta quanto basta e la voce urla come se non ci fosse un domani – a testimonianza tra l'altro di una produzione ben fatta, seppur sporcata da suoni tipicamente sludge. L'album segue apparentemente due filoni contemporaneamente. Da una parte i brani come "Impartial Eyes" (giocata tra blast-beat e aperture), "We are" (con le strofe cantate da un folle predicatore e i ritornelli corali) o "No Heaven", canzoni dure e pure, dove hardcore metal, lo sludge e persino una punta di metal tecnico alla Gojira giungono a perfetta sublimazione; dall'altra parte non mancano esperimenti post-metal come nell'opening track "Oberohe" – tre minuti di cupezza strumentale che esplodono in un violentissimo segmento hardcore – o nell'evocativa "An Echo to Your Unbeliefs", giocata su chitarre distanti, lunghi delay ed atmosfere doom. "Coma" è stato registrato nell'area di Oberohe in Germania (da cui il titolo del brano), una delle meno popolate della nazione: il silenzio, la solitudine, l'oscurità dei boschi incontaminati hanno senz'altro condizionato i segmenti più post-metal del disco. Ma la parte più violenta, quella no: si percepisce chiaramente quanto sia radicata nelle ossa di NVRVD, quanto sia spontanea e immediata, quasi naturale. Ecco: la spontaneità – pur nella complessità di alcuni passaggi strumentali – è senz'altro la chiave di volta di questo disco, in grado di garantire quasi mezz'ora di brutalità hardcore, riffing vecchia scuola, sonorità sludge e una punta di sperimentazione post. (Stefano Torregrossa)

