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sabato 25 febbraio 2012

Exxasens - Eleven Miles

#PER CHI AMA: Post Rock Strumentale, Russian Circle, Mogway
Freschezza. Ecco la prima parola che mi viene in mente dopo aver messo il nuovo album degli spagnoli Exxasens nel mio lettore cd. Sottolineo che questa sensazione si ferma al tipo di sonorità, non alla composizione strumentale del LP. Questo forse è il più grande difetto del movimento post rock, ascolti un discreto cd che va poi puntualmente a finire in fondo allo scaffale, e difficilmente ti viene in mente di ripescarlo. Al contrario succede per quei dischi che ti segnano nel profondo e il nome dell' artista ti resta stampato sulla pelle come un tatuaggio. Ti ritrovi a cercarlo disperatamente in un particolare momento emotivo o solo perché del nuovo buon rock tarda ad arrivare. I catalani Exxasens dimostrano le loro doti nell' accuratezza del suono, in alcuni arrangiamenti, nella tecnica, ma purtroppo la linea melodica è il solito cambio malinconia-riscatto che si ripete nel classic post-rock. Alcuni riff sono veramente pregevoli, come l'attacco di "Constellation" o di "Rise up" che richiamano sonorità alla Kings of Leon e Killers dei vecchi tempi, ma a mio avviso potrebbero esplodere e crescere se non fossero stretti tra le catene degli schemi. Cavolo, l'ascoltatore, sia live che da cd, vuole anche essere sorpreso dall' evoluzione, altrimenti diventa il solito film americano dove puoi prevedere tutte le scene. Al momento non me la sento di dare più di questo, considerando che è la media di un sette per la tecnica e un cinque per la creatività/innovazione. Da risentire. (Michele Montanari)

(Aloud Music)
Voto: 60

mercoledì 22 febbraio 2012

Svanzica - Eos

#PER CHI AMA: Death Progressive, Novembre, Opeth
I veronesi Svanzica dovrebbero fare qualcosa: non è possibile dare alle stampe un album così prodotto. Occhéi, apprezzabile che abbiano fatto da soli (il disco è autoprodotto), ma non si sono accorti che la qualità è veramente pessima?! Ascoltare il CD è come guidare con certe nebbie delle mie parti nella notte: difficile e dal risultato molto incerto. Detto questo, potete immaginare come qualsiasi giudizio si possa esprimere sia già segnato. La mia impressione, ma anche quella di molti altri, è di una band alle prime armi, che ha buttato lì una caterva di spunti, alcuni peraltro neppure banali, in un crogiolo, cercando di ottenere un pozione “progressive” interessante. Ascoltandoli credo che si siano ispirati alle sonorità di gruppi come Opeth o Novembre. Il problema mi sembra nel manico, i loro limiti si sentono un po’ ovunque. Il cantato non mi convince, le melodie non funzionano come dovrebbero e le imprecisioni, purtroppo, si sentono, qua e là lungo tutto il disco. Le track sono fin troppo diverse tra loro, non c’è un filo musicale continuo che possa dare un senso alla produzione. Un lavoro alla fine noioso che mi ha lasciato molto scontento. Cosa mi sento di consigliare? Migliorarsi sicuramente da un punto di vista melodico ed esecutivo. Cercare di ridurre le idee ma di focalizzarsi di più, magari studiando uno stile personale. E poi occorre una produzione almeno decente, non è necessario averne una perfetta, ma non come questa che pare fatta nelle catacombe. Bocciati! (Alberto Merlotti)

