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giovedì 30 giugno 2011

Shadowdances - Misery Loves My Company

#PER CHI AMA: Gothic, Prog, Dark, Autumnblaze, Riverside
Quanto adoro le band provenienti dai paesi baltici (Lettonia, Lituania ed Estonia), non so per quale arcano motivo, ma la loro musica ha sempre qualcosa di magico nelle proprie note. Non sono da meno quindi neppure i lituani Shadowdances che mi trovo qui oggi a recensire con questo lavoro autoprodotto di ben 13 pezzi. La musica di Joudas (cantante e batterista) e compagni, è un mix di gothic dark dalle fini atmosfere e dalle profonde emozioni. È un peccato che pochi si siano accorti di questa band, che ci tengo a dirlo esiste fin dal 1994. La musica del quintetto baltico si può descrivere con i colori tenui e aranciati dell’autunno, con quelle sue melliflue atmosfere contrapposte all’incedere rockeggiante delle linee di chitarra. Mi piace, mi piace davvero la proposta del combo lituano, perché produce intime suggestioni durante il suo ascolto, forse perché amo immergermi in malinconici flussi musicali e lasciarmi turbare l’animo dalla potenza della musica. E per chi come me ama abbandonarsi in questo genere di suoni, rimarrà sicuramente vittima del fascinoso sound degli Shadowdances. “I Crawl”, “The Girl” e la successiva “Autumn Haze” sono tre splendidi pezzi che richiamano gli esordi degli austriaci Autumnblaze, aggiungendo però quel pizzico di poesia, che ribadisco solo i gruppi provenienti da quei luoghi, sono in grado di conferire alla musica. Musica elegante, raffinata creata e suonata da ottimi musicisti: “Misery Loves My Company” è un intenso viaggio nelle profondità dell’animo umano, carico di disperazione, angoscia e paura. La parte centrale del cd si rivela ancora più struggente, con le forti malinconiche linee vocali di Juodas a dominare la scena e oscure ambientazioni a far sembrare la musica dei nostri nuvole cariche di pioggia pronte a scrosciare in pesanti ed interminabili piogge. Desolanti, nostalgici e inquieti, gli Shadowdances potrebbero rappresentare il perfetto connubio tra gli Anathema di “Eternity” e i Riverside degli esordi. Che dire di più di questo meraviglioso disco? Speriamo solo che la fortuna possa aiutare gli audaci e qui di audacia ce n’è parecchia… (Francesco Scarci)

(Self)
Voto: 75

Necrophagia - Harvest Ritual Volume I

#PER CHI AMA: Black/Thrash dalle tinte horror
Signore e signori, il teatro dell’orrore riapre i battenti con questa opera dei Necrophagia ormai datata 2005. Per chi non li conoscesse, i Necrophagia sono uno dei gruppi più longevi della scena metal: formatisi per mano di Killjoy nel 1983, per emulare le gesta dei Venom, esordiscono nel 1987 con “Season of the Dead” con un album estremo e malato. La band poi si scioglie, ma nel 1994 Phil Anselmo (cantante dei Pantera, all’epoca) propone a Killjoy di scrivere un nuovo lavoro: ne esce “Holocausto de la morte”... la creatura Necrophagia riprende a vivere con un nuovo orrorifico sound... il resto della storia la conoscete tutti... Dopo “The Divine Art of Torture” del 2003, ritorna sulla scena il sestetto statunitense con un nuovo e perverso album, “Harvest Ritual Volume I“, titolo che lascia presagire l’arrivo anche di un “Volume II”. L’impianto sonoro di questa nuova fatica, rimane il tipico black/thrash che ha contraddistinto i passati lavori della band, su cui si instaurano le corrosive e malate vocals di Killjoy e le spettrali tastiere di Mirai Kawashima (preso in prestito dai giapponesi Sigh) che conferiscono quel caratteristico e fascinoso aspetto lugubre ai Necrophagia, con forti richiami al cinema horror di Lucio Fulci (maestro italiano dell’horror mondiale). Le 10 song che costituiscono questo lavoro, sono come sempre tutt’altro che rassicuranti: campionamenti horror, riff granitici e voci malvagie catalizzano l'attenzione degli ascoltatori. Vi segnalo le tracks che più mi hanno colpito: la bellissima “Unearth” caratterizzata da tastiere orientaleggianti e pesantemente influenzate dal grande Claudio Simonetti, e “London 13 Demon Street” in cui a farla da padrone sono sempre le keys cupe e sinistre di Mirai, ma dove fa la sua comparsa anche una tenebrosa voce femminile. Rispetto ai passati lavori, questo nuovo “Harvest Ritual Vol. I” potrebbe mostrarvi (ma non lasciatevi ingannare) il lato più melodico e maturo della band di Killjoy e Phil Anselmo, quasi a voler scrollarsi di dosso l’etichetta di gruppo da serie B. Affascinanti... (Francesco Scarci) 
 