(Hummus Records, 2013)
Voto:70

https://www.facebook.com/NVRVD

giovedì 23 maggio 2013

Ecnephias - Necrogod

#PER CHI AMA: Horror Heavy, Rotting Christ, Septic Flesh
Avete mai provato quella sensazione quando siete a tavola, di voler lasciare il meglio che c’è nel piatto alla fine? Ebbene, prima di ascoltare il tanto atteso ritorno sulle scene dei lucani Ecnephias, ho aspettato qualche giorno, cosi giusto per pregustarmelo un po’, insomma una sorta di “Sabato del Villaggio” come scriveva il buon Leopardi, in cui crearmi le giuste aspettative. Dopo quattro giorni, ho inserito finalmente “Necrogod” nel mio stereo per capire quale evoluzione avesse subito il sound di Mancan e soci. Ecco quindi proiettarmi con l’occulta intro nel mondo enigmatico e mediterraneo della band potentina. Volete sapere cosa ho pensato appena chiusi gli occhi e mi sono abbandonato a “Syrian Desert”? Mi è sembrato che questo prologo potesse ricalcare il debut EP dei Moonspell, quell’“Under the Moonspell” che mi sconvolse qualche lustro indietro l’esistenza, per quel suo forte taglio arabeggiante. Quando è poi “The Temple of Baal Seeth” a svelarsi come vera prima traccia, torno ad assaporare il sound ellenico nelle corde dei nostri, sporcato però da influenze british che ne ammorbidiscono il suono; immaginate un bel mix tra Rotting Christ e ultimi Paradise Lost e potrete capire di che cosa stia parlando. Vorrei quindi indicare gli Ecnephias come maggiori esponenti di una ipotetica scena della Magna Grecia. Sicuramente vi starete chiedendo il perché delle mie parole. Perché le chitarre del combo italico offrono il meglio della band greca, ossia quei riffoni che sembrano più un ingranaggio che va via via sbloccandosi, uniti ad un rifferama più pulito che invece ricalca l’ultimo periodo della band albionica, il tutto sempre contraddistinto dal dualismo vocale di Mancan, bravo a districarsi tra un growling sempre comprensibile (utile anche per farci capire le liriche, tra l’altro estremamente interessanti in quanto legate a mitologia, simbolismo, religione e magia) e delle cleaning vocals corali. “Kukulkan” è un brano ritmato, in realtà molto semplice ma che sa comunque conquistare per la sua melodia di fondo fresca e malinconica, sorretta da quei leggeri tocchi di pianoforte e da aperture che evocano tempi lontani, con un assolo di chiara matrice heavy. Parte di quella robustezza presente in “Inferno” sembra essere scemata per far posto ad atmosfere più soffuse e malinconiche, non fosse altro che le orrorifiche e a tratti incazzate melodie della title track, mi smentiscano immediatamente, spingendomi addirittura ad evocare nella mia tortuosa mente i Necrophagia e per orchestrazioni anche gli ultimi maestosi Septic Flesh. Niente paura perché arriva “Isthar (Al-'Uzza)” e qui il buon Mancan mi guarderà di sottecchi dietro ai suoi baffi: l’inizio della traccia (ma anche il chorus) ha tirato fuori dai cassetti della mia memoria “Desaparecido” dei Litfiba, spingendomi con un balzo temporale di 26 anni indietro; non sto pensando ad una canzone precisa ma a quell’aura dark, sprigionata dalle chitarre e dai vocalizzi, che contraddistinse il debutto della band di Piero Pelù e soci, anche se nel chorus di “Isthar” una rivisitazione di “Istanbul” ci potrebbe anche stare. Certo poi il growling del bravo vocalist permette alla band di prendere le distanze da quel lavoro, anche se al secondo e al terzo ascolto, ho riprovato questa stessa sensazione, focalizzando ulteriormente la mia attenzione su questo brano. Eccoli di nuovo poi gli echi orientali tornare in “Anubis (The Incense of Twilight)”, song contraddistinta da una ritmica sempre molto pulita e armonica con il resto degli strumenti. Semplice e diretta la batteria, essenziali le keyboards, pulite e mai spinte le chitarre, con la voce di Mancan sempre inappuntabile ed inconfondibile, peccato solo non abbia potuto godere di performance in cantato italico. “Kali Ma (The Mother of the Black Face)” è un altro pezzo in cui tornano a manifestarsi gli spettri dei Paradise Lost, forse quelli più ancorati a “Draconian Times”, mentre “Voodoo (Daughter of idols)” penultimo brano del disco e quasi un tributo ai vecchi Iron Maiden, vede la partecipazione in veste di special guest di Sakis dei Rotting Christ alla voce, segno della reciproca stima e amicizia che lega le due band. A chiudere ci pensa la strumentale “Winds of Horus”. Insomma, il restyling degli Ecnephias parte da “Necrogod” e dalla nuova etichetta alle spalle dei nostri, la sempre attenta Aural Music; speriamo solo che sia la rampa di lancio per una più che meritevole carriera degli Ecnephias, contraddistinta da sempre da ottimi lavori, che a mio avviso, non hanno però goduto della giusta attenzione da parte del pubblico. E allora, per rifarsi delle mancanze passate, date una grande chance a “Necrogod”, non ve ne pentirete! (Francesco Scarci)

