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venerdì 4 marzo 2016

Ottone Pesante - S/t

#PER CHI AMA: Heavy Brass Metal
Ok, provate a immaginare la banda del vostro paese, quella che apre le celebrazioni del 25 Aprile in piazza, a suonare death metal, e avrete un’idea di quello che è racchiuso in questo EP. Del resto sta già tutto nel gioco di parole del nome: l’ottone è la lega metallica di cui sono fatti gli strumenti suonati dai tre musicisti: tromba, trombone e (in parte) batteria, ed è quindi solo una precisazione di quale tipo di metallo pesante stiamo parlando. Simone Cavina (batteria) si era già visto all’opera con Iosonouncane, mentre Paolo Raineri (tromba) e Francesco Bucci (trombone) sono la sezione fiati già sentita nei dischi dei Calibro 35, per cui il trio aprirà i concerti per il tour di S.p.a.c.e. Anche alla luce di questo, nulla lasciava presagire che i tre fossero in realtà degli appassionati ascoltatori di musica metal, per dirla con loro parole, “dagli Slayer ai Meshuggah”. Perchè questo fanno, in pratica, gli Ottone Pesante: metal, con due ottoni e una batteria. Niente chitarre, niente basso, nemmeno un sax, strumento già usato in precendeza in operazioni in qualche modo assimilabili da John Zorn nei Naked City o dagli Zu, tanto per fare un paio di nomi. Dopo un attimo di straniamento iniziale, questi 5 brani (poco piú di un quarto d’ora di musica) si insinuano sotto pelle, cominciano a suonare meno bislacchi e nelle orecchie rimane un concentrato di potenza primordiale, ottenuta senza l’aiuto di artifici tecnologici, nemmeno un po’ di corrente elettrica. Quà e là rimane l’effetto di una versione ipercinetica della colonna sonora di qualche film di Kusturica, ma è un inevitabile effetto collaterale, quasi un difetto strutturale insito in una formazione del tutto peculiare. Al netto di tutte queste considerazioni, rimangono 5 tracce di “brass death metal”, strumentale veloce e tonante (menzione speciale per la prestazione tentacolare di Simone Cavina), che ci si ritrova a voler ascoltare piú spesso e con piú piacere di quanto non si pensasse all'inizio. Se il progetto avrà un futuro o si limiterà ad essere un divertente e riuscito esperimento, lo vedremo nei prossimi mesi. Per il momento, bravi! (Mauro Catena)

(Solo Macello - 2015)
Voto: 75

giovedì 3 marzo 2016

Bedowyn - Blood of the Fall

#FOR FANS OF: Heavy/Stoner/Doom Metal, Mastodon, Hellyeah
The debut full-length from North Carolina metallers Bedowyn offers a rather decent mixing of an eclectic style here mixing together a series of traditional metal, doom and stoner rock into a progressive mixture found in here. The basic component here is still far more traditional in base with swirling heavy rhythms and plenty of tight drumming that gives this one quite a fine base for sturdy, tough-sounding rhythms that are balanced alongside the extended, psychedelic noodling that tends to give this the kind of sprawling musical sections that recall more Stoner Rock/Metal with the type of swirling rhythms over elongated passages. This is all done quite nicely throughout here into a pleasing and overall enjoyable ride that makes for a rather promising and enjoyable new band with a lot of potential. While some of the simpler arrangements showcase the fact that the band is still new and haven’t gotten a true handle on their style yet this is a more-than-worthy start here with some enjoyable tracks. Opening instrumental ‘The Horde’ brings a deep distorted guitar riff droning over the reverb-laden background leading into proper first track ‘Rite to Kill’ slowly brings the thumping drumming along with the strong series of swirling stoner-influenced riffing filled with a strong series of dynamic drumming that keeps this changing through a high-impact velocity of tempos throughout the final half which makes for a good opening impression. The title track features a fine swirling riff with droning along through a series of mid-tempo rhythms all taking the thumping rhythms and dexterous drumming through the extended droning style of riff-work into the stoner-style solo section into the finale for a somewhat enjoyable effort. ‘Cotard's Blade’ offers light, melodic droning riff-work with heavy, droning rhythms carrying along the stylish mid-tempo paces as the dramatic switch-over into a rousing, thumping solo section brings along plenty of fine energy into the final half for another enjoyable effort. The mostly bland ‘Leave the Living...for Dead’ uses swirling, droning riff-work and plodding rhythms that take the dull paces along through the tight and explosive riffing and thumping drumming that picks up considerable energy and intensity into the finale for a fine if overall unimpressive feature. The useless mid-album instrumental breather ‘For a Fleeting Moment’ uses sampled rain-fall and thunder-strikes alongside a melancholy acoustic guitar lilting away that ends on an extended fade-out ‘Where Wings Will Burn’ uses an extended, moody atmospheric riff with light drumming that slowly grows into thumping, heavy mid-tempo riffing with swirling rhythms throughout the steady pacing that continues throughout the final half for another overall unappealing effort. ‘I Am the Flood’ features a slow-building series of swirling riff-work and gradual drumming to a mid-tempo series of rhythms that bring the simple rhythms down into a rather frantic second half with plenty of dynamic drumming and extended soloing throughout the finale for a much more enjoyable track. ‘Halfhand’ features a light, melancholy acoustic guitar with plodding paces and sprawling swirling rhythms that make for a wholly dragging and lethargic tempo with the tighter patterns coming from the final half for a quite overlong and somewhat troubling effort. ‘Lord of the Suffering’ features a long, swirling intro with bland riffing and heavy, thumping drumming slowly taking a series of swirling, mid-tempo riffs into an extended series of sprawling, atmospheric noodling with ambient celestial patterns throughout the extended finale for a slightly better if another overlong effort. Lastly, ‘The Horde (Exodus)’ takes a stoner-style swirling riff through extended sprawling atmospheres in an enjoyable lasting impression. It doesn’t really offer up a whole lot of flaws here, but there’s still enough here to make for an enjoyable if somewhat troubled first effort. (Don Anelli)

(Self - 2015)
Score: 70

Phobonoid - S/t

#PER CHI AMA: Experimental Black, Blut Aus Nord, Darkspace
Esattamente due anni fa scrissi dell'EP di debutto della one man band trentina, 'Orbita', un concept album che riguardava la fine della civiltà su Marte. Ora Phobos torna con il suo full length d'esordio che, stando ai titoli, continua ad affrontare tematiche spaziali con suoni, che come un'onda gravitazionale, si propagano minacciosi nello spazio profondo. Dodici i capitoli a disposizione del musicista italico, tra cui tre tracce strumentali. "Fiamme distanti si accavallano nella nube del tempo, la polvere soffia attraverso la luce riflessa, trema lo spazio invaso dalla paura del passato, si muovono le forme colpite dal passo di crono": cosi apre il disco con i toni apprensivi di "Crono". Segue "Alpha Centauri" e come potete intuire, i riferimenti intergalattici non si sprecano. Da un punto di vista musicale poi, la proposta dei Phobonoid si muove su sonorità black sperimentali, chiamando in causa per qualche affinità mal celata, Darkspace e Blut Aus Nord, come già avevo avuto modo di evidenziare nel precedente lavoro. Anche qualche punto di contatto con i Progenie Terrestre Pura sarà riscontrabile nell'arco degli oltre 40 minuti del disco, ma non solo. "La Sonda di Phobos" ha infatti da offrire suoni glaciali che ammiccano al doom più desolante, mentre "Fuga nel Vuoto" crea un forte senso di disagio per quell'aura iniziale che poteva fare tranquillamente da colonna sonora a 'Gravity', nel momento in cui la tempesta di asteroidi si abbatte sulla navetta spaziale dei protagonisti. L'effetto infatti è il medesimo, con quel senso di angoscia legato alla catastrofe incombente. "Eris" (cosi come pure la title track conclusiva) è una traccia di black mid-tempo dai toni marziali che annichilisce esclusivamente per la fredda asetticità che emana. Si sprofonda nuovamente negli abissi della rarefazione galattica con il flemmatico incedere de "La Risonanza della Sonda", in cui la demoniaca voce del frontman è quanto di più vicino al genere umano che questo disco ha da offrire. Se in "Kairos" c'è un tocco di velata malinconia nelle sue melodie, è forse con "Frammenti di Luce" che il cd tocca il suo apice artistico, un pezzo che miscela egregiamente il black cibernetico e avanguardistico con lo sconforto del doom più oscuro. "Tachyon", la terza song strumentale, è invece quanto di più si avvicini a sonorità aliene, con suoni distorti, sghembi e disarmonici che per certi versi si spingono in territori quasi trip hop, quello dei Massive Attack più tenebrosi. Il mio viaggio l'ho compiuto e voi vi sentite pronti per un altro viaggio interplanetario in compagnia dei Phobonoid? (Francesco Scarci)

