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giovedì 8 maggio 2014

Bleeding Eyes - A Trip to the Closest Universe

#PER CHI AMA: Psych Sludge
I Bleeding Eyes (BE) sono una masnada di bastardi veneti che occupano un posto di riguardo nella scena sludge-doom-stoner sin dal 2003. E da allora non hanno mai smesso di mietere vittime innocenti e non grazie alla loro dose di "satanismo" verace. Legati indissolubilmente con tutto quello che riguarda l'alcool e in particolare la sacra birra (dopo tutto dalle loro parti esiste un poco noto birrificio, Pedavena), i BE sono cresciuti costantemente negli anni, sapendo affrontare i vari cambi di line-up, la firma di un contratto con la Godown Rec. e molto ancora, portandoli ad essere una band che suona in ogni dove, a fianco di gruppi che metterebbero la tremarella ai più deboli di cuore. Questo "A Trip to the Closest Universe" contiene sei tracce e risale ormai ad un paio di anni fa, anticipando il prossimo lavoro previsto per l'estate 2014 che sono già ansioso di ascoltare. Ma torniamo a noi e passiamo alle tracce qui contenute. Si aprono le danze mefitiche con "Arrotino", brano dal testo che prima vi fa sogghignare e poi vi lancia in un turbine di depressione ed ansia che rischia di rubarvi l'anima per sempre. Riff pesanti e ritmica iniziale lentissima che vengono accompagnati da declamazioni urlate in faccia con rabbia e disprezzo. Poi il brano accelera (passatemi il termine) facendovi godere a più non posso, insomma, un gran pezzo con tanto di assolo e cambi ritmici. "Pozzo senza Fondo" sembra dedicata al nostro blog e di fatti racchiude tanto odio e cattiveria, sia a livello strumentale che vocale. I suoni dei BE sono saturi, graffianti e potenti come un pugno nello stomaco quando meno te lo aspetti. Chitarre che vi schiacciano, ma allo stesso tempo l'uso di delay e affini, crea atmosfere diverse dalle classiche sludge-doom, permettendo all'ascoltatore di non soffocare miseramente. La scelta di cantare in italiano potrebbe essere opinabile dal punto di vista di visibilità all'estero, ma i nostri ragazzi se ne fottono allegramente e quindi si divertono a scrivere i testi che fanno sorridere per alcuni passaggi, ma lasciano l'amaro in bocca per l'attualità dei temi di cui trattano. Una sorta di profeti sociali del 21esimo secolo? Decidete voi. L'album chiude con "From Now On It Can Only Get Worse", un doom di quelli da enciclopedia musicale che dovrò assolutamente ascoltare in sede live perché se mi ha annientato comodamente seduto sul divano, ho paura che sotto il palco avrò delle visioni mistiche. Con una buona dose di psichedelia, sapientemente usata per spezzare le catene degli schemi, il brano è bello tosto (undici minuti), ma è talmente vario che non ve ne accorgerete neanche. C'è addirittura un break simil hardcore, quindi non dico balle scrivendo che i Bleeding Eyes sono un gruppo di qualità, di cui bisogna essere fieri e che invito a supportare come potete. Con un piccolo obolo vi portate a casa della gran musica, ottimamente composta e registrata. E poi, trovatemi altri gruppi che ripagano i propri fan con tanta generosità. (Michele Montanari)

(GoDown Records - 2012)
Voto: 85

https://www.facebook.com/pages/Bleeding-Eyes

domenica 4 maggio 2014

Orthodox - Conoce Los Caminos

#PER CHI AMA: Doom, Avanguardia, Noise, Free form
In attesa di un loro nuovo lavoro – l’ultimo 'Baal' è del 2011 - è tempo di bilanci per il fenomenale trio di Siviglia: 'Conoce Los Caminos' è un doppio album che racchiude rarità, inediti e b-sides risalenti al periodo 2005 – 2010, e può rappresentare tanto un succulento boccone per i fan quanto un compendio ideale per chi si volesse approcciare alla multiforme proposta di quello che probabilmente è quanto di meglio possa offrire, in ambito estremo ma non solo, la penisola iberica. La scaletta si dispiega per piú di due ore alternando sapientemente umori ed atmosfere, fino a fornire una fotografia piuttosto fedele di quello che sono gli Orthodox, da sempre capaci di fondere in maniera sorprendentemente organica, e sempre credibile, suggestioni sabbathiane, tematiche bibliche, ugge dark-folk, il free jazz piú estremo e i Pink Floyd piú disturbati e psych. Ecco quindi che trovano posto versioni primordiali e imperdibili di brani quali “Geryon’s Throne” e “Il Lamento del Cabrón” – presenti nell’esordio 'Gran Poder' che, nel 2005, ricevette l’investitura nientemeno che dell’Arcidruido, Mr. Julian Cope, travolto dagli opprimenti riff doom, le coltri ambient noise e le voci da pelle d’oca di queste lunghissime composizioni – ma anche una prima bozza di quel pezzo di musica aliena che rimane “Ascension” (dal terzo album 'Sentencia' del 2009), tra John Cage, Art Ensemble of Chicago e il Tim Buckley di 'Lorca'. Ci sono poi altre testimonianze dell’evoluzione sonora dei tre, sempre impegnati a confondere le acque e innervare la loro musica di nuove influenze e suggestioni, dallo space rock gotico “Matse Avatar”, alla spettrale, scurissima litania psych-folk “Heritage”, fino alle devastanti sarabande free rumoriste “Different Envelopes” e “Japan Rush”. Rimane poi da dire dell’omaggio, sotto forma di cover, che gli andalusi rendono a due dei loro maestri; ecco quindi “Genocide” dei Venom, grezza e lercia come si conviene, e una “Black Sabbath” che suona crudele e inquietante almeno tanto quanto l’inavvicinabile originale. In definitiva un lavoro davvero ben fatto, che centra perfettamente l’obiettivo di dare una rappresentazione globale seppur, per forza di cose, frammentaria, di una band che è stata in grado di evolversi continuamente fino a diventare praticamente inafferrabile. (Mauro Catena)

