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sabato 31 agosto 2013

Siva Six - Rise New Flesh

BACK IN TIME:

#PER CHI AMA: EBM, Industrial, Electro Music
La sorte di questo duo greco sembra già essere scritta. L'interesse che i musicisti di derivazione metal manifestano per il suono "sintetico", è evidente, non viene mai accolta di buon occhio in certi ambiti della musica elettronica. Per questo "Rise New Flesh" è stato probabilmente snobbato o guardato con molta indifferenza dal pubblico a cui si è rivolto Ma chi sono questi due "metallari" dalle velleità elettronico-industriali? Presto detto: il tastierista Noid è stato per ben sette anni un membro attivo della black metal band Rotting Christ, mentre Z (alla voce) ha fatto parte per dieci anni degli altrettanto famosi Septic Flesh, formazione death/gothic greca dalle grandi potenzialità. Un curriculum di tutto rispetto, ma anche una pesante zavorra che i Siva Six si portano appresso. Inevitabilmente. Dovendo esprimere il mio parere, posso dirvi che "Rise New Flesh" è un lavoro valido sotto molteplici aspetti. Innanzitutto il gruppo si è cimentato in una sorta di "harsh-EBM" che riesce a demolire senza mai annoiare, creando la giusta amalgama tra la staticità della battuta che il genere impone e un lavoro di tastiere complesso e assolutamente mai banale. Non c'è dubbio che i Siva Six abbiano molto da insegnare in termini di composizione ed è sufficiente soffermarsi sui grandiosi intrecci apocalittico-orchestrali di "Nihil Before Me" e "Nexus 6" per accertarsene. Efficace anche la prova vocale di Z, che si affranca dal timbro esageratamente artefatto oggi tanto in voga e opta invece per un approccio ben più crudo e diretto (suppongo ispirandosi ai Nitzer Ebb). Di certo non siamo di fronte ad un lavoro imprescindibile, ma brani come "Streetcleaner" o "Awayk" sono mazzate EBM che non potranno lasciarvi indifferenti, se in questa musica ricercate soluzioni violente e intelligenti allo stesso tempo. (Roberto Alba)

(Decadance Records - 2005)
Voto: 70

http://www.lastfm.it/music/Siva+Six/Rise+New+Flesh

Secrets of the Moon - Carved in Stigmata Wounds

BACK IN TIME

#PER CHI AMA: Black occulto, Potentiam, primi Keep of Kalessin
Sebbene la biografia li presenti come un terzetto di black metal occulto, i Secrets of the Moon poco hanno a che fare con le sonorità di casa nostra, che, per intenderci, devono a gruppi come Mortuary Drape, Opera IX e Funeral Oration la paternità del suddetto genere. Il gruppo tedesco attinge più che altro da una corrente del black metal orientata allo sfoggio delle proprie doti tecniche, tant'è che il termine "occulto" trova giustificazione solamente nelle liriche dell'album e non certo nelle atmosfere che la musica è in grado di evocare. Ad ogni modo "Carved in Stigmata Wounds" non è affatto un brutto album e l'unica pecca effettivamente riscontrabile sta nella prolissità di alcuni arrangiamenti e nell'eccessivo protrarsi delle composizioni, che raggiungono dei minutaggi talvolta sfiancanti. Per quanto infatti le velocità non siano sempre sostenute, 70 minuti e più di black metal non sono facili da reggere per nessuno e diventano una difficile prova di resistenza persino per chi possiede padiglioni auricolari ben rodati. Un vero peccato, perché questi tre tedeschi ci sanno fare e già dai primi riff di "Cosmogenesis" ci si accorge che non sono poche le frecce al loro arco. La voce, prima di tutto, mantiene quella perfetta ruvidità utile a bilanciare in ugual misura aggressione e musicalità, mentre le chitarre annichiliscono senza mai perdere il controllo, interrompendo solo saltuariamente la loro folle corsa in favore di momenti più ragionati. Non manca qualche sprazzo di tastiera, che riveste però un ruolo assolutamente marginale nell'economia generale dei brani. Come già detto, è l'ottima preparazione tecnica degli strumentisti a farla da padrona nell'album e non è da meno il lavoro svolto in sede di produzione, responsabile di un suono limpido e a sua volta selvaggio. Se masticate il genere, provate ad immaginare un incrocio tra Keep of Kalessin, Potentiam e Dissection e avrete un'idea abbastanza calzante di come suonino i nostri. In conclusione, una prova convincente ma, ripeto, offuscata da una durata dei brani a dir poco estenuante, che fa dell'album un prodotto discreto e niente più. (Roberto Alba)

