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lunedì 7 maggio 2018

Gold Miners Night Club - S/t

#PER CHI AMA: Punk/Hard Rock
Una manciata di rocchenroll energetici ("Rock'n'Roll Song", appunto), polleggiati (la flessuosa "Everybody Want to Be Like Me" è ahimè intercalata da piuccheopinabile interludio quasi-rnb con tanto di autotuning), funkeggianti (più precisamente fukkeggianti: "Shut the Fuck up", appunto) o ancora aromaticamente punk n'roll ("I Live My Life", ma perché quella batteria così sintetica?): non è difficile ipotizzare che tra i più assidui frequentatori del malandato night club dei minatori bresciani vi sia un certo Billy Gibbons (tutto l'album, ma forse "I Wanna Fah" e "Gummy Eyeball" sono i brani maggiormentte ZZ-eggianti). A tratti meccanico e privo di corpo il suono, è senz'altro frutto della (coraggiosa seppure eccessiamente diffusa) scelta di esibirsi in duo. Indubbiamente da sistemare l'accento anglofono nelle parti cantate. Si raccomanda l'esecuzione a cappella di "Subterranean Homesick Blues" per almeno cento volte. E tre paternoster. (Alberto Calorosi)

venerdì 4 maggio 2018

Himsa - Summon In Thunder

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Metalcore/Death, Arch Enemy, Carnage
Era il 2007 quando uscì l'ultimo vagito degli Himsa, un vero assalto sonoro ai timpani. Forti di una super produzione ad opera di Steve Carter (per ciò che concerne la musica), Devin Townsend (per la voce) e Tue Madsen (per il mixing e la mastering), 'Summon in Thunder' rappresenta sicuramente il top della carriera per il quintetto di Seattle, anche se le critiche all'album furono piuttosto esagerate. Le undici straripanti tracce svelano il dinamico thrash/death metal, ricco di melodie ma anche di tanta furia, una miscela di vecchio speed metal unito ad un suono moderno, rabbioso e senza compromessi. Riff rocciosi (di scuola svedese) avviluppano le menti, con la batteria sempre precisa di Chad Davis che pesta che è un piacere e la voce di Johnny Pettibone a vomitare tutto il suo odio. Il platter della band statunitense non lascia tregua, è una cavalcata continua in cui trovano sfogo gli ottimi assoli delle due asce (influenzati dai solo dei fratelli Amott degli Arch Enemy). Se devo indicare un brano che mi ha colpito più degli altri, cito la quinta traccia “Skinwalkers”, che inizia con un buon arpeggio, prosegue su un mid tempo fino ad esplodere a metà circa in un attacco convulso, ma sempre ben ragionato, per poi concludersi con una raffinata scarica chitarristica. Una citazione spetta anche alla successiva “Curseworship”, per la sua capacità di non darci modo di pensare e non annoiare. Forse proprio in questo sono migliorati questi ragazzi: alla fine del cd, pur rimanendo quella sensazione di già sentito, non sono assolutamente annoiato e ne vorrei ancora. Tecnica inoppugnabile, melodie accattivanti, niente di originale sia chiaro, però l’headbanging è garantito per tutti gli amanti di questo genere di sonorità e non solo. (Francesco Scarci)

giovedì 3 maggio 2018

Swans - Deliquescence

#PER CHI AMA: Rock Sperimentale
...ancora mantiene qualche cronosoma di "Bring the Sun" e compie definitivamente la sua exuvia su 'Deliquescence'. Deliquescenza inversa: l'entrata di "Frankie M" (diciotto minuti: appena un pelino autoindulgente chioserebbe non senza una parte di ragione qualche maligno brufoloso affetto da alitosi) sarà ampiamente ridimensionata su 'The Glowing Man' (che si tratti di una seconda deliquescenza di "The Apostate"?). Deliquescenza retroattiva: "Just a Little Boy" nella versione 'The Gate' appare stranamente intermedia tra le due precedenti live ('Not Here/Not Now') e studio ('To be Kind'), perlomeno negli intenti. Deliquescenza assente, già, nelle (non troppo) sorprendentemente identitarie "Cloud of Forgetting" e "Screen Shot", guarda caso entry-track dei rispettivi album. Deliquescenza della deliquescenza: è ipotizzabile che lo stesso Michael Gira sia a conoscenza dell'impossibilità di oltrepassare la (a tratti prosaica) magniloquenza di "The Knot" (quasi quarantacinque minuti) senza apparire autocaricaturali (cfr. il Neil Young di "Driftin' Back") e, per questa medesima ragione, abbia annunciato lo scioglimento della band. 'The Gate': centocinquanta minuti, tre canzoni da T-B-K, una da T-S e quattro inedite (poi su T-G-M). 'Deliquescence': centocinquantacinque minuti, tre canzoni da T-G-M, una da T-B-K e tre inedite. La deliquescenza live impeccabilmente testimoniata su questi monumentali e autocompiaciuti live è senz'altro parte imprescindibile del processo creativo e compositivo successivamente formalizzato in studio. Ma nove ore tra live e studio per assommare ventuno canzoni in poco più di due anni (la discografia dei prolificissimi Beatles totalizza poco più di otto ore e centottanta canzoni in nove anni) sembrano un cicinino troppe. Ma soltanto nella patetica opinione di qualche qualche gibbuto detrattore affetto da psoriasi. (Alberto Calorosi)

(Young God Records - 2017)
Voto: 75

https://www.facebook.com/SwansOfficial/

Clawfinger - Life Will Kill You

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Alternative/Nu/Rap
A distanza di due anni dal fortunato e incazzato 'Hate Yourself with Style', i leggendari nu/rap metallers svedesi Clawfinger hanno rilasciato il settimo album della loro discografia. Come sempre ci hanno abituato, il trio scandinavo ci spara un lavoro in grado di miscelare suoni provenienti da più disparati ambiti sonori, sempre capace di shockarci con la loro proposta fuori dal comune, per la presenza del cantato rap, che li ha resi famosi nella scena metal mondiale. Continuando il discorso intrapreso nella precedente release, che rappresentò il debutto per la potente Nuclear Blast, 'Life Will Kill You' contiene 11 arroganti e irriverenti songs, che non potranno non piacere ai fan di sempre della band, e potranno anche catturare l’attenzione di nuovi adepti e curiosi. L’album si apre con “The Price We Pay”, esaltante nel suo incedere, grintosa, melodica; bella song davvero, caratterizzata anche dalla presenza di archi. Segue la rappeggiante title track, forse il pezzo più ballabile dell’album, in grado di scatenare con il suo ritornello una delirante danza selvaggia. Il sound del combo, lungo gli 11 pezzi, si dimostra sempre sperimentale nella sua proposta, ed è bello constatare che dopo vent’anni di onorata carriera, la freschezza e l’entusiasmo dei nostri, si sia confermata al top anche in quello che è rimasto l'ultimo full length della loro discografia, ormai datato 2007. Zak, Bard e Jocke ci regalano alla fine ottimi brani, sempre orecchiabili (“Prisoners” e “It’s Your Life” sono le song che preferisco), tosti, talvolta danzerecci (ma nel senso che vi si può scatenare un pogo violentissimo sopra); samples elettronici, vocals femminili, influenze grunge e hardcore, completano un lavoro multi sfaccettato che mi sento di consigliare un po’ a tutti, dagli amanti del rock più classico ai metallari estremisti più incalliti. Le liriche trattano, al solito, temi scottanti quali la politica e il razzismo. 'Life Will Kill You" è un melting pot di stili, musica heavy metal a 360° di cui se ne sentiva la mancanza. (Francesco Scarci)