(Season of Mist)
Voto: 75

mercoledì 29 giugno 2011

Autumnblaze - Words are not What They Seem

#PER CHI AMA: Dark, Rock, Gothic, ultimi Anathema
La malinconia è un tratto distintivo che ha accompagnato gli Autumnblaze fin dai loro esordi. La band tedesca ha sempre fatto delle emozioni più grigie un'imprescindibile fonte d'ispirazione, attingendovi con sapiente moderazione, ma dimostrandosi oltremodo incurante dei potenziali benefici che un approccio meno rigido alla composizione avrebbe portato con sé. "Words are not What They Seem" rappresenta quasi un album di passaggio per il gruppo, decisosi finalmente a spostare l'accento umorale delle proprie canzoni su sfumature di colore ben più accese rispetto ai lavori precedenti. Pesanti pennellate di nero rimangono la base con la quale gli Autumnblaze amano dipingere la propria tela, ma brani come "Barefoot on Sunrays", "Heaven" o "I'm Drifting" vengono colmate da un'inedita lucentezza espressiva, evidenziando la volontà di aprirsi a nuove frontiere musicali. Appare quasi obbligato il paragone con gli Anathema, vista la comune tipologia di fan che entrambe le band sono solite raccogliere. Chi ha saputo apprezzare le recenti evoluzioni della band di Liverpool, non avrà difficoltà a ritrovare anche negli Autumnblaze delle qualità consone al proprio modo di intendere il rock, anche se il percorso seguito dal gruppo tedesco sembra comunque dirigersi verso sonorità più sanguigne rispetto a quanto proposto dagli Anathema. Eppure la classe è la stessa, come la predilezione per certe atmosfere intime e il tocco "floydiano" con cui vengono sottolineati alcuni passaggi di chitarra (si ascolti ad esempio l'onirica "Blue Star"). Particolarmente suggestiva l'interpretazione di "Falling", che i più attenti riconosceranno come il tema musicale di "Twin Peaks". E la rivisitazione in chiave rock del brano di Angelo Badalamenti non è l'unico riferimento al celeberrimo sceneggiato: in realtà, "Words are not What They Seem" è un concentrato di continui rimandi alla serie televisiva di David Lynch, dal titolo dell'album fino alle scelte grafiche di copertina (opera di Niklas Sundin dei Dark Tranquillity). Se nella tracklist dovessi proprio trovare un punto debole, potrei citare la stucchevole "Message from Nowhere", ma si tratterebbe, in fin dei conti, di una puntualizzazione superflua, che nulla toglierebbe al valore di un album eccellente. Un album la cui bellezza cresce con il tempo, svelando qualcosa di nuovo ad ogni ascolto. (Roberto Alba)

(Prophecy Productions)
Voto: 80

sabato 25 giugno 2011

Mustywig - Knowledge of Another Sun

#PER CHI AMA: Dark, Indie, Alternative, Sludge
Incredibile quanto, suoni provenienti da altri generi musicali stiano contagiando violentemente le band metal, dando quindi la possibilità a noi ascoltatori di esplorare nuovi orizzonti musicali, provare nuove emozioni e soprattutto annoiarci un po’ meno. Una delle band che risente di queste contaminazioni è sicuramente quella dei napoletani Mustywig, che rilasciano "Knowledge of Another Sun" dopo qualche EPs e un paio di album che hanno permesso ai nostri di farsi conoscere all’estero, soprattutto negli Stati Uniti. Proprio dalle sconfinate praterie statunitensi derivano le maggiori influenze per la band campana, che pescando dalla scena indie rock americana ha concepito questo platter ricco di contenuti interessanti e di pregevoli spunti. Diciamo che l’album poggia su una solida base punk rock, figlia della generazione maledetta di fine anni ’70, infarcita poi dagli elementi più disparati: lungo le note di questa release è tanto facile imbattersi infatti in cavalcate heavy metal dal vago sapore ottantiano, quanto in sprazzi di elettronica o musica pop. Ma non solo, altrimenti questa descrizione sarebbe assai riduttiva per il quintetto partenopeo, che invece è stato in grado di miscelare tra loro con una certa disinvoltura, una serie di elementi in realtà di difficile incastro. Forti dell'ex Disciplinatha, Cristiano Santini, personaggio assai carismatico e dalla voce assai versatile, i Mustywig ci offrono 12 ottimi brani dove se ne sentono di tutti i colori: si passa dalla darkeggiante “Au Revoir” alla metallica “Shade-grown Future”, passando attraverso tempeste elettroniche cariche di influenze in stile ultimi Radiohead. Delicati frangenti ambient si frappongono a scatenate sonorità al limite dell’hardcore o dello sludge, con trip psichedelici sempre pronti a condurci nella dimensione malata e psicotica del mondo dei Mustywig, band di cui non conoscevo assolutamente nulla ma che si è mostrata la vera rivelazione della mia estate. Coraggiosi! (Francesco Scarci)

