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sabato 16 giugno 2012

Eclectika - The Last Blue Bird

# PER CHI AMA: Black/Thrash/Post Rock, Dol Ammad, Limbonic Art
Quello che ho fra le mani è forse uno dei più difficili cd che mi sia capitato di recensire, ma che comunque mi ha stupito maggiormente, per il tipo di sound proposto. “L’ultimo Uccello Azzurro”, citazione che sembra presa dal film K-Pax, è un concentrato di suoni abbastanza affascinanti, anche se poco ben amalgamati tra loro: black furioso, passaggi thrash, ambientazioni sinfoniche e parti post rock, convergono interamente nella release della band francese. A mio avviso, se si fossero curati molti particolari, questo debutto poteva essere davvero una bomba, invece molte ingenuità ed imperfezioni, sicuramente dovute all’inesperienza del trio, lo hanno relegato in secondo piano. L’album si apre con un paio di brani dal rifferama tipicamente black sul quale si staglia lo screaming selvaggio di Aurelien Pers, le growling vocals di Sebastien Regnier e si inserisce la notevole voce soprano di Alexandra Lemoine. Una forte componente tastieristica (simile ai primi lavori dei Limbonic Art) contraddistingue questo debut; arcani passaggi strumentali (“Les Arcanes du Bien-etrè” e “Asylum 835”), gotiche ambientazioni, pompose cavalcate power e discreti assoli, completano il sound della band transalpina, che ha forse avuto il solo demerito di non esser stato in grado di rendere un po’ più omogeneo questo platter, che nasce da una grande ambizione di fondo, essere originale il più possibile. Di certo poi, una scarsa produzione penalizza il suono degli strumenti, non giovando quindi, all’esito finale di “The Last Blue Bird”. Nonostante questa serie di mezzi passi falsi, in fase di produzione, a me questo lavoro non dispiace affatto, forse per il coraggio che la band mette, nel tentativo di cercare una nuova strada per uscire dal vicolo cieco, in cui il metal estremo si è cacciato. Gli Eclectika sono una band potenzialmente dal grande talento: serve solo un po’ di esperienza per fare il grande salto in avanti; ce ne fossero di band cosi coraggiose in giro, il metallo pesante ne gioverebbe enormemente! (Francesco Scarci)

(Asylum Ruins)
Voto: 65

http://eclectika.bandcamp.com/

Infection Code - Intimacy

#PER CHI AMA: Noise/Post Hardcore, Today is the Day, Godflesh
“Pensavo che l’amore fosse un sentimento che…” Così esordisce questo stralunato lavoro degli Infection Code, che ha visto addirittura la band recarsi a San Francisco per il mixaggio, la masterizzazione e la produzione di “Intimacy”, sotto la supervisione di Billy Anderson (Neurosis, Eyehategod, Brutal Truth). Il quarto lavoro dei nostri, registrato presso i Nadir Studio di Tommy Salamanca, si rivela decisamente l’album più intimista e sperimentale mai creato prima d’ora: dall’iniziale “(E)motionless” infatti, si capisce subito che tra le mani non abbiamo qualcosa di puramente convenzionale. Per chi segue la scena post hardcore, il nome che per primo può venire alla mente è quello dei Jesu, in una versione però più selvaggia, brutale e oscura. Le sonorità contenute in “Intimacy” possono ricordare i suoni sintetici dei primi Ministry, ma non solo, perché “Bleeding” mi riporta alla mente certe sonorità punk-dark tanto in voga nei primi anni ’80, una sorta di Fields of the Nephilim in acido. Le influenze dei nostri, in questa claustrofobica release, non si fermano tuttavia qui: sludge, psichedelia e industrial si fondono in questo magnetico lavoro, che sicuramente farà la gioia anche dei fans di Mastodon, degli amanti degli schizoidi ed imprevedibili Fleurety, nonché per chi adora le angoscianti atmosfere dei Neurosis. Album pazzesco, questa release degli Infection Code, che per i primi 300 fortunati aveva previsto anche in un vinile colorato. Altra chicca imperdibile è la versione claustrofobica di “Heart Shaped Box” dei Nirvana, rivista in chiave industrial/cibernetica con la voce malata di Blood a dare quel tocco di follia che non guasta, mentre una serie di sampler la rendono, nella parte finale, quasi irriconoscibile. Abbandonati gli esordi industrial death/grind, gli alessandrini Infection Code ci regalano un gran bel lavoro, speriamo solo che la gente abbia la mente abbastanza aperta per capirlo; fortemente consigliato a chi ama la sperimentazione e l’avantgarde. Pazzoidi! (Francesco Scarci)