(Aural Music)
Voto: 80

http://www.ecnephias.com/

martedì 21 maggio 2013

Synkletos - Spiritual Alchemy

#PER CHI AMA: Death/Doom, Saturnus
Da quanto ho capito, perché di informazioni sul web ce ne sono davvero poche, questo cd è uscito autoprodotto nel 2011, pur contenendo brani che ci riconducono agli esordi della band (2002), seppur rivisitati. Il duo moscovita, formato da Demiurgos e Kaermis, deve aver poi catturato l’attenzione della sempre vigile Solitude Productions, ormai un colosso in ambito doom estremo, che immagino li abbia messi sotto contratto e faccia riuscire questo lavoro marchiato Solitude o ne stia preparando uno nuovo, ma staremo a vedere. Per quanto riguarda “Spiritual Alchemy” vi posso dire di avere per le mani un inusuale lavoro di doom rock; mi spiego meglio. “Golden Fields of Creation”, il primo vero e proprio pezzo di questa release, si apre in modo soffice, rilassato, che mi mette immediatamente a mio agio con i suoi suoni compassati, le atmosfere soffuse, e quei giri di chitarra che tra il doom a la Saturnus e uno space rock, mi regalano emozionanti minuti che per una volta non scadono in atmosfere asfissianti o apocalittiche. La proposta dei Synkletos è molto easy listening, mi ricorda gli esordi dei tedeschi Empyrium, con qualche bel chorus evocativo, bilanciato da qualche slancio gutturale. “The Elementals” cambia registro e pesta che è un piacere, con quel suo granitico riffone che mostra palesemente alle orecchie le influenze classiche dei nostri. Un ancestrale interludio space rock ci accompagna verso “Rain of Eternal Distress”, un pezzo di poco più di nove minuti, che si apre con una venatura che sfiora addirittura la new age, prima che un inatteso malinconico assolo squarci il cielo e il growling di Demiurgos prenda a cantare su una melodia costellata di flebili tastiere e splendide melodie, che in fase solista, evocano (non poco) la fase pink floydiana dei Tiamat dei bei tempi. Da urlo… L’album continua a regalare vivide emozioni, pur palesando un che di atavico nelle sue note (ho ripensato addirittura al debut dei The Gathering a livello di feeling espresso). “Spiritual Alchemy” è un lavoro d’altri tempi, che non rinuncerà tuttavia ad infondere splendidi ricordi a tutti coloro che hanno vissuto gli splendidi anni ’90. Anzi, sapete che vi dico, mi vado a riascoltare “Wildhoney” dei Tiamat, in attesa di dare un ascolto a cosa questo duo russo ha partorito dal 2011 a oggi. Bella sorpresa, bravi! (Francesco Scarci)

(Self/Solitude Productions)
Voto: 75

https://www.facebook.com/pages/Synkletos/185149381592185

65daysofstatic - The Destruction of Small Ideas

#PER CHI AMA: Post-Rock, Tortoise, Mogwai
Tempo di ripescaggi, per il Pozzo. L’occasione ci viene dall’australiana Bird’s Robe, che sul finire dello scorso anno ha ristampato in versione deluxe (affiancando cioè all’album originale un secondo cd di rarità varie) l’intera discografia dei 65daysofstatic, il combo di Sheffield che, a cavallo della metà degli anni zero era stato capace di infondere nuova linfa ed energia al post-rock strumentale, con una manciata di lavori da stropicciarsi le orecchie. Dato per assodato che i primi due album del quartetto (Fall of the Math e One Time for All Time) sono pressoché imperdibili, occupiamoci oggi del loro terzo lavoro, quello più contradditorio in termini di accoglienza, prima del nuovamente acclamato “We Are Exploding Anyway” (forte della sponsorizzazione dei Cure), e forse quello che più ha bisogno di una riscoperta, a sei anni dalla sua pubblicazione. La formula vincente degli inglesi consisteva, tra le altre cose, nell’aver iniettato discrete dosi di elettronica all’interno di un suono ormai piuttosto codificato come quello del post-rock, nella sua alternanza di pianissimi e fortissimi, suonando questi ultimi con un furore incendiario per un risultato finale davvero esaltante. “The Destruction of Small Ideas” mantiene queste caratteristiche senza riproporre una fotocopia dei primi due lavori, anzi cercando una qualche evoluzione. L’approccio sembra essere un po’ più live, forte dell’esperienza acquisita sui palchi, con l’elettronica che perde quel ruolo quasi centrale che aveva acquisito nel secondo album, per essere tenuta decisamente più sullo sfondo. Quello che si nota subito, e che forse rimane il vero punto debole del disco, rispetto ai precedenti, è un suono meno devastante, nonostante il piede sia spesso ben pigiato sul pedale dell’acceleratore, forse una pecca del mastering o forse una scelta deliberata della band. Altro appunto relativamente al minutaggio, oltre l’ora, che rivela forse un piccolo peccato di presunzione o un eccesso di ambizione, soprattutto alla luce della presenza di un paio di pezzi che hanno il retrogusto amarognolo del riempitivo. Fatte salve queste pecche, ci troviamo di fronte a un signor disco, fatto di brani lunghi ed elaborati senza essere inutilmente arzigogolati, con cambi di atmosfere repentini e di grande impatto (su tutti la splendida “Don’t Go Down to Sorrow”, pianoforte in partenza, impennate vorticose e chiusura in una marea di filamenti electro-glitch), sempre in equilibrio tra dolcezza e furore (si prenda la conclusiva “The Conspiracy of Seeds”, che ospita gli scream dei vocalist dei Circles Take the Square). In sostanza il disco più classicamente post-rock dei 65dos, nell’approccio e nella strumentazione, ma anche quello forse meno d’impatto sul piano della “botta” sonora. Molto interessante il secondo dischetto, che allinea rarità e pezzi inediti, e che spinge decisamente sul versante più sperimentale, dove l’elettronica torna prepotente e spesso la fa da padrone, come nella spiazzante “Dance Parties” (il titolo è quanto mai programmatico), o in “Goodbye, 2007”, che suona come un carillon dimenticato in uno stabilimento Toyota ultra-robotizzato. È notizia di queste settimane che i 65daysofstatic sono tornati in studio per registrare un nuovo album. Li aspettiamo con ansia e nel frattempo ripassiamo la loro discografia adeguatamente “rincicciata” i queste belle deluxe edition. (Mauro Catena)