(Black Fading Records)
Voto: 75

Zifir - Protest Against Humanity - English

#FOR FANS OF: Black mid-tempo, early Nachtmystium, Burzum
Here's an album that you feel compelled to listen in full, a one-way trip to face alone through nine dying stations of pure hypnotic sound. It's not a far-fetched metaphor. The whole work is really designed as a journey through the darkest (and pure) places of the soul. It starts with an instrumental, slow and emotional intro, changed to a permanent abandonment of innocence places to soak slowly into a more hostile, bitter and biting sound. The "mosquito" guitars is the real ruler of this universe of sound. They permeate every tone with the same frequency with which they penetrate into the brain of the listener. They buzzing indiscriminately in slow and fast, violent and melancholy steps, at times recalling the early Nachtmystium, identically doped by this swarming omnipresence. Zifir absorb elements from many black metal bands (I affectionately call this spiritual slow black), able, however, to experiment and create an interesting work, demonstrating skills and professionalism in the composition of the tracks, which, while proposing an hypnotic background, do not show never repetitive. I do believe that it is necessary to have an early knowledge of this type of metal, otherwise it is impossible to fully appreciate it and are payable only a bunch of instruments and suffering voices. The result is something else. These bands create synergy and you can not say, "Hey, listen to this refrain". The refrain is not there, don't exist. Each song must be heard in full in its evolution. Only thus you can understand, for example, because the slower and pseudo instrumental tracks are "Uncertain", "The Poison From My Veins" and "Goat's Throne", respectively the first, fifth and last. "Goat's Throne", in particular, is a summary of the soul of the album. Eight minutes of inhospitality, where browsing gothic keyboards, clean vocals alternated with screaming and laments in Burzum's style. The only flaw, from my little point of view, the title of the album, which fortunately does not have a title track. There can not be a protest against humanity, if this same work start from the denial of what human society entails. Just as every work of art of mankind, whatever is the message intends to convey, would have no reason to exist if that meant not being transmitted. I greatly appreciate the quality of this music, but the too much extremes of lyirics at times seems superficial and stereotypical. This does not mean the quality of an album like "Protest Against Humanity", and that it embodies: a wild, carnal epiphany. All on the rise. (Damiano Benato - Translation by Zifir)

(Kunsthauch)
Voto: 80

Hexvessel - Dawnbearer

#PER CHI AMA: Folk, Avantgarde, Code, Virus, Beyond Dawn
Chi già possiede familiarità con il cosiddetto metal d’avanguardia, non tarderà a riconoscere il protagonista di questo insolito progetto artistico, in cui convivono folclore, rock acustico e musica rituale. Voce e mente degli Hexvessel appartengono infatti a Mathew Joseph McNerney, meglio conosciuto come Kvohst, artista poliedrico che ha già prestato i suoi servigi per band quali Code, DHG e Virus, principalmente come cantante, ma altre volte come semplice autore dei testi. Se la formazione di questo singolare talento di origini britanniche risiede principalmente nel metal, di tutt’altra matrice è il contenuto musicale di “Dawnbearer”, album che raccoglie una serie di brevi ballate dal carattere intimo, poetico ed ispirato ad una tradizione rock-psichedelica che per stessa ammissione del gruppo ritrova un’affinità stilistica con band quali Changes, Woven Hand, Espers, Midlake e Comus. Ad onor del vero, rispetto alle formazioni appena citate gli Hexvessel sembrano voler ricercare un approccio più oscuro e permeare le proprie composizioni di un’aura trascendente, coniugando il lirismo occulto delle parti vocali ad arpeggi di chitarra acustica che paiono aver trovato l’ispirazione dal diretto contatto con la foresta e i suoi segreti più nascosti. In “Dawnbearer” arde un fuoco arcano e non è solo la chitarra a creare un’atmosfera così suggestiva, perché Kvhost è qui coadiuvato da un ensamble di musicisti che accrescono la bellezza di ogni brano con l’uso di innumerevoli strumenti tradizionali quali il dulcimer, il violino, il gong, l’armonium, la cetra, il salterio, l’arpa, il mandolino, il banjo e il bandoneon. Un’elencazione che potrà sembrare tediosa ma che può far intuire quale caleidoscopio di luci ed ombre l’album riesca a tratteggiare. Non è semplice individuare un brano che emerga in maniera particolare tra i quindici che compongono l’album, ma forse un commento particolare lo merita “The Tunnel at the End of the Light” che vede Kvhost partecipe di un mistico duetto vocale con Carl-Michael Eide (aka Czral) della progressive-rock band Virus. (Roberto Alba)