(Nuclear Blast - 2007)
Voto: 75

http://www.clawfinger.net/

Minneriket - Anima Sola

#FOR FANS OF: Black Viking
Minneriket is a solo project created by the Norwegian musician Stein Akslen, who is well known in the Norwegian underground black metal scene (Blodsgard, Vakslen, Æra). His music has been featured on several underground compilation albums, as well as in several independent short-films. Prior to the inception of this project, Stein has been involved in several other bands, all of them related to black metal, so it’s not a surprise that also this one, which was founded in 2014, is solidly related to this genre. Lyrically, Minerriket´s music deals with paganism, existentialism and melancholy, which is not a surprise taking into account his profound interest in old mythologies and alternative spirituality. In only four years, Minnerriket has released four albums, including a tribute to Burzum. 'Anima Sola' is the new opus by Stein and I must admit that I was initially slightly confused with the album artwork, which reminds me some gothic meta/rock albums. The used artwork is a little bit misleading, but 'Anima Sola' is just another step in the evolution of the previous works and it is firmly rooted in a traditional black metal style. Sonically, this new work sounds more aggressive than the previous one, but it also has an occasional dense melancholic and mournful sound, which makes this album a hypnotic experience. The album flows between the most atmospheric tracks and the rawer ones being the winners, in my humble opinion, the mid-tempo tracks like the album opener “Tro, Håp Og Kjærlighet”. I like the slower riffing which sounds more intriguing and hypnotic, rather than the more straightforward sections contained in tracks like “An All Too Human Heart”. Those rawer and, occasionally, faster tracks are good but I think they can sound as too standard in comparison to those which recreate melancholic sonic landscapes. As usual, the longest tracks offer the chance of enjoying both aspects, and this time is no different with the sixth song entitled “Det Lyset Jeg Ikke Kan Se”. This song contains some of the best riffs of the album, which appear in the slowest and darkest sections, once again those parts are the most interesting ones, because they create an engrossing atmosphere. Another standing out track is “Sorger Er Tyngst I Solskinn”, due to its slightly experimental nature. It contains some sections with weird riffs and an initial choir with male clean vocals, which remind me the classic Viking metal choirs. A strange combination for sure, but it somehow can work if you like this sort of experimentations. In conclusion, Minneriket has released an album which can please the average black metal fan who wants a release with a raw and a traditional sound at the same time, but also with room to slight experimentations and variations in the pace. 'Anima Sola' is mainly a mid-tempo work with occasionally faster and furious sections. Anyway, this cd has its best moment when Stein focus his efforts on creating hypnotic and mid-tempo riffs, which make the album a more unique listening. (Alain González Artola)

(Akslen Black Art Records - 2018)
Score: 70

https://minneriket.bandcamp.com/album/anima-sola

martedì 1 maggio 2018

Hacride - Amoeba

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Death/Thrash Progressive, Meshuggah
'Deviant Current Signal' è stato il debut album dei transalpini Hacride, esempio eclatante di come fosse ancora possibile suonare death thrash senza essere assolutamente banali. Già con il loro album d'esordio, si erano rivelati band dall’enorme fantasia compositiva e dalle spiccate doti tecniche. 'Amoeba', il loro secondo lavoro del 2007, non fece altro che consolidare le certezze acquisite da quel primo lavoro, e proiettare il quartetto francese nell’olimpo delle band dedite a questo genere di sound, affiancando i maestri di sempre Meshuggah, ed esplorando inoltre territori cibernetici (Fear Factory docet) e, udite udite, grazie alla collaborazione con la band di flamenco, Ojos de Brujo, proporre anche una cover di folle “death flamencato”; esperimento quanto mai riuscito, pur ammettendo una certa diffidenza iniziale. Come sempre il punto di partenza della band è il death/hardcore dalle ritmiche sincopate, ricco di stop’n go, in cui s’insinuano frangenti acustici, sfuriate brutal, ambientazioni industriali e passaggi in cui un sound, carico di groove, ha la meglio sulla nostra psiche, e, impossessandosi dei nostri corpi, ci impedisce di stare fermi. Dieci tracce che ci schiacciano come piccole formiche, dieci tracce che fanno saltare come pazzi furiosi. Il vocalist, Samuel Bourreau, prende spunto dai vocalizzi del suo esimio collega svedese, cercando spesso di travalicare gli schemi, proprio come accade in “Zambra”, la cover a cui accennavo precedentemente, in cui canta addirittura in stile ska. L’intero disco, nonostante la sua monoliticità, viaggia su questi binari, regalandoci perle assai interessanti di un death/thrash futuristico per quegli anni. Da sottolineare l’ottima parte centrale del disco che si conclude con la graffiante “On the Threshold of Death”, brano che ci consegna una band matura e consapevole delle proprie potenzialità. Un’eccellente produzione, presso “L’Autre Studio”, chiude un disco dalle enormi capacità distruttive. Gli Hacride, pionieri del death del futuro? Credo proprio di si. (Francesco Scarci)

venerdì 27 aprile 2018

Estate - Mirrorland

#PER CHI AMA: Symph Power Metal
La power-band proveniente dalla città russo-caucasica gemellata nientemeno che con Reggio nell'Emilia, propone un power-metal eminentemente calligrafico, fervido però di inorgoglite incursioni aliene. Insomma, aliene si fa per dire. Capita pertanto che al power quintessenziale distillato un po' dappertutto nel disco, ma soprattutto in apertura ("Mirrorland" e "The Ghoul"), si contrappongano, si fa sempre per dire, composizioni renderizzate con texture epic/prog/qualcuno-ha-orinato-nel-santo-graal ("Matter of Time"; una "Lady Wind" che si colloca tra i Dream Theater di 'Awake' e la Gillan band di 'Mr. Universe' o 'Glory Road'; una "Stolen Heart" che suona grosso modo come la suonerebbero degli Hammerfall provvisti di colbacco imprigionati nel carillon di "The Memory Remains") o di hair-melodic anni '80 (almeno due indizi: l'intera "Silver Skies", che sta tra il Bryan Adams che indossa un reggiseno di Robin Hood e il Jack Nitzsche che indossa mutandine femminili di "Up Were We Belong"; oppure l'attacco di "Lady Wind", che fa sembrare "Popcorn" di Gershon Kingsley come una specie di ouverture True Norwegian BM). Ultima nota per la copertina di Leo Hao, apprezzato illustratore esperto di di draghi, battaglie e fanciulle svestite leggiadramente maneggianti pesanti spadoni. (Alberto Calorosi)

Le Zoccole Misteriose - Il Treno

#PER CHI AMA: Punk/Hardcore
“Dandovi maggiori informazioni verrebbe meno il concetto di misterioso” chiude così il comunicato stampa che arriva insieme a 'Il Treno', nuovo EP de Le Zoccole Misteriose. Potrebbe sembrare un nome idiota ed in effetti lo è, ma questo progetto di idiota ha solamente il nome. Dopo varie esperienze, tra cui anche la composizione di un interessante stoner demenziale, arriviamo a questa ultima prova che potremo definire un disco hardcore italiano viscerale che ha come motore principale lo sfogo e l’urgenza espressiva. Pezzi mai sopra i tre minuti, testi che non superano le due righe, chitarre abrasive, velocità sostenute e voci roche e sguaiate, sono gli ingredienti principali del Treno che ti investe come un convoglio impazzito senza troppi complimenti. Si inizia con "Nascosto" che sa di alcol e serate finite tardi tra forti difficoltà motorie, il bruciore di stomaco e la puzza stantia di sigaretta che copre la stanza. Sono i disagi di una generazione che non ha più voglia di combattere ma solamente di esprimere il proprio schifo e la voglia di vomitare quattro frasi che possano in qualche modo dar fastidio a qualcuno. "Lontano dalla Mia Strada" è il mio pezzo preferito di questo breve viaggio, ove un arpeggio claudicante sostenuto da un imponente basso sorreggono versi cinici e ostinati, spezzati da un ritornello impregnato di punk, “io ti auguro miglior fortuna ma lontano dalla mia strada”, uno struggente saluto probabilmente all’ennesima zoccola che si allontana lasciando dietro di sé macerie e braci ardenti. Si prosegue con "Niente di Speciale" che porta una poetica di negazione del sé: “non sono nessuno, solo qualcuno da odiare” sbraita Raffaele, il pensiero che ci possa essere qualcuno che esista solo in funzione dell’odio che viene provato verso di lui mi disturba e mi fa pensare che l’odio a volte vince e a volte è la forza principale che muove le cose. Si chiude con la title track che si azzarda a superare i tre minuti tutti rigorosamente sparati ai mille all’ora, notevole il break finale al grido di “loro stavano solo cercando”. A volte non serve essere prolissi e sofisticati, a volte serve la semplicità di una chitarra che squarcia i coni e di una batteria che ti picchia in testa per ricordarti che se vuoi dire qualcosa, è meglio dirla subito ed è meglio dirla a tutti perché siamo in viaggio su un treno e non abbiamo la minima idea di quando scenderemo. (Matteo Baldi)