(Dusktone Records - 2015)
Voto: 70

mercoledì 2 marzo 2016

Wildernessking - Mystical Future

#PER CHI AMA: Post Black/Progressive, Enslaved
L'etichetta francese Les Acteurs de l'Ombre Productions ha stranamente allungato i suoi tentacoli anche al di fuori dei confini del proprio paese, andando a pescare i sudafricani Wildernessking, con un disco che è uscito anche in vinile e cassetta. Noi, il quartetto di Cape Town lo conosciamo già, in quanto nel 2013 parlammo piuttosto bene del loro debut cd, come un black metal venato di influenze post metal e suoni progressivi. Ebbene, a distanza di quasi tre anni da quel lavoro, mi ritrovo in mano il nuovo digipack 'Mystical Future', un disco che sorprende immediatamente per un approccio diverso rispetto a 'The Writing of Gods in the Sand', qui assai più malinconico e spirituale. È "White Horses" ad avere l'incombenza di darci il benvenuto con un lungo bridge chitarristico su cui poi si staglieranno le voci caustiche, ancora non del tutto convincenti, di Keenan Nathan Oakes. La musica dei nostri si muove poi su di un tappeto di suoni eterei che si rifanno palesemente al post rock e hanno il merito di deliziare i nostri timpani, senza ricorrere a sfuriate di stampo post black, come era lecito aspettarsi. Nella seconda "I Will Go to Your Tomb", riesco addirittura a captare un che dell'epicità pagana dei Primordial, sia a livello ritmico che di atmosfere, ma dopo svariati ascolti, mi rendo conto che la band a cui i nostri sembrano essere più debitori in questo momento, siano in assoluto gli Enslaved, andando a tessere lunghe e psichedeliche fughe lisergiche dal forte sapore prog. "To Transcend" la potrei addirittura associare ad una ballad black metal, una bestemmia per carità, ma il calore che emana, ha suscitato in me inespresse emozioni. In "White Arms Like Wands" ecco esplodere il classico rifferama post black, con ritmiche serrate e blast beat a manetta, su cui le voci di Keenan meglio si adattano. Lungo gli oltre otto minuti del pezzo, i nostri si riassestano poi su suoni mid-tempo, aumentando però l'intensità della propria proposta grazie all'utilizzo di chitarre in tremolo picking, che donano quell'inevitabile aura malinconica alla composizione. Gli ultimi 12 minuti di 'Mystical Future' sono affidati a 'If You Leave', brano oscuro in cui trovano addirittura spazio i vocalizzi di un'angelica donzella, Alexandra Morte, un nome un programma. La song è la più spirituale dell'intero disco, merito di Miss Morte, che con il suo intervento a controbilanciare l'arcigna voce di Keenan, impreziosisce la qualità di questa interessantissima release, mentre la musica disegna spettacolari e strazianti melodie, tra break acustici e momenti di delicata sofferenza, in un pezzo che strappa tanti applausi dal sottoscritto e impenna anche la mia valutazione conclusiva. Calibrando qui e là alcune cose, il prossimo album dei Wildernessking non potrà che essere un capolavoro. Ben fatto. (Francesco Scarci)

(LADLO Prod - 2016)
Voto: 80

domenica 28 febbraio 2016

Sahona - S/t

#PER CHI AMA: Rock Progressive
I Sahona sono una formazione francese di matrice indie rock con richiami progressive e attitudine shred metal, in attività dal 2014. Siamo di fronte ad una classica rock band di quattro elementi e questa di cui parleremo, è la prima ed omonima pubblicazione autoprodotta. La copertina rappresenta, per assurdo, quello che le orecchie andranno a percepire, cioè un paesaggio poco definito e surreale in cui una piccola ombra antropomorfa osserva la strada che sta percorrendo, indecisa se proseguire o virare sul sentiero che si stende alla sua sinistra. Il nome della band deriva dal cognome del cantate chitarrista Charly Sahona, il principale autore e mente dell’opera. Charly è un gran musicista senza dubbio, ha perfetta padronanza della sua voce, della sua chitarra e dei suoni in generale, ma purtroppo qualcosa non torna. Sembra infatti che Charly stia guidando una Ferrari ma non abbia idea di dove stia andando. Gli altri componenti della band sono altrettanto validi tecnicamente ma ciò che manca ai Sahona non è sicuramente il saper suonare ma è la ricerca di significato, di qualcosa da trasmettere. Ma ora basta parole, inseriamo 'Sahona' nel lettore e vediamo cosa esce. All’inizio la sensazione è piacevole, c’è un forte gusto per la melodia e i suoni sono curati in maniera quasi maniacale. L'opener “Light of Day, Sense of Life” per qualche attimo mi culla e mi soddisfa, grazie a uno scenario pacifico, psichedelico ed etereo dal sapore molto Muse; anche la voce mi ricorda molto quella di Bellamy, le note sono suadenti e cantate con forte carica emotiva. Tuttavia questo paesaggio non riesce a trovare una sua giusta forma nella mente di chi ascolta perché interrotto da parti che musicalmente sembrano non avere molta attinenza con le precedenti, ogni parte ha una sua linea vocale differente e una diversa sequenza di note. L’effetto è quello di non riuscire a seguire il pezzo per le troppe informazioni proposte, l’orecchio è continuamente sorpreso da nuove idee ma allo stesso tempo spaesato in quanto non riesce a trovare il filo conduttore che guidi le sensazioni attraverso il brano. Il livello tecnico però rimane altissimo, non c’è una sbavatura e tutti i musicisti sono perfettamente amalgamati. Il disco prosegue senza troppe sorprese, tutte le tracce presentano caratteristiche simili, cioè una strofa psichedelica stile Muse, un ritornello distorto e l’immancabile assolo shred, con mille note eseguite a velocità supersonica, peraltro sempre in modo impeccabile. A parere mio questo tipo di assoli risultano fuori luogo con il sentimento delle canzoni, e purtroppo molto spesso ne rovinano l’atmosfera. Vale la pena ascoltare questo disco per imbattersi in “I’m Alive”, forse il pezzo più interessante del cd. Si tratta di una ballata con un caldo suono di pianoforte elettrico come sottofondo, la voce è sognante e malinconica e l’intreccio di strumenti crea un paesaggio onirico senza tempo. Questa song sarebbe andata in loop per un bel po’ nel mio stereo, se non fosse presente l’elemento di disturbo degli assoli; in questo disco sembra che ogni brano debba per forza contenerne uno. Da notare la gran prestazione di batteria di Stephane Cavanez che negli ultimi brani del lavoro trova la sua maggiore espressione; in generale in tutta l’opera, la precisione della ritmica è senza dubbio un punto di pregio. Alla fine, 'Sahona' è un lampante esempio di come la capacità tecnica non sempre riesca a produrre della musica che parli all’anima. Dalle note si percepisce un ego molto presente e una forte tendenza all’autocelebrazione; ma la musica deve fare bene a tutti, non solo a se stessi. In conclusione una cosa bella: sicuramente quando l’ombra in copertina si renderà conto di quale via è destinata a percorrere, la musica dei Sahona ci regalerà momenti memorabili. (Matteo Baldi)

