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sabato 30 maggio 2020

Wojtek - Hymn for the Leftovers

#PER CHI AMA: Sludge/Hardcore, Converge
Formatisi solo un anno fa (era infatti maggio 2019 quando i cinque musicisti si ritrovavano in quel di Padova) ma con già due EP alle spalle, i Wojtek ci presentano l'ultimo e appena sfornato, 'Hymn for the Leftovers'. La band patavina, forte delle esperienze dei suoi singoli musicisti in altre corrosive realtà underground, rilascia cinque mefitiche tracce che si aprono con le urla dal profondo della brutale "Honestly", di certo un bel biglietto da visita in fatto di ferocia da parte della caustica band veneta. Detto delle urla iniziali e del lungo rumore in sottofondo che ci accompagna per quasi tre minuti, la band inizia a srotolare il proprio sound abrasivo con un riffing lutulento ma decisamente sporco, che chiama in causa i Converge in una loro versione a rallentatore, soprattutto quando i nostri mettono da parte il drumming e si affidano quasi completamente alle voci taglienti di Mattia Zambon e alle chitarre del duo formato da Riccardo Zulato e Morgan Zambon. Finalmente però sul finale, ecco un accenno di melodia, con la linea di chitarra che assume toni vagamente malinconici. Il basso di Simone Carraro apre poi la seconda "Curse", con il drumming di Enrico Babolin che va ad accostarsi da li a poco, e poi via via gli altri strumenti in una song dall'incedere lento e maligno, che sembra non promettere nulla di buono se non asprezze e spigolature sonore di un certo livello, non proprio cosi facili da assorbire, se non quando il quintetto italico ne agevola l'ascolto con una linea melodica in sottofondo, dai tratti comunque alquanto inquietanti. E proprio in questi frangenti che la proposta dei Wojtek (il cui moniker deriva dall'orso bruno siriano adottato dai soldati dell'artiglieria polacca durante la Seconda Guerra Mondiale) acquisisce maggiore accessibilità e fruibilità, altrimenti le cinque tracce diventerebbero un'insormontabile montagna da scalare. Anche quando parte "Crawling" infatti, l'inquietudine regna sovrana nel drumming schizoide del five-piece padovano poi, complici un paio di break ben assestati ed un rallentamento più ragionato, l'asperità insita nel sound dei Wojtek trova una maggior scorrevolezza in un sound altrimenti davvero ostile, come accade ad esempio nella parte centrale di questa stessa track, prima dell'ennesimo cambio di tempo a mitigarne la ferocia. Ancora il basso tonante di Simone e la sinistra ma nervosa batteria di Enrico ad aprire "Striving", un brano che si muove in territori mid-tempo, lenti ma questa volta pregni di groove a mostrarci un'altra faccia della band che, non vorrei dire un'eresia, in questa song mi ha evocato un che dei Cavalera Conspiracy. Più post-punk oriented invece la conclusiva "Empty Veins" che ci racconta da dove i nostri sono nati e cresciuti, accostando al punk anche la sua degenerazione hardcore. Lo screaming lacerante di Mattia lascia andare tutto il suo dissapore sopra una ritmica costantemente disagiata che trova anche modo di lanciarsi in una sgaloppata al limite del post-black, che si alterna con rallentamenti che spezzano intelligentemente la brutalità in cui i nostri spesso e volentieri rischiano di incorrere. Alla fine 'Hymn for the Leftovers' è un'uscita interessante, ma a mio ancora con la classica etichetta "Parental Advisory: Handle with Care", il rischio di farsi esplodere in mano questa bomba potrebbe rivelarsi letale. (Francesco Scarci)