Godspeed You! Black Emperor - Luciferian Towers

#PER CHI AMA: Post Rock
Sgretolare le luciferine torri del potere. Grattacieli. Centri direzionali. Nei (dis)suoni eternamente autoperpetranti percepirete un'incombente sensazione di matematico caos. Una sorta di antiouverture sinistra e vagamente jazz-lizard-crimsoniana. "Undoing a Luciferian Towers". Sbarazzarsi incontrovertibilmente di quella disgustosa moltitudine umana costituita da incravattati egemoni del potere. "Bosses Hang". Ben fatto. Sì. Nel trionfale anthem introduttivo (poi ribadito in chiusura), potrete assaporare qualcosa come il 40% delle canzoni rock di vostra conoscenza (due a caso delle mie: "With a Little Help From my Friends" nella versione di Joe Cocker e "A New Day for Love" di Neil Young), sempre che siate disposti a perdonare a voi stessi l'aver erroneamente paragonati i G-Y!-B-E a qualcosa di lontanamente rock. "Fam/famine". Nel carestioso ground zero terzomillennaristico, riscontrerete un necessario minimalismo post-apocalittico, denso e funereo. In chiusura, l'anti-inno della dissoluzione occidentale, forse dell'intera umanità. Finalmente, vien da dire. "Anthem for No State". L'unica composizione in cui ravviserete quell'incedere necessariamente epico che riconoscete nei G-Y!-B-E e che imparaste ad amare quindi anni fa. L'unica in grado di donarvi una certa emozione sottocutanea. (Alberto Calorosi)

The Pit Tips

Alberto Calorosi

Leprous - The congregation
James and the Butcher - Plastic fantastic
Tori Amos - Native invader
 

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Francesco Scarci

Deadly Carnage - Through the Void, Above The Suns
Opium Eater - Ennui
Drewsif Stalin's Musical Endeavors - Anhedonia
 

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Alain González Artola

Hantaoma - Malamórt
Encircling Sea - Hearken
Necrophobic - Mark of the Necrogram
 

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Five_Nails

Gorgoroth - Instinctus Bestalis
Inverted Serenity - As Spectres Wither
AERA - Rite of Odin

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Michele Montanari

Sleep - The Sciences
La Morte Viene dallo Spazio - Zombies of the Stratosphere
Infection Code - Dissenso
 

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Matteo Baldi

God Is An Astronaut - Epitaph
Sleep - The Sciences
A Perfect Circle - Eat The Elephant

giovedì 26 aprile 2018

Ddent - Toro

#PER CHI AMA: Post Metal Strumentale
Da Parigi ecco arrivare i Ddent, con una proposta che in Francia vanta tra gli altri interpreti anche gli Stömb. Sto parlando di un post-metal strumentale che riesce a trovare nel corso del disco anche sfoghi doom e industrial, come la band sottolinea sul proprio sito bandcamp. E allora conosciamo un po' meglio questo quartetto formato da Louis, Marc, Nico e l'ultimo arrivato Vinz, che dal 2013 a oggi, ha già all'attivo un EP, un primo album e questo nuovo 'Toro'. Il lavoro parte decisamente in sordina con la lunga "Dans la Roseraie" (ah, i titoli sono ispirati alla poesia di Federico Garcia Lorca), che lungo i suoi quasi 13 minuti, ne spende quasi sei in sonorità post-rock/noise, prima di iniziare a carburare: è infatti verso il settimo minuto che i nostri innestano la marcia, e pestano puntando su una certa pesantezza a livello ritmico. Tuttavia, è questione di una manciata di minuti che i toni virino verso sonorità più ariose in un'epica cavalcata che tornerà però ad incupirsi nei conclusivi due minuti del pezzo. Con "Dis à la Lune qu'elle Vienne", la durata del brano si accorcia drasticamente, consentendo una maggior facilità nell'assimilazione della proposta. Si parte comunque da toni pacati, sempre in bilico tra post-rock e post-metal, in un incedere minaccioso ed oscuro. La mancanza della componente vocale è un vero peccato, in quanto la monoliticità dell'act abbinata ad un mood ipnotizzante, ne avrebbe certamente giovato. Arriviamo alla terza "Longue, Obscure et Triste Lune": qui pervade un maggior senso di malinconia, complice il raddoppiare della seconda chitarra sulla matrice ritmica, con un drappeggio di suoni che sembrano provenire da territori shoegaze che creano una suggestiva ambientazione crepuscolare, anche se poi nella seconda parte della song emerge il lato più doom (di scuola My Dying Bride aggiungerei) dell'ensemble parigino, con un rifferama che sembra addirittura emulare a tratti delle growling vocals. "Torse de Marbre" è un'altra mini maratona di oltre dieci minuti che ci riconsegna i Ddent sotto una nuova luce, quella che miscela il post-rock con influenze electro-rock e droniche in un lisergico e mellifluo avanzare che ancora una volta suggestiona la mia mente con quelle che sembrano essere lontanissime vocals poste in background. Non so se si tratti di allucinazioni uditive o di una percezione completamente distorta del sound indotto da disturbi psicotici innescati dall'ascolto di 'Toro', fatto sta che la song suona molto più completa delle altre e il mio desiderio di un cantato, viene stranamente smorzato da questi suoni alla fine estatici. Ho pensato che i Ddent quando hanno scelto il titolo della quinta "L.s Cloch.s d'ars.Nic .t la Fum:." devono essere stati in preda ai fumi, di che cosa non mi è dato saperlo, chissà infatti quale sia il significato nascosto di questo titolo. Il brano si muove su un'alternanza ritmica tra riff compressi e schiacciasassi e altri decisamente più melodici ma al contempo drammatici. È tempo di “La Pluie Emplit sa Bouche”, la sesta traccia dell'album che apre nuovamente a toni dimessi e compassati, tra ambient e drone che fanno da apripista ad un crescendo umorale che dall'anima sembra arrivare in gola, in un riffing comunque tonante e celestiale al tempo stesso. Sono questi contrasti a farmi apprezzare il disco, e ancor di più quell'accelerazione al limite del post black che si palesa per pochi istanti a poco più di due minuti dal termine del brano. Terzo e ultimo allungo del cd e arriviamo ai conclusivi dodici minuti di "Noir Taureau de Douleur", un ultimo sforzo all'insegna di un post-metal glaciale, marziale a tratti, sicuramente di grande tensione, che segna il positivo ritorno sulle scene di questi promettenti musicisti transalpini, da tenere sotto stretta sorveglianza. (Francesco Scarci)

(Chien Noir - 2018)
Voto: 75

https://ddentmusic.bandcamp.com/

mercoledì 25 aprile 2018

This Broken Machine - [departures]

#PER CHI AMA: Alternative/Post Metal/Prog, Tool, Gojira
L'Italia cresce, non solo calcisticamente. Ce lo confermano questa volta i This Broken Machine, quartetto di Milano dedito ad un suono alternativo che combina in modo abbastanza originale, gli insegnamenti di Tool, Deftones, Gojira e Architects, giusto per fare qualche nome a casaccio. Quel che è certo è che i quattro musicisti non sono dei pivelli, essendo ormai in giro dal 2007, anche se la vena creativa dei nostri non deve essere proprio delle migliori, visto che questo '[departures]' rappresenta solamente il secondo lavoro per l'ensemble meneghino. Un album che esce peraltro a distanza di sei anni dal precedente 'The Inhuman Use of Human Beings', e che convince immediatamente per le sonorità proposte. Le danze si aprono con "Departing" e il suo riffing sincopato tipico del metalcore, con la componente vocale a strizzare l'occhiolino a A Perfect Circle e soci, mentre a livello lirico, i nostri affrontano il tema della separazione e le sensazioni ad essa collegate. Seconda tappa e siamo a "Weight": una prima metà in stile Riverside, nella loro veste progressive, una seconda parte poi più rabbiosa e ritmata, con un'alternanza vocale tra il pulito (non sempre troppo convincente) e il growl. "The Tower" simboleggia il concept che si cela dietro all'album attraverso l’allegoria della carta dei Tarocchi chiamata “La Torre” e il suo significato di cambiamento repentino che si traduce anche a livello musicale con sagaci cambi atmosferici tra parti decisamente metal ed altre più riflessive, intimiste e ragionate, all'insegna di un prog rock, ad elevarla immediatamente a mio pezzo preferito del disco. L'inizio cupo e minaccioso di "Return di Nowhere" non preannuncia nulla di buono, visto anche il tema affrontato nei testi che analizzano sempre oculatamente gli stati d'animo dell'individuo alla luce di eventi, diciamo traumatici, che possono indurre al cambiamento. La traccia conferma comunque le divagazioni progressive dell'act milanese, e l'abilità di farle coesistere con sonorità orientate su versanti più estremi, mantenendo le melodie sempre al centro del focus dei nostri. Interessanti le linee di chitarra di "Distant Stars", cosi dinamiche in una song che arriva ad evocarmi anche un qualcosa dei The Ocean nell'utilizzo dei vocalizzi estremi, ma che rilassa invece nella sua parte centrale più meditativa ed atmosferica, cosi come pure per una sezione solistica un po' più ricercata. Si arriva alla nevrotica "This Grace", brano ai limiti del math che avrà modo ovviamente di evolvere nel corso dei quasi cinque minuti in suoni decisamente più pacati. "As You Fall" ha un incipit inequivocabilmente malinconico, anche se poi la song s'imbastardisce un pochino. Ma si sa, i cambi di registro sono all'ordine del giorno con questi ragazzi e la parte centrale si lancia prima in derive psichedeliche, successivamente in un post metal dal crescendo ritmico poderoso. “…And That Would Be the End Of Us” è l'ultima tappa di questo viaggio intrapreso con i This Broken Machine, una chicca aperta da quello che sembra il romantico suono di un violino e che da li a poco si tramuterà in un'altra alternanza tra schegge math impazzite e frammenti più delicati, che ci regalano gli ultimi otto minuti di piacere di questo notevole '[departures]'. (Francesco Scarci)