(Alone Records - 2013)
Voto: 75

sabato 3 maggio 2014

In Vacuo - In Vacuo

#PER CHI AMA: Post-black, Wolves in the Throne Room
Le band più underground sulla faccia della terra le vado a cercare tutte io, anche se questo ovviamente è lo spirito che alimenta il Pozzo dei Dannati. E oggi mi imbatto negli ungheresi In Vacuo, che cosi gentilmente mi hanno regalato la loro release omonima, da poco uscita su bandcamp. 'In Vacuo' è un lavoro di sei pezzi che partendo da "Obvious" fino ad arrivare alla conclusiva "The Beast", ci sbatte in faccia la personale visione apocalittica del post black, tanto in voga nell'ultimo periodo, rivisitata da questo duo magiaro. La prima traccia va giù bella serrata e abrasiva fin dalle sue note iniziali, salvo concedersi un oscuro break centrale a cavallo tra il doom e influenze cibernetiche, con le vocals di Nagaarum che, ispirandosi al loro connazionale Attila Csihar, si dimostrano fin da subito al vetriolo. Si prosegue con "Urpower" con il duo di Tata che continua a picchiare forsennatamente, sebbene il prologo della traccia si presenti rumoristico e ipnotico. Le derivazioni cascadiane di Wolves in the Throne Room o anche dei defunti Altar of Plagues, si palesano nella ritmica dei nostri nuovi paladini, che mi colpiscono non tanto per la loro furia, ma per quelle linee di chitarra assai melodiche e piacevoli per le mie orecchie. "Cradle Of The Universe" è una traccia che attacca apparentemente tranquilla, poi il sound melmoso del combo ungherese prende il sopravvento con un feeling maligno e marcescente con voci demoniache quasi catarrotiche che deflagreranno presto in una nebulosa tempesta di elettricismi schizoidi e malati, che nell'acustico break centrale, vivono il loro momento più puramente di angoscia e paura. "Whip Slashing Thousand Times" apre con sonorità arabesche e continua con stilettate death/black old school. Con "Dance of the Universe" ci prendiamo una pausa drone/noise/ambient prima del finale incandescente affidato alla già citata "The Beast", song in cui gli In Vacuo mostrano il loro lato più imprevedibile e anche quello che ho apprezzato maggiormente: assurdi suoni estremi conditi da melodie gitane e rabbiose fughe post black che chiudono questo intrigante debutto firmato Emp e Nagaarum... (Francesco Scarci)

(Self - 2014)
Voto: 70

The Pit Tips

Don Anelli

Hirax - Immortal Legacy
Hatriot - Dawn of the New Centurion
Violent Snatch - We Serve No One
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Bob Stoner

Twilight - Monument To Time End
Sabbath Assembly - Ye Are Gods
Bohren und der Club of Gore - Dolores
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Francesco Scarci

Taranis - Kingdom
The Great Old Ones - Tekeli-li
Adora Vivos - Toward the Empyrean

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Mauro Catena

Paolo Saporiti - S/t
Orthodox - Conoce Los Caminos, MMV - MMX
Brad Meldhau - The Art of Trio Vol. 1
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Kent

Horn Of The Rhino - Weight Of Coronation
Graves At Sea/Asunder - Split
Black Pyramid - Stormbringer

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Claudio Catena

Black Label Society - Catacombs of the Black Vatican
Vista Chino - Peace
Dismember - Death Metal