(Violence in the Veins/Teschio Records - 2020)
Voto: 69

https://wojtek3522.bandcamp.com/album/hymn-for-the-leftovers

domenica 24 maggio 2020

VV. AA. - Solar Flare Records

#PER CHI AMA: Post-Hardcore/Noise
Un'altra compilation nelle mie mani questo mese, devo essere stato davvero cattivo negli ultimi tempi. Autori del misfatto questa volta i francesi della Solar Flar Records (supportata dalla Atypeek Music), che raccolgono qui 10 band del loro roster per testimoniare quanto portato avanti sin qui dall'etichetta e quanto dovrebbe prospettarsi roseo il futuro. Il cd si apre con il caustico refrain noise/post-hardcore degli statunitensi Pigs e della loro "Give It", estratta dall'album del 2012, 'You Ruin Everything'. Questo per dire che le tracce non sono proprio recentissime. I nostri torneranno più avanti con una più ritmata e convincente "The Life in Pink". Dei Sofy Major credo abbiamo abbondantemente parlato su queste stesse pagine, mentre non abbiamo mai avuto l'opportunità di saggiare il sound melmoso, schizzato e super fuzzato dei francesi Pord che, con "Staring Into Space", ci riportano al 2014: interessanti ma difficili da digerire senza un bel malox a supporto. Continuiamo col super ribassato sound dei Watertank e della loro "Pro Cooks", una combinazione di doom, noise e post-hc con voci molto (troppo) ruffiane, che mal si conciliano con i miei gusti, confermato anche dalla seconda "DCVR". Ancora chitarre sporche, voci abrasive e atmosfere psichedelicamente distorte con i Bardus, ma potete capire come sia difficile fare valutazioni sulla base di un pezzo, niente male comunque. Gli American Heritage fanno un punk hardcore inverinato che nelle due schegge a disposizione mostrano la verve abrasiva della band. I Fashion Week, per quanto fautori di un sound a tratti intrigante, alla fine non mi fanno proprio impazzire con il loro post grunge di scuola Smashing Pumpkins. Più strani i The Great Sabatini, con un punk noise hardcore all'inizio fastidioso, molto più interessante invece nelle linee più sludge della loro proposta. Ultima menzione per i Carne e "1000 Beers", estratta da 'Ville Morgue' (2013) che mette in mostra un post-hardcore dissonante che sembra ricongiungersi virtualmente al black destrutturato dei compaesani Deathspell Omega. In chiusura gli Stuntman e il loro devastante e irriverente hardcore, la forma più brutale di questo concentrato nerboruto di suoni tremendamente sporchi. (Francesco Scarci)

(Solar Flare Records/Atypeek Music - 2020)
Voto: S.V.

https://www.facebook.com/solarflarerecords

sabato 9 maggio 2020

Baume - Un Calme Entre les Tempêtes

#PER CHI AMA: Drone/Electro/Ambient
Juif Gaetan è il classico polistrumentista con un piede in più scarpe. L'abbiamo apprezzato nelle sue versioni black nei Cepheide e negli Scaphandre, ora abbiamo modo di godere delle sue gesta anche in questi stralunati Baume, senza contare poi che il mastermind parigino presta i suoi servigi anche ai Rance e ai Basilique. 'Un Calme Entre les Tempêtes' è il terzo EP in tre anni per la one-man-band transalpina, dopo gli ottimi riscontri ottenuti dal debut 'Les Années Décapitées' e dal successivo 'L'Odeur de la Lumière'. Tre i pezzi proposti da Juif, per un lavoro che sembra prendere drasticamente le distanze dal passato post-black dell'artista, proponendo infatti già dall'opener "Rien ne Dure", un ambient oscuro, per una song che si affida esclusivamente ad un beat elettronico che prosegue in un loop per 12 minuti, richiamando in un qualche modo la colonna sonora del film 'Inception'. Solo nel finale, la song sembra acquisire una forma di canzone con l'aggiunta di una flebile linea di chitarra, il tutto rigorosate in forma strumentale. La title track prosegue con questo mood trance electro-beat, con in aggiunta una voce spettrale che ricorda quella dei Decoryah, mentre in sottofondo si srotolano ancestrali melodie. Devo ammettere che non è di certo facile affrontare un mattone del genere se non si è degli amanti di simili sonorità droniche, soprattutto poi se il sottoscritto si aspettava di affrontare un nuovo episodio post-black. Nel frattempo si arriva alla terza song, "Octobre", una traccia che per lo meno sfoggia, almeno in apertura, una chitarra vera e propria, coadiuvata poi da una serie di synth e amenità varie che in poco meno di due minuti ne stritolano la portanza, quasi a farla sparire. Ma la linea di chitarra, come la propagazione di un'onda sonora sinusoidale, si muove attraverso picchi e valli, nascondendosi e palesandosi nell'ennesimo loop ipnotico di questo strampalato lavoro, che mi sento di consigliare a soli pochi eletti, dotati del proverbiale terzo occhio. (Francesco Scarci)