(Self - 2016)
Voto: 55

Heads - S/t

#PER CHI AMA: Noise Rock, Jesus Lizard
Quanto è grande e profondo il retaggio lasciato dai Jesus Lizard? Sarebbe uno spunto interessante per un saggio critico su quello che il gruppo di David Yow e Duane Denison ha significato per tutto il rock cosiddetto “noise” che, dopo di loro, non è piú stato lo stesso. Di certo, dischi come 'Goat' o 'Dirt' hanno significato qualcosa di molto, molto importante, per i tre membri degli Heads, due berlinesi e un australiano trapiantato nella capitale tedesca, che hanno dato alle stampe il loro esordio nel 2015, ma nessuno avrebbe sospettato nulla se la data impressa sul disco fosse stata di vent’anni precedente. La sezione ritmica teutonica (Chris Breuer al basso e Peter Voigtmann alla batteria) è una macchina dalla coesione impressionante (prendere nota alla voce “come ottenere il suono di basso perfetto”) su cui impeversano la chitarra spigolosa e la voce profonda di Ed Fraser, per un album rapido (meno di mezz’ora) che è una vera e propria boccata d’aria fresca. Se i riferimenti paiono quanto mai precisi (“A Mural is Worth a Thousand Words” sembra presa di peso da un disco dei Jesus Lizard di mezzo), il modo in cui gli Heads fanno loro il linguaggio noise rock è molto personale e consapevole, come già avevano fatto gli altri magnifici esordienti Ha Det Bra nel loro splendido 'Societea for Two'. Solo che qui Fraser e soci rallentano e puntano all’essenzialità del suono laddove i croati lo saturavano e infettavano al massimo. Un album che sembra registrato da Steve Albini, questo, asciutto e dritto, che punta tutto su una manciata di pezzi di assoluto spessore. Ed Fraser ha una voce profonda e un modo di cantare sornione che qualcuno ha accostato a Scott McCloud dei grandi Girls Against Boys e che a me ricorda anche Hugo Race, e il modo in cui questo riesce a sposarsi con la ritmica granitica e una chitarra deviata di stampo chiaramente denisoniano, risulta essere l’aspetto vincente di questo lavoro, soprattutto alla luce del fatto che questo conferisce alle sei tracce in scaletta un fascino sinistro e decadente davvero particolare. Se a questo uniamo il tono beffardo espicitato da titoli quali “Chewing on Kittens” e il fatto che “Black River” è, con quell’accelerazione finale che rimanda ai migliori Pile, semplicemente una delle migliori canzoni dell’anno, allora è chiaro che ci troviamo di fronte ad un esordio magnifico, autentico gioiello nel panorama noise rock, che lascia l’amaro in bocca soltanto per l’esiguità del programma e la breve durata, perchè di musica cosí ne vorremmo sempre un po’ di piú. (Mauro Catena)

(This Charming Man - 2015)
Voto: 80

https://headsnoise.bandcamp.com/album/s-t

Sequoian Aequison - Qual der Einsamkeit

#PER CHI AMA: Post Rock/Drone/Ambient
Quando arriva materiale dall'etichetta Slow Burn la giornata prende subito una buona piega, vista la qualità dei lavori da loro prodotti. In realtà stavolta c'è una collaborazione con Tokyo Jupiter Records (supporto cd) e Towner Records (cassetta), quindi le aspettative crescono a dismisura. I Sequoian Aequison (SA) nascono nel 2012 nella bellissima e ricca città di San Pietroburgo e nel corso della loro giovane carriera 'Qual der Einsamkeit' si posiziona come secondo e penultimo lavoro (si tratta di un EP di due lunghissimi pezzi), infatti qualche mese fa è uscito anche uno split con i Dry River, mentre il debut album 'Onomatopoeia' è stato recensito sempre dal sottoscritto su queste pagine alla fine del 2014. Il cd che ci è pervenuto è la versione per gli addetti ai lavori, priva di booklet, molto minimalista quindi e per cui non potremmo dare un giudizio sulla versione disponibile per il pubblico. Il genere perseguito dai SA è un post rock intriso di atmosfere ambient e doom, come la prima traccia "Der Sklave Des Nichts" (lo schiavo di niente) mostra con un inizio affidato a un lungo monologo in lingua tedesca. Man mano, il quartetto russo tesse una trama sonora oscura e malinconica, ma allo stesso tempo carica di tensione repressa pronta ad esplodere ad un cenno del capo. Arpeggi liquidi di chitarra e un pattern ritmico ipnotico crescono e calano a rotazione per circa undici minuti che grazie ad un'interpretazione artistica di tutto rispetto, riescono ad ammagliare e coinvolgere l'ascoltatore senza mai annoiarlo. Anzi, basta abbassare un poco le difese mentali e si entra subito nel mood della band, ciondolando lenti come un paziente di psichiatria che ha preso la sua dose giornaliera di farmaci. Nonostante la ritmica doom, sia il batterista che il bassista riescono a intrecciare riff e battute in modo da arricchire la composizione che altrimenti affonderebbe nella totale accidia. "Abendwasser" sembra il secondo atto dell'opera musicale imbastita dalla giovane band e come tale, ricalca suoni (perfettamente curati) e melodie già dettati dai maestri che segnarono la via da seguire. La struttura è la solita: campionamenti di voci e qualche suono elettronico qua è la, anche se in realtà è proprio l'esplosione che arriva quasi alla fine a far rimpiangere uno svolgimento diverso. La visione epica che la band crea in modo immaginario davanti ai nostri occhi, è una sorta di mondo parallelo, fatto di colori e profumi mai percepiti prima. Un mondo nuovo che esiste, ma che ci sfugge troppo presto dalle mani. In sè l'album è eccellente, i SA hanno studiato e messo in pratica alla perfezione tutto quello che già è stato fatto in questo genere, ora il punto da capire è se qualcuno avrà il coraggio e le doti per mischiare le carte in tavola e trovare un'evoluzione stilistica non fine a se stessa. (Michele Montanari)

(Tokyo Jupiter Records/Towner Records - 2015)
Voto: 75

https://sequoian.bandcamp.com/album/qual-der-einsamkeit

Orphans of Dusk - Revenant

#PER CHI AMA: Death/Gothic/Doom, Type O Negative, My Dying Bride
Australia e Nuova Zelanda non sono dopo tutto cosi lontane, cosi come non lo sono Canada e Russia. In un mondo in cui le distanze siderali sono azzerate dall'esistenza di internet, non c'è da stupirsi se gli Orphans of Dusk siano un terzetto formato da personaggi della scena di Sydney (Australia appunto) e di Dunedin, sconosciuta località confinata all'estremo sud della Nuova Zelanda. Altrettanto vale per le etichette che hanno messo le mani in cooperazione su questo act oceanico: la canadese Hypnotic Dirge Records e la russa Solitude Productions. Originariamente uscito in solo formato digitale nel 2014, 'Revenant' ha pertanto modo di farsi vedere più vicino al mondo grazie all'intervento delle due case discografiche, dimostrando che la scelta fatta è stata assai arguta. Quattro i pezzi a disposizione del trio, che in questo primo EP, ha modo di citare nelle proprie composizioni, i primi My Dying Bride e i Paradise Lost, grazie alla vena death gothic doom che ammanta l'intero lavoro e in secondo luogo, e qui sta il forte interesse per i nostri, anche i Type O Negative per l'uso delle vocals baritonali da parte di Chris G (membro dei Mesmur), molto vicine a quelle del compianto Peter Steel (ma anche al vocalist dei Crash Test Dummies), nonchè anche per un certo uso delle tastiere che richiamano i primi lavori, più doom oriented, della band di Brooklyn (ascoltate "August Price" e capirete cosa intendo). La musica si muove comunque tra gli anfratti del doom più atmosferico e decadente, con le keys che sprigionano una certa sacralità per quella loro affinità con l'organo da chiesa, forte soprattutto in "Starless". "Nibelheim", la terza, è forse la traccia più ostica a cui avvicinarsi, laddove le asperità del death in stile Bolt Thrower trovano pace in un gothic ammaliante in grado di placare l'istintiva brutalità espressa nella prima metà del brano e donare una certa vena di originalità alla proposta dell'ensemble oceanico. Chiude l'EP "Beneath the Cover of Night", un mellifluo brano di oltre otto minuti in cui a farla da padrone sono quasi esclusivamente le vocals di Chris (in formato growl e gotico) e i synth di James, sorretti comunque da una buona base ritmica. Se il buongiorno si vede dal mattino, mi aspetto grandi cose nell'immediato futuro da questo terzetto. (Francesco Scarci)