(Svart Records, 2011)
Voto: 75

Battle of Britain Memorial - The Aftermath of Your Bright Beings

#PER CHI AMA: Post Rock, Screamo, Mogway
Iniziamo questa recensione con un plauso speciale alla cover cd di "The Aftermath of Your Bright Beings" a dir poco spettacolare, con un contrasto di colori meraviglioso, dovuto anche al digipack cartonato che ne enfatizza il risultato finale. Insomma si capisce fin dal primo impatto, che la band francese è alla ricerca di qualcosa di assai raffinato. Faccio partire il cd e quello che sento, riesce a mettermi subito a mio agio, con suoni tipicamente post, che tanto vanno in voga nell’ultimo periodo. E allora ecco che mi accomodo sulla mia poltrona d’ascolto e mi faccio investire dal vortice sonoro di questo combo transalpino che si è formato solo recentemente, nel 2009 e oggi se ne esce con un prodotto degno di una band veterana. Accennavo alla loro proposta, una miscela di intimistico post metal, unito alla trasgressione dell’hardcore e la rabbia dello screamo. Dopo il benvenuto di “Welcome to Rapture” ecco le urla disumane di “Metaphysics of the Lighthouse” ad aprire il secondo pezzo, che si stagliano su un tappeto decisamente post rock: il sound che giunge alle mie orecchie infatti è assai rilassato, toccante e passionale, dove fanno capolino anche le vocals eteree di una gentil fanciulla che provano a spezzare la sgraziata ma efficace performance del vocalist Ludo. Tocchi di tamburo e piatti accompagnati da una flebile chitarra ci aprono le porte a “Those Who Hide Their Plight”, dove Ludo questa volta, si presenta in versione pulita, anche se avverto una certa forma di disagio su questo genere di tonalità, soprattutto mi sembra faccia molta più fatica quando si spinge verso un registro più alto (lo preferisco nella sua versione screamo); la song si muove in territori costantemente votati al post rock intimistico dei maestri Mogway. Ancora la batteria ad aprire una traccia, con le plettrate malinconiche della sei corde in sottofondo: è la volta di “Cum Tacent Clamant” che palesa in modo evidente la vena inquieta che permea l’intero lavoro del quartetto di Tolosa. La musica non è mai cattiva, mantenendosi costantemente su un registro pacato (nel quale la batteria gioca un ruolo chiave) e pervaso di nostalgia, grazie ad un lavoro egregio alle chitarre; ciò che finisce per incattivire la proposta del combo francese è senza ombra di dubbio la performance al vetriolo del buon Ludo, che tuttavia non infastidisce più di tanto. La creatività della band, il gusto per sonorità ricercate, capaci di scavare nell’intimo umano, le atmosfere soffuse (si ascolti la melliflua “Midnight Blue”), la genialità palesata in alcuni frangenti, ci consegnano una band dalle idee chiare, che merita la vostra attenzione. Amanti di sonorità “post” (rock, metal, hardcore, sludge) fatevi dunque sotto e date un chance ai Battle of Britain Memorial, non ne resterete delusi, parola del vostro Franz: rabbia e dolcezza si sposano alla grande nelle note di questo disco. Ah, dimenticavo la cosa più interessante: il cd è scaricabile gratuitamente al seguente sito: http://battleofbritainmemorial.bandcamp.com/album/the-aftermath-of-your-bright-beings I Battle of Britain Memorial sono assolutamente bisognosi di un vostro ascolto! (Francesco Scarci)