domenica 3 maggio 2020

Yaldabaoth - That Which Whets the Saccharine Palate

#PER CHI AMA: Grind/Experimental Black, Anaal Nathrakh
Quanto meno originale l'idea di far uscire il debut album di questa fantomatica band originaria dell'Alaska, il 29 febbraio 2020. Che gli Yaldabaoth siano peculiari, lo si deduce anche dal titolo culinario del lavoro, 'That Which Whets the Saccharine Palate', che nasconde in realtà un sound estremo e malato. Sei le tracce a disposizione dei nostri (anche se in realtà parrebbe trattarsi di una one-man-band) che irrompono con la delicata furia distruttiva di "Fecund Godhead Deconstruction". Mi rendo conto si tratti di un ossimoro, ma l'incipit cosi melodico viene spazzato via da un sound insano che va lentamente crescendo in schizofrenia e malvagità con linee di chitarra tracciate oltre la velocità del suono in modo dissonante, in quella che sembra essere una grandinata di suoni che annunciano la fine del mondo, in una tripudio di grind, black, noise e mathcore fuori di testa. Spero non vi spaventino queste mie parole, io l'ho trovato uno sprono ad andare avanti nell'ascolto curioso di questo lavoro, per capire come potrebbe evolversi in futuro l'approcio cosi violento dell'act di Anchorage. Influenzati dalla veemenza degli Anaal Nathrakh, dalle deliranti visioni degli Aevangelist e dalla dissonanza sonica dei Deathspell Omega, mi rendo subito conto che l'unica cosa da fare è stare fermi e lasciarsi trapassare dalle frenetiche vibrazioni impartite da questi terroristi sonori. Nel vorticoso arrembaggio sonico della lunga "Megas Archon 365", ci sento anche un che degli sperimentalismi spericolati dei Blut Aus Nord, giusto per darvi qualche altro riferimento e per cercare di inquadrare al meglio la pericolosa proposta degli Yaldabaoth e del caos sonoro da loro perpetrato, che quasi mi intimorisce nel muovermi anche ai successivi pezzi. Ma sono un tipo scafato, il pelo sullo stomaco non mi manca, mi attrezzo di corazza ed elmetto e mi lancio all'ascolto di "Gomorrahan Grave of the Sodomite". L'inizio è come al solito ingannevole, tra spettrali melodie di chitarra acustica e voci malefiche sussurrate, poi come lecito aspettarsi, è sufficiente uno spostamento di una lettera e da acustica ci si ritrova a caustica, anche se la band qui cerca quanto meno di smorzare i toni accesissimi con qualche rallentamento d'effetto e di grande atmosfera e per di più, qualche partitura jazzata, ove sottolineerei l'eccellente lavoro al basso. Non ho mai parlato di melodia per questo lavoro, in mezzo a questo macello non è proprio semplicissimo trovarne, eppure esiste un filo melodico e invisibile che collega le tracce lungo l'intera release, rendendola per questo ancor più interessante e digeribile. La title track è forse il pezzo più complicato da affrontare, cosi infarcito di riff destrutturati che mi scombinano le sinapsi dei miei pochi neuroni rimasti. Ciò non solo dimostra una vena creativa ma anche una preparazione tecnica di tutto rispetto. A degna conclusione di quest'incubo ad occhi spalancati, ecco la sgroppata finale di "Mock Divine Fury", un otre di ritmiche sincopate, riff ipercinetici, vocals maledette e qualche buona atmosfera angosciante, che vanno a sancire la validità di un lavoro che certamente rimarrà destinato a pochi fortunati adepti al male. (Francesco Scarci)