(Self)
Voto 50
 

Chupacabras - Inciviltà

#PER CHI AMA: Crossover, Thrashcore, Sick of it All, System of a Down
I liguri Chupacabras hanno deciso di farci sapere cosa ne pensano dei nostri tempi: non ne sono particolarmente contenti. Almeno è questo che ho capito dopo il primo ascolto del disco. Visto il bello schiaffo sonoro ai miei timpani, direi di averci preso. Un lavoro adrenalinico, diretto, aggressivo, con una cattiveria piacevole e con una certa denuncia sociale. Undici tracce che sembrano frustate, le cui poche parti melodiche non ne riducono l’assalto sonoro. La musicalità è tipicamente crossover/thrashcore: riffoni roboanti, schitarrate poderose e corrosive, ritmica incalzante, suoni energici e pesanti. La voce ruvida del cantante completa alla grande il tutto. Ah, complimenti perché l’interpretazione in italiano (la nostra lingua non si presta molto a questo genere musicale, dicono...) funziona bene: i testi e il cantato si sposano come raramente mi sia capitato di sentire. Certo, alcuni passaggi non risultano subito chiari fin dal primo ascolto, colpa un po’ dell’urlato e delle velocità tipiche del genere; tuttavia se ci fate attenzione apprezzerete il loro sforzo anche a livello dei testi. Tra le song, da notare “Incubo Catodico” e “Affuoco” per le chitarre particolarmente ispirate al thrash. Più indisciplinate “God Of War” e “Maschere”, forse sono anche quelle che si fanno ricordare di più. Carino il gioco di richiamo tra la guerreggiante “Rabbia”, e la radiofonica ed eterea “Rabbia Vol. II”. È vero: questo contrasto non è immediato (a me è sfuggito ad un primo ascolto), ma una volta notato mi ha convinto appieno. Le altre canzoni non si discostano, l’insieme è coerente e continuo. Stavo per dimenticare una piccola sorpresa del CD. I nostri hanno inserito una frase di Roberto Giacobbo, tratto da “Voyager”, che parla del mitico (rullo di tamburi)... chupacabras! “Inciviltà” non verrà ricordato come molto innovativo, tuttavia c’è abbastanza personalità, bravura e carattere da far passare in secondo piano le ispirazioni presenti. Bravi. (Alberto Merlotti)

(SG Records)
Voto 75
 

domenica 19 febbraio 2012

November-7 - Angel

#PER CHI AMA: Rock Gothic, Evanescence
Formatisi nel 2005 nella vicina Svizzera, i November-7 sono una band prolifica: già prodotti tre album e un dvd, oltre al video tratto dal loro primo singolo, che dà il titolo all'album: “Angel”. Uscito nel lontano 2007, si tratta del secondo lavoro: una base metal con elementi elettronici e orchestrali, come definito anche sul loro sito ufficiale. Il singolo accennato poco sopra è anche la traccia che apre l’EP. Su una base campionata spicca la voce delicata di Annamaria Cozza, accompagnata anche da chitarre ritmiche ed elettriche, dando però una sensazione fredda e distaccata. “Two Sides” è già più sull'industrial metal, più incisiva. Le tastiere e i suoi campionati creano la base del brano, con le chitarre che martellano incessantemente e creano un bel riff che cattura l'attenzione e permane nella mente. “Falling Down” è di tutt'altra pasta: malinconica, con la presenza di suoni di pianoforte e una voce modulata all'inizio, grintosa poi, con una parvenza di suoni orchestrali in sottofondo. “All the Things” gioca molto sulle estremità: da un lato pacata e rilassante, dall'altra forte e veloce. Come per il brano precedente, anche qui si possono sentire, molto vagamente, dei suoni orchestrali: la differenza è che qui il ritmo varia spesso di velocità, passando dal lento al veloce senza mai tralasciare le chitarre e la voce dolce, ma a mio avviso poco incisiva: non coinvolge appieno l'ascoltatore, come succede con la parte strumentale. La versione editata e accorciata ideale per la messa in onda in radio chiude l'album: a mio avviso, un lavoro che mi lascia la bocca asciutta. Come detto, la voce di Annamaria non mi sembra adatta per questo genere: troppo fredda, persino nelle parti sussurrate non stimola alcuna sensazione. La parte strumentale ha una sua energia, è persino piacevole da ascoltare: l'unica nota “stonata” continua ad essere la tonalità della vocalis, che fa perdere punti alla band. Speriamo nel nuovo album, magari più coinvolgente e sensazionale. (Samantha Pigozzo)