venerdì 2 maggio 2014

Adora Vivos - Toward the Empyrean

#PER CHI AMA: Death/Doom/Progressive, Evereve
La Tridroid Records è una piccola etichetta indipendente del Minnesota, St. Paul per l'esattezza, che produce e distribuisce principalmente cassette di band molto underground. Ho avuto la fortuna di essere venuto in contatto con il suo fondatore che mi ha dato la chance di conoscere una delle band del suo roster, gli Adora Vivos, quartetto del medesimo stato che ha rilasciato a fine 2013 questo EP (digipack cd) di cinque pezzi, 'Toward the Empyrean' che sembrano raccogliere nel loro sound un'eredità pesante, quella dei Woods of Ypres. Doomish quanto basta la opening track "The Ruin of Tranquility" che si presenta con un approccio corale emozionante prima di abbattersi con un riffing coinvolgente e assai melodico. Intrigante l'utilizzo di molteplici vocalizzi, non tanto per la non-novità della cosa, ma per il fatto che sono tre i cantanti ad avvicendarsi, con differenti stili, davanti al microfono. Le linee vocali seguono poi le linee delle chitarre, che tra furibonde cavalcate e stop'n go, rendono la musica assai varia e piacevole da ascoltare. "These Dark Roads" è più mid-tempo oriented, cosi durante il suo lineare avanzare, trovo il tempo anche di analizzare la pulizia del suono e l'egregia produzione che vi sta dietro. Nel frattempo la song cresce di intensità, con il growling che viene affiancato da clean vocals ed epici chorus. "Acceptance and Negation" è un bel pezzo fluido di death melodico che parrebbe influenzato dal sound finlandese dei Dark the Sun, ma anche da un qualcosa dei primi lavori dei tedeschi Evereve, per un risultato complessivo davvero convincente per l'armonizzazione delle sue chitarre e per quel mood un po' ruffiano che emana la musica dei nostri. "And So Begins the Fall" può essere assimilabile ad una semi-ballad dei Metallica; non storcete il naso però, perchè la song mette in luce un buon riffing, ottime vocals sorrette da splendide melodie e un bell'assolo heavy nella sua parte finale. Ben preparati tecnicamente, il quartetto statunitense arriva a conquistarmi definitivamente con la lunga song che chiude il platter, i quasi dieci minuti della title track, che partendo da un prologo sinistro e maestoso, palesa nuovamente l'amore della band per i Woods of Ypres, con un brano che attesta una certa maturità artistica ma anche una certa abilità nell'alternare ritmiche tempestose con scenari più rarefatti e dilatati e vocals che qui si avvicinano addirittura a quelle del buon Peter Steel dei Type O Negative. Buon debutto, bravi, ma un plauso va anche alla Tridroid Records che ha saputo puntare sui nostri. (Francesco Scarci)