(Lupus Lounge/Prophecy - 2004)
Voto: 65

https://www.facebook.com/sotm777

giovedì 22 agosto 2013

Satyricon - Volcano

BACK IN TIME

#PER CHI AMA: Black Sperimentale
Da più di un decennio seguo le sorti di questo colosso norvegese, che assieme ad Emperor e a pochi altri è riuscito a portare il black metal a livelli elevatissimi. Lavori come "Dark Medieval Times", "The Shadowthrone" e il capolavoro assoluto "Nemesis Divina" hanno segnato un'epoca e hanno posto le basi per la crescita di un genere che agli inizi degli anni '90 sembrava dover essere relegato unicamente all'underground. Ho sempre accolto con grande entusiasmo ogni prova in studio di Satyr e Frost e neanche il tanto contestato "Rebel Extravaganza" era riuscito a deludermi quando uscì nel 1999. Trovo che "Rebel Extravaganza" rappresenti tuttora il capitolo più estremo e misantropico della carriera dei Satyricon, un ottimo album che purtroppo non fu accolto in modo benevolo e venne criticato duramente, forse proprio per il suo carattere ostico e per l'abbandono totale delle atmosfere epiche e medievali degli esordi. Dopo l'uscita di "Volcano", ammetto però di esser rimasto sorpreso e disorientato leggendo tutti i commenti positivi che l'album ha ricevuto da stampa e affezionati e non mi sento di appoggiare in pieno questo verdetto collettivo che ha decretato la nuova creatura dei Satyricon come un'opera d'arte sublime ed innovativa. Indubbiamente "Volcano" ha ereditato le strutture spigolose e dissonanti di "Rebel Extravaganza" ma appare più scarno e diretto del suo predecessore, tanto da perdere quasi integralmente quell'aura ipnotica e malsana a cui il duo norvegese ci aveva abituati nelle sue composizioni più intricate. Solo "Angstridden" porta con sè l'inconfondibile marchio dei Satyricon mentre brani come "Suffering the Tyrants", "Mental Mercury" o "Black Lava", nonostante risultino formalmente perfetti e non manchino di alcuni spunti geniali, scivolano via senza far male e rimangono privi di slancio. Va anche detto che riesce difficile resistere a due pezzi esplosivi come "Repined Bastard Nation" e "Fuel for Hatred" -due macigni dalla vena rock'n'roll che suonati dal vivo, vi assicuro, risultano assolutamente travolgenti- ma questo non basta a far guadagnare quota a "Volcano", che purtroppo rimane soffocato dall'eccessiva smania di sintesi emersa nella sua stesura. Per quanto mi riguarda non c'è nessun tradimento delle origini, nessun cambio radicale di stile e non trovo nulla di sospetto nemmeno nel passaggio della band ad un'etichetta importante (affermare che Satyr e Frost siano diventati delle rockstar è semplicemente ridicolo)... più semplicemente, "Volcano" è un disco sottotono e alle volte un po' noioso, l'album di una band che resta comunque grandissima e rimarrà tale anche in futuro. (Roberto Alba)

(Capitol, 2002)
Voto: 65

http://www.satyricon.no/

Runes Order - The Hopeless Days

BACK IN TIME:

#PER CHI AMA: Dark Ambient, Cold Wave
Un tiepido inizio dalle movenze rallentate, quasi come intorpidite da una tremenda sensazione di gelo, la stessa orribile sensazione che solo il terrore per una morte iniqua può serbare. Incomincia così il settimo album di Runes Order, un lavoro le cui prime tracce lasciano ben intendere quale sia il percorso intrapreso da Claudio Dondo dopo le divagazioni nella musica horror anni '70 de "La Casa dalle Finestre che Ridono". Parlo di un ritorno alle sonorità di "Odisseum" e "Waiting Forever", lavori dai quali l'artista è ripartito per catturarne lo spirito e riproporne le intuizioni, ma affrontando l'onere con la padronanza del musicista maturo che ha preso completa coscienza del proprio potenziale espressivo (in tal senso, la collaborazione con Trevor di Northgate e Camerata Mediolanense sembra essersi rivelata cruciale). Con "Il Giorno della Vendetta" si entra nel vivo dell'incubo. Nel crescendo introduttivo di synth, sostenuto dall'incalzante base ritmica di sottofondo, lo stile dell'artista alessandrino diventa immediatamente riconoscibile ed è proprio a partire da questo brano che l'ascolto dell'album si farà sempre più coinvolgente. Segue "After the Passing", una bellissima cover dei Malombra interpretata da Daniela Bedeski (Camerata Mediolanense), la cui voce soave e distante accompagna l'ingresso inatteso di figure evanescenti, che giungono alla nostra dimora come portatrici di un messaggio funesto. Le urla raccapriccianti di "Misoginy!" non lasciano alcun dubbio su quanto stia per accadere: qualcosa di orrendo è già in atto... un delitto brutale ed efferato sta per essere consumato. Il buio della notte si adagia allora come un drappo nero su quel corpo martoriato, su quel volto privo di vita in cui la paura ha dipinto un'ultima smorfia. Le deboli luci al neon di una squallida periferia diventano così, le testimoni del macabro scenario e osservano, tra i rapidi bagliori dei flash, i movimenti di un obiettivo che cattura avidamente le istantanee della vittima. Intanto, le oscure ritmiche trip-hop di "The Night" sembrano trasformarsi nelle complici più fidate del Mostro, accompagnando la sua fuga nel traffico cittadino. Con l'arrivo di "Lucy" assistiamo infine ad uno degli episodi più intensi dell'album, un grido disperato che fa eco tra i ricordi di una mente distorta, quella di chi è pronto ad uccidere ancora. Muovendosi tra soundtrack music, dark ambient, cold wave ed electro ritmata, Claudio Dondo consegna alle stampe un altro formidabile album, un lavoro decisamente emozionante che raggiunge il culmine di una parabola evolutiva in continua ascesa. Prematuro immaginare quale ulteriore crescita affronterà l'artista in futuro; meno difficile è riconoscere "The Hopeless Days" come l'ennesima prova di un talento innato. (Roberto Alba)