(Self)
Voto: 75

lunedì 20 giugno 2011

Who Dies in Siberian Slush - Bitterness of the Years that are Lost


#PER CHI AMA: Death, Funeral Doom, My Dying Bride, Anathema
Rieccoci alle prese con la Solitude Productions e immagino che ormai anche voi come me, avrete già capito che cosa potrà racchiudere, a livello musicale, questo cd dalle tinte chiaro e oscure, addirittura fin dalla sua minimalista cover completamente in bianco e nero. Avete indovinato? Si esattamente, avete risposto correttamente. I russi Who Dies In Siberian Slush propongono un decadente funeral doom. Sorpresi? Io nemmeno un po’, anzi rimango un po’ deluso perché tanto e bene si era parlato del quintetto di Mosca a proposito dei demo usciti negli ultimi anni, mentre ”Bitterness of the Years that are Lost” si presenta come un canonino album death funeral, che fa del classico riffing desolante, pesante e tipicamente doom il suo marchio di fabbrica, fin dall’iniziale”Leave Me” sino alla conclusiva title track. È chiaro (fortunatamente) che ci siano dei picchi di interesse come l’apertura della prima traccia affidata ad un malinconico pianoforte e un riffing ancora una volta preso in prestito dai primissimi lavori di My Dying Bride e Anathema, quasi ci fosse nell’ultimo periodo, il desiderio dilagante di riprendere sonorità ormai andate e riproporle fino alla disperazione. Cosi come riportato nel nome della band, “Slush” (melmoso), il sound dei nostri si presenta molto statico, monolitico nel suo incedere, anche se per spezzare quella monotonia di fondo, l’ensemble moscovita, si gioca la carta della melodia, provando a rincorrere (con poco piglio però) la proposta degli svedesi Draconian, ma li siamo già su alt(r)i livelli. La band le prova tutte per staccarsi dalla rigidità e dal grigiore della propria proposta, quasi come se si fosse accorta di averla fatta grossa e cerchi rimedio in un intermezzo acustico di un pianoforte o in quello di un arpeggio di chitarra. L’atmosfera permane cupa e tenebrosa, con un senso di disagio interiore che continua a crescere lungo i 45 minuti di questo album di debutto. La lunga title track, aperta dal sospiro del vento, ci apre a gelidi paesaggi invernali, quelli tipici della tundra siberiana, con la sezione ritmica che finalmente si gode qualche inatteso sussulto, e la voce di E.S. che si districa tra un growling animalesco e qualche parte sussurrata. ”Bitterness of the Years That Are Lost” non sarà certo un lavoro che rimarrà negli annali del genere funeral, tuttavia è un cd che gli amanti di sonorità depressive e malinconiche dovrebbero avere nella propria discografia. Infelici. (Francesco Scarci)

(Solitude Productions)
Voto: 65

domenica 19 giugno 2011

Canaan - Contro.Luce

#PER CHI AMA: Cold Wave, Colloquio, Neronoia, Monumentum
E’ un ritorno inaspettato quello dei Canaan, band italiana per la quale il termine “culto” non risulta improprio, in quanto ha coltivato fin dagli esordi del proprio cammino (incominciato nel 1996) una serie di qualità artistiche tese alla ricerca dell’unicità, dell’eleganza e dell’eccellenza compositiva, sempre e tenacemente incurante dei modesti riscontri commerciali che sono tipici della musica di genere come l’ambient e la dark-wave. In passato, con album come “Brand New Babylon” e “A Calling to Weakness”, Mauro Berchi e i suoi fidati compagni di viaggio hanno dato luce a due perle di grigio fulgore, toccando quello che ad oggi può essere riconosciuto come l’apice della loro carriera e solo con l’uscita del penultimo episodio “The Unsaid Words”, risalente al 2006, la band ha probabilmente incontrato la prima flessione creativa, consegnando alle stampe un lavoro leggermente sotto tono che ricalcava in maniera meno ispirata gli stessi umori e le stesse sfumature del suo predecessore. Congelati in un serrato silenzio per quasi cinque anni dalla pubblicazione di “The Unsaid Words”, i Canaan tornano dunque con un album inatteso, che tale può essere definito anche per una nuova linfa espressiva, densa di elementi inediti che manifestano una band rinnovata, rinvigorita da uno slancio stilistico fino ad ora inesplorato. Permane la vena “cantautorale” e poetica che ormai da tempo accompagna le composizioni del gruppo, ma è il timbro e lo stile vocale di Mauro che si avverte come profondamente diverso, forse perché meno greve e sofferto di un tempo o più semplicemente per la conquista di una piena maturità interpretativa per la quale risulta d’obbligo spendere un elogio sincero. Rimangono invece immutati gli intermezzi strumentali che come d’abitudine spezzano i brani cantati e impreziosiscono “Contro.Luce” delle consuete suggestioni etniche ed ambient-industriali. Le nubi che affollano la mente di Mauro non sono ancora del tutto dissolte, mentre il dolore e il rimpianto continuano a riaffiorare dai ricordi del passato, tuttavia si avverte un nuovo modo di affrontare le avversità, con la dignità di chi sa soffrire in silenzio, non escludendo che tenui bagliori di speranza ci portino finalmente a respirare un alito di vita. Un sorriso di una persona cara o il volto ingenuo di un bambino possono allora ridestare emozioni di conforto e tenerezza, arginando anche solo per un istante le afflizioni. Nell’ascolto di “Contro.Luce” si percepisce questa lenta rinascita e la musica si muove all’unisono con le sensazioni trasmesse dalle parole, aprendosi a soluzioni che talvolta stupiscono per la loro sinuosità e “leggerezza”. A testimonianza di questa evoluzione vi sono canzoni come “Noia” e i suoi toccanti interludi di voci femminili mediorientali, gli energici e repentini cambi di ritmo in “Terrore” e i riverberi possenti delle chitarre in “Oblio”. Altri brani ripercorrono i plumbei canoni della produzione passata, ma sempre con quella rinnovata freschezza che dona un valore aggiunto all’intera opera e suscita nell’ascoltatore una commozione autentica. Grazie Mauro, grazie Canaan. (Roberto Alba)