(Beyond Productions)
Voto: 80
 

Hollow Corp. - Cloister of Radiance

# PER CHI AMA: Sludge, Cult of Luna, Isis
E in Francia andiamo a scoprire il debut degli Hollow Corp., band che propone un metalcore (a tratti), fortunatamente arricchito da una forte componente sludge ed industriale, in grado di farmi apprezzare notevolmente quest’album. L’apertura è affidata ad “Elevation” song dall’incedere dapprima veloce, che mi fa credere di trovarmi fra le mani l’ennesimo disco metalcore, ma che poi subisce un rallentamento, presagio di ciò che ci aspetta da questa intrigante release. Dalla successiva “Inferno” infatti, si capisce che il sound proposto dal combo transalpino è più orientato verso lidi sludge piuttosto che metalcore, con brani caratterizzati da lunghezze abbastanza impegnative (sui sette minuti) e da sonorità contraddistinte da un grado di saturazione dell’aria sempre più elevato: la velocità infatti non è mai considerevole, grazie anche ad atmosfere che si fanno sempre più cupe e angoscianti, con giri di chitarra schizoidi che si ripetono (in stile Meshuggah), stordendo non poco il nostro cervello. “Code” e soprattutto la successiva e lunga “Peripherals”, riescono, grazie al loro frustrante incedere monolitico e all’ingegnoso inserto di melodie industrial/psichedeliche (al limite del lisergico), a sballare letteralmente l’ascoltatore, catturandone l’attenzione e tenendone vivo l’interesse fino in fondo. Non c’è nulla di scontato in “Cloister of Radiance”, anche se alla fine si rivela un prodotto di non certa facile assimilazione. Duro da digerire, ma sicuramente di grande presa per un pubblico esigente, che ha ancora voglia di essere stupita, gli Hollow Corp. escono vittoriosi da questa loro prima prova. Da segnalare l’ottima la prova del vocalist, capace di districarsi tra il cantato in growling, screaming e clean. Hollow Corp., un nome da segnare assolutamente sul vostro taccuino! (Francesco Scarci)

(Dental Records)
Voto: 75

Tephra - A Modicum of Truth

# PER CHI AMA: Sludge, Neurosis, Mastodon, Isis, The Ocean
Chissà, forse abbiamo trovato la risposta europea al magnetico sludge statunitense: i Tephra arrivano dalla Germania con il loro suono da giorno dell’Apocalisse. L’album raccoglie 70 minuti di oscure atmosfere e sinistre melodie: “A Modicum of Truth”, partendo dalla tradizione americana, unisce ad essa, bastarde linee doom, sludge e metal. La principale influenza per il quintetto di Berlino, nato nel 2003, viene dai mostri sacri Isis e Neurosis, senza tralasciare tuttavia una forte ascendenza che gli svedesi Cult of Luna hanno avuto sui nostri. Pur certamente non brillando per originalità, la band teutonica riesce comunque ad infondere, attraverso gli undici brani ivi contenuti, tutto il proprio disagio, con dei pezzi altamente emozionali, carichi di disperazione, odio e dolore. Come già mi era successo, ascoltando le ultime fatiche dei Cult of Luna, anche qui la band sembra disegnare, con la propria musica, aspri paesaggi invernali, grazie al loro caustico sludge, reso ancora più distorto e corrosivo, dalla forte componente post-hardcore, individuabile soprattutto nelle linee vocali di Ercument Kalasar. La musica invece, nel suo altalenare di emozioni, passa da picchi di profonda depressione ad altri momenti in cui l’aria si fa cosi rarefatta che diventa quasi impossibile respirare: è il caso di “Big Black Mountain” e “Changes”, due ottimi episodi che insieme a “Until the End”, rappresentano forse al meglio il cd. Ottimo quindi, il passo avanti compiuto dall’act tedesco, rispetto al non brillantissimo esordio del 2005: sicuramente le capacità per emergere, in un territorio tutto da esplorare, ci sono, e i Tephra hanno la giusta carica per farlo… (Francesco Scarci)