(Beyond Production, 2004)
Voto: 85

https://myspace.com/runesorder

sabato 13 luglio 2013

Runes Order - The Art of Scare and Sorrow

#PER CHI AMA: Dark/Ambient
Dopo "Il Sonno del Sogno", i Runes Order hanno proposto un ammaliante album che si aggiunge ad una lunga quanto prestigiosa discografia. Claudio Dondo con quest'opera affronta un esperimento musicale intrigante ed inconsueto, basando il suo lavoro su un concept ispirato a "La Casa dalle Finestre che Ridono" (1976), uno dei capolavori di Pupi Avati che può essere affiancato ad altri cult-movie dell'horror italiano del calibro di "Profondo Rosso" di Dario Argento o "L'Aldilà" di Lucio Fulci. In "The Art of Scare and Sorrow" l'artista piemontese si è avvalso della collaborazione di Tony Tears degli Helden Rune (per le parti di chitarra e basso) e di Argento degli Antropofagus, il quale ha prestato la sua voce in alcuni episodi dell'album. Le vocals morbose di Argento fanno rabbrividire per il loro pathos, turbano per la loro carica disperata e squarciano quell'ideale tela di orrori che si dipinge con tratti decisi nei nostri incubi. L'interpretazione vocale tormentata si confonde spesso con i campionamenti tratti dai dialoghi del film di Avati e si divincola in modo imprevedibile tra i lamenti progressivi delle chitarre, come nel preludio "Twisted Act I" e nella successiva "The Night and His Tears". L'elettronica di Runes Order si muove fluida e pulsante tra cold-wave siderale e ambientazioni da soundtrack, rivelando in diversi momenti un'influenza che rende inevitabile l'accostamento ai maestri Goblin (il loop introduttivo di "Walls Sweat Images" ne è un esempio) e lasciandosi violentare da urla agonizzanti e sussurri melliflui. A spezzare per un breve istante l'omogeneità dei brani, giunge improvvisamente la voce battagliera di Argento, che recita tuonante "Murder is a Faith" nell'omonimo brano, ma si tratta di un episodio isolato (per quanto riuscitissimo) che cede subito il passo al tono ambientale dei brani successivi. "The Art of Scare and Sorrow" termina così, dissolvendosi tra i paesaggi spogli e desolanti di una dark-ambient apparentemente quieta, gli stessi scenari che appartengono ad una realtà distorta, nella quale dominano paura e smarrimento e il delitto diventa assieme un bisogno e un'arte. (Roberto Alba)

(Beyond Prod.)
Voto: 80

https://myspace.com/runesorder

mercoledì 29 maggio 2013

Red Harvest - Sick Transit Gloria Mundi

#PER CHI AMA: Black Industrial
Andiamo a scoprire il quinto album per i Red Harvest, storica band norvegese che debuttò nel '92 su Black Mark con “Nomindsland” e che, lontana dai vari trend che si sono avvicendati nell'arco di questo due decenni nel metal estremo, ha sempre mantenuto fede ad un percorso artistico autonomo. Attraverso lavori come “There's Beauty in the Purity of Sadness”, “Hybreed” e “Cold Dark Matter”, i Red Harvest hanno saputo plasmare il suono embrionale degli inizi, fatto di intuizioni originali ma anche di sperimentazioni talvolta poco riuscite, approdando così ad un industrial-metal molto personale. Se, qualitativamente parlando, “Hybreed” poteva rappresentare il disco della svolta, “Sick Transit Gloria Mundi” acquista un ruolo diverso, imponendosi come il migliore lavoro partorito dal gruppo e facendo emergere i Red Harvest da un "quasi anonimato" che non rendeva certo giustizia al loro reale valore. “Sick Transit Gloria Mundi” è un disco che raggiunge non soltanto la perfezione stilistica ma diventa anche il tramite di un concetto vasto ed attualissimo, che vede coinvolte scienza e spiritualità in una realtà terrificante. Quello che i Red Harvest dipingono è un inferno non molto distante dal mondo reale, un mondo incolore dove l'umanità è totalmente asservita alle macchine e si prostra ad una tecnologia dai connotati quasi mistici. Assorbita la lezione di nomi fondamentali quali Scorn, Ministry, Pitchshifter e Godflesh, la band stravolge questo patrimonio genetico e lo riassembla in modo convincente, conferendo alla propria musica una vena apocalittica, malata e spesso brutale, con ritmi martellanti ed un'atmosfera sempre cupa ed ossessiva. Nascono così dei pezzi devastanti come “AEP”, “Humanoia” e “Beyond the End”, grida disperate d'allarme che giungono impetuose e stridono nell'aria velenosa di una natura ormai al collasso. L'assalto metal industriale dei Red Harvest sa essere distruttivo e inarrestabile ma in episodi come “Desolation”, “CyberNaut” e “Godtech” è un incedere lento e pesante ad accompagnare le immagini aberranti descritte, come se due occhi stanchi seguissero annoiati i fotogrammi terribili di una catastrofe imminente. Dolore, rabbia e grigia frustrazione convivono nell'album più bello che i Red Harvest abbiano realizzato fino ad ora, tracciando un'alternativa estraniante di annullamento e di lenta autodistruzione, un'ultima chance per fuggire da questo mondo intossicato... get off the planet, now! (Roberto Alba)