Echoes of Yul - Cold Ground

#PER CHI AMA: Dark Industrial, The Axis of Perdition, 35007, 3rd and the Mortal
Tra il finire degli anni novanta e i primi anni duemila uscirono tre band che, anche se poco conosciute, con tanta lungimiranza ridisegnarono le modalità del rock psichedelico, quello che confinava con il metal e arricchito di suoni lunari, molto space rock dei 70's e pesante come il doom. Le band a cui facciamo riferimento per presentare questa act polacco dal nome Echoes of Yul si chiamano 35007, WE e Teeth of Lions Rule the Divine, quest'ultima un side project di Lee dorian dei Cathedral. “Cold Ground” è un diretto discendente di queste stupefacenti band e non da meno presenta lo stesso possente carattere artistico, spaziale, psichedelico e introspettivo, capace di catturare con le sue atmosfere irreali e umorali, riverse nell'oscurità, che oltre ad inneggiare ai maestri del genere, osa anche spingere oltre i confini il proprio lavoro con composizioni che introducono in forza l'elettronica, l'industrial e il dark ambient, legati con un filo indissociabile al suono dell'avanguardia di casa The Axis of Perdition senza mai dimenticare i contatti con quella forma metal di moderna concezione che vive nell'anima della band. Tutto questo servito su di un cd dalla buona qualità sonora, figlio di una distinta produzione e un artwork di copertina ricercato e molto fine. Il duo polacco mostra in questa collana di tredici brani, dalla durata totale di ben sessantaquattro minuti, un ottimo feeling e delle idee assai chiare; magari il filone scelto non è certo dei più commerciali ma sicuramente ha carattere da vendere, dimostrando una maturità raggiunta, per un duo nato nel 2008 e autore di due album e due demo in quattro anni (“Cold Ground” è il secondo album ed è uscito per la Avantgarde Music nel 2012). L'album scorre a ruota libera tra grigie atmosfere ambient ,voci campionate seminate ovunque, squarci di metal evoluto, space rock ed elevata psichedelia. Il cd si fa ascoltare senza lasciare attimi di respiro proiettandoci in un vortice emozionale dalle mille sfaccettature che passano da freddi paesaggi elettronici ad oscuri viaggi dal groove sound che nel finale strizzano persino l'occhio agli ultimi album dei 3rd and the Mortal. Un universo quello dei Echoes of Yul, da scoprire lentamente, entrando cauti per uscirne pienamente soddisfatti! Un cd veramente riuscito! (Bob Stoner)