(Hypnotic Dirge Records/Solitude Productions - 2015)
Voto: 70

https://orphansofdusk.bandcamp.com/album/revenant

martedì 23 febbraio 2016

Ataraxie – Slow Transcending Agony

#PER CHI AMA: Death/Doom, My Dying Bride
Gli Ataraxie vengono da Rouen in Francia, sono attivi dal lontano anno 2000, suonano doom death e hanno tre album all'attivo. Inserendo la cover dei Disembolvement ("The Tree of Life and Death") e magari pensando di riprendere e rivedere, anche il titolo del famoso film di Terrence Malick, 'The Tree of Life', il quintetto transalpini si è fatto ispirare dal maniacale e celebre perfezionismo del regista statunitense per creare un album curatissimo, sofisticato e multiforme che mostra al suo interno una radiosa vena doom, ai confini con il funeral ed una marcata attitudine death di vecchia data. In realtà, il cd non è un nuovo album, non è altro che la reissue della prima release registrata dalla band per festeggiare il decimo anniversario dalla sua uscita, distribuito in formato digipack dalla giapponese Weird Truth Production e disponibile anche sulla pagina bandcamp del gruppo in formato digitale. Impressionante e impegnativa la durata di sessantadue minuti del cd, compresa la bonus track ovvero la cover, che da sola va oltre i dieci minuti, che qui è presente mentre non è disponibile in download da bandcamp. Ottima la qualità dei suoni e la produzione è più che perfetta, la costruzione dei brani, suonati benissimo da musicisti navigati e capaci, volge lo sguardo ai My Dying Bride quanto ai Mournful Congregation o in anticipo temporale sugli Ahab dell'ultimo capolavoro 'The Boats of the Glen Carrig', senza dimenticarci degli Swallow the Sun e lo spirito indomito di alcune band black metal stile Zuriaake. Tutte queste influenze amalgamate con il suono metal oscuro di qualche anno fa, quello che rese immortale 'Morbid Tales' dei Celtic Frost o il sound dei mitici Incantation. Una cosa molto strana che infonde in alcune parti del disco una vena molto death e vintage al suono della band. L'intero lavoro, anche se uscito un decennio fa, è da considerarsi un gioiellino oscuro di doom moderno, carico di un potente sound che non abbandona mai l'atmosfera e la pesantezza, la maestosità e un'inquietudine perenne che si stende come un velo su tutte le note del disco. Il trittico micidiale formato dai brani "L'Ataraxie", la title track e "Another Day of Despondency" (brano delizioso) ha un qualcosa di innato e infernale, con chiaroscuri dal tratto drammatico e teatrale, realistico e capace di rappresentare delle vere scene di sofferenza, uno stato di trance depressiva talmente coinvolgente che, all'ascolto, si rischia una qualche sorta di ferita dell'anima. Non mi stancherò di ripetere che è un opera alquanto impegnativa, per soli cultori del genere in questione, senza sprazzi di luce e tutta da scoprire, da ascoltare per intero se possibile per assaporarne la forma progressivo/cinematica dei suoi continui mutamenti sonori, giocata sui colori del grigio e del nero, sulla malinconia e sul confine di una riflessione tra la vita e la morte come induce a pensare il titolo stesso, perfetto nell'esporre i contenuti sonori dell'album. Una band tutta da riscoprire, partendo da questa ultima fatica che riesuma una chicca di dieci anni fa per arrivare ad apprezzarne l'intera discografia. (Bob Stoner)

(Weird Truth Productions - 2005/2015)
Voto: 75

Benighted Soul - Kenotic

#PER CHI AMA: Symph Metal, Epica
Quella che ho tra le mani è la bonus edition (2015) di 'Kenotic', pubblicato nel 2014. Secondo full-length per i sinfonici francesi Benighted Soul, già in attività dal lontano 2003, che fino ad ora avevano pubblicato diversi demo e il debut album 'Start From Scratch'. 'Kenotic', trasposizione in musica di 12 diverse “inclinazioni dello spirito”, rappresenta decisamente i migliori aspetti dell'orchestrale sottogenere metallico: arrangiamenti classicheggianti ed eccellenti orchestrazioni, cori polifonici e melodie studiate, degni degli Epica dei tempi migliori. Il tutto viene condito ad hoc da pesanti contaminazioni elettroniche e numerosi passaggi all'insegna del progressive, cosparsi lungo tutto il corso dell'album, i quali contribuiscono a forgiare il caratteristico ed unico sound della band d'oltralpe, che si è decisamente evoluto rispetto al precedente lavoro. "Halcyon Days" (trasposizione della beatitudine), apre l'album con un'eleganza superba: variazioni ritmiche e tempistiche (che poi si ripresentano in quasi tutti i brani) rendono il pezzo sempre più interessante e mai scontato. In "Too Far Gone" (l'ascesa e il declino), le tastiere cominciano a farsi sentire prepotentemente, con pesanti strings-orchestrations, synth taglienti e sezioni più electro, che si accentuano ulteriormente nella successiva "Si Se Non Noverit" (l'Illusione). Le linee vocali di Jay Gadaut, spesso inframezzate dal growl del bassista Jean-Gabriel, non stancano (quasi) mai: il modo in cui la cantante riesce ad incarnare lo spirito dei brani e a fornirne un'interpretazione davvero sentita, modellata appositamente su di essi, è qualcosa di eccezionale. Fantastico è anche il brano centrale strumentale "Enlightenment" (apoteosi), che a parer mio meriterebbe un 100 e lode anche solo per il contemporaneo/neoclassico intro pianistico. Il canone orchestrale viene portato fino alla fine, sostenuto dal graduale ingresso di tutti gli strumenti, creando un'atmosfera epico-romantica. Senza dubbio il mio brano preferito del lotto. In “The Shallow and the Deep” (tentazione), la placida dolcezza iniziale data dal leggero cantato della Gadaut viene spezzata da passaggi decisamente più aggressivi grazie all'accelerata della band, che appesantisce repentinamente il sound (the Deep appunto). La seguente "Let You Win" (perdono) invece, diventa completamente strumentale dalla metà in poi, con tastiere e chitarre che si articolano in una concatenazione continua di assoli, a sottolineare anche le qualità tecniche eccelse dei musicisti francesi. Subito dopo lo scompiglio di "Bound" (sacrificio), arriviamo alla fine con "One Last Harvest" (l'insignificanza), che rappresenta pienamente lo spirito di un azzeccato finale: i ritmi si abbassano, le vocals si intrecciano elegantemente con i cori che si adagiano su un costante tappeto di tastiere a creare la giusta atmosfera per arrivare allo sfumato finale. Nella mia bonus edition sono presenti anche due traccie finali supplementari, "Jack in the Box" e "The Acrobat", che non sono però necessarie ai fini della valutazione: anche senza di esse infatti, si può comunque constatare l'ottima riuscita di quest'ultimo album targato Benighted Soul. Bel colpo dei francesi che con quest'ultimo lavoro compiono un altro grande passo sul loro percorso artistico. Vedremo quali news ci arriveranno prossimamente dalla Lorena! (Emanuele "Norum" Marchesoni)

(Savage Prod - 2015)
Voto: 85

domenica 21 febbraio 2016

Interview with Phased

Follow this link to know much better about the Swiss doomster Phased:



The Pit Tips

Emanuele "Norum" Marchesoni 

Sailing to Nowhere - To the Unknown 
Avantasia - Ghostlights 
Benighted Soul - Kenotic 

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Francesco Scarci 

Postvorta - Beckoning Light We Will Set Ourselves On Fire
Swallow the Suns - Songs from the North pt I, II & III
Secrets of the Moon - Sun

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Don Anelli 

Critical Solution - Sleepwalker 
Nidsang - Into the Womb of Dissolving Flames 
Voltumna - Disciplina Eterna 

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Matteo Baldi 

Thom Yorke - The Eraser 
Pallbearer - Foundations of Burden 
Om - Advaitic Songs 

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Samantha Pigozzo 

Hot Action Cop – Listen up 
Faith no More – King for a Day, Fool for a Lifetime 
Blutengel – In Alle Ewigkeit 

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Claudio Catena 

Megadeth - Dystopia 
Colonnelli - Verrà la Morte e Avrà i Tuoi Occhi 
Pearl Jam - No Code 