(Dark Essence Records)
Voto: 60

Emil Bulls - The Black Path

#PER CHI AMA: Metalcore, Killswitch Engage

Dalla Germania ecco arrivare la new sensation in ambito metalcore. Si tratta questa volta di una giovane band alle prime armi che comunque, in questo “The Black Path”, mostra già tutte le proprie buone potenzialità. La musica dicevamo, fortemente influenzata dalle sonorità americane, imbocca una propria strada, cercando di prendere le distanze dal metalcore statunitense dei vari Shadows Fall, Killswitch Engage o dalle creature più hardcore Hatebreed e Unheart. Non male, non male davvero la proposta del combo teutonico, questo perchè i nostri sono abili nel miscelare partiture tipicamente “core” ad altre più rock oriented, grazie sicuramente alle vocals di Christoph von Freydorf, abile nel passare dal classico scream vetriolico a clean vocals che potrebbero ricordare quelle dei Radiohead. La musica, proprio adattandosi a questo alternarsi bivalente del vocalist, passa da momenti tempestosi tipici del metalcore a passaggi molto più interessanti, in cui è un sound più rallentato, oscuro e ritmato a dettare i tempi. 14 songs che presentano come minimo comun denominatore dei riff di chitarra possenti, ma al di là di alcune sfuriate hardcore, sono le “ruffiane” melodie emo a tener banco e a conquistare l'ascoltatore. Per concludere, pur non trattandosi di un capolavoro, “The Black Path” ha il coraggio di andare oltre alle solite cose uscite in ambito metalcore. Promossi a pienissimi voti! (Francesco Scarci)

(Drakkar Records)
Voto: 70
 

Hekate - Goddess

#PER CHI AMA: Folk, Medieval
Dopo la pubblicazione del 2003 della raccolta “Ten Years of Endurance” e dopo un silenzio durato tre anni dall'uscita del precedente album (“Sonnentanz”), torna la formazione tedesca degli Hekate con “Goddess”, contenente undici brani che si ispirano ai miti e alle leggende d'Europa. Devo ammettere che, prima di ascoltare l'album, conoscevo gli Hekate solo di nome e "di presenza", avendo avuto l'occasione di vederli suonare dal vivo per Allerseelen, ma ora li annovero fra quelle piacevoli scoperte che da un po' di tempo a questa parte caratterizzano i miei ascolti e che comprendono, in ambito folk, anche Derniere Volonte e Tenhi, con i quali, tuttavia, condividono solo l'appartenenza al genere, avendo infatti gli Hekate un sound molto diverso da quello delle due band citate. Dicevo che i pezzi traggono ispirazione da mitologie legate al vecchio continente e, infatti, troviamo la leggenda della Fata Morgana tratta dalla mitologia celtica nel brano d'apertura “Morgan le Fay”, la leggenda di Grail che coinvolge i Catari del Castello di Montségur in Francia in “Montségur”, il mito germanico di Barbarossa e del Kyffhaeuser in “Barbarossa”, la leggenda dell'Europa basata sulle tradizioni Cretese e Miceana in “Europa”, la danza del toro tratta dalla cultura Minoica in “Dance of Taurus”, la storia di Spagna e influenze culturali dei Mori in “Maure”. Inoltre, vi sono richiami alla lotta per l'amore che unisce tutti i popoli in “Flammenlied” e “Ocean Blue”. Da un punto di vista prettamente musicale, “Goddess” può essere descritto come l'unione di sonorità folk con melodie medievali, accompagnate da una massiccia base di percussioni che infondono nei brani una forte energia dal sapore ritualistico e atmosfere magiche di impronta pagana. Bastano le prime note del brano di apertura, “Morgan le Fay”, per essere proiettati in un altro tempo e iniziare così un viaggio attraverso le culture e le tradizioni descritte superbamente dagli Hekate con la loro musica. I due elementi più caratteristici di questo progetto, ovvero le instancabili percussioni che accompagnano ogni brano e la voce di Susanne Grosche (a volte sostituita da quella di Axel Menz), sono anche quelli che più si apprezzano e che emozionano maggiormente durante l'ascolto dell'album. L'aura romantica e nostalgica di alcuni pezzi (“Morgan le Fay”, “Montségur”, “Barbarossa”) unita ad arrangiamenti moderni, a volte elettronici (“Flammenlied”, “Break the Silence”), a volte pop (“Dance of Taurus”, “Maure”), o ad atmosfere epiche (“Morituri te Salutant”, “Lord of Heaven”, “Europa”) rendono “Goddess” ancor più caratteristico e dalle sfumature sonore ed emotive variegate. Per i collezionisti e gli appassionati, il cd è uscito anche in una versione in digipack contenente un secondo disco che riporta tracce degli Hekate remixate da Arcana, Ordo Rosarius Equilibrio, Flatline, Sieben, Chorea Minor e Gae Bolg and the Church of Fand. Consiglio a tutti di non perdere questo lavoro, qualsiasi sia la versione che vorrete fare vostra. (Laura Dentico)