(Nocturnal Art Productions)
Voto: 90

mercoledì 20 marzo 2013

Presence - Gold

#PER CHI AMA: Prog Rock
Andiamo alla scoperta di un altro album del passato: era il 2001 e dopo “The Shadowing” (il mini-LP d'esordio), “Makumba”, “The Sleepers Awakes” ed il precedente “Black Opera”, i Presence giungono alla quinta uscita discografica; un traguardo che, non solo segna l'apice creativo della band, ma sottolinea soprattutto un'evoluzione musicale senza freni, frutto di un talento unico ma anche di sacrificio e di tanta passione. Una passione che si unisce all'umiltà di chi non si sente mai "arrivato" e all'ambizione di potersi superare costantemente, la stessa passione di chi si ciba di musica e vive per essa. “Gold” è il risultato di tutte queste qualità insite nel terzetto napoletano, nonché l'appagante conferma di un gruppo di musicisti, che mai è sceso a facili compromessi ed ha sempre proseguito per la propria strada. “Gold” è un album dalle molteplici sfumature, un'opera di prog-rock che attinge in parte dalle romantiche e fragili atmosfere dark e in parte dalla lirica e dalla musica classica. Tutto l'album è costruito su eleganti "chiaroscuri" che evidenziano la maturità artistica raggiunta dai Presence e la loro continua ricerca della bellezza, dove originalità e creatività vengono messe al di sopra di tutto. La voce potente di Sofia Baccini è senza dubbio la protagonista di questo lavoro ma non invade il territorio che spetta alla parte strumentale, inserendosi magistralmente tra i raffinati virtuosismi di chitarra di Sergio Casamassima e le tastiere di Enrico Iglio. In “Lightening” e “The Conjuration of the Stronghold Lodge”', è proprio la bella voce di Sofia a porsi in primo piano e a spezzare con la malinconia il taglio epico ed alchemico che contraddistingue gran parte dei brani. Le grandi doti della cantante vengono messe in rilievo in maniera particolarmente evidente, come l'abilità di Sergio nel comporre struggenti fraseggi di chitarra che strappano più di qualche emozione. Sognanti, oscuri, colti, epici...questi sono i Presence, un gruppo che affascina e che merita attenzione, non lasciatevi quindi sfuggire “Gold”, un album magico e senza tempo, ma anche la vostra opportunità di scoprire sentieri musicali inesplorati ed emozionanti. (Roberto Alba)

martedì 22 gennaio 2013

Khonsu - Anomalia

#PER CHI AMA: Groove Metal, Industrial Metal
Dopo un lungo peregrinare nella rete, prima o dopo, quell’album capace di sorprenderti salta fuori e nel caotico panorama metal degli ultimi anni non è sempre così scontato. Almeno pare non esserlo per chi ha passato l’ultimo ventennio a fagocitare tonnellate di dischi. L’effetto paradosso di una grande passione per la musica è proprio questo: un grosso sbadiglio sempre in agguato già al primo pezzo. Con tanti ascolti alle spalle, è quasi invitabile che tutto suoni banale e già sentito, soprattutto quando il mercato è sovrassaturo di band, ma quando inciampi su un album fuori dagli schemi come quello dei Khonsu, capisci immediatamente che dovrai mettere mano al portafogli, perché certi lavori l’acquisto lo meritano davvero. Khonsu è il progetto di S. Grønbech, polistrumentista norvegese che viene supportato alla voce da Thebon, già singer nei Keep of Kalessin. Nel loro album d’esordio, “Anomalia”, il duo presenta sette brani di grande impatto, per un’ora scarsa di musica in cui le sorprese di certo non mancano. Sbadigli, dunque? Neanche mezzo! Fortunatamente poi, delle sonorità ruffiane dei Keep of Kalessin “Anomalia” non possiede nulla. Anzi, il pregio dei Khonsu è quello di proporre un metal di difficile catalogazione. Groove? Industrial? Alternative? Avantgarde? Forse questo debutto è la risultante di tutti questi generi mescolati assieme. Forse c’è persino dell’altro, ma in fondo nessuno ci obbliga a trovare un’etichetta. Piuttosto, vale la pena soffermarsi su ogni singolo brano e constatare quanta energia venga sprigionata da ciascuno di essi. Energia che tra l’altro viene amplificata e ben veicolata da una produzione a dir poco poderosa, dove il suono di ogni strumento è perfettamente calibrato e il bilanciamento tra chitarre ed elettronica offre un esempio concreto di eccellenza. Di beat e tastiere infatti, “Anomalia” è pieno, ma il sound rimane assolutamente robusto ed omogeneo, affrancandosi in maniera netta da certi pasticci “industrial metal” dal vago retrogusto plasticoso. Una prova esemplare di questo equilibrio è “Inhuman State”, opera dall’impronta cyber che si dipana in quasi dieci minuti di accenni vocali hardcore e di tastiere che sembrano voler raccontare un viaggio interstellare da cinematografia sci-fi. Non sono da meno “In Otherness” e “The Host”, che, tra barocchismi ed un pizzico di teatralità, paiono invece ispirarsi a degli Arcturus imbottiti di vitamine. Vale la pena citare anche “Dark Days Coming” e “Via Shia”, perché entrambe svelano degli episodi emozionanti di cantato in voce pulita, che probabilmente rappresentano i picchi più espressivi e melodici dell’album. Il vero carattere dei Khonsu emerge però in “Malady”, indubbiamente il brano più originale ed evocativo, sul quale il gruppo dovrà porre le basi per sviluppare ed affermare un proprio stile unico e ancor più distinguibile. Promettenti. (Roberto Alba)