martedì 24 aprile 2018

Eloy - The Vision, the Sword and the Pyre - Part 1

#PER CHI AMA: Space Rock
Parzialmente giustificato dal fatto che l'avanzare dell'età spesso rimuove certe inibizioni, pervenuto alla settantaduesima primavera Bisteccone Bornemann, generalmente conservativo, rilascia il suo album più spericolato e (forse a tratti involontariamente) divertente. Spiega tutto la perentoria ouverture "The Age of the Hundred Years's War", un po' goth-metal con tanto di vocine nella testa, un po' nu-metal, un po' outtake di 'Angel Dust', quello dei Faith No More. Nel prosieguo, "The Call" (featuring una sensuale e chiacchierante Alice Merton as Giovanna d'Arco) è un hard-rock soft-blueseggiante post-Destination alla "What Do You Want From Me?" (Pink Floyd), la ozric-tentacolare "The Ride by Night... Towards the Predestined Fate" è una specie di tecno-psych ballad con percussioni, la vocina robottina di "Early Signs... From a Longed for Miracle" (ma che pistakkio di titoli, nevvero?), perfettamente adatta al contesto, vi sembrerà fuoriuscita direttamente da "Metromania", la carmina-burattinosa, sbellicante "The Sword... the Dawning of the Unavoidable" farebbe impallidire Luca Turilli, se soltanto Luca Turilli avesse una carnagione. Canzoni come "Chinon" e "Les Tourelles" vi sembreranno ciò che esattamente sono, vale a dire autoindulgenti riempitivi, nell'ordine più e meno medievaleggianti. Quello che conta è che dopo sessantadue minuti (quelli di 'Ocean 2', l'album più lungo finora, erano cinquantasette) vi sarete inspiegabilmente divertiti, ciò che vi sconsiglio di affermare a voce alta ad un concerto, per esempio, dei Blind Guardian. Rischiereste di fare la stessa fine della eroina protagonista di questo scalcinatissimo concept. (Alberto Calorosi)

(Artist Station Records - 2017)
Voto: 70

https://www.facebook.com/Official4Eloy

lunedì 23 aprile 2018

Seether - Poison the Parish

#PER CHI AMA: Post Grunge
Poderosi riffoni presocratici, un cavernicolo e puntualissimo contrappunto di batteria, nei buchi qualche bridge di basso per conferire epos ("Stoke the Fire"), il rauco gracidare di ordinanza furbescamente alternato a passionevoli sdolcinerie eroinofile. Un ascolto coatto del settimo frondosissimo (quindici canzoni) album (non così tanto) fragorosamente abbattuto soltanto qualche mese addietro da parte dei celebri taglialegna di Pretoria, indurrà senz'altro quella medesima sensazione di pesantezza gastrica mista a sonnolenza e sporadica flatulenza solitamente generati dalla cassoeula che faceva la vostra bisnonna di Olgiate Comasco, sia conferita pace all'animaccia sua. Ascoltate questo disco a basso volume, malamente stravaccati su un divano sfondato di vellutino, mentre osservate con inaspettato interesse l'interno delle vostre palpebre. Con l'eccezione di un paio di scarsamente convinte escursioni nel buon vecchio nu-sbraitone (nel finale del singolo "Nothing Left") le canzoni vi appariranno niente male ma sostanzialmente indistinguibili, proprio come gli ingredienti della cassoueula che faceva la vostra b.d.O.C.s.c.p.a.a.s.. (Alberto Calorosi)

(Spinefarm - 2017)
Voto: 55

http://seether.com/

domenica 22 aprile 2018

Eternal Silence - Mastermind Tyranny

#PER CHI AMA: Symph/Gothic, Within Temptation
Con una copertina ed un’introduzione che sembrano provenire direttamente dalle profondità più remote dell’inferno, è lecito aspettarsi da 'Mastermind Tyranny' un’anima piuttosto brutale, degna delle lande più estreme del death. Invece, sorprendentemente, una volta superato il diabolico monologo introduttivo ed il primo riff, ci accolgono delle sonorità meno “cattive” del previsto. Le tematiche comunque esoteriche di quest’ultimo lavoro della band nostrana degli Eternal Silence, vengono sostenute infatti da un impianto piuttosto melodico, un symphonic metal ricco di orchestrazioni che viene alternato a qualche cavalcata più potente, come nel primo brano "Lucifer’s Lair". C’è spazio anche per qualche contaminazione elettronica come in "Game of the Beasts", fra le sue numerose variazioni di tempo. Le liriche oscure e strazianti vengono incarnate con maestria dalla voce di Marika Vanni, forte di una buona estensione e di grande potenza espressiva, che si percepisce soprattutto in brani come la ballad "Adagio" (la quale richiama i Within Temptation più recenti). Le vocals sono spesso alternate con la timbrica maschile di Alberto Cassina, secondo chitarrista e principale compositore del gruppo lombardo, che si occupa anche degli arrangiamenti orchestrali per questo disco. L’album procede in modo piuttosto lineare sino alla conclusione, senza troppe sorprese rispetto ai canoni del symph/gothic in cui si inserisce l’ensemble di Varese. Manca forse quell’idea, quella “scintilla” che faccia decollare l’ascolto di 'Mastermind Tyranny', nonostante rappresenti una buona prova per il gruppo, che dimostra di aver maturato un proprio stile rispetto ai precedenti album, a partire da un’ottima produzione, che ne evidenzia il notevole impegno. (Emanuele "Norum" Marchesoni)