(Riptide Recordings)
Voto: 70
 

giovedì 14 giugno 2012

Aquilus - Griseus

#PER CHI AMA: Black Orchestrale, Progressive, Colonne Sonore, Opeth, Morricone
Ne Obliviscaris, Germ, Woods of Desolation ed ora quest’ultimi Aquilus… potremo quasi parlare di New wave of Australian metal, una schiera di band che hanno ricevuto la pesante eredità degli ormai disciolti e fenomenali Alchemist e che portano avanti un discorso di metal assai sofisticato a 360°. Aquilus quindi nelle pagine del Pozzo a soverchiare ogni amante della musica metal, con la loro lunghissima proposta di metal emozionale, che strizza l’occhio al progressive sound degli Opeth, all’ambient di Burzum, alle colonne sonore di Ennio Morricone, senza dimenticare la musica classica dei grandi maestri dell’800. Ragazzi, Aquilus è un progetto che per la sua complessità e per i suoi significati intrinseci, non farà altro che lasciarvi a bocca aperta per le sfumature musicali in grado di emanare, e mi dà enorme gioia vedere come un’altra attenta etichetta italiana abbia potuto fare centro in un modo cosi eclatante. Bravi i ragazzi dell’ATMF Production ad aver assoldato questa one man band che risponde in realtà a Mr. Horace Rosenqvist, uomo dotato di una personalità fuori dal comune, capace di concepire una simile opera d’arte che solo con la prima eccezionale song, “Nihil”, mostra le immense doti a propria disposizione, miscelando un inizio che si barcamena tra sonorità sinfoniche e qualcosa di più estremo, prima di abbandonarsi ad una lunga epica e sontuosa parte orchestrale, da lasciare senza fiato. Sono strabiliato dalla proposta del mastermind australiano, ma la strada per giungere al termine di questa release è lunga e lastricata di splendide sorprese. Ed è cosi che si apre “Loss”, altro brano che fa delle atmosfere sognanti, il suo punto di forza, prima di cedere il passo a parti black sinfoniche, con gracchianti growling vocals, sorrette da ariose e sinuosi parti ambientali, costituite da pianoforte ed eleganti arpeggi. Un po’ più dei Dimmu Borgir più orchestrali, molto vicini alle colonne sonore dei grandi maestri del passato e del presente, più oscuri di entità estrema quali Emperor o Limbonic Art, più strazianti dei gods del death doom, quali My Dying Bride o Saturnus, gli Aquilus sbaragliano in ogni modo la concorrenza, sfoderando una prova a dir poco magistrale, fatta di suadenti melodie, ritmi da brivido, emozioni che a poco a poco scalano i miei sensi fino a raggiungere un’orgasmica vetta, che credevo fino ad oggi irraggiungibile. La successiva “Smokefall” ha tutti gli elementi per evocare il sound degli Opeth e forse nel primo minuto e mezzo, è anche quella che mi convince meno, ma niente paura perché il nostro amico Horace poi, al solito, parte per la tangente e troverà il modo di disorientarci con le sue trovate a dir poco originali. E cosi lentamente si prosegue nell’ascolto di questo lavoro assai camaleontico, che ha il pregio di evolvere brano dopo brano, scaldarmi il cuore, riempirmi di gioia, ma anche tanta malinconia come la struggente “In Lands of Ashes”. Meraviglioso. In Australia deve esserci gran fermento nell’ultimo periodo perché insieme alla Francia rappresenta la nazione che sta sfornando il maggior numero di band interessanti. Con “Latent Thistle” capisco che l’amico “aussie” si trova a proprio agio anche in frangenti più propriamente death metal; certo non pensate di trovarvi chissà che cosa in mano di estremo, tanto è sfuggevole la proposta del bravo Horace, che sguscia come un’anguilla nelle nostre mani, tanto l’eclettismo palesato anche in quest’altra song, come anche nelle successive che via via si susseguono nel corso di un lavoro che stupirà non poco gli addetti ai lavori, ma che mi sento in obbligo di suggerire a tutti gli amanti di sonorità metal, black, prog, death, neo-folk, classic, heavy, thrash, gothic, post o dark che siano… tanto tutto convoglia dentro a questo fantasmagorico lavoro che equiparo senza alcun timore, per classe, idee, originalità e mille altre sfaccettature, all’album d’esordio dei connazionali Ne Obliviscaris. Australia, ultima frontiera per il metal, la fermata è obbligatoria! (Francesco Scarci)