(Tridroid Records - 2013)
Voto: 75

https://www.facebook.com/adoravivosmn

Hundred - The Forest Kingdom - Part One

#PER CHI AMA: Heavy Metal, Iron Maiden
Gli Hundred sono una giovane band di Kingston, Londra. Con il loro EP d'esordio 'The Forest Kingdom - Part One' propongono il primo episodio di quello che sarà un progetto integrale, attraverso una demo gradevole e diretta, sulla quale incombe però una produzione tecnica del suono non all'altezza del buon spirito musicale del gruppo. Il quintetto inglese riesce in ogni caso a trasportare l'ascoltatore indietro di trent'anni, verso un sound e uno stile heavy britannico di primi anni ottanta, cosa che può essere un pregio o un difetto solamente in merito ai punti di vista. Sicuramente l'atmosfera fantasy, condita da intrighi e mistero che si respira, costituisce l'ingrediente segreto della band, la quale riesce così a dare al genere proposto una visione più personale. La prima traccia, "Twilight in the Forest Kingdom", trascina idealmente nella foresta che si snoda in copertina, la quale è tratta dal dipinto di John Martin 'The Trees'. E così si snodano anche gli strumenti uno a uno a inizio brano, presentando un tema alla prima chitarra, un basso che ne segue l'andamento e una dopo l'altra le altre due chitarre. Nello strumentale che segue sono le chitarre ritmiche a conquistare la scena, preparando alla parte centrale del pezzo, che vede la presenza del vocalist, che appare racchiusa in due strumentali piuttosto ampi, che aprono e chiudono il pezzo. Nella parte strumentale conclusiva le tre chitarre si aprono a libere melodie armonizzandosi e sovrapponendosi a vicenda, mentre la voce accompagna l'incedere melodico con vocalizzi. Colonna portante di questa sezione è un accattivante giro di batteria seguito e imitato dal basso in modo però molto poco incisivo. Assoli virtuosistici dichiaratamente heavy accompagnano al finale, che risulta essere purtroppo vagamente sbrigativo. "The Forest King Marches", seconda traccia dell'EP, si presenta molto più compatta della precedente, in quanto basata su riff più semplici e meglio amalgamati con basso e batteria. Sembra davvero di esser trasportati indietro ai tempi di album come 'Killers' degli Iron Maiden, alle vocals di Paul Di'Anno e alle prime sperimentazioni di quelli che poi sarebbero divenuti classici dell'heavy metal. Forse, in questo pezzo così breve rispetto al precedente, manca il gusto della variazione e la volontà di proporre qualcosa di nuovo, ma d'altra parte il risultato finale ne trae giovamento, in quanto l'esecuzione si presenta più decisa che nel brano d'apertura. Anche le vocals si sviluppano in modo più equilibrato a livello di distribuzione e, pur non gridando alla novità, s'inseriscono in un filone ampiamente battuto ma che, per gli appassionati del genere, è sempre degno d'esser riproposto. Tematiche folkloristiche appaiono nuovamente in "Forest Sorcery", terzo brano del cd. Sembra di esser catapultati verso i miti e le leggende britanniche, in foreste popolate da Druidi contese in battaglie e intrighi contorti come le radici degli alberi, i quali prendono vita e svelano ataviche storie, impresse sulle cortecce come cicatrici nel corso dei secoli. Una linea vocale scaturita dall'idea del riff di chitarra in apertura accompagna questo pezzo, che alterna un cantato sposato a chitarre ritmiche e passaggi solistici di chitarra nella parte iniziale. 4 colpi di sticks introducono un giro di chitarra nervoso ed elettrico, che sarà tema ritmico principale per tutta la durata del brano "The Fortress Awaits", il quale finalmente darà carica e dinamismo a un EP altrimenti sottotono. Forse per la comodità ed l'efficacia di questo riff, che alterna una melodia a scariche a coda vuota, tutta la sezione chitarristica sembra investita di nuova energia e anche l'insieme ne trae beneficio. Il pezzo è semplice e compatto; l'apporto di una comunque discreta tripletta di chitarristi è finalmente valorizzato e non penalizzato da scarsa coordinazione. Perciò la band, chiudendosi per così dire a falange spartana, dà ora quella grinta di cui il vero heavy abbisogna. L'acuto del vocalist che introduce il testo è migliore che in precedenza e la sua prestazione complessiva, per quanto lo stile vocale sia grezzo e spinto in questo brano, convince maggiormente con un cantato qui più corposo e serrato. La batteria, pur dando forse prestazione migliore di sé, viene soffocata dagli altri strumenti, soprattutto nella parte di assoli di chitarra finali, e rimane veramente udibile solo il set di piatti, a discapito di cassa e tom. La conclusione del nostro viaggio attraverso le verdi pianure inglesi avviene con "Over the Plains". In questo pezzo, di più di ampio respiro dal punto di vista delle vocals, abbiamo una melodia più precisa e interessante, che riesce a creare quel senso di liricismo e solennità che furono l'altra faccia della medaglia dell'heavy classico e si sposarono spesso a lyrics storico - letterarie in band come gli Iron Maiden. Un riff di chitarra apre il brano e si capisce subito la volontà di creare delle ritmiche più maestose che serrate. Un po' arrancato suona l'ostinato sul ride nella parte subito seguente, idea interessante quella dell'imitazione ritmica del riff d'apertura, ma che per motivi esecutivi perde efficacia. Nel complesso però il drumming offre un supporto migliore che nei brani iniziali e si sposa più saldamente al torrente in piena di note ribattute al basso, imponendosi più decisa nei ritmi e nei passaggi, i quali hanno però ancora qualche pecca esecutiva. Le chitarre assumono vita propria e cantano gareggiando tra loro nella parte centrale e finale, mescolando assoli con il riff iniziale e scambiandosi incessantemente i ruoli, cosa che unita a un cantato molto più intrigante porterà a un incremento espressivo che sfumerà nel fade out del finale. L'organico strumentale degli Hundred, in particolare per la presenza delle tre asce di Alex Storrson, David Pike e Adamo Corazza, rimanda subito a quello di mostri sacri come i già citati Iron a piena formazione, che includevano chitarristi del calibro di Dave Murray, Adrian Smith e Janick Gers, punti di riferimento per prestanza live e capisaldi della scuola chitarristica heavy. A questi rimanda anche la scelta delle linee di basso e batteria. L'impressione però è quella di essere ben lontani dalle accattivanti basi di batteria rimarcate dalle percussive triplette di basso del duo Nicko McBrain e Steve Harris. Malgrado questo EP suoni come una presa diretta, mancano a tratti quel sostegno ritmico e quella decisione così importanti in live e che fecero la fortuna di band come quella sopracitata. Questo è probabilmente da imputarsi a quello che sembra essere un frettoloso processo di incisione e per questo e per il fatto che si abbia comunque a che fare con una demo, non va escluso dalla propria discografia questo EP d'esordio degli Hundred, che sa regalare comunque e malgrado tutto momenti piacevoli. Soprattutto è interessante l'idea di fondere tematiche folk/power con una musica tipicamente heavy anni '80, dal cantato che pesca  in parte dallo stile vocale del primo vocalist dei Maiden, il quale a sua volta possedeva una vocalità di stampo blues, in parte dalle vocals di matrice scandinava, specialmente nelle soluzioni corali. Un lavoro in conclusione immaturo circa la realizzazione tecnica, ma che offre spunti che vale la pena di sviluppare in futuro e nell'immediato con la seconda parte di questa demo di presentazione, che ci si augura foriera di un salto di qualità nel sound, nell'esecuzione e nella composizione della band. (Marco Pedrali)