(Lycaean Triune/Aesthetic Death - 2020)
Voto: 76

https://yldbth.bandcamp.com/album/that-which-whets-the-saccharine-palate

mercoledì 22 aprile 2020

V:XII - Rom, Rune and Ruin: The Odium Disciplina

#PER CHI AMA: Industrial/Drone
Trattasi di una one-man-band quella dei V:XII, compagine dark industrial svedese creata da Daniel Jansson, uno che milita (o ha militato) in una serie di altri progetti, tra cui i Deadwood, la cui storia si è interrotta nel 2014 e per cui ora, il buon Daniel, ne vede la reincarnazione (ed evoluzione musicale) nei V:XII, nella fattispecie di questo 'Rom, Rune and Ruin: The Odium Disciplina'. Il lavoro si apre con le visioni oscure e angoscianti di "The New Black", sei minuti e più di suoni asfissianti che poggiano su un unico beat sintetico ripetuto allo sfinimento e sul quale s'installa il growling del factotum scandinavo. Sembra essere sin da subito questa la ricetta dei V:XII, visto che anche in "Maðr" ci vengono propinati suoni dronici alienanti su cui poggiano le vocals distorte del buon Daniel cosi come altre spoken words in sottofondo. I campionamenti si sprecano e cosi il drone paranoico di "Twining Rope" mi costringe a dondolarmi avvinghiato a me stesso, rintanato in un angolo della mia stanza. È un disco decisamente sconsigliato in periodi di quarantena questo 'Rom, Rune and Ruin: The Odium Disciplina' in quanto il rischio di subire effetti disturbanti o distruttivi per la psiche dell'ascoltatore, è assai elevato. Atmosfere lugubri e malsane contraddistinguono la sinistra "Djävulsögon - Deconstructing the Bloodwolf", un mix tra il suono proveniente dalla canna fumaria di una nave, delle catene di un castello infestato e il frastuono della sala macchine di una centrale nucleare, il tutto ovviamente corredato dalle onnipresenti vocals filtrate del mastermind svedese. Se non vi siete ancora suicidati o il cervello non vi è andato in pappa, c'è tutto il tempo di lasciarsi stordire dalle note marziali di "Ururz", o essere investiti dal nichilismo sonoro della spaventosa "B.A.H.F", la traccia che più ho preferito del disco o dalla conclusiva ed ambientale "Vánagandr", che segna, fortuna nostra, la fine di un percorso musical-dronico-rumoristico davvero complicato e consigliato a soli pochissimi eletti. (Francesco Scarci)