(Auerbach Tonträger)
Voto: 75

Gardenjia - Ievads

#PER CHI AMA: Djent, Meshuggah, Vildjartha
Finalmente anche l’Italia mostra i primi segni di contaminazione djent e ne abbiamo la prova con i brindisini Gardenjia, che hanno rilasciato da poco questo EP di quattro pezzi, tra i quali vi è contenuta anche la cover degli Heroes del Silencio, “Entre dos Tierras”. Il cd si apre con la traccia omonima e i nostri baldi giovani mostrano da subito i muscoli attaccando con una intricatissima ritmica da paura, in pieno stile “Meshugghiano”: tempi dispari, chitarre polifoniche super distorte, stop’n go palpitanti, atmosfere claustrofobiche e la voce al vetriolo (ma anche pulita) di Raffaele Galasso; pazzesche linee di chitarra e assoli schizofrenici completano il quadro, da fine del mondo della prima monumentale traccia. Signori, cha band esplosiva ho tra le me mani. Attacca “A Beast Called Man” e accanto alle influenze di scuola scandinava, costantemente corredate da un’ottima tecnica individuale, di cui voglio esaltare l’eccellente prova fantasiosa del drummer Antonio Martire, trovano spazio anche divagazioni in territori un po’ più progressivi, pur mantenendo comunque un lacerante e al contempo malinconico substrato musicale. “Stones as Dry Leaves” apre ancora con la delicata irruenza di matrice djent; mi vengono in mente i Vildjartha più rilassati e gli Uneven Structures più ipnotici, due band che lo scorso anno mi hanno fatto venire le vertigini, e se posso essere sincero, i Gardenjia non sono poi cosi tanto lontani dalle performance dei colleghi nord-europei, anzi vorrei sottolineare la capacità del trio pugliese di spingersi oltre, con schegge contaminate dal crossoverizzato sound degli ultimi Cynic, spaziali. A chiudere il cd ci pensa l’inopportuna cover degli Heroes del Silencio, che mi lascia un po’ cosi, perplesso: sicuramente l’ho fischiettata piacevolmente poiché erano anni che non la sentivo, ma sinceramente non capisco il motivo di includere questa song all’interno dell'EP. A parte questo, ora mi aspetto il rilascio di un full lenght vero e proprio in modo tale che quel 75 là sotto, possa schizzare un po’ più in alto… (Francesco Scarci)