(Adapt Records - 2014)
Voto: 60

https://www.facebook.com/Hundredmetal

giovedì 1 maggio 2014

Chaos Inception - The Abrogation

#FOR FANS OF: Death Metal, Morbid Angel, Hate Eternal, Immolation
Alabama is usually not on the tops of too many lists when it comes to hotbeds for Death Metal, but if Chaos Inception is going to keep up with albums like this it won’t be long before the state starts moving up. Already two albums in, these scene vets, populated from acts Fleshtized, Blood Stained Dusk, Monstrosity and Quinta Essentia to name a few, offer forth one of the most relentless and harsh sonic attacks in the genre and create one of the more impressive efforts in an overcrowded yet prolific scene with their sound honed and refined much further than previous records showed. Rather than opting for that cavernous, sprawling landscape so often associated within the scene, this goes back to the start with a tight, ferocious sound that favors the guitars first and foremost with their unrelenting brutality that manages to make the songs far more ferocious due to the ravenous assaults in the riff-work as it adds a series of technical riff-work, sharp leads and a tight framework throughout that makes for a raging hellstorm that populates the landscape. Never a true brutal Death act nor a full-on technical one either, instead both form together with a traditional backbone created by the thunderous bass-lines, unrelenting and explosive drum-work to not only propel the songs forward at a devastating pace but also display a far greater sense of dynamics, mood variation and tempo changes than would normally be the case in either styles’ true by-products, leaving this to fall in as a traditionally-sounded death metal band with a brutal streak dominated by far more technicality than what is normally on hand, leaving this a solid, raging effort in the best tradition of the old-school giants. A rather notable but unnecessary highlight that this album is glossed in a crystal-perfect production that highlights every riff, every thunderous drum-blast and renders the vocals deep and growled to perfection is to be commended. If one is to find flaw in this one, which is nit-picking of the highest order, it’s that the band tends to employ the same rhythmic pattern throughout where the songs sound pretty close to one another throughout. The album-opening title track does strike a few nice chords with a bass-solo surprise, but the main rhythms and pace are copied throughout the majority of the tracks. "Phalanx (The Tip of the Spear)" includes some rather pleasing riff-work and a charging atmosphere, but the drum attack and solo section are repeated in here as well. The album’s best tracks, the threesome of "Lunatic Necromancy," "Pazuzu Eternal" and "Hammer of Infidel" do offer up minor chord differentials and pattern changes to distinguish them from the others, whether it be the unyielding guitar work of "Lunatic," a series of sharp bass-lines and frantic technicality through "Eternal" or the extreme brutality in "Infidel." Really, though, each of these songs does contain a number of repetitious patterns and riffs that doe make the whole effort sound remarkably similar to each other, but the sheer energy, aggression and unwavering technicality that moves through these brutally concise tracks makes them fun regardless of how similar they may be, and that alone is the bands’ best trick so far and really offers them great hope for the future. (Don Anelli)

(Lavadome Productions - 2014)
Score: 85

https://www.facebook.com/ChaosInception

The Great Old Ones - Tekeli-li

#PER CHI AMA: Post Black, Altar of Plagues, Blut Aus Nord, Deafheaven
Ne avevo ricevuto un breve assaggio sul sito web della band e già stavo pregustando l'ascolto del full length. Finalmente ho fra le mani 'Tekeli-li', secondo atto dei francesi The Great Old Ones (TGOO) che tanto successo hanno riscosso, nei meandri dell'underground, col precedente 'Al Azif', tanto da creare una profonda attesa per il loro come back discografico. Non so se sia per il recente scioglimento degli Altar of Plagues o cos'altro, ma spasmodica è la ricerca di una band degna di questo nome che possa collocarsi nei cuori dei fan, per sostituire il mostruoso act irlandese, ormai andato. E questa volta la nostra ricerca pare essere andata a buon fine. I TGOO hanno colpito nel segno con uno splendido lavoro di sei pezzi, già di per sé magistralmente confezionato (bello il digipack, ancor di più il doppio Lp). Ma veniamo al roboante incedere dei brani che dopo la delicata intro, si materializzano in musica con "Antarctica", minacciosa song che delinea immediatamente il ruvido approccio post black del quintetto di Bordeaux, il cui concept si rifà ancora una volta al buon vecchio H.P. Lovecraft e al lamento, appunto il 'Tekeli-li', dei suoi mostri immaginari, gli Shoggoth (per ulteriori dettagli però, vi rimando alla lettura de 'Alle Montagne della Follia'). L'attacco è pesante e limaccioso, un effluvio di dolore perpetrato con lentezza disarmante, che ci prepara al fragoroso attacco che sarà inferto da li a poco, con le chitarre malate che sembrano fuoriuscire dalle viscere dell'inferno, confermando le già eccellenti (e malefiche) sensazioni che avevo avuto dall'ascolto del precedente album. Il vento soffia timido in "The Elder Things", song che mostra un lato più riflessivo dei TGOO, segnato da linee melodiche a cavallo tra il depressive e il black cascadiano, in un vortice sonoro che assume i connotati della doppia elica del DNA e cresce cresce, mutando in cancerogeniche cellule che conducono alla formazione di un mostruoso essere, lo Shoggoth, creatura amorfa dal catramoso aspetto esterno. Cosi come quel venefico ameba, la musica dei TGOO si plasma portando terrore e oppressione, complice anche le tenebrose ambientazioni e le orrorifiche vocals di Jeff Grimal, che nella successiva "Awakening" blatera qualcosa in francese, mentre la musica si propaga funerea come un blob assassino. Mancava una componente funeral nella matrice musicale del 5-piece dell'Aquitania e direi che qui calza a pennello, contribuendo ad alimentare quell'innato senso d'angoscia che l'ascolto di 'Tekeli-li' genera fin dalle sue note iniziali. Assai convincente però è l'evoluzione di questo brano che tra sfuriate black, rallentamenti parossistici, intermezzi psichedelici, harsh e clean vocals, forse si presenta come la traccia più varia della release, che sicuramente farà la gioia di chi ama Blut Aus Nord, Wolves in the Throne Room e Deathspell Omega, nomi di un certo spessore che decretano il raggiungimento di una invidiabile maturità artistica anche da parte dei TGOO, sebbene i soli 2 album all'attivo. Mentre sono qui a elaborare sensati pensieri, esplode la funambolica e strumentale "The Ascend", un aggressione sonora all'arma bianca, selvaggia e quanto mai avvincente, che dopo essersi scaricata, trova un po' di pace nei suoi 90 secondi finali. Pronti per la maratona conclusiva? Mancano infatti i quasi 18 minuti di "Behind The Mountains", ultimo monolitico atto che a fronte di un acustico prologo, trova ben presto modo di sfociare in violente scorribande black, in grado di alternarsi a squilibrati e schizoidi cambi ritmici, intimistici e malinconici break arpeggiati sorretti da urla ferali, dando dimostrazione di classe ed eleganza. Ebbene, non saprei che altro aggiungere se non che i The Great Old Ones possono essere dei predestinati. Mostruosi. (Francesco Scarci)