(Eibon Records)
Voto: 75

giovedì 16 giugno 2011

Amber Tears - The Key to December

#PER CHI AMA: Death/Doom, Anathema e My Dying Bride
Vedendo la copertina del cd degli Amber Tears, ho pensato per un attimo di avere tra le mani qualcosa di power/folk, a causa del vecchio col bastone, raffigurato sul booklet, che cammina tra la neve; non so spiegarvi per quale motivo abbia immaginato questo, ma l’immagine della cover ha suscitato in me tale infondato timore. Vedendo poi la casa discografica sul retro della custodia, la BadMoodMan Music, mi sono tranquillizzato e ho pensato che sicuramente la proposta del combo viaggerà all’interno dei confini death/doom. E in effetti non mi sono sbagliato. Dopo una inutile intro, si passa a “Gray Days Eternity” in grado di confermarci immediatamente che il sound partorito dall’act russo è realmente un death doom cadenzato, che ancora una volta si rifà ai classici del passato (Anathema e My Dying Bride su tutti); a volte mi domando dove la Solitude Production vada a scovare tutte queste band e se forse, il fossilizzarsi troppo in un unico genere, non rischi di penalizzare l’etichetta russa. A farmi passare questi brutti pensieri, ci pensa il sound degli Amber Tears, che nelle loro otto tracce, ci presentano la loro proposta che, pur puzzando di già sentito, si lascia piacevolmente ascoltare; vuoi per la presenza di strumenti etnici in alcune tracce (è forse una cornamusa quella che si sente qua e là nel disco?), forse per le intriganti melodie pagane o per gli intermezzi acustici della terza “Away from the Sun”, o ancora per la dinamicità inaspettata di un lavoro che pensavo potesse annoiarmi dopo pochi minuti, mi lascio trasportare dal piacevole (talvolta toccante) feeling che questa release è in grado di emanare. Effettivamente ho sbagliato, giudicando superficialmente. Gli Amber Tears non garantendo nulla di innovativo, ma semplicemente rileggendo, in chiave moderna, i dettami di vent’anni fa dei grandi maestri inglesi, ci offrono un prodotto di sicuro interesse, ben confezionato, e che di certo farà la gioia dei fanatici di questo genere e non solo. Forte nei solchi di "The Key to December" anche l’influenza dei danesi Saturnus, che appaiono assai spesso come fonte di ispirazione, quando ci si trova a parlare di sonorità di questo tipo. Il feeling malinconico che si respira nell’arco dell’intero lavoro è mitigato dal riffing corposo del duo di asce formato da Alexey e Dmitry. La prima metà del cd, scorre via tra echi nostalgici di suoni di metà anni novanta e ispiratissime melodie che richiamano la tradizione scozzese, quasi mi ritrovassi proiettato sulle Highlands scozzesi e attorno a me il solo verde dei prati e delle colline con il vento a sibilare nelle mie orecchie. È un senso di pace che mi godo lassù tra le nuvole che si appoggiano su quelle sinuose alture e la colonna sonora perfetta è proprio quella degli Amber Tears, che muovendosi tra death/doom e strepitosi passaggi acustici (ascoltate “Like a Silent Stream” e ditemi che ne pensate) riescono a donarmi 40 minuti di palpabili emozioni. (Francesco Scarci)