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Jeremiah Johnson 

Under the Church - Rabid Armegeddon 
Abbath - Abbath 
Weresquatch - Frozen Void

Earth's Yellow Sun - The Infernal Machine

#PER CHI AMA: Progressive Rock/Djent strumentale
Facciamo il punto. I canadesi Earth’s Yellow Sun (EYS) sono in cinque: due chitarre, basso, batteria, tastiere. Poi c’è la EYS Saxophone Collective (otto sassofonisti), i sette vocalist del The Infernal Choir e tre extra guest: tablas, violino e vocal. Totale: ventitré musicisti. Dico, ventitré. E sul loro meraviglioso ‘The Infernal Machine’ campeggia a lettere cubitali l’avviso: in questo disco non abbiamo usato campionature di batteria, simulatori di amplificatori, né strumenti virtuali. ‘The Infernal Machine’ è davvero una perfetta, diabolica e ben costruita macchina infernale: cinque movimenti di un unico concept album che, pur durando solo 23 minuti, potrebbero dare riff e materiale per due, forse tre dischi interi. Pochi secondi di piano introduttivo e siamo già in pieno prog-metal contemporaneo ("Assembly"): le chitarre in palm-mute danzano chirurgiche a sincrono con la grancassa, mentre costruiscono arpeggi melodici su cui – sorpresa! – entrano i sassofoni in un gioco di accenti spostati che ha quasi del funky. Il timing cambia: un dissonante solo di tastiere e uno più classico di chitarre, si avvolgono intorno ad un groove incalzante da puro headbanging. L’inizio di "Unveliling" è straordinario: sono quartine o terzine quelle? Lo capirete solo all’ingresso del rullante, che finalmente raddrizza un poliritmo degno del miglior djent. Ancora sax, accenti spostati, poi un organo; e finalmente un'epica melodia di chitarra su un arpeggiatore di tastiera. "Betrayal" viaggia su delle coordinate prog-metal premiate però da una maggiore accelerazione e da interessanti inserti elettronici e industrial (splendidi i suoni di tastiere intorno ai 50 secondi), prima di aprirsi su un poetico break di pianoforte e rituffarsi in un inferno strumentale di riffing serrato, poliritmi e melodie. I tre minuti semiacustici di "Bastion" godono del tocco orientaleggiante delle tablas e del violino, una vera oasi di magia. Chiude "Rapture", il brano più lungo del disco, che in qualche modo riassume l’intero approccio degli EYS alla musica: un gioiello di prog-metal, confezionato in un continuo gioco di rimbalzi tra cori e sassofoni da una parte e distorsioni dall’altra, fino ad un epico finale di strings e soli, quasi una ninna-nanna metal. Ottimo il lavoro della sezione ritmica (sentite cosa combina intorno ai 2 min) – ma è il songwriting la vera arma degli Earth’s Yellow Sun. ‘The Infernal Machine’ è un disco strumentale che non annoia, non lascia respiro, stupisce in continuazione. Gli EYS sono bravissimi e concentrati, non si perdono in fronzoli, non esagerano nell’autocelebrazione tecnica, non amano la ripetizione pur non disdegnando la melodia. Non mi vergogno a dirlo: buttate nel cestino l’inutilmente lungo 'The Astonishing' degli ormai troppo anziani ed egocentrici Dream Theater, e salite a bordo di questa nuova e fiammante macchina infernale. (Stefano Torregrossa)

sabato 20 febbraio 2016

The Leaving - Faces

#PER CHI AMA: Psych Folk Acustico
Lasciate dissolvere il noise dagli ampli saturi di suoni perché in questo viaggio il silenzio e le pause se la giocano alla pari con la musica. Frederyk Rotter, voce e chitarra degli Zatokrev, una band svizzera dedita da oltre dieci anni al doom/death/sludge metal, ci presenta il suo progetto solista a nome The Leaving. Le coordinate sono quelle di un folk acustico, prevalentemente voce e chitarra, roba che si può scrivere e suonare se si è nati nel Pacific North West degli USA o in qualche piovosa campagna scozzese, ma anche nel Canton Basel-Stadt, da dove proviene appunto l’autore. "In Faces" è il brano di apertura che richiama anche il titolo dell’album: qui la voce e lo stile rimandano ad un eroe del folk inglese come Bert Jansch, quasi sicuramente ignoto ai fedeli supporters degli Zatokrev. La narrazione prosegue con canzoni in bilico tra Nick Drake e Steve Von Till, dove la chitarra acustica è accompagnata da preziosi inserti di violoncello e, talvolta, da lapsteel, basso e batteria, il tutto sempre suonato con molta misura e facendo attenzione a non prevaricare sulla voce. Qualche eco di Neil Young compare in "Hands", brano dove il suono vintage crunch di una chitarra elettrica dialoga con la lapsteel. L’umore generale del disco è quello delle ballate che continuano a crogiolarsi in uno spleen mai troppo decadente, piuttosto melanconico nel suo incedere. Solo nell’ultimo pezzo intitolato "Pulse", la tensione sale e i The Leaving sembrano volerci ricordare da dove provengono: la voce del frontman si abbassa drammaticamente di tono e i cori raddoppiati sono la cosa più vicina allo stile degli Zatokrev, pur restando sempre in territori acustici. Molto buona la produzione del disco, con collaborazioni americane nelle fasi di mixaggio e masterizzazione. Disco consigliato, anche per il bene delle vostre orecchie. (Massimiliano Paganini)

(Czar Of Crickets - 2016)
Voto: 85

https://www.facebook.com/theleavingofficial/

Łinie - What We Make Our Demons Do

#PER CHI AMA: Alternative/Stoner/Protometal, Tool
Disclaimer: questo è un disco importante, per cui poco male se decidete di non leggere oltre, ma se decidete anche di non dargli un ascolto, sappiate che state probabilmente facendo un grosso errore. L’oceano di produzioni piú o meno metal (sui generis, tanto per capirsi) negli ultimi anni si è fatto davvero sconfinato, ed esplorarlo tutto in lungo e in largo è impresa inumana, destinata a fallire miseramente, eppure ogni tanto (molto raramente, purtroppo) capita di imbattersi in qualcosa che si staglia per originalità e personalità risultando, di fatto, inaudito. I Łinie sono un quintetto tedesco, sulle scene dal 2012, formato da Jörn Wulff (voce, chitarra), Alex Wille (chitarra, voce), Alex Bujack (batteria, voce), Ralph Ulrich (basso, voce) e Alex “Iggi” Küßner (tastiere, elettronica) che definisce la propria musica con tre parole perentorie e molto precise: desert, noise, darkness. Dopo essermi scervellato per descrivere quello che fanno, devo arrendermi e riconoscere che non puó esserci definizione migliore per questo originale coacervo di influenze e suggestioni. Dovendo cercare di descrivere a parole i 40 minuti di questo esordio sulla lunga distanza, dopo il demo del 2014 'Negative Enthusiasm', punterei l’attenzione su tre aspetti chiave: la base della musica dei Łinie è una sorta di alternative-stoner-protometal come potrebbe essere quello dei Tool piú viscerali e meno cerebrali, quelli di 'Undertow' e 'Aenima', innervata peró di giuste dosi di elettronica mai invadente ma sempre perfettamente integrata, il tutto reso davvero unico da un cantato che si discosta nettamente dai canoni del genere, tanto che Wulff, col suo timbro profondo e bluesy, sembra quasi un novello Glenn Danzig. Il pezzo d’apertura, “Blood on your Arms” non fa progionieri coi suoi riff granitici, il drumming potente, un synth sinuoso e il maestoso declamare del cantante. Il resto del programma fila via senza cedimenti e nemmeno un riempitivo, tra citazioni tooliane ("The City", "Lake of Fire") e accelerazioni stoner ("Non Ideal"), ci sono vere e proprie gemme come “Inability”, “Designate”, o la conclusiva, bellissima, “Natural Selection”, che fa quasi pensare a una versione sludge dei Depeche Mode. Il tutto è sempre fortemente caratterizzato dal particolarissimo modo di cantare di Wulff, che ha un timing e un modo di stare sulla battuta tutto suo, riuscendo a donare quel tocco scuro e minaccioso che aleggia in tutto il lavoro, a partire dall’inquietante immagine di copertina. Album sorprendente, che rasenta la perfezione, in cui tutto, produzione, chitarre, ritmica, tappeti sintetici e voce, concorre a definirne la bellezza epica, allo stesso modo glaciale e rovente. Łinie. Segnatevi questo nome. (Mauro Catena)