(Season of Mist)
Voto: 80

http://www.soundsofkhonsu.com/

martedì 15 gennaio 2013

Árstíđir Lífsins - Vápna Lækjar Eldr

#PER CHI AMA: Black Metal, Folk, Helrunar, Drautran
Sono sensazioni altalenanti quelle che derivano dall’ascolto del secondo album degli Árstíðir Lífsins, formazione per metà islandese e per metà tedesca, che annovera tra le proprie fila anche membri di Helrunar e Drautran. Certo, non si può negare che la musica proposta dal gruppo sia di pregevole fattura. Per di più la raffinata commistione tra elementi folk e black metal costituisce un elemento di sicuro interesse per tutti gli amanti di queste sonorità. Cos’è che non funziona, dunque? Forse il problema è l’aspettativa. È probabile infatti che ogni buon intenditore del genere pagan-folk venga conquistato dal suono dell’album con una certa facilità riconoscendo immediatamente che l’uso di aggettivi quali “pregevole” o “raffinato” non sia affatto casuale, ma è proprio quando le premesse sono così invitanti che cresce l’attesa. In poche parole, l’attesa che qualcosa di straordinario ed emozionante accada durante l’ascolto. Ebbene, gli Árstíðir Lífsins si muovono impeccabili lungo un percorso di nove brani dal fascino indiscutibile, ma si limitano ad affrontare i sentieri più facili e sicuri, quelli già battuti da chi li ha preceduti nel loro cammino, senza osare qualcosa in più e senza mai deviare dal percorso prestabilito. Talvolta gli scorci più belli di un paesaggio si scoprono avventurandosi oltre i confini già esplorati, ed è in quei momenti che nasce un’emozione. Peccato che la composizione di “Vápna Lækjar Eldr” sia rimasta intrappolata dentro quei confini, ricalcando alcuni schemi già sentiti e offrendo rari momenti di slancio. L’uso in chiave folk dei cori, della chitarra acustica e degli strumenti ad arco, è tutt’altro che disprezzabile e nel complesso si riconosce un contributo importante da parte di ciascuno dei quattro strumentisti a creare atmosfere piacevoli che elevano l’album ben al di sopra della media. Tra l’altro il connubio tra sonorità estreme e tradizionali, non scade mai nel cattivo gusto, per cui sarebbe ingiusto muovere un appunto al gruppo sul lato prettamente tecnico o sulla loro capacità di creare delle composizione strutturate. Quel che manca davvero è la carica emozionale. I primi tre brani, per quanto timidi, lascerebbero sperare in un decorso ben più coinvolgente, ma poi l’album si arena nella monotonia ed è necessaria un po’ di pazienza, prima di incontrare qualcosa di realmente appassionante. Tanta pazienza, a dire il vero, considerato che stiamo parlando di 77 minuti di musica e che i brani più riusciti siano i due posti in chiusura alla scaletta. "Svo Lengi Sem Sutrs..." e "Fjörbann..." fanno dunque riacquisire quota all’album con la forza delle percussioni, l’asprezza del cantato e la poesia di alcuni intermezzi di synth-piano e violino. Così l’ascolto si conclude in bellezza e quantomeno rimane la sensazione che il contenuto musicale di "Vápna…" sia all’altezza della sontuosa ed ingombrante confezione a libro che racchiude il cd e che va menzionata non solo per dovere di cronaca, vista l’abbondanza di pagine e la cura grafica con cui è stata realizzata. (Roberto Alba)

(Ván Records, 2012)
Voto: 75

http://www.arstidirlifsins.net/

giovedì 20 dicembre 2012

Emptiness - Error

#PER CHI AMA: Death metal, Morbid Angel, Immolation, Ulcerate
Giunti alla loro terza prova in studio, gli Emptiness ridisegnano i canoni del death metal aggiungendo un tratto personalissimo alla scrittura del genere. Nei suoni e nell'attitudine la band belga non sembrerebbe poi così dissimile dalla classica formazione cresciuta sugli intricati spartiti dei Morbid Angel, ma in "Error" c'è qualcosa di ancor più mostruoso e allucinante. "Deafer" ci fa intuire già dalle sue prime note che i quattro musicisti non sono affatto dei pivelli, ma se per assurdo volessimo continuare con un ascolto distratto e superficiale dell'album, probabilmente non riusciremmo a notare nulla di tanto geniale da farci sobbalzare sulla cosiddetta poltrona. È necessario scavare in profondità per accorgersi delle numerose stratificazioni di cui è composto ogni brano e di quanta personalità sia nascosta sotto questo terreno compatto fatto di grugniti, chitarre martoriate e atmosfere soffocanti. Chi ha orecchie ben allenate riconoscerà che gli Emptiness possiedono un'alchimia indefinibile, qualcosa di impossibile da descrivere con le parole, ma sufficiente a catturare l'attenzione di ogni cultore della nefandezza e della stortura musicale. Nonostante la scrittura dei pezzi sia nettamente in antitesi con qualsiasi processo lineare, l'ascolto non risulta affatto ostico o poco digeribile, perché in "Error" ogni cosa è al suo posto, nulla è lasciato al caso e persino le scelte che possono apparire più bislacche sono funzionali alla grandezza di ogni brano. Che sia il raptus grind di "It and I" o la jam schizofrenica di chitarre e sax posta in chiusura alla title track, tutto concorre a rendere fluido ciò che in realtà è estremamente composito e densamente amalgamato. L'odore sulfureo di cui è impregnato questo lavoro, giustifica in un certo senso l'etichetta "death/black" che è stata assegnata agli Emptiness, anche se il timbro di voce così gutturale e le divagazioni tecniche di "Worst" e "Low" sembrano più che altro accostarsi ad una concezione musicale prossima agli ultimi Immolation o Ulcerate, seppure in una forma più innovativa ed imprevedibile. Ad ogni modo, tentare di inquadrare la musica degli Emptiness all’interno di un filone risulterebbe riduttivo e tutto sommato noioso. Molto più appagante è invece perdersi nelle spirali impazzite di “Error” e prostrarsi di fronte ad un un’opera estrema di così alta caratura. (Roberto Alba)