sabato 18 febbraio 2012

Handful of Hate - Vicecrown

#PER CHI AMA: Swedish Black Metal, Marduk, Dark Funeral
Dopo dieci anni di vita e dieci anni di onesta militanza tra le frange più estreme dell'underground metal, con “Vicecrown” gli Handful of Hate raggiunsero il traguardo del terzo full-length e sotto l'ala protettrice della Code666 pubblicarono quello che secondo il mio parere è il loro disco migliore. Durante gli anni Nicola Bianchi ha mantenuto in vita in maniera caparbia e coraggiosa un progetto che fin dagli inizi ha affondato le proprie radici nell'intransigenza sonora del black metal, mantenendo nel contempo una fiera autonomia di pensiero che all'interno della scena estrema lo ha reso estraneo sia alle tentazioni verso la blasfemia grossolana, sia alle arie altezzose e fintamente erudite di tanti improvvisati opinionisti dell'occulto. Ad accompagnare la musica degli Handful of Hate è invece un substrato culturale credibile e serio, un punto di forza che ha sempre coinciso con altre due qualità fondamentali che vanno attribuite al gruppo toscano: una grande coerenza ed un'umiltà comune a pochissimi altri nomi italiani. Riguardo al lato strettamente musicale va detto che la band si è sempre dichiarata in qualche modo debitrice del black metal di matrice svedese, ma con “Vicecrown” è evidente come il suono di Dark Funeral e Marduk sia stato assimilato talmente bene da ottenerne una piena padronanza, tanto da riuscire a creare qualcosa di nettamente più coinvolgente di quanto stiano proponendo oggi le due navigate formazioni scandinave. Rispetto ai primi due album, “Qliphotic Supremacy” e “Hierarchy”, il salto qualitativo compiuto è dunque notevole, non solo per il superbo lavoro di produzione che finalmente rende giustizia alle capacità tecniche dei musicisti, ma soprattutto per la validità dei nove brani, che stavolta riescono a fare male sul serio! Quello dell'opener “I Hate” è un assalto frontale senza compromessi, una spietata affermazione di supremazia e di cieca determinazione che apre il varco alla furia di “Beating Violence” e “Risen into Abuse”, le quali si susseguono in un'incessante manifestazione di violenza che a tratti potrà risultare difficile da sostenere per chi non possiede orecchie ben allenate. Urla laceranti e paurosamente glaciali sono accompagnate da una sezione ritmica precisa e devastante che nei rari momenti di tregua concessi non perde nulla della sua intensità e contribuisce, anzi, a rendere ancor più equilibrato il suono, aiutando a sottolineare la monolitica pesantezza dei riff di chitarra più lenti (come in “Boldly Erected” e “Hierarch in Lust”). Persino nei momenti più tirati, quando gli strumenti vengono spinti a folle velocità, la band mantiene un invidiabile controllo sull'esecuzione, dando vita ad un magma sonoro compatto e distruttivo che vede costantemente in primo piano l'enorme lavoro di chitarre, le assolute protagoniste dell'intero lavoro. Per chi non è avvezzo a certe sonorità è indubbio che la pesante omogeneità dei brani potrà rendere “Vicecrown” un'opera ostica da digerire e questo è l'unico neo che penso si possa individuare in un album comunque ottimo, che resta destinato principalmente a chi ricerca nella violenza e nella velocità - non certo nell'intrattenimento - il pane per i propri denti. (Roberto Alba)

(Code 666)
Voto: 75
 

Mercenary - Architect of Lies

# PER CHI AMA: Death/Heavy, In Flames, Nevermore, Gardenian
A me i danesi Mercenary, sinceramente sono sempre piaciuti, per quella loro capacità di essere incazzati e melodici al tempo stesso. “Architect of Lies”, che segue di un paio d'anni il forse fin troppo melodico “The Hours that Remain” (vincitore del Danish Metal Award come miglior album dell'anno), conferma il buono stato di salute del sestetto scandinavo, che dopo un lungo tour europeo, si è chiuso in studio per diversi mesi, per partorire questo valido come back, il quinto per i nostri. Dieci tracce per più di cinquanta minuti di musica brillante, ben suonata, che riprende l'ardore più selvaggio delle prime release, ben bilanciandolo con la spiccata melodia e gli elementi catcy del precedente lavoro. Forte è l'influenza dello swedish death più melodico e grooveggiante (gli ultimi In Flames e Soilwork), ma pure il thrash made in USA (a la Nevermore) trova spazio nel sound dei nostri. Il six-piece danese, si dimostra comunque assai maturo: ottimo il song writing, buone le sonorità che miscelano un death ben strutturato, al tempo stesso assai melodico e accattivante con partiture quasi rock'n roll, frutto del dualismo creato dai due vocalist, René in versione growl e Mikkel dall'impostazione squisitamente rock. Credo proprio che questa apertura, che già era stata apprezzata in passato, apra ulteriormente i confini della musica dei Mercenary anche a chi non ha le orecchie abituate al death metal. “Architect of Lies” si conferma lavoro solido e interessante, destinato ad una fetta di pubblico assai vasta. (Francesco Scarci)