(Sliptrick Records - 2017)
Voto: 70

https://www.facebook.com/eternalsilencemusic

LORØ - Hidden Twin

#PER CHI AMA: Math/Noise/Sludge
Tornano (i) LORØ dopo quasi tre anni dal devastante self-title esordio che ha lanciato il trio padovano nella calca dell'underground e gli ha subito premiati con un'ottima risposta da parte del pubblico e della stampa. Il connubio chitarra elettrica, batteria e synth caratterizza il sound della band in maniera netta, un mix di math, noise e sludge metal che ricorda gli OvO quali incubatori di un embrione nato dall'unione di gameti Meshuggah e Burzum. Anche stavolta l'artwork è di Riccardo (chitarra) che ha voluto assicurare un risultato impeccabile, ovvero un digipack lussuosamente serigrafato, ritagliato e confezionato interamente a mano. Questa realizzazione rende l'album un manufatto visivamente prezioso, pratica spesso omessa dalle band e dalle etichette che puntano tutto sulla realizzazione musicale. Non è quindi il caso di 'Hidden Twin' che grazie alla cordata formata da Brigante Records\Cave Canem D.I.Y.\Dio)))Drone\Drown Within Records\In The Bottle Records ci permette di godere in toto di quest'album contenente sette tracce. Il suono è complesso, elaborato e volutamente artificiale, frutto di un possente lavoro di registrazione, editing, mixing e mastering che ha portato ad un risultato ben preciso e perfettamente amalgamato. Tutto inizia con "Low Raw" e il suo oscuro riff liberamente inspirato a "Misirlou" dei Dick Dale & The Del Tones di Pulp Fiction-iana memoria, ma la somiglianza finisce subito grazie ad un break dai suoni profondi e distanti pari ai paesaggi soprannaturali descritti da Lovercraft. Il tessuto artificiale del synth monofonico (Mattia) e i pattern serrati e dispari di batteria (Alessandro) completano l'alchimia strumentale, un rigurgito sonoro che incatena l'ascoltatore ad altissimi monoliti in attesa di un'entità che si cela nella nebbia. Un brano che in meno di tre minuti ci fa capire che i LORØ hanno affilato le lame e sono già balzati alla gola di chi li ascolta. "Last Gone" è il terzo brano ed introduce una novità, ovvero il cantato del chitarrista Riccardo, dotato di una timbrica smaterializzata dagli effetti e rabbiosa come non si sentiva dai tempi di Dani e i suoi Cradle of Filth. I riff di chitarra si destreggiano in malefici fraseggi con un mood alla Mastodon, ma quello che brilla in questa ed altre composizioni, sono le divergenze ritmiche e gli strati sonori perpetrati dagli oscillatori analogici del compartimento sintetico. Il lungo percorso ci catapulta in un'atmosfera opprimente degna dei migliori film di Dario Argento, dove storia e musica crescono all'unisono in un paesaggio urbano decadente. L'opera più poderosa è sicuramente la traccia che dà il titolo all'album, quella "Hidden Twin" che esordisce con una spoglia chitarra acustica/classica e il sussurro di una voce fuori campo. Il crescendo incalza con l'entrata della batteria e del sintetizzatore che guida la melodia con un riff in stile prog/psichedelia anni '70. L'arroganza delle distorsioni ci riporta alla cruda realtà dove le profondità recondite nascondono esseri innominabili che hanno visto l'avvicendarsi delle ere. Il continuo martellare del rullante, asciutto e penetrante come un chiodo arrugginito, trascina il brano verso la fine con un'esplosione liberatoria verso la luce. "Point&Comma" è il brano che spicca per impatto sonoro, la chitarra elettrica ingegnerizzata a livello molecolare, estremizza le distorsioni al massimo. La sezione ritmica si arroga il diritto di condurre i giochi e non possiamo che essere d'accordo, il groove è la spina dorsale di questo percorso contaminato da suoni industriali e synth sci-fi che graffiando l'anima, ci attirano ancora di più nel vortice senza fine. 'Hidden Twin' è un album complesso, che scava nel subconscio di chi ascolta e trasmette molteplici sensazioni, come un prisma che riflette la luce in modi diversi a seconda di come viene attraversato dal Sole. Il trio ha dato prova di aver maturato una propria identità già chiara all'esordio, ma che ora ha subito una piacevole metamorfosi, oltre il suono, la melodia e la ritmica. Rimane valido l'invito di ascoltarli dal vivo, ovviamente dopo aver fatto scorta di dispositivi di protezione acustica. (Michele Montanari)

(Brigante Records\Cave Canem D.I.Y.\Dio)))Drone\Drown Within Records\In The Bottle Records - 2018)
Voto: 80

https://sonoloro.bandcamp.com/album/hidden-twin

Pestilence - Spheres

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Prog Death, Atheist, Cynic
È sicuro che non avete mai sentito una definizione più cretina di "death-jazz". Vi viene voglia di indagare. Frastornanti cambi di ritmo trituraossa, un marcescente piede nel culo a qualunque, anche blanda, ambizione melodica (con la notevole eccezione della nebulare "Personal Energy"), dissonanti architetture tastieristiche intrusive ("The Level of Perception") o batteriologicamente ambientali (gli interludi di "Mind Reflections" ma anche le tre strumentali "Aurian Eyes", "Voices from Within" e "Phileas", rigenerati da strumenti a corda) e un chitarrismo alieno, groove ("Changing Perspectives") o un prog-metal quasi generalizzato. Il tutto sinterizzato nella conclusiva, onnicomprensiva "Demise of Time", senz'altro la canzone più straordinariamente vitale e autolesionista di un'intera carriera. Niente più soffocamenti e purulente lacerazioni: 'Spheres' si presenta come una sorta di concept sulla percezione e la conoscenza (non perdetevi la scemenza new-age di "Personal Energy") emananti dalle misteriose sfere cosmiche raccontate in "Spheres" (la canzone), sorta di tondeggianti monoliti di kubrickiana memoria. L'album fu massacrato dai critici e odiato dai fans. Di conseguenza la band rimase inattiva per quindici anni (e non per sempre, come avrebbe invece dovuto). Se al pari del sottoscritto non sapete nulla e non volete sapere nulla di death metal, ascoltate comunque questo album: non vi sarà difficile individuare comunque la sua intrinseca specificità. E magari apprezzarla. (Alberto Calorosi)

(Roadrunner Records - 1993)
Voto: 75

https://pestilenceofficial.bandcamp.com/album/spheres

venerdì 20 aprile 2018

Monads - IVIIV

#PER CHI AMA: Death/Doom, Mournful Congregation, primissimi Paradise Lost
Quattro pezzi per 50 minuti, ecco un'altra impegnativa sfida lanciata dalla label Aesthetic Death che ormai ci ha abituati, con le loro uscite discografiche, a delle durate mai troppo semplici da affrontare. E cosi dopo aver recensito l'asfissiante drone ambient degli Accurst, il funeral degli Esoteric, eccoci vagare in territori death doom, con il qui presente quintetto belga dei Monads, che propone sonorità molto meno dilatate rispetto ai ben più famosi colleghi d'oltremanica, seppur sempre orientate ai classici suoni dell'apocalisse. La compagine mittleeuropea, composta peraltro da membri di Cult of Erinyes, Omega Centauri e Hypothermia, esordisce con questo 'IVIIV' dopo un demo datato 2011, e ormai dimenticato nella notte dei tempi. In sei anni, l'ensemble fiammingo, per quanto preso da altri impegni artistici, ha comunque pensato e partorito queste quattro decadenti tracce, che partendo da una base tipicamente death doom, riesce a presentarsi almeno in apertura, con un approccio musicale più variegato, sfociando indistintamente nello sludge o nel post metal, ponendosi pertanto in modo meno radicale rispetto ad altri colleghi che suonano lo stesso genere. Se il primo pezzo, "Leviathan as my Lament", appare appunto quello più influenzato da sonorità post, il secondo "Your Wounds Were my Temple" sembra invece risuonare come il più malinconico e cadenzato, non fosse altro per un lungo break acustico centrale, che ne interrompe il lento avvilupparsi su se stesso, prima di esplodere in un efferato attacco death conclusivo, il tutto corroborato dai tipici vocalizzi cavernicoli, come previsto da copione. Il risultato si lascia piacevolmente ascoltare, seppur non si possa gridare al miracolo, in quanto release di questo tipo ne escono ormai a tonnellate ogni giorno, passando molto spesso del tutto inosservate ai media. La proposta dei cinque musicisti belgi alla fine non è malaccio, quello che manca è una dose di personalità che permetta loro di prendere le distanze da tutto ciò che satura oggigiorno il mercato. Non è sufficiente angosciare l'ascoltatore con un'estenuante suite di 13 minuti ("To a Bloodstained Shore") che potrebbe peraltro evocare un che dei Mournful Congregation, probabilmente la fonte primaria d'influenza per i Monads. Necessito francamente di altro per lasciarmi stupire da una release di questo tipo nel 2018, in quanto in maniera spesso prevedibile, ha modo di propinare tutto quello che il manuale del bravo doomster raccomanda: chitarrone a rallentatore, sontuose parti acustiche, buoni squarci melodici di chitarra, growling da orco e quell'immancabile dose di melodrammaticità che sentirete emergere soprattutto nella conclusiva e atmosferica "The Despair of an Aeon". Con un pizzico di creatività e follia in più, probabilmente starei scrivendo valanghe di complimenti ai Monads, per ora il compitino è stato fatto con diligenza e scarso impegno, per una band che potrebbe ambire a risultati decisamente più soddisfacenti. (Francesco Scarci)