Aethyr - Corpus

#PER CHI AMA: Black/Sludge
Gli Aethyr sono un quartetto moscovita, costituito da Mr. D, Mr. W, Mr.S e Mr. Y che escono con il loro secondo lavoro, 'Corpus', per la label CSR, a distanza di cinque anni dal debut, intervallati però da una serie di EP e split album. Sette i pezzi a disposizione per lasciare testimonianza della loro nuova fatica musicale, uno sludge/doom (con ricorrenti fughe nel post black cascadiano, come testimoniato nella traccia d'apertura) guidato da vocals aspre come nel più ferale dei dischi degli Immortal. Si parte con la lentezza disarmante di “Nihil Grail” (già presente nell'EP omonimo del 2011) e le sue lenti falcate, fatte di riff ripetuti allo strenuo, su cui poggiano le voci in acido di Mr. D; per fortuna il finale è un crescendo in intensità che dona un certo brio al pezzo. Si passa a “Sanctus Satanicus” e il rifferama dei nostri cambia, transitando per un apprezzabile stoner sludge, dotato peraltro di una certa fantasia a livello ritmico, ma che lascerà ben presto il posto al riffing, un tantino statico, della opening track. Difficile esaltarsi per cosi poco, ma in aiuto dei nostri sopraggiungono delle rasoiate ritmiche che spostano l'attenzione dell'ascoltatore su altri versanti sonori e evitano un precoce collasso dovuto alla noia. Con i dieci minuti di “ATU” (attenzione, non è la sponsorizzazione di una famosa marca di preservativi), ci inguaiamo inizialmente nelle sabbie mobili di uno sludge abissale, ove la band avrà modo di rivitalizzare ed esaltare il proprio sound con assoli psicotici, momenti di stanca lisergica e soffocanti drappeggi di una musicalità comunque melmosa, che lascia presagira le grandi doti fin qui celate del combo russo. Con "Cvlt" si continua a solcare i territori infausti dello sludge, che in taluni frangenti si concede belle accelerazioni black che hanno il grosso merito di rendere più varia la proposta sonora degli Aethyr. Che ai russi piaccia sperimentare è palese con "The Gnostic Mass", un'inquietante traccia noise/ambient non certo memorabile, se non fosse che la voce campionata che si sente, è quella di Mr. Aleister Crowley. Tralasciabile. Con la title track ci prepariamo ad affrontare altri 10 minuti di suoni al limite del funereo, con delle parabole chitarristiche che strizzano l'occhiolino ai brillanti fraseggi melodici dei Saturnus e ci consegnano un gran bel pezzo di suoni plumbei ma atmosferici, che ci accompagneranno fino alla conclusiva "Templum". La song apre lasciando grande spazio alla batteria e a graffianti riff di chitarra che pian piano troveranno il modo di salire in cattedra e lanciarsi in scorribande di isterico post black di scuola statunitense. 'Corpus' è un album interessante, non proprio semplicissimo da approcciare ma che comunque merita un vostro ascolto. (Francesco Scarci)

giovedì 18 febbraio 2016

Zlang Zlut - Crossbow Kicks

#PER CHI AMA: Hard Rock, Led Zeppelin
Gli Zlang Zlut sono un duo di cinquantenni svizzeri che ha dedicato la propria vita alla musica. Infatti sono attivi sin dai mitici anni '90, quando i due di Basilea si dedicavano prima alla musica classica e poi al rock con diversi progetti. Amici di lunga data, nel 2010 hanno deciso di fondare questo energetico duo dando così alla luce il loro primo EP l'anno seguente. Nel 2014 hanno sfornato l'album omonimo ed ora ritornano con 'Crossbow Kicks', un digisleeve ben fatto con undici tracce di rock dalle influenze hard, ma pieno di sperimentazioni e con così tanta energia che farebbe impallidire parecchie giovani punk band. I ragazzotti amano il rock'n'roll vecchia maniera, ma non disdegnano anche sonorità moderne, distorsioni seducenti e ritmiche taglienti come un rasoio. In realtà la formazione è alquanto strana, nel senso che la line-up prevede un violoncello elettrico/bass synth con controllo a pedali e una batteria/voce, con un risultato finale alquanto soddisfacente. "Hit the Bottom" apre le danze con una ballata rock veloce, un cantato squillante e ben modulato in pure stile hard rock, mentre la sezione ritmica srotola un'ingente quantità di battute. Il violoncello distorto non fa certo rimpiangere la mancanza di una chitarra, anzi, l'assolo permette di godere appieno le diverse sfumature che tale strumento regala. In sé la canzone non offre niente di nuovo, grandi influenze dal passato sia nella struttura che nei riff, ma non fermiamoci al primo brano e passiamo oltre. "Rage" alza il tiro con un mood più oscuro e introverso, sonorità tra i Led Zeppelin e AC/DC, mentre il vocalist si lancia in un cantato ipnotico, sostenuto dai riff ossessivi del violoncello. I cinque minuti abbondanti della traccia rimangono sempre ad un livello che sembra voler esplodere, ma in realtà gioca su altri fattori, come i brevi assoli psicotici di violoncello. Non ancora soddisfatto, passo a "Out of Control", una vergata rock old school fatta di riff ballerini e ritmica figlia dei migliori moto raduni dagli anni sessanta ad oggi. In alcuni passaggi vocali sembra quasi che l'inossidabile Ozzy abbia prestato le sue corde vocali, in realtà il cantante è cresciuto a pane e rock come avveniva qualche anno fa. Anche qui il cello si inerpica in un assolo granitico, dimostrando che non ci vuole per forza una sei corde per scrivere qualche pagina di rock. "Now" è il brano più variopinto dell'intero disco, la struttura è classica, ma il tempo a disposizione permette di dare spazio al bass synth che probabilmente è un Taurus della Moog, a sentirne la cremosità delle frequenze. Anche il violoncello qui si arricchisce di effetti che insieme ai già sentiti excursus sclerotici, permette di inserire dei break che spezzano e rendono più vario il lungo brano. In generale gli Zlang Zlut sono un ottimo duo che brucia di rock come se non ci fosse un domani e nonostante sia restio a prendere la strada della sperimentazione, ne esce a testa alta, grazie anche alla lunga esperienza musicale che i due musicisti si portano sulle spalle. L'impressione è che i due si divertano un sacco, suonino quello che adorano e quindi vincano la loro sfida, senza il bacio accademico però. (Michele Montanari)

(Czar of Revelations - 2016)
Voto: 75

mercoledì 17 febbraio 2016

Dean Wallace - Metal Family

#PER CHI AMA: Heavy, Metallica
Vede la luce verso la fine del 2015 questo CD, frutto del lavoro di un polistrumentista francese, Dean Wallace. Dean è un chitarrista estremamente dotato tecnicamente, più che onesto invece quando si trova alle prese con gli altri strumenti. Se da un punto di vista essenzialmente formale il lavoro si difende discretamente bene, non posso dire lo stesso per quel che riguarda le altre sfaccettature di questo 'Metal Family', a partire da una copertina, che ricalca piuttosto banalmente i cliché del genere con borchie e placche metalliche. Approfondendo poi l'ascolto, emerge subito che il genere proposto è un metal molto classico, con tempi “dritti” e riff più classici del classico. Quello che salta però subito all'orecchio è l'impressionante (e vi assicuro che non esagero) somiglianza del timbro vocale del buon Dean, con quello del “vecchio” James Hetfield, compresi i cari “Yeahhh” di James o lo storpiare le finali delle parole aggiungendo una “A” un po' così a cazzo. Insomma, il ruggito tipico del californiano del periodo post 1991, ecco qui troverete tutti gli elementi che ho citato, e anche di più. E purtroppo, questo è il maggiore difetto di questo cd, e forse dell'artista in toto. Dico questo perché onestamente, ascoltare un CD che puzzi di plagio dall'inizio alla fine, non è ciò che cerco in un album o in un gruppo. Devo essere sincero, non sono riuscito ad ascoltare il CD più di una volta e mezza; anche quando a livello compositivo sembra esserci qualcosa, il tutto scade nel già sentito anche per quel che riguarda i suoni scelti (in alcuni punti sembra di ascoltare dei passaggi riscontrabili sul 'Black' album, ma senza raggiungerne neppure un quarto in termini di qualità). Mi sento solo di consigliare un ascolto ai più curiosi, ma per gli altri, questo 'Metal Family' non è altro che un lavoro superfluo. Per fortuna nostra, questo lavoro non rappresenta assolutamente la famiglia metal che, invece, Dean Wallace intende farci conoscere. (Claudio Catena)

(Tinphlo Records - 2015)
Voto: 45

Goatpsalm – Erset la Tari

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Ambient Noise/Drone/Black
I Goatpsalm sono una band di sicuro interesse per ricercatori di suoni spinti al limite del rumore ambientale, del feedback lisergico oltre confine ed estimatori d'avanguardia black/industrial estrema. La band russa esplora con il secondo album, uscito per la Aestethic Death nel 2012 l'universo storico e l'oscurità che si cela nella cultura sumero/babilonese, raffigurando la divinità Tiamat armata di tridente in copertina e cospargendo l'intero artwork di riferimenti e simboli storico religiosi dall'aria sinistra e minacciosa, mischiati alle poco rassicuranti figure dei tre musicisti sovietici. I nostri propongono la loro musica attraverso sonorità estreme divise in tre brani distinti, di cui il primo e l'ultimo di notevole durata (vicina ai venti minuti), separati da "Bab Illu", più corto e rafforzato da una evidente presenza etnica mediorientale costruita da strumenti a corde irrorati di misticismo e mistero per un'atmosfera arcaica e cupa pregna di sentore nero, un presagio sonoro perfetto per l'imminente disfatta di Babele. La conclusiva "Under The Trident Of Ramanu" mette in evidenza un riconoscibile destrutturato riff di chitarra, sorretto da una rarefatta, rumorosa e lacerata sezione ritmica in salsa lo-fi, con un finale caotico e astratto come se, giocando con il sound più glaciale e minimale del black metal, i Sunn O))) perdessero il mastodontico peso a favore di un groviglio di riff e lamenti chitarristici abissali, rubati ad un Eric Draven, fantasma e malato, nascosto in un luogo solitario tra il Tigri e l'Eufrate, investito da rumori di ogni tipo con finale spettrale che richiama i temi toccati nel brano d'apertura. Ricco di minimalismo rumorista, voci agghiaccianti, sussurrate e recitate, escursioni etnico/tribali che conducono in un viaggio da incubo in compagnia della divinità Marduk; una chitarra scarnificata, tagliente e gelida rallenta il battito cardiaco, giocando le sue carte sul filo del black sperimentale oltranzista (immaginate i Beherit di 'Unholy Pagan Fire' con una sezione ritmica dalla cadenza marziale, eterea, statica e lacerata) e l'industrial/drone più radicale, drammatico, minimale, cinematico, per certi aspetti molto simile ad una vera e propria colonna sonora da film. Aspettando il terzo e nuovo full length in uscita sempre per Aestethic Death a brevissimo, lasciatevi travolgere da questa infinita, affascinante, tenebrosa, tempesta mistica mediorientale! (Bob Stoner)