lunedì 13 aprile 2020

Pornohelmut – Bang Lord

#PER CHI AMA: Experimental/Electro/Industrial
Ottimo il debutto del musicista texano e artista audiovisivo Neil Barrett, sotto il moniker, un po' banale se mi permettete, Pornohelmut; la musica mi ispirava infatti un nome più intellettuale, più nerd. Con questo esperimento sonoro, intitolato 'Bang Lord' (fuori per Atypeek music e Show & Tell Media), Neil si affaccia al mondo musicale con una proposta se non altro eccentrica ed abrasiva. Il lavoro è il risultato di una serie di patterns corrosivi e ritmi messi assieme con gusto e centrifugati al computer, per una manciata di brani che spingono veramente bene, tra crust punk, digital noise, techno, metal, indie, ambient noise ed elettronica sperimentale. Nel disco non c'è niente di nuovo o innovativo poichè tante di queste sonorità sono già state usate, tuttavia bisogna ammettere che una certa geniale intuizione ed una vera fiammata, di reale e sana ispirazione, abita davvero in questo lavoro. Venti minuti per un totale di sette tracce tutte al veleno, ruvide, infiammabili ed esplosive, come una molotov pronta ad essere lanciata. L'effetto in certi casi è immaginabile ed accostabile ad una catarsi musicale tra Godflesh, Prodigy, Swamp Terrorist, Pushifer, l'universo Pigface e perchè no, anche retaggi del seminale progetto denominato Scorn, con i vari paralleli di Mick Harris, tutto rigorosamente filtrato da un tocco digitale moderno e un occhio di riguardo per i suoni più di tendenza tra elettronica e dance. "Wizard Sleeve" è una chicca che sembra essere suonata dai mitici Warrior Soul, in maniera più acida e sintetica, in un futuro temporale lontanissimo dalla loro era, splendida, come l'apripista "Astroglide" e la notturna suite dalle trame techno, "Night Rider". Un disco, 'Bang Lord', stralunato e contorto ma allo stesso tempo omogeneo e straripante di idee sonore, amalgamate con vigorosa e urgente creatività. Un album velocissimo, devastante e carico di energia che per venti minuti di sana follia rock digitale, e ripeto, scrivendolo a caratteri cubitali, mostra un gusto per il crossover di generi, contrapposti tra loro, di tutto rispetto. Una visione del rock tra pixel e transistor, che può piacere a molte fasce di ascoltatori dai target musicali più variegati. Un disco decisamente interessante, da non sottovalutare assolutamente il cui ascolto è parecchio consigliato. (Bob Stoner)

(Atypeek Music/Show & Tell Media - 2020)
Voto: 74

https://pornohelmut.bandcamp.com/album/bang-lord

mercoledì 1 aprile 2020

Untitled with Drums - Hollow

#PER CHI AMA: Alternative Rock, A Perfect Circle
Secondo lavoro per questo quintetto francese che prende il nome da una canzone dei mai troppo lodati Shipping News. Questo l'indizio che aiuta ad inquadrare le coordinate di riferimento della musica degli Untitled With Drums, cosi tesa tra reminiscenze post-rock e noise di fine anni '90 e le influenze quasi progressive dei primi anni 2000, portate da band quali Tool o Cave in. Quello dei cinque francesi è un rock oscuro e di sicuro impatto, nel quale un songwriting di qualità si fa strada attraverso coltri di feedback e bassi distorti, sorretto da un drumming potente e preciso, e una voce sempre in grado di reggere il pathos. Difficile scegliere i brani migliori, laddove la qualità media è sempre piuttosto alta (con una leggera flessione forse nella seconda parte dell'album), raggiungendo notevoli picchi di intensità nell’incedere marziale della drammatica “Silver” o nei saliscendi emozionali di “Passing on”, “Amazed” o “Strangers”, con il suo drumming tribale, mentre “Hex” lambisce gli A Perfect Circle o i migliori Incubus. Quello che piace, in generale, è come ogni pezzo contenga un’evoluzione, un twist in grado di tenere costantemente vivo l’interesse, scongiurando il pericolo dato da una certa omogeneità di atmosfere di far assomigliare un po’ troppo i brani tra loro. 'Hollow' è un disco solido e compatto, fosco e potente, perfetto per chi ama i nomi di riferimento e non solo. (Mauro Catena)

(Seeing Red Records/Araki Records/Brigante Records/Atypeek Music - 2020)
Voto: 74

https://untitledwithdrums.bandcamp.com/

martedì 17 marzo 2020

Salmagündi - Rose Marries Braen (A Soup Opera)