(Aesthetic Death - 2017)
Voto: 65

https://monads.bandcamp.com/album/iviiv

giovedì 19 aprile 2018

Esoteric - Esoteric Emotions - The Death of Ignorance

#PER CHI AMA: Funeral Doom
Quando si parla di Esoteric bisogna essere pronti, pronti a sprofondare negli abissi e affrontare le tenebre, pronti a giungere al cospetto di Satana in persona, pronti a qualsiasi cosa, anche a scalare un'insormontabile montagna, come quella rappresentata dalla ristampa in cd del vecchio demotape della band di Birmingham, 'Esoteric Emotions - The Death of Ignorance'. 78 i minuti che ci raccontano da dove Greg Chandler e soci hanno iniziato nel lontano 1993. Per festeggiare i loro 25 anni, siamo infatti qui a parlare di una serie di brani che probabilmente hanno rappresentato l'origine del male, di un genere catacombale, fetido ed abissale, quello del più intransigente funeral doom. Non spenderò troppe parole per una ensemble che oserei dire leggendario, che attraverso i sei album partoriti, hanno scritto e riscritto il concetto del funeral (in compagnia aggiungerei, di un trittico d'assalto formato anche da Skepticism, Thergothon ed Evoken). In quest'atavico album, la band sembrerebbe ancora non del tutto matura, essendo cosi influenzata pesantemente da un vecchio retaggio punk death. Tuttavia quel che è certo è che i nostri sono in grado già di mettere in luce le peculiarità della propria musica: dal funeral psichedelico, sporcato da tossiche e feroci influenze death dell'opener "Esoteric" (che ritorneranno devastanti nel corso del disco), alla più oscura ed ipnotica "In Solitude", in cui non si può non apprezzare la performance vocale del bravo Greg dietro al microfono, quasi avesse una maschera anti-gas dal quale rilasciare il suo asfissiante cantato growl che raramente sconfina in uno screaming alieno, mentre i suoni marciano spaventosamente a rilento nel loro serpeggiante incedere. Sebbene il disco sia stato rimasterizzato, i suoni risultano ancora marcescenti, quasi si stesse ascoltando quella vecchia cassetta di primi anni '90. "Enslavers of the Insecure" è un bel pezzo che mette insieme death, doom e funeral, in un concentrato bastardo di sonorità che per certi versi mi ha ricordato un'altra band contemporanea ai nostri a quel tempo, gli allucinati australiani Disembowelment che in quello stesso anno, uscivano con un lavoro divenuto mitico, 'Transcendence into the Peripheral'. I martorianti vocalizzi di Greg tornano sovrani nella lunga ed ispirata "Scarred" che con la successiva (e più melodica) "Eyes of Darkness", coprono ben mezz'ora dell'album, attraverso tutto il repertorio scarnificatore, pachidermico ed ossessivo dei nostri, in due tra i brani meglio riusciti degli esordi della band inglese. Pesanti, magnetici, profondi, stralunati, seminali, visionari, gli Esoteric hanno iniziato da qui a tracciare il loro percorso musicale, con una serie di perle apocalittiche che trovano pochissimi rivali nel panorama musicale. Ascoltando la malata "Infanticidal Fantasies" o la spettacolare porzione solistica di "Expectations of Love", appare evidente la ragione per cui ancora oggi ci siano band che prendono i nostri come punto di riferimento nell'ambito funeral doom, considerando quanto 'Esoteric Emotions - The Death of Ignorance' risulti cosi attuale anche a distanza di 25 anni dalla sua nascita. Ottima pertanto la decisione da parte dell'etichetta inglese di ristampare, peraltro in un elegantissimo e curatissimo digipack, quest'opera ormai introvabile. Spaventosi. (Francesco Scarci)

Accurst - Messenger of Shadows

#PER CHI AMA: Ambient/Ritual/Drone
È la seconda volta che ci troviamo di fronte ad una band cipriota: la prima fu con i Soulsteal, ora conosciamo gli Accurst, con il loro 'Messenger of Shadows', album, il terzo, uscito originariamente nel 2016 e riproposto recentissimamente dalla label britannica Aesthetic Death. Le atmosfere spettrali dell'opener, non lasciano presagire nulla di buono, se non una buona dose di incubi ad affannare il nostro sonno. "Enveloped by Erebos", la seconda traccia, conferma il forte desiderio da parte della one-man-band capitana da Nicholas Triarchos, di trascinarci in un viaggio angosciante, fatto di glaciali sonorità ambient/drone che non lasciano grandi spazi alle emozioni. Silenzi rarefatti e atmosfere raggelanti sembrano sopraggiungere dallo spazio profondo. E ancora, rumorismi vari che potrebbero provenire da un qualsivoglia castello infestato, generano di certo una certa suspense, ma alla lunga non fanno altro che indurmi allo sbadiglio, proprio perchè mancano di uno spunto vincente. Affrontare gli oltre 13 minuti di "Gazing into the Abyss (The Depths of Tartaros)" poi credo sia di una fatica inaudita e sfido anche gli amanti di simili sonorità a mettersi alla prova con l'ascolto alquanto inutile di una simile proposta. Se sentiste i miei rantoli al telefono o i miei bisbigli, siete certi che vi emozionereste allo stesso modo? Non credo proprio, perchè non credo nella reale validità di un simile lavoro. Magari, il mio collega Bob Stoner con queste nefande sonorità ci andrebbe a nozze, chiuso nel buio delle sue stanze, io francamente necessito di qualcosa di più di un rituale esoterico ("Endorcism - Channeling Eurynomos"), di sordide sonorità noisy che dovrebbero avere il solo effetto di spaventarmi o di un banale tocco di pianoforte ("Obsequies for the Apocalypse"). Scusate, ma avrete intuito che 'Messenger of Shadows' non mi convince affatto. (Francesco Scarci)

mercoledì 18 aprile 2018

Drudkh - Їм часто сниться капіж (They Often See Dreams About the Spring)

#FOR FANS OF: Post Black, Wolves in the Throne Room
Drudkh's first full-length album since 2015 shows a band shaking off the frost of an unforgiving winter with a fresh tumult that leaves trees shuddering and strings screaming, quaking the earth with a monstrous sound lurking high above the timbers and swaying in the winds. Moments of fury erupt from clay and rocks as each appendage of this Ukrainian quartet strives to elaborate on specifics in its style while maintaining its consistent overall quality in engaging atmosphere and mesmerizing cycling, a gigantic gallop of the forest's foremost advocate embodied in a titan of black metal artistry. A motif of decay and resurrection has been a mainstay of Drudkh's songwriting throughout its fifteen year career, best exemplified by sullen guitar passages that reach their solstices in hateful highs before returning to depressive drawling lows as they recycle and replant their roots. Yet it is in the blends and blotches that Drudkh finds its most uncorrupted cultivation, a dreamlike blur that seems improvisational but is actually a carefully approximated sound, something where a contributing moment may seem muddled and misshapen but applies itself as a perceptibly necessary attribute into the larger scheme.

Near the second half of “У дахів іржавім колоссю... (U Dakhiv Irzhavim Kolossyu…)”, the drums kick up with a tantalizing blast beat as a backdrop of heaving guitar trills to the tone of a lonesome bird calling out for a companion. The lead sawing across the top shreds bark and sinew with the dull patter of a distant woodpecker following such violence. Blast beating comes with the frequency of clouds during a blustery summer day, the wind high in the atmosphere as shade darkens the sun and quickly passes by to bring back Sol's full intensity. Such captivating landscapes are painted in meditative and calculated brushstrokes, as though the mixtures of colors and blending definition of impressionist painting is lent its own audible backdrop, a prominence in this gallery of sound delightfully shown in the final pieces on the album. “За зорею, що стрілою сяє (Za Zoreyu Scho Striloyu Syaye…)” blows winds of a familiar anthem, the crisp air of autumn reprising its role in contrast to spring, conjuring the swift streaks of oranges and yellows in Monet's “San Giorgio Maggiore at Dusk” in order to share in the theme of 'The Swan Road' or 'Autumn Aurora'. “Білявий день втомився і притих (Bilyavyi Den’ Vtomyvsya I prytykh… )” brings a signature scramble to its precipice with sawing guitars, shrilly screaming through banks of foggy distortion and blending, calling out through the morning mist in primitive mention of Monet's “Impression, Sunrise” to raise a fresh levy of barbarian warriors, echoing goodbyes across placid waters walled in by rising rocky cliffs. The quiet melody of the lead guitar longingly mires its melancholy footing in the sopping mud of a springtime low tide. As the boat disappears in the distance the sun begins to burn off the fog, opening the cloistered world to the beauty of expanse, the allure of adventure, and the hope of a successful raid and lucrative future.