(Avantgarde Music)
Voto: 80

http://echoesofyul.bandcamp.com/

Flicker - How Much Are You Willing to Forget

#PER CHI AMA: Rock psichedelico, Progressive, Radiohead, Porcupine Tree
L' album desiderato, richiesto e ottenuto a tempo di record. Dopotutto, appena ho sentito il singolo sul web, le aspettative erano molto alte. L'ansia da prestazione mi assale mentre infilo l'agognato dischetto nel player e ascoltiamo. I Flicker dichiarano apertamente le loro influenze da Radiohead, Pink Floyd ed Incubus, ma da qui hanno solamente gettato le fondamenta di un palazzo che si sviluppa vertiginosamente verso l'alto e si dirama all'infinito. Fino al punto da sminuire le radici perchè ormai sono distanti anni luce dal punto più alto dell'evoluzione dei Flicker. Il rock progressive/melodic è comunque il filo conduttore che racchiude le sonorità inglesi di qualche hanno fa e portano a compimento un'evoluzione che anche la scena italiana sembra cercare affannosamente. Il quartetto inglese ha sulle spalle più di dieci anni di attività dei singoli elementi della band e fa largo uso di tastiere che nella sapiente scelta di string e pad creano atmosfere ora spaziali, poi orientali e infine malinconiche. "Everywhere Face" è la mia song preferita, intro di chitarra carica di delay (no, nessuna contaminazione post rock), ritmica solida e synth che accompagnano il vocalist nel suo viaggio pindarico. Forse il pezzo più aggressivo dei Flicker, ma con il loro marchio di fabbrico impresso nelle carne. "Falling Down" inizia come una delle ballate più malinconiche della storia prog, con tanto di archi e arpeggi cristallini, ma durante i quasi sei minuti di esecuzione scopre una rabbia repressa che esplode progressivamente fino a dare il colpo di grazia fatto di distorsioni al limite del metal. La nona e ultima traccia si intitola "Is This Real Life" ed è una dimostrazione di come la musica classica di altri tempi, sia stata rimpiazzata da opere di medesima fattura. Forse la musica come arte non è defunta, perlomeno grazie ad un gruppo esiguo di artisti. Adoro la quarta di copertina di questo "How Much Are You Willing to Forget", un rotolo di carta igenica quasi finito con la tracklist scritta sopra... Una metafora? (Michele Montanari)