(ATMF)
Voto: 90
 

mercoledì 13 giugno 2012

Ea - Ea

#PER CHI AMA: Funeral Doom, Skepticism, Thergothon
Che le porte dell’inferno si aprano a voi. Benvenuti ancora una volta nel tetro antro della bestia. Gli Ea sono tornati, con quello che è il quarto capitolo della loro discografia. L’enigmatica band russa questa volta supera se stessa in fatto di numero di song e si limita a proporci una lunga suite di 47 strazianti minuti di funeral doom. Ripartendo laddove avevano lasciato con il precedente capitolo, “Au Ellai”, gli Ea (il cui nome si rifà a quello di una divinità babilonese) aprono questa nuova release con dei lugubri tocchi di pianoforte, che si rivelerà la vera anima del cd. Poi ecco i piatti ed infine il lento tribolare delle chitarre, lente, sovrane e dilanianti, prima che il vocalist soverchi con il suo orrorifico growling, il sound dei nostri. Torna la lente marcia funebre ad accompagnarmi nell’ascolto dell’omonimo capitolo degli Ea. Gli ingredienti per descriverne il sound, rimangono quelli di sempre: ritmiche oscure, estremamente malinconiche e decadenti, dal lentissimo e pesantissimo incedere, deprimente e soffocante. Dopo 13 minuti, ecco il primo squarcio di luce nel cielo plumbeo degli Ea: un riffing abbandona il desolante gelo creato fino ad ora, per infondere un po’ più di calore nella fredda notte della taiga russa, ma poi ecco poi il sound dei nostri ripiombare nuovamente negli abissi. Mi ridesto al minuto 26, quando a fare capolino è un’eterea voce femminile. La cosa inizia a farsi ancora più intrigante, l’atmosfera è ariosa, assai melodica, ma in paio di minuti il ghiaccio paralizzante di cui è intriso il sound degli Ea, freeza l’immagine, ne fa una istantanea, da cui è difficile mobilizzarsi. Le mie gambe sono come inglobate dalle sabbie mobili. Un nuovo fulmine si staglia nel buio paesaggio notturno: un assolo da panico che per due, tre minuti, blocca il battito del mio cuore. Una sorta di Pink Floyd in versione funeral, che tormenta abilmente il mio io interiore, con un dolore portato all’esasperazione totale, la cui unica soluzione è la fine di tutto. Il nulla. Se avete bisogno di abbandonarvi in una catartico flusso emozionale “Ea” è ciò che fa per voi, ma attenzione ad abusarne, vi potrebbe portare al suicidio… (Francesco Scarci)

(Solitude Productions)
Voto: 75

In My Shiver - Black Seasons

#PER CHI AMA: Black Shoegaze, Depressive Rock, Katatonia
Mi piace proprio la svolta che ha preso il metallo oscuro negli ultimi anni. Una moltitudine di band orientate verso il black o il doom, sta crescendo in tutto il mondo, portando dentro di esse il seme dello shoegaze, del post e del depressive. Di esempi ce ne sarebbero a camionate, basta cercare anche qui nel Pit. Uno di questi famigerati gruppi sono gli In My Shiver, giovine band proveniente dalle Marche, trio che, fortunatamente, ha capito come fare musica in questi dolorosi anni. Il problema (o presunto tale) è che questo disco è veramente, ma veramente figo. L'artwork progressista sembra rappresentare l'ormai irreversibile sviluppo (o decadimento?) del mondo moderno, dove non si sta tanto male e rivolgendosi ai musicisti più true che ancora fanno le foto nei boschi, pare proprio dire "Guarda che è oramai è così la vita, ed anche la musica: svegliati fuori". L'album si erge grazie a delicate melodie a tempi rallentati simili al doom tipico die primi Katatonia, affiancati a tetri tremolo picking ed efficaci cambi di tempo, i quali sfiorano il massimo della tendenza black, proposta dalla band di Camerino. Non c'è nessuna traccia così eccitante da elevarsi sopra le altre, eppure quest'opera riesce a dimostrare la sua spiccata personalità e non cadere nella monotonia, grazie ad un songwriting fresco e ricco di idee. Quasi cinquanta minuti di oscura malinconia che passano senza accorgersene. (Kent)