'Їм часто сниться капіж (They Often See Dreams About the Spring)' is Drudkh elaborating in all the right places while sticking to its tried and true formula. The heady atmosphere blending blotches of noisy notation, imposing and transfixed on the spirit of nature, can find itself falling into the background of the mind at times, but always returns to a path that fiercely draws attention to itself in the right moments. Giving sound to an already muddled style that captures the eye when closed and the mind when dreaming, Drudkh has always maintained a soft spot for impressionist art, providing tangible texture throughout its lower fidelity career. With the cleanliness of its production throughout this latest foray into a stand-alone full-length, the band has smoothed out its canvas while providing a more vibrant color palette for its digitized display. (Five_Nails)
 

martedì 17 aprile 2018

Aes Dana - Pollen

#PER CHI AMA: Electro Ambient Sperimentale
Avvolta in un involucro dal delicato e sofisticato artwork, la nuova released di Vincent Villuis (aka Aes Dana), disponibile peraltro anche a 24 bit per i puristi del suono, è un distillato di ipnotica ed eterea ambient/dance music altamente digitalizzata, proveniente dalla parte più intima e profonda di un compositore/ricercatore e cultore di nuove vie espressive in fatto di musica ambient del futuro. Con queste intenzioni, il co-fondatore della Ultimae Records, la splendida e raffinata etichetta francese, ha cercato di fondere le cadenze di una certa dream wave sperimentale con l'ambient cinematico e con la psichedelia naif alla Ozric Tentacles, spogliando la musica dei folletti britannici di tutto il loro germogliare prog rock. Il tutto estraendone solo linfa sonora space ambient e fondendola con la techno trance, senza mai caricare in aggressività, e creando alla fine un effetto filmico alla Tangerine Dream. Un viaggio purificatore dove si ridefinisce il concetto di techno ambient, dove la danza stimola la riflessione e l'emotività, dove la macchina aiuta il musicista a riscoprire l'essenza del suono, dove il territorio della new age viene conquistato da un'alchimia sonora più introspettiva e trasversale, che punta al contesto intimo e profondo, dove il concetto di ambiente è astratto, indefinito e tutto da interpretare per vie sensoriali. Ascoltate "Conditioned" o "Tree.Some", con i loro ritmi leggeri, le eteree e rarefatte costruzioni timbriche, le pulsazioni primordiali ed ogni tipo di suono che va scarnificandosi per prepararci al volo ipnotico. Rimandi continui ad un nuovo inizio spirituale, una musica di sopravvivenza, i Massive Attack senza il veto del dub, l'elettronica strumentale dal gusto ricercato e fine, le pulsazioni di certi Aphex Twins violentati dal mite e romantico suono del buon Tim Hecker, quello dello splendido album intitolato 'The Ravedeath, 1972'. Prendetevi il tempo necessario per ascoltare questi 10 brani di ottima fattura, rallentate il battito cardiaco e mettetelo in sincronia con le angeliche melodie di 'Pollen', consumate "The Meeting Point" in solitudine, magari in macchina girando di notte a cercare voi stessi. Scioglietevi di fronte ad "Horizontal Rain", potreste perdervi come in un film di Wim Wenders. (Bob Stoner)

(Ultimae Records - 2017)
Voto: 85

https://ultimae.bandcamp.com/album/pollen

lunedì 16 aprile 2018

Geisterwald - S/t

#PER CHI AMA: Industrial, Rammstein, Samael
Geisterwald, che in tedesco significa boschi infestati, è una nuova band (un duo per l'esattezza) proveniente da Ginevra. Strana la decisione di avere un monicker in tedesco per una band la cui lingua ufficiale dovrebbe essere il francese, cosi come i titoli dei brani, sempre in lingua germanica. Certo, le origini di Harald Wolken e Gaelle Blumer sembrano condurci proprio in terra teutonica, anche per ciò che concerne le influenze dell'act elvetico. Cinque (anzi quattro visto l'enigmatica intro) i pezzi a disposizione per i due musicisti, per confessarci la loro passione per sonorità industriali ancorate ad un nome su tutti, i Rammstein. Già in "Alte Körper" si capisce l'impronta dei nostri, che si muovono con pragmatismo, sui binari dell'industrial sorretto da bei chitarroni iper ritmati, sostenuti poi da un'importante base sintetica e da un dualismo canoro tra uno orchesco growling, teso sempre a sottolineare alcune parole chiave del testo, ed una porzione pulita affidata a dei cori assai orecchiabili, il tutto sempre rigorosamente cantato in tedesco. La traccia è godereccia, breve e ficcante, s'imprime immediatamente nella testa con quelle sue melodie cariche di groove; guardatevi anche il loro video su youtube e vi farete un'idea più precisa. Questo sarà alla fine il canovaccio per l'intero lavoro che anche con le seguenti "Kreuz" e "Wolf", ha modo di regalarci brani sempre cadenzati, metallici sia ben chiaro, ma gustosi, estremamente catchy, quasi danzerecci (soprattutto in "Wolf"), di fronte ai quali è quasi impossibile rimanere impassibili e non scuotere le teste in un headbanging frenetico. A mio avviso la forte influenza dei Rammstein (ma anche dei Samael più elettronici), la si respira nella conclusiva "Schlag Stärker", un brano che racchiude tutto il campionario della band di Berlino grazie ai tipici suoni techno (di scuola Ministry), all'immancabile durezza del metal espressa nel tappeto ritmico e parti quasi vicine all'ambient, in quella che è la song più strutturata e rappresentativa di questo breve ed indovinato EP dei ginevrini Geisterwald. (Francesco Scarci)

domenica 15 aprile 2018

Satan's Host - Burning The Born Again... (A New Philosophy)

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Black/Thrash, Slayer, Morbid Angel, Dissection
Perse le tracce per quattro anni, tornano alla ribalta gli statunitensi Satan's Host, una delle band più oscure e leggendarie dell'underground thrash degli anni '80. La loro fondazione infatti, risale addirittura al 1978: dopo trent'anni (la band però si sciolse tra il 1988 e il 1999, a causa della morte del loro batterista, in un tragico incidente), il terzetto del Colorado è ancora vivo e vegeto, con un sound che preserva quel primordiale alone di mistero (forte di una pesante influenza derivante dai Black Sabbath), fatto di graffianti sonorità thrash/death, tinte di tonalità epico-sataniche (il face-painting è ancora in voga tra i nostri). 'Burning the Born Again', uscito originariamente nel 2004 solo negli USA, trova solo nel 2007 una distribuzione mondiale, grazie alla Moribound Records, che lo ripubblica, con un paio di bonus tracks aggiuntive. Il sound dei nostri continua ad essere velato di una malvagità di fondo che trova ben pochi eguali nel mondo: non ci sono band black o di qualsiasi altra sorta, che possiedano lo stesso feeling maligno dei Satan's Host. Il loro black/power/thrash è costruito da diaboliche chitarre che pennellano sinistre e ancestrali melodie, con le malate vocals di Eli Elixir (in un mix di screaming e clean vocals) a narrare storie di una blasfemia indicibile. Ciò che più mi esalta di questo lavoro, sono le evocative quanto mai oscure atmosfere che la band è in grado di creare e quella puzza di zolfo che si continua a respirare lungo tutte le 15 tracce qui contenute. Le ritmiche non sono tiratissime, viaggiano su mid tempos ragionati, talvolta articolati, che poi esplodono in furia devastante, come accade proprio nella title track. Da segnalare ancora gli ottimi assoli di Patrick Evil e gli immancabili evocativi chorus che da sempre contraddistinguono le release dei nostri. L'Armata di Satana è tornata, preparatevi a prestare giuramento al maligno... (Francesco Scarci)