(Ladlo Productions - 2014)
Voto: 85

http://www.thegreatoldonesband.com/

lunedì 28 aprile 2014

Furia - W Melancholii

#PER CHI AMA: Post Rock/Doom, Mono, Slint, Tim Hecker, Skepticism
Due soli brani dalla durata piuttosto lunga e contorta contraddistinguono questo lavoro della oscura band polacca uscita nel 2013 per la Pagan Records. Nel totale di circa diciotto minuti i Furia cercano di creare un ibrido tra musica d'atmosfera minimalistica e rock, o meglio post rock con sonorità che affondano radici nel pagan metal più misantropo. Ci sono delle buone idee che elaborano morbide melodie malinconiche e una buona propensione alla cadenza doom, ma il matrimonio tra le correnti ispiratrici non va mai in porto e raramente ci si sente coinvolti a dovere durante l'ascolto dei due brani. La causa principale è una registrazione sommaria che toglie a batteria, chitarra e alla musica in genere, la sua stessa vitalità. Acerbi suoni, tipici di un primo demo, senza carisma e poco ricercati. La cosa che non si capisce di queste composizioni e che ci lascia con l'amaro in bocca, è proprio la scarsa resa dei brani. Oltremodo rammaricati, dopo aver constatato che la band ha fatto un ottimo lavoro in fase di mixaggio curando dettagli inaspettati. Comunque l'assenza di una voce si fa notare e un taglio dal tipico accenno elettronico in un contesto così tanto post rock e dalle cadenze molto rallentate, risuona scontato e poco incisivo soprattutto se non si calca la mano sulle tecnologie hi-fi o sulla vena doom. Rivedendo molti dettagli, potrebbe anche essere l'inizio per una giusta strada, ma ci vuole un po' più di lucidità nello scegliere da che parte stare; per puntare al potere di Tim Hecker, Goodspeed You! Black Emperor, Slint, Mono o Skepticism bisogna aprire la porta dell'anima e lavorare sodo. (Bob Stoner)

(Pagan Records - 2013)
Voto: 55

Glorior Belli - Gators Rumble, Chaos Unfurls

#PER CHI AMA: Black/Southern Rock/Stoner, Down, Sixty Watt Shaman, Gorgoroth 
La band transalpina al traguardo del quinto album, rimarca e forgia a fuoco il nuovo corso intrapreso già con il precedente 'The Great Southern Darkness', mostrando al mondo quest'ultimo lavoro uscito per la Agonia Records dal titolo 'Gators Rumble, Chaos Unfurls'. Il nuovo corso è fatto di sonorità black metal, già parte della natura stessa e del passato della band ed eccitanti rasoiate southern rock come quelle che si trovano nella musica dei Down di Phil Anselmo o ancor più, nei grandi Alabama Thunder Pussy, passando solo di striscio dal black' n roll. Tra queste tracce troviamo la stessa polvere, il catrame, la nicotina che calcifica la voce del vocalist Billy Bayou che sembra l'ombra nera di Anselmo o di Dan Kerzwick in 'Seed of Decades' degli Sixty Watt Shaman. La sua chitarra strabiliante e carica di sabbia desertica, malata di '70s rock e stoner è quanto serve per portar scompenso nell'ascoltatore che non riesce mai a rinchiudere i Glorior Belli versione 2013 in uno dei generi prima citati. Considerata la presenza massiccia di southern rock e polvere, non rimane che chiederci a questo punto, quanto spazio resta per l'anima black metal della band?Esattamente l'altra metà è la risposta! Infatti la mustang di Billy viaggia sull'autostrada dell'inferno, nero come la pece e pieno di dolore e rabbia, dove la polvere è fredda e non risplende il sole. Quindi provate ad immaginare questo accostamento allucinante: la musica degli Tsjuder o dei Gorgoroth attorcigliata a quella degli Alabama Thunder Pussy e non tiratene una conclusione affrettata perché potrete rivedervi fin dal secondo ascolto. Questo lavoro è più blues del suo predecessore, ugualmente maligno ma più caldo e affascinante. Leggermente penalizzato da una registrazione a tratti sottotono e incurante dei bassi ma rude al punto giusto. Sempre più convinti che a qualcuno potrà dar fastidio questo connubio di generi, vogliamo orgogliosamente rimarcare, che questo album nasconde spunti interessantissimi e coraggiosi che ampliano in maniera vintage ed estremamente rock il modo di vedere il metal estremo. Dunque, compratevi una mustang, spegnete la luce del giorno e sfrecciate verso i cactus impolverati della vostra anima nera, ascoltando 'Gators Rumble, Chaos Unfurls' a tutto volume! (Bob Stoner)