(Solitude And Despair Music)
Voto: 80

Shyy/... - The Path Toward Forgetfulness

#PER CHI AMA: Shoegaze, Black, Infinitas, Heretoir
Cina, Italia, Brasile. È su questa inedita asse d’alleanza, che si sviluppa il qui presente split cd, che vede i brasiliani Shyy, condividere la scena con i nostrani … (DotDotDot), sotto l’egida della sempre più presente Pest Productions, intraprendente etichetta cinese. E allora, passiamolo in rassegna questo interessante lavoro, che si vede aprire con il trittico di songs firmato dall’act sudamericano, che propone uno shoegaze di chiara derivazione francese. Soffermiamoci sicuramente su “Her, Her Landscapes” che segue la pseudo intro di “That Soul is an Empty Cue” e godiamo appieno la proposta dei nostri che, a livello melodico, sembra configurarsi come una versione un po’ più veloce dei The Cure più solari, con le vocals che seguono, nella versione più pulita, i dettami di gente come Les Discrets e Alcest, prima di cedere il passo ad uno screaming in realtà mai troppo esasperato, ma piuttosto sofferente. Folgorato. Positivamente. La proposta del combo carioca mi ha letteralmente conquistato per la squisitezza delle sue accattivanti melodie e per la sua incapacità, in senso buono ovviamente, di essere violento. Il tutto viene confermato anche con la successiva “Sobriety”, che suona però come una sorta di lunga outro, tra sonorità aliene e ripetitivi giri di chitarra; peccato però che si esaurisca cosi velocemente, senza che il sottoscritto sia in grado di dare una valutazione, a più ampio spettro, della performance della band. È il turno dei fantomatici DotDotDot, il cui trittico di song, aperto da “Ascending to the Night Sky”, si presenta con un riffing apparentemente più caotico dei colleghi, prima di assumere una propria linearità, sul cui sfondo si scontrano le vocals in duplice veste, scream e clean. È comunque il totale approccio d’improvvisazione a tenermi incollato allo stereo, in quanto, il combo italico gioca con repentini cambi di tempo, che sanno di avantgarde, ma anche di divagazioni più propriamente jazzistiche, contaminato dalla vena dark alternative dei Klimt 1918. Mi rendo conto di aver messo tanta carne al fuoco, ma la colpa, anzi il merito, non è certo mio. I tre “puntini di sospensione” non lasciano nulla al caso, non sono certo banali e, oltre ad evincerlo dall’inusuale nome della band, lo si deduce anche dalla seconda “Like Shooting Stars”, che dopo un’apertura “romantica”, si abbandona allo screaming schizoide del suo vocalist (a cui chiedo di migliorarne leggermente lo stridore), prima che i nostri, ancora una volta, si incanalino in un vortice musicale multi sfaccettato, che a livello vocale rischia addirittura di evocare lo spettro dei californiani Dredg, su uno sfondo musicale che non dà alcun punto di riferimento. Splendida traccia. Giungiamo alla conclusione di questo lavoro, affidando il tutto a “Vanishing Among Tides”, altra perla di profonda malinconia che mi spinge a saperne di più di queste due vibranti band. Peccato solo per il basso numero di tracce proposte, altrimenti sono certo che il mio voto avrebbe sfondato ampiamente il muro degli 80! (Francesco Scarci)

(Pest Productions)
Voto: 75

martedì 12 giugno 2012

AtomA - Skylight

#PER CHI AMA: Dark, Space Rock, Ewigkeit, Tiamat
Uno degli album più attesi da parte del sottoscritto, si vede finalmente materializzare nella mia collezione personale di cd, dopo un attesa durata ben otto anni da quello che fu il debutto degli svedesi Slumber, successivamente scioltisi e dalle cui ceneri, sono sorti questi AtomA, che ancora una volta, come i predecessori, mi prendono per mano e mi conducono verso un viaggio ai confini dello spazio. “Skylight” è un’altra magnifica perla nel sempre più florido panorama metal, un lavoro che apre con la bellissima intro omonima (cosa assai rara di questi tempi), che unisce trance music con musica elettronica. Poi ecco il cd, aprire ufficialmente le danze con la title track, che riprendendo il suono emozionale degli Slumber, lo amplifica enormemente in un turbine emotivo da urlo, in cui una bellissima musica mi avvinghia, mi scalda il cuore, mi fa sorridere, mi rende felice. Melodie arabesche si avviluppano ad uno space rock, che sa molto delle ultime performance degli inglese Ewigkeit, il tutto spruzzato da quel magico feeling che solo i primi Amorphis erano in grado di emanare. Tiepide growling vocals si alternano con uno splendido cantato pulito in una mistura di suoni che sono in costante crescendo emotivo. Partono dall’anima e poi su, più su toccando ad uno ad uno tutti i miei sensi, attraverso dieci splendide tracce, che tra incursioni progressive, escursioni al limite dell’EBM, reminiscenze dark dei Tiamat di “A Deeper Kind of Slumber” (“Highway”), labirintiche e disorientanti scorribande nel cyber metal, senza dimenticare i forti influssi della musica classica, psichedeliche reminiscenze dei Pink Floyd ed infine frangenti al limite dell’ambient, ci regalano un’altra pazzesca release in questa primavera infuocata. Da sottolineare, oltre alla già citata performance del vocalist, a suo completo agio, nelle porzioni pulite, da premiare anche la prova del tastierista, vero artefice di questo capolavoro. AtomA, gli alieni venuti dallo spazio infinito… (Francesco Scarci)

(Napalm Records) 
Voto: 85