mercoledì 15 maggio 2013

Riul Doamnei - A Christmas Carol

#PER CHI AMA: Black Sinfonico
“Marley, prima di tutto, era morto.” “Marley, prima di tutto, era morto.” “Marley, prima di tutto, era morto.” È questa l’insolita litania che avverto ripetersi, amplificarsi tra le solide, elastiche pareti della mia testa. Parole che rimbalzano e sinuose riverberano, scolpiscono arcuate, altissime navate nella gotica cattedrale della mia mente. Crollo estasiato, mi piego dinanzi al mio io più profondo, ma non ne soffro, al contrario ne godo: mi regalo un piacere tra i più sublimi. Mai nulla di sacro, nelle mie, di cattedrali. Era mio obiettivo trasmettere, a te lettore che stai leggendo, quello che sento, quello che avverto avventurandomi in questa novella, “A Christmas Carol”, concept basato sull’omonimo romanzo breve, partorito dal genio di Charles Dickens e rivisitato per noi dagli italianissimi Riul Doamnei, band gigante rossa, grondante sangue, materia oscura che occupa lo spazio vuoto di quel vasto universo qual è il symphonic black metal. Genere vasto, oserei dire oceanografico. Mi sovvengono quei famosi versi di Dante “Nel mezzo del cammin di nostra vita, mi ritrovai per una selva oscura, ché la diritta via era smarrita.” Ma questo non è il caso, la via non è per niente smarrita, anzi, il concept nel quale i nostri tricolori patrioti ci vogliono inebriare è ialino, adamantino. Mi concedo giusto due parole sulla trama della novella per incuriosire quei lettori che non fossero avvezzi all’opera Dickensiana: il ricco quanto avaro protagonista, tal Ebenezer Scrooge, viene visitato da tre spiriti nel bel mezzo della notte di Natale nella Londra del 1843: il Natale Passato, il Natale Presente ed il Natale Futuro. A seguito di questi incontri, il comportamento di Scrooge cambierà radicalmente. Abituato come sono, a vederli sul palco con i loro “scherzi da prete” che devo dire, dentro di me, ho sempre molto apprezzato (solo chi segue anche dal vivo questa band capirà codeste mie parole), non hanno mancato, questa volta con inedite ed evanescenti sembianze da spettri, di stupire ancora il pubblico, come sempre entusiasta. Non mancate assolutamente quindi di vedere questa interessante, nostrana formazione esibirsi anche dal vivo: è questa infatti una band sempre molto attiva, che batte numerosissimi palchi in patria e non solo, dalla presenza scenica d’effetto, travolgente, con una certosina meticolosità nella cura del dettaglio in particolare dal punto di vista vestiario, sempre molto creativo e d’impatto. Pur essendo calcificati come unica traccia, i testi di questa spina dorsale sostengono a meraviglia uno scheletro articolato su cinque vertebre talvolta triplicemente fratturate tramite “subtitoli”. Sarete accompagnati non solo da musica ma anche da campioni ambientali durante questa sonora novella: un amalgama di testi, musiche e suoni, trasmetterà forti emozioni percepibili dai cinque sensi. Voglio per una volta scordarmi dell’udito, senso troppo semplice da utilizzare in campo musicale e tra l’altro da me già troppo sfruttato in certe mie precedenti infusioni metallare. Un contributo importante, questa volta, ci viene dalla vista: le vostre macule saranno certo deliziate dalle meravigliose immagini del filmato, magnificamente realizzato, che accompagna le melodie. Inutile dire, però, che anche qui il sentiero sarebbe per me troppo facile da seguire. Voglio divertirmi a seguire un percorso molto più impervio, tipo quello di Frodo verso Monte Fato: direi che la strada giusta questa volta è quella dell’olfatto. Mi divertirò interpretando l’armonia di questa riuscita opera musicale dal punto di vista olfattivo. La immaginerò come fosse un profumo. Non solo musica nella formulazione di quest’orgasmo olfattivo. La nota di testa, che si percepisce subito, ci viene dai suoni ambientali: vi aiuteranno a calarvi nel giusto stato psicofisico. Di quali volatili molecole ci stanno nebulizzando? Un canto di Natale. Una carrozza trainata da cavalli che si muove sulla pietra bagnata e resa sdrucciolevole dalla neve fresca: ne avvertirete gli zoccoli. Forse non erano zoccoli equini ma… luciferini. Passi, passi nella neve. Il vento che soffia, sibila, sferza tagliente la neve. La sposta, crea strani disegni, sigilli degni del Liber Juratus Honorii, è Eolo, Eolo che gioca col suo mefitico alito sino ad infrangerlo incazzato sugli stipiti di una logora porta. Un portale delle tenebre che si apre e si richiude scricchiolando minacciosamente alle vostre spalle. Un portale dal quale non tornerete indietro: lasciate ogni speranza o voi ch’entrate. Lì vicino sento pure un fuoco: arde. E catene, catene trascinate nell’oscurità. La nota di cuore, percepibile nelle ore che seguono la scomparsa della nota di testa, ci arriva, in questo nostro singolare percorso olfattivo, dal growling: percepisco le singolari corde vocali di Federico come intrise del sangue di vergini sacrificali. Sangue che vedo ritmicamente gocciolare sulle corde delle due chitarre della formazione. Veloci file di ordinate gocce, come formiche operaie corrono sicure e, prima di cadere nell’oblio del vuoto più nero, percorrono le corde delle chitarre in tutta la loro lunghezza. Corde che nel mio immaginario, certo evocato dalle singolari melodie, vedo montate non su chitarre ma su di una coppia di arpe. Arpe pizzicate non da semplici dita ma dai velenosi ed affilati denti aguzzi di teste di serpe montate sul capo della mitologica Idra. Ad accompagnare queste erpetologiche plettrate troviamo la sempre precisa, simmetrica ragnatela tipica della vedova nera: così vedo perpetrata la fitta tessitura delle melodie provenienti dalla tastiera. Pressioni dei tasti certo veloci come le forbici di Edward ma al tempo stesso precise, precise come mandala tibetani. A conclusione di questa mia profumata dissertazione, la nota di fondo, ultima parte del processo profumiero che contiene gli elementi persistenti, senza alcun dubbio, in questo caso, ci viene dal basso e dalla batteria: due strumenti che quando s’incontrano, in questo particolare genere musicale, come sempre non suonano ma fanno l’amore. In questo “A Christmas Carol”, ve l’assicuro, ci danno dentro di brutto. Grande e lodevole, quindi, anche la prova di basso e batteria: tamburi di certo ricavati da pelli umane provenienti da quel particolare tipo di spregevole peccatore mammifero di nero vestito si ben descritto in una precedente traccia dei Riul Doamnei, mi riferisco a “Sodoma Convent” presente in “Fatima”. Le stesse corde del basso certo hanno la stessa origine mammifera ma questa volta si tratta di budella anziché di pelli. Come noto, di un certo tipo di animale da fattoria, non si butta mai via niente... (Rudi Remelli)