(Agonia Records - 2013)
Voto: 70

Taranis - Kingdom

#PER CHI AMA: Black Symph/Avantgarde/Progressive, Arcturus, Dan Swano
Ora io mi domando come sia possibile che una simile release passi inosservata alla maggior parte delle webzine italiane? Questo è un enorme delitto, se si pensa poi che le stesse 'zine vadano a recensire, il più delle volte, immondizia. Fortunatamente, il web mi consente di arrivare a musica per i più sconosciuta, quella che sinceramente a me regala maggiori emozioni. Veniamo ai Taranis, che tanto hanno suscitato rabbia nel sottoscritto per la diffidenza con cui è stata presa la loro release, ma grandi emozioni al suo ascolto. Si tratta di una one man band ungherese, guidata da Attila Bakos addirittura dal 2000 e 'Kingdom' ne segna il debutto ma ahimè anche il canto del cigno. Auspico che il talentuoso musicista magiaro (che ha prestato peraltro le vocals come guest negli ultimi lavori dei conterranei Thy Catafalque) ci ripensi e rilasci un'altra manciata di album che vantino la stessa qualità di questo, che parte con "Storm", song lunghissima che sembra ispirarsi, almeno nei primi minuti, a uno dei tanti progetti paralleli e progressivi dell'altrettanto fenomenale Dan Swano. Parlavo di progressive appunto, ma questo cederà il passo ad una forma illuminata di black sinfonico, per nulla scontato o derivativo, in cui le vocals del bravo Attila, assumono connotati grangruignoleschi, con un finale corale da brividi che ha evocato nella mia memoria 'Hammerheart' dei Bathory. Non privo di splendide orchestrazioni e sapienti arrangiamenti, giungo al secondo brano, "Dominion", che sciorina un bel riffing possente sorretto da eleganti melodie tastieristiche, intrise da una forte vena malinconia, che spezza l'incedere in un mistico break centrale, da cui il mastermind riparte con un'andatura più rallentata, ma decisamente pregna di una certa teatralità. E ancora nel finale sono le magnifiche cleaning vocals ad innalzare il livello qualitativo di una release già di per sé notevolissima. Con "Glory" si ritorna alle epiche cavalcate della opening track e a un cantato che si trova esattamente a cavallo tra il growl e lo scream; peccato solo per la mancanza di un vero batterista in quanto, come spesso capita, il suono sintetico della drum-machine non regala al sound la stessa naturalezza delle vere pelli. Ma si può anche sorvolare a questa mancanza perché la seconda parte del brano offre sprazzi di suoni che spaziano tra il progressivo e l'avantgarde in modo spettacolare, con lo spettro di Dan Swano (ma anche di ICS Vortex) ad aleggiare, almeno a livello vocale. La chiusura di 'Kingdom' (si tratta di 4 pezzi per 40 minuti di musica di classe) viene affidata ad "Origin", song magica e delicata, in cui sono le voci pulite di Attila a dominare (notevole sulle tonalità alte), affiancato da chitarre acustiche e strumentazioni folkloristiche, in grado di regalarci un finale dal mood triste, quasi straziante, ma sicuramente dal forte impatto emozionale. Che altro dire, se non obbligarvi a fare vostro questo cd, per supportare realmente la musica che vale. E Attila con il suo progetto Taranis, merita tutta la vostra attenzione. (Francesco Scarci)