(BadMoodMan Music)
Voto: 75

martedì 14 giugno 2011

The Project Hate - Bleeding the New Apocalypse - English

#FOR FANS OF: Cyber Death, Industrial, Progressive
The fact that I have been following The Project Hate for a long time now, can be proved by the review of the old "Armageddon March Eternal" on these very own pages. I find myself here again to write about the band of Lord K. Philipson and his members, and I do it again with extreme pleasure, because it has been ten years now that for me, The Project Hate have been synonymous of high quality. And this "Bleeding the New Apocalypse" is nothing but that, but whose output has passed a bit quietly in the media (and perhaps also to the fans), and so from my part I want to give a little emphasis of this new release; I am here to give my support to one of the bands that I admire the most: I sit at my desk, I turn on the PC, insert the CD and I am off to listen the new "Bleeding the New Apocalypse," their eighth album, including the Deadmarch parentheses. Well, there must have been eleven years since the brilliant debut of the Scandinavian act, but the sound is not at all changed since then, and this is not intended as a criticism of the four member band, in fact I would like to reward their coherence and consistency in the passing of the years. The background sound system is still that of the seminal Swedish death (Grave and Dismember), in which gradually elements of any type are insinuated, from industrial cyber death through progressive, making extensive use of electronics and playing, usually, with the duality between the growling vocals of Jorgen Sandstrom and the angelic vocals of the Portuguese Ruby Roque, who replaced alas, the much better Enckell Jo. As always, guests are not lacking, and this time to help The Project Hate, you will find Leif Edling of Candlemass, the omnipresent Mike Wead (which we saw recently in Kamlath), Jock Widfeldt (Vicious Art) and Christian Ivestam (ex -Scar Symmetry). The result of this marriage? Crazy as ever, to the point of certifying the high quality of the Swedish band, beginning with Season of Mist, amongst others. Always characterized by a few and very long tracks, this release is not far from that, with six pieces for a total of 65 minutes of wild, psychotic music, with very complex structures, yet very melodic, thanks to the constant divine use of the keys and persuasive moments when Ruby delights us with her singing, although less convincing than the previous one, Jo. From a technical standpoint, the band confirms itself at high levels, stronger even by the new drummer, the explosive Tobias Gustafsson (Vomitory) and a rhythmical key work and solos which proves sublime. Difficult to indicate a piece rather than another (although I have chosen "War Summoning Majestic" as my favorite song), because all could play the role of the most successful song from The Project Hate. Well I think that you may have guessed by now, I really liked the "Bleeding the New Apocalypse" , for its ability to fuse the wild death rhythms made in Sweden, with sounds alien to the northern extremes of Europe, such as gothic, progressive and electronic perennially with great evidence. The songwriting is excellent, almost as excellent as is the production with all the instruments well balanced with each other and a sound really very full and effective that will push me to elect this work in the bests of 2011. A delightful confirmation, but I had no doubt over that , The Project Hate, as unjustly snubbed by critics and fans, represent for me one of the most interesting and charismatic bands on the international scene. (Francesco Scarci - Translation by Sofia Lazani)

(Season of Mist)
Rate: 85

Ulver - Wars of the Roses

#PER CHI AMA: Avantgarde, Ambient
Tornano gli Ulver con un prodotto nuovo di zecca, con una casa discografica nuova di zecca, la Kscope music, e l’ennesimo album in grado di stravolgere ogni regola in casa di Kristoffer Rygg (alias Garm) e soci. Si parte con “February”. Le sue ridondanze pulsanti richiamano il sangue dalle vene. Cuori adrenalinici, ipersaguigni, fibrillanti, si scagliano sulle casse dai volumi esagerati per farsi violare i timpani da questo primo brano. È un esordio audace, con un Garm in grande spolvero, non sufficiente però a compensare il trapasso a sonorità vagamente anni ’80, che fanno perdere il potere alla tribalità elettronica dell’inizio. Passo a “Norwegian Gothic” e mi ritrovo catapultata in mezzo agli alberi sul fare della sera. Cammino tra i fuochi che si spengono intorno a case abbandonate. Il senso di inquietudine mi avvolge per amplificarsi in quelle che credo siano urla segregate tra mura di castelli medievali. La voce si conferma di grande spessore, vorticosa e ritmata, mentre vertigini strumentali pregnano l’ascolto di questo secondo pezzo, a cui non si può negare d’essere assai evocativo. È la volta di “Providence” dove accanto alla calda tonalità del vocalist compare l’eterea voce di Siri Stranger, in una cavalcata emotiva in cui trovano posto improbabili violini, un infausto clarinetto e Attila Csihar come guest star nella parte vocale. Parte la musica di “September IV”. L’ascolto. Mi fermo. Controllo che il brano sia del cd che sto ascoltando. Le sonorità sono diverse dalle altre tracce. La voce morbida e penetrante, gli stacchi più sensuali e decisi, con il sound che richiama una danza rituale, una promessa, un grido. Coinvolgente. Ecco “England” e l’atmosfera fattasi più rarefatta, mi spinge alla spasmodica ricerca di ossigeno. L’aria è frustata da onde sonore imperfette. Il cantato di Garm si fa dominante, rabbioso, ripetitivo, quasi robotico, con le parole aggrovigliate su se stesse, imprigionate tra distorsioni e percosse a casse inermi. Il brano si rivela antidoto ideale per pulsante rabbia repressa. Le melodie suadenti e disturbanti emergono forti in “Island”, song che fa riaffiorare il passato ambient della band norvegese, prima della lunga conclusiva “Stone Angel”. L’inizio del brano mi proietta davanti ad uno specchio al buio, mentre attendo che la luce di una candela possa presto illuminare la stanza. Il prologo di suoni, lo specchio, si interseca ad un parlato, quello di Daniel O’Sullivan che interpreta un testo del poeta americano Keith Waldrop. Gli occhi continuano a puntare lo specchio nella tragica inevitabilità di guardare se stessi. Risultante, un ipnotico viaggio al centro delle proprie paure. Finisce qui il nuovo album targato Ulver, ora a voi il compito di ascoltarlo e descriverne le suggestioni che vi affioreranno. Da ascoltare ad occhi chiusi. (Silvia Comencini)