(Dark Descent)
Voto: 85

http://www.emptiness.be/

sabato 1 dicembre 2012

Dødsengel - Imperator

#PER CHI AMA: Orthodox Black Metal
Proporsi nel 2012 con un doppio album di black metal ortodosso potrebbe sembrare un’impresa commerciale destinata a fallire. Un suicidio, se con doppio album si intendono 150 minuti di caos e devastazione. Ma cosa può fregare ai Dødsengel dei riscontri di vendita? Si suppone nulla, dal momento che certi eccessi musicali non vengono certo espressi per ottenere un consenso di pubblico monetizzabile. Eppure, quando il caos ci appare così perfettamente decodificabile nella sua incoerenza, il risultato può essere affascinante. Tanto affascinante che questo doppio “mattone” di estremismo sonoro è andato esaurito in pochi mesi dalla sua pubblicazione e questo è confortante, perché significa che nel sottosuolo della musica oscura le regole di mercato non sono poi così prevedibili e c’è ancora spazio per un album di grande valore come “Imperator”. Se complice di questo sold-out può essere stata una tiratura insufficiente o un’appetitosa confezione destinata ai collezionisti, ciò non è rilevante. Quel che davvero importa è che le 22 composizioni del duo norvegese fanno rabbrividire. Per la loro energia, per la loro oscurità, per la loro ferocia. Il segreto per apprezzarle sta nell’abbandonarsi ad un ascolto casuale, senza avere la pretesa di rispettare diligentemente l’ordine effettivo della scaletta. L’approccio canonico potrebbe, infatti, risultare oggettivamente difficoltoso e fiaccare ancor prima di aver scovato gli episodi più singolari dell’album, rappresentati da interi brani dal taglio sperimentale o da estemporanei passaggi d’atmosfera di una bellezza che lascia sbigottiti. Partire ad esempio dalla sesta traccia, “Holy Metamorphosis”, può essere una buona idea per perdersi immediatamente in una realtà visionaria che sa tanto di vecchia scuola death-doom. Risulta poi facile lasciarsi ammaliare dal cantato femminile in “Apoph-Ra” o dall’intermezzo acustico in “Pneuma: Sidpa Bardo”, ma l’estasi vera giunge solo con l’ipnotica “Hymn to Pan”, che sfiora vette di intensità inesplorate, fondendo potenza e misticismo in più di 11 minuti di esecuzione. L’esoterica introspezione di “Asphyxia”, con il suo tocco malinconico, potrebbe essere l’ultimo respiro concesso prima di un tuffo nelle tumultuose “Sun on Earth” o “No Beginning, No End”, due pericolose immersioni nel vortice della brutalità e della dissonanza. Sulle stesse acque torbide si muovono minacciose anche “Stellar Masturbation”,“Towers of Derinkuyu” e “Upon the Beast She Rideth”, tra litanie infernali e urla laceranti, ma a sorprenderci sono ancora una volta i brani più tetri e cadenzati, come “Ascending Beyond Good and Evil“ e “Attainment”. E in conclusione risulta innegabile come siano proprio questi episodi dal carattere audace e ricercato a saper spezzare magistralmente i numerosi assalti sonori di “Imperator”, elevandone peraltro il valore e rendendo quest’album una creatura ancor più multiforme, imponente e magnificamente inquietante. (Roberto Alba)

sabato 15 settembre 2012

Plasma Pool - Ezoterror

#PER CHI AMA: Electro/Ambient
Dopo i due album “I” e “Drowning” ero sicuro che i Plasma Pool non avrebbero pubblicato più nulla. La notizia di una fantomatica terza parte della trilogia circolava da tempo, ma leggendo le dichiarazioni rilasciate da Attila Csihar negli ultimi anni, non riponevo più molta fiducia nel ritorno del gruppo, dando ormai per scontata la morte definitiva della leggenda ungherese. Niente di più falso... o meglio, Attila decise di non far più parte del trio, mentre István Zilahy e László Kuli rimasero i depositari del progetto, assieme al nuovo singer Gabo. Il risultato di questo sodalizio fu “Ezoterror”, un full-length di dieci brani registrati tra il 2001 e il 2003. L'album uscì in una confezione digipack dalla grafica sobria e dai contenuti essenziali; in tal senso, i testi in lingua ungherese e l'assenza totale di qualsiasi informazione riguardante la genesi dell'opera non aiutano di certo la sua comprensione. Come va interpretato, allora, “Ezoterror”? È il terzo capitolo della trilogia di cui si era lungamente discusso o un episodio completamente slegato dalla vecchia produzione? Il laconico messaggio ricevuto in redazione da István non lo precisa, ma già il primo ascolto dell'album può risultare esplicativo: ci troviamo al cospetto di una band profondamente cambiata. L'elettronica dei Plasma Pool è molto più composta in questo lavoro, muovendosi seguendo schemi rigidi, rispettando le regole di forma e armonia, servendosi dei medesimi elementi "occulti" del passato, ma senza che la follia e la sregolatezza compositiva prendano mai il sopravvento. A caratterizzare l'opener del disco è un suono liquido, il suono di un magma nero in ebollizione le cui mortifere esalazioni vanno a disperdersi minacciosamente, per poi svanire nel pianto supplicante di “A Címzett Ismeretlen”. “Csontnyesö” sembra voler recuperare la formula mantrica dei primi lavori, evitando però di riciclarsi in primordiali ritmiche techno. I nuovi Plasma Pool preferiscono muoversi sui territori della trance psichedelica (“Néma Part”), della drum'n'bass (“Örökké és Sohatöbbé”), dell'ambient ritualistica (“Olombol Aranyat”) e lo fanno con rigore e perizia esecutiva, due aspetti a loro sconosciuti fino a poco tempo fa. Ottima anche la prestazione vocale di Gabo: ipnotizzante il modo in cui le sue litanie si insinuano tra le bassline penetranti, il sample di una risata beffarda o il canto sacrilego di una voce operistica. È vero, i Plasma Pool qualcosa hanno perso dell'alto contenuto energetico che li contraddistingueva agli esordi, ma il temine "esoterico" si addice ancora perfettamente alla loro musica e ascoltando “Ezoterror” è possibile rivivere le stesse sensazioni terrificanti di un tempo, la stessa paura per l'ignoto e per ciò che trascende l'umano. (Roberto Alba)