(Self - 2012)
Voto: 85

domenica 27 aprile 2014

Khladnovzor - White Labirint

#PER CHI AMA: Depressive Black
Eccomi qui a recensire questi Khladnovzor, depressive black metal band dalla russia, la cui line-up è composta da Morokh che stando alle poche informazioni trovate in rete sembrerebbe essere la mente di tutto, Abgott alla voce e Sfavor bassista e programmatore della batteria, questi ultimi suonano entrambi in un progetto nsbm di cui non farò menzione per evitare inutili propagande nei confronti di una scena musicale altrettanto inutile. Mi ha immediatamente colpito l’artwork di 'White Labirint', davvero caotico, in una parola “brutto”: logo della band incomprensibile e disarmonico, e purtroppo ogni cosa scritta sul cd, titolo dell’album e testi sono in cirillico pertanto difficile, per non dire impossibile, capirci qualcosa. Dicevo che la musica contenuta in questo primo full-lenght è un depressive black metal che a tratti va ad assomigliare al Cascadian Black Metal. Di idee ce ne sono diverse, c’è una buona inventiva da parte del chitarrista che tesse la trama di riff molto malinconici e soffusi e questo è il punto di forza della release, anche se ahimè i punti a sfavore sono troppi per poter dichiarare questo album “buono”. La prima e più grande pecca sta nella registrazione che risulta estremamente piatta e con troppi medi; anche tentando di equalizzare al meglio attraverso lo stereo non si riesce ad ottenere un suono soddisfacente, rimangono registrazioni troppo finte, digitali, senza corpo e tridimensionalità. Superando questo cavillo, troviamo una voce poco decisa, poco energica ed impersonale, che non fa altro che peggiorare le cose; la drum-machine, seppur ben programmata è un ulteriore tasto dolente. Le tracce poi, sono troppo lunghe e monotone e finiscono con l’annoiare, inoltre sarebbe il caso di essere meno conservatori e magari offrire una traduzione dei testi dal russo all’inglese. Capisco la voglia e la passione per il nazionalismo, ma il nazionalismo non è chiusura mentale. Se si desidera farsi conoscere, se si vuol portare un messaggio al di fuori della Russia, sarebbe il caso di cominciare a pensare di scendere al livello dei comuni mortali e scrivere in una lingua che sia minimamente comprensibile, dunque, aggiungendo che non capisco assolutamente le tematiche dei testi e non mi è possibile determinare di cosa parlano, posso dire di essere rimasto deluso da questo album, non lo ritengo un ascolto interessante, credo che si possa usare meglio il proprio tempo ed ascoltarsi qualcos’altro. (Alessio Skogen Algiz)

(Nihil Art Records - 2014)
Voto: 55

The Wisdoom – Hypothalamus

#PER CHI AMA: Sludge/Doom, Ufomammut
Recentemente ho letto una recensione di questo primo full lenght dei romani The Wisdoom, pubblicata su una delle più importanti e gloriose riviste musicali italiane, nella quale si impiegava circa metà del (poco) spazio concesso ad incensarne la copertina, liquidando il suo contenuto con poche frettolose parole, che si limitavano a sottolineare la mancanza di coraggio dei quattro, che secondo l’autore avrebbero deciso di seguire strade già battute con successo da altri senza proporre nulla di nuovo. Beh, io dico che forse può essere vero che 'Hypothalamus' non contiene sconvolgenti novità o rivoluzioni ma dico anche che – primo – vorrei sapere quali lavori usciti negli ultimi anni in ambito sludge-doom hanno apportato sostanziali novità tanto da non essere in qualche maniera considerati derivativi (e non mi limito a parlare dell’Italia) e che – secondo – io di dischi “derivativi” come questo, con questa qualità, classe, potenza, ne vorrei a pacchi. Dopo il successo del loro EP omonimo, che aveva spinto i Manetti Bros. a scegliere un loro brano per la colonna sonora di 'Paura', i The Wisdoom sfornano questo loro primo album (quattro pezzi per 45 minuti) con la firma di Lorenzo Stecconi al mastering e missaggio, assoluta garanzia di qualità per colui che è il “responsabile” del suono di Ufomammut e The Secret. E proprio a questi nomi, tra gli altri, è inevitabile che ci si rivolga per identificare la musica dei The Wisdoom, che loro stessi definiscono come un concentrato di “violenza estatica, un viaggio disperato e lisergico attraverso le fasi del sonno”. “Disperazione" e “violenza” sono parole che descrivono bene la lunga “Alpha” che apre il lavoro con un assalto che toglie il respiro e precipita l’ascoltatore in uno stato di angoscia. Dopo la strumentale e interlocutoria “Thema”, si arriva a quello che personalmente considero il vertice del disco, “Delta”: 15 minuti ossessivi e potentissimi, sottolineati da chitarre torturate e sofferenti che si alternano a gorghi nei quali estasi e tormento sono separati da un confine sottilissimo, ai quali è impossibile sottrarsi. A chiudere 'Hypothalamus' ci pensa “Oneiron”, che si stacca nettamente dal clima plumbeo dell’album, con il suo sinuoso movimento post-rock, se non uno squarcio di sole, almeno un inizio di rasserenamento, a suggerire l’avvicinarsi dell’alba. Lavoro imponente e importante, che potrebbe permettere in breve ai The Wisdoom di scrivere il proprio nome accanto a quello di altre band come Lento, Ufomammut e The Secret, in grado di partire dalla penisola per conquistare il mondo. Ah, per la cronaca, anche la copertina (opera di Rise Above) è molto bella… (Mauro Catena)

(Heavy Psych Sounds - 2014)
Voto: 80