#PER CHI AMA: Avantgarde/Krautrock/Noise Jazz
Ottima seconda uscita per questa band proveniente dalla provincia di Teramo che ci inebria con un album dal contenuto eclettico e variegato, classificabile solo con la dicitura avantgarde. Provate ad immaginare suoni new wave, sintetici e astratti a la The Residents mescolati all'ultra psichedelia rock dei 500 Ft. of Pipe, un sarcasmo zappiano, un post punk trasversale con una voce salmodiante a metà tra Jim Morrison ed il canto gotico dei Bauhaus, dei synth cosmici, krautrock e follie soniche alla Mike Patton e i suoi Mr. Bungle, per avere lontanamente idea del miscuglio ben generato e ragionato e con effetto molotov di questi Salmagündi, band raccomandata per appassionati di musica cerebrale, schizoide, senza confini nè limiti. I riferimenti sonori sono molteplici e ci si diverte parecchio durante l'ascolto di 'Rose Marries Braen (A Soup Opera)' nel cercare le connessioni con le varie influenze. Detto questo, bisogna ammettere che la band abruzzese, nelle sue evoluzioni strutturali progressive, ha un potenziale di originalità assai elevato e, a discapito di altre band sperimentali, i Salmagündi (il cui significato la dice lunga sulle intenzioni della band - trattasi infatti di una ricetta gastronomica franco-inglese, il salmigondis, che prevede un miscuglio o un mix di ingredienti eterogenei), nonostante la complessità dei brani, si lasciano ascoltare con facilità ed un certo interesse in quanto sono atipici e fantasiosi (l'organico è composto da un synth, due bassi, batteria) e con composizioni storte e intelligenti, mai improntate sul mero virtuosismo, semmai atte a sguinzagliare l'estro creativo dei musicisti, che ripeto, sono assolutamente senza barriere e confini strumentali. Il quartetto si sposta infatti in continuazione tra le note di un brano e l'altro, facendo apparire l'album come un viaggio multicolore, stralunato e folle, per raccontare la storia del pazzo mondo di Braen (un personaggio da Carosello, quel vecchio programma televisivo in onda tra il '57 ed il '77), arrivando a toccare vette di noise-jazz istrionico, come in "Cheese Fake" o "Cockayne". In altre composizioni invece, i nostri assumono tempi lenti e funebri, con il jazz di matrice zappiana, il rock in opposition e quella gradevole goliardica verve teatrale che ritroviamo anche nel disco capolavoro, 'Primus & the Chocolate Factory With the Fungi Ensemble" e che consentono ai nostri di scardinare definitivamente la supposizione che quest'ottimo gruppo rientri nella normalità. Un ascolto obbligato, per veri intenditori! (Bob Stoner)