(Aestethic Death - 2012)
Voto: 75

martedì 16 febbraio 2016

Ha Det Bra – Societea for Two

#PER CHI AMA: Punk/Noise Rock
La meritoria etichetta croata Geenger Records, attenta nel setacciare la scena rock locale e distillare gemme preziose, propone questo cioccolatino imbevuto di noise che promette di placare la voglia di tutti noi orfani inconsolabili dei Jesus Lizard. Sarebbe tuttavia ingeneroso e ingiusto derubricare gli Ha Det Bra a semplici epigoni dell’indimenticata band di David Yow, in virtú della qualità altissima e della varietà di stili che fanno di questo 'Societea for Two' un esordio col botto. Le quattordici schegge che si susseguono lungo i 44 minuti totali, scorrono a meraviglia evidenziando innumerevoli sfumature e una personalità ben definita, attraverso gorghi noise rock, forti di una sezione ritmica granitica, chitarre affilate e urticanti, voce tormentata e graffiante. A colpire sono la qualità media dei brani e la straordinaria resa sonora, potente e sporca come i dischi Touch and Go degli anni '90, tanto che, tracce come “In Lies” o “Sleeping with the Werewolf” (per citarne due tra le tante), non avrebbero affatto sfigurato se inserite in scaletta nei classici del genere di Jesus Lizard o Unsane. Varietà, si diceva poc’anzi, e allora ecco la splendida “Mustafa the Tyrant” con inedite atmosfere orientaleggianti, o “Lowthing”, piccola parentesi che si distacca dal tono malato del resto del lavoro, per immergersi in atmosfere psych che ricordano addirittura gli Screeming Trees di mezzo. Altrove, ("Under the Mould" o "Michael’s Nightmyers") a farsi protagonista è quell’indole blues, quello passato attraverso indicibili torture e sofferenze degli Oxbow, che aleggia sul disco come una presenza maligna e beffarda. Sarebbero da citare tutti i brani, e ci sarebbero da spendere tante altre parole entusiastiche, nonché paragoni e rimandi che scaturiscono continuamente dall’ascolto di questo lavoro, la sfacciataggine malevola degli Swans o la furia iconoclasta dei Birthday Party, ma ogni parola spesa qui è un secondo rubato all’unica attività che invece andrebbe fatta: ascoltare questo disco! Esordi cosí sono rari e preziosi, e credo che se la band, invece che a Zagabria, fosse nata a Chicago, ora il suo nome starebbe di fianco a quello dei nuovi eroi del noise come Pissed Jeans, Whores e Metz. Unico rammarico: aver ascoltato 'Societea for Two' solo dopo aver stilato la mia classifica di fine anno. (Mauro Catena)

(Geenger Records - 2015)
Voto: 85

domenica 14 febbraio 2016

Astral Blood - S/t

#PER CHI AMA: Black, Deafheaven, Emperor
Ci si poteva sprecare un po' di più ragazzi e rilasciare un EP di almeno una ventina di minuti, no? D'accordo il detto "chi si accontenta gode", ma 16 giri di orologio, sono un po' pochini per descrivere la musica di questa band di Minneapolis. Tre brani (in realtà saranno due visto che il secondo è un interludio) che irrompono con "Secluded and Forbidden", un pezzo che mette insieme il classico post black americano (Deafheaven su tutti) con sonorità black atmosferiche nordiche (Emperor), in un miscuglio perfetto di violenza sonora. Diavolo, ma perchè solo due pezzi, qui c'è la potenzialità per trovarci tra le mani qualcosa che scotta, una musica che quando esplode nell'aria, manifesta il suo diabolico intento di entrare nelle nostre vene. Ariose tastiere volano nell'etere mentre serrate ritmiche triturano riff minacciosi quanto la voce in screaming di Andrew Rasmussen. Una bomba ad orologeria che vi esploderà in mano lasciando soltanto polvere. Il riffing sciorinato dagli Astral Blood ha un che di magnetico e magico, nella sua fragorosa potenza, e il breve assolo che compare nella opening track ha il merito di rizzarmi la pelle d'oca sulle braccia. La poderosa violenza di questo trio del Minnesota, unita alle fantastiche melodie tessute, rendono questo EP merce prelibata per gli amanti del black in tutte le sue forme. "Interlude" è un omaggio a quei momenti di passaggio che popolavano 'The Principle of Evil Made Flesh' dei Cradle of Filth. Arriva anche il turno di "Our Almighty Gaze" e la profondità delle sue ritmiche è orgasmica, cosi come l'epicità che si respira nell'aria incendiata dai riff maestosi di Joe Waller (membro anche degli Adora Vivos) e Tommy Curry. Era una vita che non sentivo un black dalle tinte sinfoniche, qui peraltro unito a momenti in cui il tono si fa ancor più greve e in cui i lampi di genio di Joe squarciano il cielo con fantastiche melodie. Che altro dire, se non auspicare il vostro ascolto e un ritorno sulla scena dei nostri a breve con un full length. Da segnalarvi intanto che la band si è arricchita di membri di Amiensus e di Ashbringer, il che promette davvero ottimi risultati. (Francesco Scarci)

Under The Ocean - Dark Waters

#PER CHI AMA: Deathcore, At the Gates, The Black Dahlia Murder
Abrasivi. Fine. La mia recensione si potrebbe chiudere tranquillamente qui. Descrivere il sound macinato da questa band di Parma è abbastanza facile: un mastondontico deathcore, un rullo compressore che non si ferma davanti a nulla e asfalta qualsiasi cosa gli si pari davanti. 'Dark Waters' è un EP di 20 minuti, che in quattro brani, dà prova dell'energia di cui questi cinque giovani sono dotati. Un suono senza compromessi che sarebbe facile etichettare con un modo di dire abbastanza abusato ultimamente, "un sound che non fa prigionieri". Un principio culturale della politica americana, in cui la sostanza è che gli avversari devono essere distrutti con ogni mezzo. Altrettanto fanno gli Under the Ocean, che da "The Leper Town" alla conclusiva "The Creeper", ci offrono tonnellate di riff sparati in faccia alla velocità della luce, con un batterista che deve essere uscito dal circo per i numeri che riesce ad offrire con la sua tecnica e velocità, mentre i chitarristi provono a tessere qualche melodia di scuola death svedese (At the Gates) ma anche americana (The Black Dahlia Murder), corredata da stop'n go, begli assoli (interessante quello di "The Bell Tower" che mi ha richiamato i Sepultura di 'Arise'), break acustici e ritmiche decisamente, fortemente serrate, mentre il vetriolico vocalist sbraita nel microfono. Inusuale l'inizio di "The Riverbank", la traccia che forse di più si distanzia dalle altre e che, nel suo incedere a tratti marziale, rappresenta anche la mia preferita dell'EP, per quel suo mood più asfissiante delle altre. A chiudere, le vertiginose e aggrovigliate ritmiche di "The Creeper", che sanciscono la fine di questo EP niente male, ma che necessita ancora una revisione nel proprio sound per poter emergere dalla massa di band che offrono questo genere. Coraggio! (Francesco Scarci)