Forlorn Chambers - Unborn and Hollow

#PER CHI AMA: Death con venature epiche, Amon Amarth
Mi mancava in questo periodo qualcosa che pestasse davvero di brutto; strano però che a offrire una siffatta proposta ci sia una band finlandese. Si perché, dalla nazione dei mille laghi, sono solito aspettarmi qualcosa di estremo ma riletto in chiave psichedelica, liturgica o avantgarde. Ebbene quando ho inserito “Unborn and Hollow” nel mio lettore, demo cd di debutto dei Forlorn Chamber, sono stato investito dalla sua primordiale rabbia, con malvagie frustate di furente death metal “in your face”, che mi ha lasciato attonito. L’aggressione della opening track, nonché anche title track è portentosa, con la furia della sua ritmica tutta blast beat e schegge grind ad annichilirmi selvaggiamente, nonostante le linee di chitarra mostrino comunque una certa vena malinconia nel loro feroce incedere. “And We Hail the Ones Who Fall” offre un altro attacco brutale, al limite del grind intransigente; ma di sottofondo, non so perché, mi sembra di percepire qualcosa di epico, e non mi sbaglio quando a fare capolino ci sono degli impercettibili chorus vichinghi che quasi istantaneamente mi fanno associare la proposta dei Forlorn Chambers al mitico album di debutto degli svedesi Amon Amarth. Il sound della band di Tampere è probabilmente ancora in fase embrionale, ma lavorandoci un po’ su, sono certo che potranno uscire degli spunti interessanti da essere sviluppati. E forse, un abbozzo c’è già in “Desolate Resolution”, in cui l’attacco è completamente diverso dalle precedenti canzoni, in quanto sembra sia stato concepito in uno step successivo: molto più lento dei primi due pezzi, il growling soffocato del vocalist si staglia su una accoppiata di chitarre che avanzano minacciose, una a sorreggere una ritmica funambolica, l’altra a dedicarsi ad interessanti squarci melodici, una specie di tributo a “The Karelian Isthmus”, prima vera fatica dei connazionali Amorphis. La proposta del combo finlandese è ancora forse un po’ acerbo, ma lascia intravedere, a mio avviso, ampi margini di crescita, che potranno sfociare in suoni death dark depressive, sulla scia di Black Sun Aeon e compagnia. Da tenere sott’occhio. (Francesco Scarci)