(Moribound Records - 2007)
Voto: 75

https://www.facebook.com/SatansHost

Tronus Abyss - Kampf

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Dark/Ambient/Folk/Industrial
Non ho mai trovato entusiasmante la proposta musicale dei Tronus Abyss, né durante il loro periodo black metal, né con la successiva svolta elettronico-sperimentale, ma la sorprendente facilità con cui 'Kampf' è riuscito a catturarmi non mi ha lasciato indifferente, perciò ho voluto ascoltare l'album più volte prima di formulare un giudizio che fosse il più possibile obiettivo. È evidente che 'Kampf' possieda qualcosa in più rispetto ai due album precedenti e non è solo di mera "estetica" del pentagramma che sto parlando, ma di genio e di intuito, elementi che il gruppo torinese ha saputo esprimere in modo assolutamente nuovo, conferendo ai propri brani un fascino mai troppo celato e rivalutando il concetto di sperimentazione in un'ottica scevra da rigidi meccanismi autocelebrativi. Il tracciato sonoro già battuto con 'Rotten Dark', viene rivisitato dal gruppo mantenendo parzialmente salda la mescolanza tra musica medievale e grottesche sfumature electro-apocalittiche, ma diversa è forse la chiave di lettura, come lo è la vena creativa di Malphas e Atratus, i quali paiono aver trovato una grande ispirazione e un nuovo vigore compositivo tra le note di quest'album, slegandosi tra l'altro da ogni riferimento stilistico al black metal. Noise, industrial, folk apocalittico, dark ambient: in 'Kampf', queste molteplici influenze emergono intrecciandosi armoniosamente attraverso i nove brani che compongono l'opera e ad esempio di questa sublime commistione di generi potrei certamente portarvi la title-track, introdotta dai rintocchi funebri di un pianoforte, mentre una drammatica declamazione narra di visioni cosmiche, richiami esoterici ed amare invettive sulla decadenza di un'epoca. Stupendi anche gli oltre sette minuti di "Mabuse", un percorso allucinante lungo le estetiche surreali del cinema espressionista tedesco, rivissute attraverso le ebbre alterazioni di Atratus, la cui voce tuona ancora fiera e sprezzante tra gli opprimenti fraseggi d'organo. Perdetevi tra le note di 'Kampf' e assaporatene ogni singolo tassello: dagli imponenti fiati de "L'eredità del Cinghiale" alle melodie medievali di "STH.492", fino ai neoclassicismi di "Radio Europa MMIII". Notate anche come ogni piccolo particolare, nei Tronus Abyss, diventi un elemento insostituibile per l'integrità del brano e come l'apporto del nuovo componente Mord sia ora più che mai vitale nello schema compositivo del gruppo. Nella traccia di apertura, come in "Funeral", le chitarre di Mord aiutano infatti a rendere ancor più disturbanti le atmosfere, creando un clima di febbricitante angoscia e insinuandosi nella struttura portante dei pezzi, quasi a confondersi con il suono dei synth. In conclusione, dire se 'Kampf' sia o meno un capolavoro non risulta affatto semplice, ma una cosa è certa, la stella dei Tronus Abyss brilla oggi di una luce nuova e più splendente. A voi il compito di volgere in alto lo sguardo e saperla scorgere. (Roberto Alba)

(Pagan Moon Organization - 2003)
Voto: 75

https://myspace.com/tronusabyss

Prophets of Rage - S/t

#PER CHI AMA: Rap Metal, Rage Against the Machine
Più che rabbiose canzoni di protesta o gloriosi inni alla ribellione, la sedicente controffensiva dei Profeti della Rabbia (codificata in "The Counteroffensive", appunto) consiste di dodici generici brontolamenti da novantesimo minuto sulla coscienza di classe ("Strenght in Numbers"), la disuguaglianza sociale (la 110 di "Living on the 110" sarebbe l'autostrada che conduce alle zone residenziali di Los Angeles, lungo la quale vivrebbero migliaia di homeless in condizioni di estrema povertà), la privacy (già, la privacy, in "Take me Higher"), la menzogna del sogno americano (seguite il testo "Bombs droppin on cities where kids play / soldiers fallin' in the name of freedom hey / civilians buried in the rubble where dreams die / politicians spew lie after fuckin lie" di "Unfuck the World" e divertitevi a contarne i luoghi comuni). Le canzoni sono vecchie outtakes dei R-A-T-M e si sente ("20 kilotons of explosive rock’n’roll music of the R-A-T-M catalog", commenta in un'intervista Ottimismo Morello itself) ma il suono è indubitabilmente quello R-A-T-M (anche Audioslave, in "Legalize me" e "Take me Higher"), il tocco laser-chitarristico è inconfondibilmente quello di Ottimismo M. e il rapping è inconfutabilmente quello di Baperino-Real e voi, insomma, per quanto sia difficile ammetterlo in pubblico, voi per quelle cose lì ci avete un fottutissimo debole e non sapete proprio come giustificarvi. E perché poi dovreste? (Alberto Calorosi)

(Fantasy Records - 2017)
Voto: 70

http://prophetsofrage.com/

giovedì 12 aprile 2018

Persefone - Core

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Prog Death/Black Symph, Opeth, Dimmu Borgir
E anche il piccolo stato di Andorra ha la sua band metal: si tratta dei Persefone, che oggi ha parecchia notorietà nel circuito underground ma che nel 2007 rappresentavano forse una curiosa realtà proveniente dal piccolo stato immerso nei Pirenei. 'Core' è il loro secondo lavoro (originariamente rilasciato nel 2006 solo in Giappone, poi anche nel resto del mondo, attraverso la Burning Star Records e ristampato anche nel 2014 visto il sold-out originario), dopo 'Truth Inside the Shades' datato 2004. Il sestetto, formatosi nel 2001, propone un sound a cavallo tra il death (per ciò che concerne le ritmiche) e il black sinfonico (per quanto riguarda gli arrangiamenti e le orchestrazioni). Sicuramente molte sono le fonti di ispirazione per il combo ritrovabili in acts quali Borknagar, Arcturus o Old Man's Child, senza tralasciare neppure le sonorità di Opeth, Orphaned Land e Symphony X. A leggerla così, sembrerebbe di trovarsi fra le mani un bel pacco bomba, in realtà, la proposta dei nostri a quei tempi non si mostrava ancora del tutto matura, anche se s'intravedevano ampi margini di crescita. Le idee ci sono, e anche buone devo ammettere, mancavano forse i mezzi adeguati e una guida esperta, che potesse indicare la giusta via a questa giovane band. 'Core' è un concept album, diviso in tre parti, narranti la storia di Persefone, la mitologica dea greca dell'oltretomba. La musica dicevo, è un mix di death metal, con originali divagazioni in ambito progressive (stile Dream Theater) grazie ad eccelsi virtuosismi dei singoli e ad una generalizzata complessità delle ritmiche (ascoltare la bellissima quarta traccia “To Face the Truth” per capire di cosa stia parlando); accanto al prog death metal sono udibili gli accenni al black sinfonico, con chiare orchestrazioni di scuola Dimmu Borgir ed un elegante avantgarde di matrice Arcturusiana. La presenza di una vocalist femminile ammorbidisce lo screaming feroce (da rivedere) del cantante (che si trova a ringhiare sia in formato growl che clean). Eccellenti le tastiere, a testimoniare la vena progressive dei nostri, cosi come le parti semi-acustiche e le oscure melodie, che completano un lavoro assai articolato e sicuramente di non facile presa, ma certamente già di grande interesse. (Francesco Scarci)

(Burning Star Records - 2007)
Voto: 70

https://persefone1.bandcamp.com/album/core

Prosperity Denied - Consciousless

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Death/Grind
La viennese Noisehead Records non è stata un'etichetta troppo lungimirante: dopo la scadente prova dei Misbegotten, ci ha riprovato da li a poco con gli austriaci Prosperity Denied e ahimè il fiasco si è mostrato ancora dietro l'angolo. Il terzetto, formatosi nel 2006 da una costola dei Ravenhorst, proponeva l'ennesimo esempio di death metal, sporcato da influenze derivanti dall'hardcore, dal punk, dal grind e addirittura dal black metal. Il risultato sfortunatamente non è stato dei migliori: undici tracce super aggressive, incazzate, veloci, taglienti, ma come se ne ascoltavano e se ne ascoltano tuttora a migliaia in giro ogni giorno. Chitarre ruvide, non troppo pesanti, una voce al vetriolo, una batteria che bada più alla quantità che alla qualità, confermano quanto già detto: tra le mani non ci troviamo niente di particolarmente interessante. A meno che non siate fans sfegatati di questo genere, di cui tutto è già stato scritto e ripetuto una infinità di volte, lasciate pure perdere. (Francesco Scarci)