(Szerzoi Kiadás / Transistor)
Voto: 80

http://www.plasmapool.hu/

Ordeal by Fire - Untold Passions

#PER CHI AMA: Gothic Rock
Qualcosa non ha funzionato per il verso giusto in “Untold Passions”, quello che era l'attesissimo full-length di debutto degli Ordeal By Fire. Non mi riferisco certo alle scelte stilistiche (di cui sono un fermo sostenitore) e nemmeno al valore dei nuovi pezzi, che si confermano all'altezza di quanto proposto nel mini-cd “Roots and the Dust”... ciò che non convince affatto di questo album è la qualità del suono. Un vero peccato, dal momento che in ogni brano di “Untold Passions” è riconoscibile una certa classe, la stessa che i quattro gothic rocker nostrani dimostrarono in occasione dell'uscita dell'EP. Brani energici e ottimamente eseguiti come “Prisoner” o “Life's Uncertainty” meritavano, a mio avviso, una maggior cura in sede di produzione, soprattutto per quanto concerne la sezione ritmica, per nulla valorizzata e soffocata da un suono cupo e distante. Ascoltare “Re-creation” nella nuova versione lascia davvero increduli e, di primo acchito, fa supporre addirittura ad un'involuzione del gruppo. Prestando un ascolto più attento, si comprende che non è così: gli Ordeal By Fire confermano le loro doti di abili musicisti e la capacità di scrivere canzoni dirette e passionali, unendo alla carica esplosiva che li ha sempre contraddistinti un gusto del tutto inedito per ritmi più pacati e atmosfere soffuse. Persino l'influenza dei Fields sembra aver ceduto il passo ad un'interpretazione più audace e personale del gothic-rock, eppure la mediocre produzione rimane un aspetto su cui risulta difficile sorvolare, perché l'intero album ne risente in maniera troppo pesante, impedendo al valore intrinseco dei brani di emergere. (Roberto Alba)

(Strobelight Records)
Voto: 60

http://www.lastfm.it/music/Ordeal+by+Fire

martedì 24 luglio 2012

Rain Paint - Nihil Nisi Mors

#PER CHI AMA: Gothic Rock, Sentenced
Dai membri dei finlandesi Rapture, Fragile Hollow e Denigrate hanno preso vita i Rain Paint, band che raggiunse il traguardo del debutto discografico grazie all’allora giovane e ottima etichetta italiana My Kingdom Music. Se da una parte i Rapture hanno poi proseguito il tema musicale interrotto dai Katatonia dopo la pubblicazione del bellissimo “Brave Murder Day” e i Fragile Hollow si adagiarono su meste atmosfere gothic-rock, i Rain Paint potrebbero collocarsi a metà strada tra le due formazioni, cogliendone gli aspetti peculiari ma non riuscendo sempre ad amalgamare il tutto con la dovuta maestria. Il principale limite che ho riscontrato nell’ascolto dell’album è nelle parti vocali, a tratti piuttosto acerbe e "macchiate" da inserti growl che non trovo per nulla disprezzabili, ma che certamente sono fuori contesto per un tipo di musica come quella dei Rain Paint. Il gothic metal dei nostri vorrebbe emozionare con atmosfere romantiche e al tempo stesso vigorose, ma fallisce in questo intento per un songwriting ancora un po’ disorientato e delle soluzioni compositive che già altri gruppi come Sentenced, October Tide e The 69 Eyes ci hanno ormai riproposto in tutte le salse. “Nihil Nisi Mors” non è comunque un lavoro criticabile sotto tutti i punti di vista e alcuni brani come “Rain Paint” e “Freezes Day” proseguono senza intoppi, rivelando una discreta capacità del gruppo di dare corpo alla struttura generale dei pezzi e facendo trapelare l’esperienza accumulata dal principale compositore Aleksi Ahokas all’interno dei Prophet, band attiva fin dal 1997 e che prima del cambio di monicker in Fragile Hollow aveva già dato alle stampe un paio di mcd. Nonostante le credenziali del gruppo, “Nihil Nisi Mors” si rivelerà però un album che lascia parecchi punti interrogativi e la strana sensazione che permane dopo ripetuti ascolti è quella di avere a che fare con delle canzoni che, per quanto scorrevoli, siano ancora un po’ troppo immature per la pubblicazione di un full-length. Un lavoro senza infamia e senza lode, dunque, che non mette necessariamente in cattiva luce il nome della band, ma alimentò la speranza di ascoltare dai Rain Paint qualcosa di ben più convincente in occasione del successivo album. (Roberto Alba)