(Kscope)

domenica 12 giugno 2011

Talbot - Eos

#PER CHI AMA: Doom, Psichedelia, Stoner, Cathedral, Electric Wizard
Ho ricevuto il promo di questa stuzzicante release e successivamente sapete cosa ho fatto? Sono andato sul sito dell’etichetta russa Slow Burn Records ed ho acquistato il cd del duo estone, senza alcuna esitazione e questo sarà quello che al termine di questa recensione vorrei suggerirvi di fare. Intro doomish affidata a “Threshold”, il cui riffone di chitarra viene ripreso anche dalla successiva “Cayenne”, che ci spara in faccia un sound che sembra saper coniugare alla grande gli insegnamenti dei primi Cathedral (riffs granitici e ultra slow) con lo stoner degli Electric Wizard, e con la voce di Magnus Andre che si diletta tra il growling più cavernoso e quello pulito (in taluni momenti addirittura cyber, per l’uso dei riverberi), mentre la musica perde ben presto quella sua linearità iniziale per aggrovigliarsi su se stessa in una delirante psichedelia, qui amplificata alla grande, dall’ampio spazio concesso ai sintetizzatori e dall’uso di chitarre dal forte flavour seventies. Con i minuti iniziali di “Observer X” vengo inglobato dalle visioni allucinogene della band di Tallin, come se mi spingessi pericolosamente in un viaggio di esplorazione spirituale, ovviamente solo dopo essermi calato pesanti dosi di acido lisergico. Cosi come accadde a Homer Simpson in una puntata del noto cartone animato americano, in cui il protagonista, dopo essersi mangiato un peperoncino super allucinogeno, ha delle visioni completamente distorte della realtà, e il suo spirito (un coyote) gli suggerisce come affrontare la vita, allo stesso modo, Magnus e Jarmo, ci prendono per mano e ci conducono alla ricerca di noi stessi attraverso la loro proposta musicale estremamente interessante. L’eco dello space rock emerge fortissimo nella breve title track, per poi lasciare il posto alla lunghissima (più di undici minuti) “Combat Zen Speech” che come una danza tribale attorno ad un grande fuoco, con i tamburi che picchiano ripetutamente, ci persuade ad abbandonarci alla sacralità della cerimonia, contraddistinta dal forte odore dell’essenze che saturano l’aria e di conseguenza le nostre menti. Ragazzi che botta, neppure l’uso delle droghe più forti del mondo, credo possa spingerci in un trip del genere, dove il battito del cuore accelera in modo pauroso, seguendo l’intensità sonora di questo “Eos”, il respiro si fa quanto mai affannoso e inaspettatamente ci ritroviamo barcollanti con i sensi totalmente alterati. Pur non essendo un amante di questo genere musicale, mi sono lasciato andare alla proposta dei Talbot, sono stato conquistato dall’impatto forte che ha avuto sui miei sensi, e ne sono rimasto da subito affascinato. Ultima nota da segnalare, oltre all’ottima produzione, è che il cd è stato rilasciato in versione digipack limitata alle prime 500 copie. Deliranti! (Francesco Scarci)

(Slow Burn Records)
Voto: 85