sabato 22 febbraio 2020

Dos Cabrones - Accanimento Terapeutico

#PER CHI AMA: Stoner/Grunge Strumentale, Melvins
Ok, a parlarci chiaro ci si capisce meglio, utilizzando perfino le immagini ed i suoni di questo duo bolognese di sola chitarra e batteria che si definisce mescaline noise grunge, che ha un teaser video di presentazione pieno di scene forti, teschi, denti e quant'altro, che mostra un artwork di copertina con un prevedibile caprone dal tono satanico ma che con una strizzatina satirica ti sbandiera in faccia un titolo pesante e duro come 'Accanimento Terapeutico'. L'immagine della band attrae i fans dei Melvins più viscerali e a pensarci bene, questa manciata di tracce completamente strumentali, tranne qualche inserto sporadico di voci filmiche o rumori (molto belli peraltro), riecheggiano un che dei fasti migliori dei Karma to Burn e qualcosa pure dei primi due album dei 35007, nel modo di costruire quelle ritmiche circolari e trascinanti. Non mi trovo d'accordo con l'accostamento agli Helmets e mi piace quando nel terzo brano, "Cabron!" i Dos Cabrones si aprono ad un punk alternativo più scanzonato, sempre influenzato dal grunge e perchè no, da certo stoner rock, quello rimbalzante e meno fumoso. Tante belle idee che però, pur rimanendo interessanti, si manifestano a mio avviso solo a metà e avrebbero anche più possibilità se la band avesse un organico più ampio, con un basso e soprattutto una voce che darebbe al tutto molto più risalto. Comunque al netto della mia impressione, il disco è piacevole e diretto, a suo modo anche sofisticato nel riprendere il filo di musiche di confine, trattandosi di Shellac o Unsane, certamente ben realizzato e studiato a puntino, anche se, scusate se insisto, in "Hell of a Trip", mi mancano proprio un basso pulsante che ci starebbe divinamente sulle esplosioni di batteria e chitarra, ed una voce sulle parti più, diciamo, silenziose. Uscito per la DeAmbula Records, questo album si ricopre del fregio di album di nicchia, per amanti dei trend rock più sotterranei e sperimentali, coscienti del fatto che pur essendo oggettivamente piacevole all'ascolto, risulterà difficile l'apprezzamento totale del grande pubblico. Ben prodotto, con suoni azzeccati e caldi, l'approccio sperimentale e rumoroso sempre dietro l'angolo, una buona esecuzione per sei brani di media lunghezza di per sè molto ruvidi e sanguigni, polverosi e roventi. Una manciata di pezzi che faranno la gioia del pubblico più impavido e aperto ad altre, alternative, personali visioni del mondo rock. Un buon debutto per i "due caproni", scontroso e quanto mai coraggioso, un disco tutto da scoprire! (Bob Stoner)

(DeAmbula Records - 2019)
Voto:70

https://doscabrones.bandcamp.com/releases

venerdì 14 febbraio 2020

Palmer Generator/The Great Saunites - PGTGS

#PER CHI AMA: Psych/Kraut Rock
Un anno e mezzo fa mi ero preso la briga di recensire 'Natura' dei Palmer Generator. Oggi ritrovo i nostri in compagnia dei lombardi The Great Saunites, per uno split album di un certo interesse in ambito psych acid rock strumentale. La family band marchigiana apre con un paio di tracce da proporci, "Mandrie" pt 1 e 2. La prima delle due mostra la rinnovata attitudine post-rock della famiglia Palmieri con un sound che strizza l'occhiolino agli americani *Shels. La song ammalia per le sue venature psichedeliche mentre la sua seconda parte stordisce per quell'incipit noise rock sporcato però da ulteriori influenze che chiamano in causa i Pink Floyd, in quel basso pulsante posto in primo piano e quelle ridondanze lisergiche che non fanno altro che ammorbarci ed infine ipnotizzarci. La song scivola via eterea, liquida, quasi dronica in un finale dai lunghi svolazzi siderali e caratterizzata da un impianto musicale che non fa che confermare quanto di buon avevo avuto apprezzato in occasione di 'Natura'. È il momento dei The Great Saunites e della lunghissima "Zante", quasi 18 minuti di psych kraut rock di stampo teutonico. Il comun denominatore con i Palmer Generator risiede sicuramente in quella ossessiva circolarità dei suoni, visto che la pseudo melodia creata da quelli che sembrano strumenti della tradizione indiana, continua a ripetersi allo sfinimento tra un tambureggiare etnico-tribale, suoni elettronici assai rarefatti e sussurri appena percettibili, che ci accompagneranno da qui fino alla conclusione della song. Prima, quella che credo sia una chitarra, prova ad insinuarsi all'interno di questo avanguardistico ammasso globulare sonico generando un effetto a dir poco straniante. Ci prova poi il clarinetto di Paolo Cantù (Makhno, A Short Apnea) a innescare atmosfere tremebonde ed orrorifiche che fanno salire la tensione a mille, accelerando il battito cardiaco, e rendendo, ma non solo per questo, la proposta del duo lodigiano davvero interessante. Sebbene la musica non sia certo di facile presa, lo split album di Palmer Generator e The Great Saunites non fa che mostrare le eccelse qualità di una scena italiana in costante ascesa e di un rinnovato desiderio di competere con i mostri sacri internazionali. Ben fatto ragazzi. (Francesco Scarci)