(My Kingdom Music)
Voto: 60

Plasma Pool - I

#PER CHI AMA: EBM, Black, Techno
I Plasma Pool nacquero a Budapest nel 1990 dall”idea di tre artisti provenienti da diverse esperienze musicali: Attila Csihar, che fu membro e cantante dei Tormentor (black metal band di culto negli anni ottanta) e che prestò la sua voce in “De Mysteriis Dom Sathanas” dei MayheM, László Kuli, batterista proveniente dalla scena hardcore-punk ungherese e infine István Zilahy, tastierista dedito ad una musica elettronica-psichedelica. Nei primi anni novanta i tre si dedicarono ad un’intensa attività live che li vide esibirsi in discoteche e piccoli club in ogni angolo dell’Ungheria e che li proiettò verso un successo improvviso ed inaspettato. La band non impiegò molto ad assurgere allo status di indiscutibile leggenda underground grazie alle numerose gig tenute in terra d’origine: spettacoli che vengono descritti, da chi ebbe la fortuna di vivere quegli anni d’oro, come terrificanti performance di musica techno, vere e proprie esperienze alienanti che trascendevano la dimensione fisica! Nel gruppo, vita e musica venivano entrambe portate all’estremo e si tramutarono ben presto in veicoli di un’energia tanto vitale quanto distruttiva, l’energia primordiale del Sole che fu alla base del credo dei Plasma Pool e che la band stessa non riuscì a convogliare nella giusta direzione, rimanendone folgorata e lasciandosi sopraffare dagli eccessi. Il trio si sciolse così nel 1994, consegnandoci l’eredità di alcune registrazioni in studio che sono raccolte in questo album assieme a materiale live. Questo primo capitolo, che fa parte di una trilogia ancora incompleta (il secondo episodio “Drowning” è uscito per l’italiana Scarlet nel ‘99), venne diffuso inizialmente su nastro dalla Trottel Records di Budapest e solo nel 1997 venne pubblicato su CD dalla nostrana Holocaust, grazie al forte e ancor vivo interesse che alcuni addetti ai lavori della scena musicale underground italiana ed ungherese (come Luigi Coppo e Vámosi Tamás) manifestarono attorno al nome Plasma Pool. “I” è un documento prezioso, più che un semplice debutto, un ritratto fedele di una band rimasta da sempre avvolta in un alone di mistero e autrice di una musica geniale e malata che trova negli Skinny Puppy la propria diretta discendenza. L’elettronica dei Plasma Pool è sporca, deviata, grezza ed istintiva, una techno "esoterica" creata sotto l’effetto di sostanze stupefacenti. In “Prince of Fire” la voce versatile e corrotta di Attila è quella di un oscuro sciamano in preda alle alterazioni di una mente in trance e nelle successive “False the Saints” e “Story of Flying” prende vita un mantra di energie occulte in cui sangue e spirito si compenetrano pericolosamente. “Brainsucker” è un brano ballabile di una techno ancora acerba e allo stato embrionale mentre in “1993” e “Again” (registrate dal vivo nel ‘92, rispettivamente a Budapest e a Szeged), il terrore diventa più che mai palpabile e prende forma in un suono penetrante e maledetto che, attraverso la modernità di synth e campionatori, risveglia suggestioni ancestrali e paure arcane. Tra le ritmiche indiavolate di “Spider” (registrazione live del ‘93 a Sopron), è invece la follia a prendere il sopravvento e a svelare stati di percezione distorti e poco rassicuranti; a chiudere l’album sono invece “Elsiettet Temetès” (sepolture premature) e “Tampa Baj”, le due registrazioni in studio più recenti (1994) che si accostano maggiormente a macabre ambientazioni dal sapore medievale. Ascoltare i Plasma Pool è un’esperienza trascendentale, un’immersione totale in un vortice di paura e mistero che coinvolge tutti i sensi, è la perdita del proprio controllo e della ragione, è l’alienazione da tutto ciò che ci circonda. È la follia. (Roberto Alba)

(Holocaust Rec.)
Voto: 90
 

lunedì 23 luglio 2012

Ordeal by Fire - Roots and the Dust

#PER CHI AMA: Gothic Rock, The Fields of the Nephilim
Per questioni d’anagrafe non sono forse la persona più adatta per valutare un lavoro come “Roots and the Dust”, che rifacendosi ad un gothic-rock vecchia scuola, necessiterebbe quanto meno di un recensore più navigato di me! Tuttavia, penso non serva maturare alcuna anzianità per riconoscere una band con dei numeri e in questo senso gli Ordeal By Fire colpiscono già dal primo ascolto per la loro grinta e la loro preparazione tecnica. Non fatevi ingannare dal nome, perché non è di musicisti in erba che stiamo parlando e se negli ultimi anni avete sfogliato qualche fanzine italiana del settore saprete meglio di me che il gruppo nasce dalle ceneri dei torinesi Burning Gates, nome di culto della scena gothic-rock nostrana, che tra il 1996 e il 2002 ha rilasciato tre album: “Risvegli”, “Aurora Borealis” e “Wounds”. Ed è proprio dallo scioglimento ufficiale dei Burning Gates che il membro fondatore Michele Piccolo ha voluto ripartire, dando il via ad un nuovo cammino sotto il nome di Ordeal By Fire, assieme a Riccardo Perugini (chitarra), Fabrizio Filippi (basso) e XXX (batterista dei Right in Sight). “Roots and the Dust” è il primo passo discografico della band, un EP di ruvido e potente gothic-rock nel quale feeling e perizia esecutiva si incontrano magicamente; quattro tracce dalle tinte forti che ci accarezzano, ci percuotono... ci fanno sentire vivi! La sintonia tra i ragazzi degli Ordeal By Fire è talmente perfetta che nessuno degli strumenti riesce a prevalere sugli altri, anche se ascoltando l’ultimo brano “New Dark Age” (cover dei The Sound) risulta davvero difficile rimanere indifferenti alla prova superlativa del chitarrista Riccardo! Il cantato sottolinea invece con vigore ogni passaggio, destreggiandosi tra timbriche basse, ruggiti alla Carl McCoy e decise sferzate dalle tonalità più alte in cui l”ugola graffiante di Michele pare trovarsi più a suo agio. Forse in “Roots and the Dust” andava rifinito ancora qualcosa nella produzione ma per il resto quello degli Ordeal By Fire è un esordio più che convincente e ora rimane solo la curiosità di saggiare dal vivo questi brani che sembrano nati proprio per essere vissuti sul palco. (Roberto Alba)

(Innermost Phobia)
Voto: 75