(Century Media)
Voto: 75
 

venerdì 17 febbraio 2012

Warbringer - War Without End

#PER CHI AMA: Thrash Old School, Exodus, Testament, Over Kill
La musica estrema segue dei cicli ben precisi: iniziò il thrash, poi il death, il black e ora dopo quasi vent'anni si è ripreso a fare nuovamente thrash metal come negli anni '80. Sinceramente non so se questo sia un fatto positivo, più che altro perchè secondo me è indice di totale mancanza di idee, in un genere per cui è già stato detto tutto. E così i californiani Warbringer con il debut “Guerra Senza Fine”, mi domando che bella figura avrebbe fatto sugli scaffali vent'anni fa, al fianco di “The Legacy” dei Testament, “Under the Influence” degli Over Kill o “Bonded by Blood” degli Exodus, tanto per citarne alcuni. La musica infatti del quintetto di Los Angeles è un concentrato di quelle sonorità che andavano di moda in quei tempi: chitarrone pesanti (stile Over Kill), vocals urlate, coretti alla Anthrax, vetriolici e anacronistici (e questo lo giudico un pregio per questo album) assoli alla Slayer e il gioco è fatto: l'album è praticamente confezionato per quei giovani che, purtroppo per loro, non hanno vissuto i favolosi anni '80. Da segnalare alla fine la classica ghost track da un paio di minuti...(Francesco Scarci)

(Century Media)
Voto: 60

giovedì 16 febbraio 2012

Fading Waves - The Sense of Space

#PER CHI AMA: Post Metal
Ormai dovremo diventare reviewer ufficiali della Slow Burn Records vista la mole di materiale che ci spediscono ogni mese. Ma diciamo grazie invece che esistono ancora etichette coraggiose che cercano nelle cantine marce e buie dell' underground... Questa volta è il turno dei Fading Waves, o meglio, di Fading Waves, visto che è un progetto post-metal solista dalla madre Russia. "The Sense Of Space" è un EP di cinque pezzi che ripercorre il classicismo del post-rock, così com'è nato qualche hanno fa e che qui viene ripreso sia nella struttura che nelle scelte sonore. Elemento che tesse la trama di tutti i pezzi è la chitarra, anche se viene fatto un buon uso di basso e la batteria assolve con merito il suo ruolo ritmico. Dopo la breve intro, passiamo al secondo pezzo "Flashes" dalla struttura scontata negli arpeggi che diventano distorti verso la fine, mantenendo l'armonia costante per tutti i nove minuti. L'utilizzo di delay e reverb è d'obbligo per soddisfare i requisiti post. Per questa traccia è stata chiamata una vocalist dalla voce eterea che si sposa perfettamente con l' atmosfera sfuggente iniziale. "Perforate the Sky" viene invece interpretata dal one man band che sta dietro a questo progetto, dotato di un growl di tutto rispetto, dosato al punto giusto e all'unisono con le esplosioni strumentali. Le classiche pause e i ritorni alle ritmiche lente iniziali completano il quadro "classico", la vera grande pecca di questo album. Se arrivi primo crei un nuovo genere, se arrivi secondo ti sei ispirato, se arrivi terzo hai copiato spudoratamente. Mettiamola così, questo "The Sense Of Space" era una prova generale per mostrare le potenzialità, ora attendiamo il prossimo lavoro. NB: Fading Waves sta cercando vocalist per la prossima sessione in studio di registrazione, quindi se vi avvicinate ai Katatonia e Tesseract come stile e timbro, fatevi avanti! (Michele Montanari)