(Drown Within Records - 2014)
Voto: 65

https://drownwithinrecords.bandcamp.com/album/dark-waters

Svartelder - Askebundet

#PER CHI AMA: Black Old School, Immortal, Ancient
Nostalgia nei confronti del black metal norvegese? Ho la soluzione che fa per voi. Vi presento i norvegesi Svartelder, band formatasi nel lontano 2005 per mano di Doedsadmiral (Nordjevel, Doedsvangr) e nelle cui fila militano anche AK-47 e Cobold, due loschi individui che hanno fatto parte o sono ancora membri, tra gli altri, di In the Woods, Carpathian Forest, Blood Red Throne, Ewigkeit e Den Saakaldte. Questo per dire che questo quartetto di Indre Arna, non è certo l'ultimo arrivato. E la nostrana Dusktone Records ci ha visto lungo, mettendoli sotto contratto e facendoli esordire con il loro EP 'Askebundet'. Quattro canzoni, 30 minuti di durata, fatto di suoni black mid-tempo rancidi, malefici e sinistri. La matrice ritmica è quella tipica norvegese: chitarre ronzanti, melodie orecchiabili, qualche tocco di synth in stile Burzum, fin dalla lunga title track che apre le danze. La voce di Doedsadmiral poi è in linea con le produzioni norvegesi, la associerei a quelle di Immortal e Ancient per timbrica e abrasività. I 10 minuti di "Askebundet" scorrono via piacevoli, tra qualche frangente che puzza di già sentito e qualche apertura più varia. Più interessante invece, la seconda "Bleeding Wounds", forse meno monolitica della opening track, e con qualche soluzione strumentale più fresca e ariosa, anche se mi rendo conto che questi due aggettivi potrebbero far storcere il naso ai puristi del genere, però voi dateci un ascolto e potrete anche riscoprire un che dei Satyricon degli esordi o un pizzico di epicità dei Bathory. "Ingen Vet Jeg Var...", la terza song, è più potente grazie a suoni più profondi e a un uso ancor più incisivo delle keys, sebbene il flusso sonico mantenga comunque l'intransigente glacialità degna del black. Incredibile la presenza di un melodico assolo nella sua seconda metà, laddove il sound dei nostri sembra richiamare anche quello dei conterranei God Seed. L'ultima traccia del dischetto è una versione demo di "Black He Stands", un brano che sinceramente non so da dove salti fuori, ma che comunque mostra l'intenzionalità da parte di Doedsadmiral e compagni di abbinare black old school con inquietanti tastiere e qualche sperimentazione anomala per il genere. Per ora accontentiamoci di 'Askebundet', un lavoro sicuramente gradevole, ma che non aggiunge grandi novità al verbo nero. Sia chiaro pertanto che dal futuro mi aspetto qualcosa di ben più convincente. (Francesco Scarci)

giovedì 11 febbraio 2016

CONTEST RUSTY PACEMAKER


I vincitori del contest "Rusty Pacemaker", che hanno risposto correttamente alle domande poste e vincono una copia dell'ultimo cd, 'Ruins', dell'artista austriaco sono:
The winners of the "Rusty Pacemaker" contest, that answered correctly to the questions and win a copy of the last album, 'Ruins', of the Austrian musician, are:

Caterina M. (Trezzo sull'Adda - Italy)
Michela M. (Coldrerio - Switzerland)
Piero S. (Breganzona - Switzerland)
Diego C. (Bardolino - Italy)
Giulio D.G. (Creazzo - Italy)

Malke - Days After Tomorrow

#PER CHI AMA: Post Rock/Post Metal, Russian Circles
Regnano sovrane la decadenza e l’introspezione nel mondo dei Malke, act proveniente da Barcellona. Il trio post rock strumentale è formato da David (chitarra), Mario (basso), Albert (batteria). Nel 2014 i catalani escono per la prima volta allo scoperto con "Santos", un singolo allucinato e surreale, in free download su Bandcamp. Il disco d’esordio 'Days After Tomorrow' viene invece pubblicato nel Novembre del 2015: qui il suono è oscuro e spettrale, a tratti maestoso, a tratti impalpabile. Tuttavia non mancano estatici spiragli di luce che conferiscono all’opera un respiro spirituale e profetico. La fantasia inizia a correre già guardando la copertina, una scelta a dir poco azzeccata! Una luna nuova ed un freddo cielo notturno fanno da sfondo ad un magnifico falco che plana ad ali spiegate tra i grattacieli di un’oscura città, probabilmente disabitata da centinaia di anni. In questo paesaggio post apocalittico un’umanità decimata dalle forze della natura si rifugia nel sottosuolo, sopravvivendo tra stenti e sofferenze e combattendo per ricostruire la civiltà. Aprendo il digipack in cartoncino, scopro stampato sul disco il muso del falco che mi fissa con i suoni tre occhi. Come il rapace vola muto sulle rovine della civiltà anche 'Days After Tomorrow' fa volare l’ascoltatore tra paesaggi surreali e sentieri inesplorati, il tutto senza proferire una parola. I dischi strumentali a volte riescono ad essere più suggestivi proprio perché esulano dal significato delle parole e permettono di immergersi completamente nelle sensazioni che la musica trasmette; i Malke di sicuro hanno fatto proprio e messo in pratica egregiamente questo concetto. I nomi dei brani contribuiscono a rendere più credibile lo scenario di desolazione e tenebre, uno su tutti "Reise Nach Dachau" (Recarsi a Dachau), probabilmente un invito a visitare il campo di concentramento nazista e magari riflettere su come l’uomo sia in grado di infliggere dolore e morte a se stesso. Quasi un avvertimento profetico quello dei Malke, ci esortano ad evolverci e a guardare dentro noi stessi, forse l’unico modo per evitare di dover vivere sul serio nel mondo descritto da 'Days After Tomorrow'. Parlando strettamente di suono è sicuramente da notare il metodo di registrazione, cioè quello della presa diretta live. Sicuramente questa scelta è a favore dello spirito dell’opera che risulta molto diretta e senza fronzoli. L’esecuzione a volte non è perfetta ma è questo il fascino esercitato dalla registrazione live, si sente chiaramente la componente umana, con il disco che sembra suonato davanti all’ascoltatore. La scelta dei suoni di chitarra non eccessivamente saturi, permette alla melodia di prevalere rispetto alla ritmica seppure il disco presenti interessanti cambi di metrica che rendono le canzoni movimentate e dinamiche. Si percepisce chiaramente l’attenzione posta nella composizione della musica più che alla sua “estetica”, in questo primo disco dei Malke prevale la ricerca del significato e dell’espressione ma anche dell’equilibrio spirituale. Il disco inizia con "1402 – 1923", song il cui nome sembra evocare una data, confesso di aver provato a cercare il significato ma il mistero si è rivelato più fitto del previsto. Comunque il pezzo offre un ambiente psichedelico ed etereo, rotto a metà del suo sentiero da un guizzo di pazzia distorta. Poi modula ritmica e intensità fino al termine creando un senso di insicurezza ed instabilità ma anche infondendo un certo grado di coraggio e determinazione, quella che serve per esplorare un posto sconosciuto in una notte d’inverno. La seconda traccia, "Alfas", richiama lo stile dei Russian Circles, ma con suoni più diretti, taglienti e senza fronzoli. Gli strazianti arpeggi distorti della chitarra di David coronano il brano dipingendo scenari di desolazione ed inquietudine. Il corposo basso di Mario crea degli ambienti mistici e spaziali, che ricordano band come i My Sleeping Karma o i Monkey3. Il brano presenta un buon equilibrio tra l’oscurità delle parti distorte e quelle più eteree e risulta in generale godibile e ben costruito. Segue la crudezza di "Maskirowka" che ci riporta a volare un po’ più in basso verso il tartassato suolo terrestre, dove la chitarra e il basso tracciano dei profondi solchi nell’asfalto dissestato mentre l’ipnotica batteria di Albert mantiene l’incantesimo. Arriviamo quindi a "Nebula" che inizia con note sognanti incalzate da una leggera ritmica, come fosse il falco che si posa sulla guglia di un palazzo in rovina che guarda la desolazione sottostante e d’un tratto, decida di spiccare il volo. Dall’alto guarda le strade e osserva la desolazione in cerca di qualche piccolo animale sopravvissuto che serva da sollievo alla troppa e intensa fame. Dopo un intenso intenso viaggio tra le anime delle vittime dei campi di concentramento di "Reise Nach Dachau" possiamo lasciarci cullare dalla coda "Tro", uno splendido regalo d’addio che i Malke ci regalano. Il falco oramai stanco per l’estenuante ricerca della preda si concede qualche ora di riposo al sicuro nel suo nido, sotto una grondaia di un edificio in frantumi, per cercare di raccogliere le energie prima che i morsi della fame tornino a farsi sentire. (Matteo Baldi)

(Consouling Sounds - 2015)
Voto: 75