(Slow Burn Records)
Voto: 65

Acheode - Anxiety

#PER CHI AMA: Brutal Techno Death
Ognuno di noi, per quanto gli sia possibile, si sforza giorno dopo giorno di essere tranquillo, educato e gentile. Prima o poi però, è inevitabile, bisogna fare i conti con qualche momento di pura incazzatura. Tali momenti possono certo dipendere da noi, ma anche no. In un caso o nell'altro c’è da farsela passare, giusto? E' necessario venirne fuori. Ma come? Fermi lì, tranquilli, non state ad lambiccarvi troppo le meningi, qualcun'altro ci ha già pensato per voi! Non dovrete far altro che ascoltare. Si as-col-ta-re. Si tratta di un modo sicuro, veloce, senza effetti collaterali(?) Da assaporare in qualsivoglia quantità. Una magica valvola di sfogo che potrete aprire in ogni momento, al bisogno. Sto parlando degli Acheode, affiliati del sempre più nutrito esercito Kreative Klan e precisamente del loro full lenght, "Anxiety". Energia allo stato puro, un botto nucleare più potente dello spread che vi scardinerà piacevolmente le membra fino a ribaltarvele tutte ma senza alcun fall-out radioattivo. Fin dal primo istante, credetemi, vi entusiasmerà oppure no, lo capirete oppure no, in un caso o nell'altro, non avrete dubbi. Io ne sono uscito indenne e sicuramente entusiasta, di certo arricchito e pure annichilito. La cover, rivelatrice del concept di questo full lenght, ci propone un vecchio che viene strangolato dal cordone ombelicale di un feto: una sorta di rivalsa della vita sulla morte, quindi. Il sound che le nostre cinque colonne d'Ercole tutte italiane ci propongono è così incazzato che non esiste un adeguato aggettivo per definirne l'aggressività. La cattiveria ci è subito servita a piene mani, senza paura d'imbrattarsene, ma anzi con gioia di farlo, con "Parasitic Gangrene", prima track, e non si cheta se non sul finire dell'ultima song "Anxiety". Colonna vertebrale che sostiene tutto il disco e non lo fa mai cadere nella banalità, è l'estrema velocità con la quale ogni singola traccia viene eseguita. Einstein, che di velocità ne sapeva, nella sua teoria della relatività aveva posto un limite preciso a questo parametro: quella della luce. C'è però da dire, a suo favore, che al tempo, gli Acheode non esistevano. Loro infatti, infrangono questo limite, sfruttano una sorta di NOS relativistico che gli permette di spingersi in una sorta di al di là. La batteria sembra suonata da più di due braccia. Ne servirebbero, a mio parere, almeno quattro: che il batterista sia la reincarnazione di qualche antica divinità induista? Di certo è un Dio, le sue pelli devono derivare dalle pergamene del "Codex gigas" la "Bibbia del diavolo", per non uscire distrutte dopo ogni singolo passaggio. Mi sa che se andassimo a controllare, presso la biblioteca reale di Stoccolma, dove il Codex è gelosamente custodito, scopriremmo dove siano finite le pagine mancanti: nei toms e rullante di Filippo Vanoni. Per le chitarre vale la stessa regola: mi sa che anche stando lì vicino, concentrati, a guardare, non riusciremmo a distinguere colore e forma del plettro dalla velocità alla quale si muove. Resteremmo invece di sicuro imbrattati dal sangue dei polpastrelli che scivolano sui tasti restandone corrosi. Forse siamo di fronte ad un estremo quanto raro caso di polidattilia? Direi che con tre dita in più per mano forse (e dico forse) la cosa è fattibile. Spero infine nella clemenza di Marco De Martino, abilissimo e valido cantante del gruppo. Quando diventerà padre o se magari lo è già, non mi è dato saperlo, che stia bene attento a non usarla per canticchiare ninne nanne per i suoi bambini. L’effetto sarebbe devastante: comincerebbero a scendere le scale come la bambina de "l'Esorcista" e sicuramente parlerebbero l’aramaico. Promotori della fine del mondo, bravi! (Rudi Remelli)

(Kreative Klan Records)
Voto: 80