(Bloody Sound Fucktory/Brigadisco/Il Verso del Cinghiale - 2020)
Voto: 74

http://palmergenerator.blogspot.com/
http://thegreatsaunites.blogspot.com/

martedì 7 gennaio 2020

Dead Hippies - Resister

#PER CHI AMA: Electro Rock/Noisy Dance
Il nuovo disco dei Dead Hippies è una buona release, curata e ben fatta, come tutte le loro produzioni ma, a dir il vero, un po' carente in fatto di novità. I brani intersecano strade già percorse da artisti come Gorillaz, Amaury Cambuzat con i sui seminali Ulan Bator, Chumbawamba laddove predomina una forte somiglianza nel canto del nuovo arrivato Dylan Bendall (in "Resister" appare addirittura il rapper americano Mr. Jason Medeiros), fino allo stile del funambolico John Lydon nell'album 'Psycho's Path', senza dimenticare l'hip hop e le cadenze punk alla Jello Biafra. Tutto questo è poi unito ad una sorta di tributo ai The Prodigy e alla techno dance degli anni '90, fondendosi ad una certa dose di dub alla Basement 5, neanche poi così interessante sotto il profilo artistico. Comunque, resta una buona prova, dove il rock assume mille venature, anche se manca il vero senso del rock, quello sbandierato "wall of sound" che non caratterizza granchè questo lavoro, tenuto in sordina da un qualcosa più di tendenza, quasi ad imitare in maniera più soft e meno hardcore, quel fenomeno americano che risponde al nome di Ho99o9, laddove l'elettronica abbraccia la spinta e il furore dell'hardcore in un'orgia di assalti frontali. Non siamo di fronte nemmeno al mito creato dagli Atari Teenage Riot ma la band francese non si è imposta di raggiungere quel tipo di vette, così mi sento di premiare la composizione che porta il nome di "Laugh in Sadness", vero e proprio gioiellino, un cupo e drammatico brano strumentale riuscito alla perfezione. Posto a metà del disco, il pezzo conquista la vetta e surclassa il ritmo in levare di "The Little Ones" che ricorda un mix tra Beastie Boys e Les Négresses Vertes, cantati da un Lydon in gran spolvero. Da questo punto la dance tende a prevalere nelle restanti canzoni, valida ma poco innovativa e senza idee di rottura, con le chitarre a far da contorno e con l'ombra dei Public Image Limited (strepitosa qui la somiglianza vocale!) sempre in agguato. L'ultima traccia, "Dramatic Control", ridà voce al disco, sperimentando un po' di più e lasciando correre le chitarre sulla scia di un poderoso elettro/kraut/post-rock molto sonico e spaziale, grazie all'utilizzo di filtri vocali in stile Kraftwerk. Un melting pot di suoni quello dei Dead Hippies, musiche e ricordi musicali espressi bene ma che non danno la classiva ventata di novità, mantenendo ancorata la band francese alla media delle sue produzioni, sempre interessanti per l'accostamento e il crossover tra i diversi tipi di generi ma in alcuni casi rasenti il plagio, e penso soprattutto alle parti vocali che sono belle e ad effetto ma lontanissime da una genuina originalità. Buon disco per chi si accosta alla loro proposta per la prima volta, ma per chi li ha amati con i precedenti lavori, potrebbe non rimanere del tutto soddisfatto. (Bob Stoner)

(Atypeek Music/Bruillance/Kshantu - 2019)
Voto: 64

https://www.facebook.com/deadhippiesdead/

mercoledì 11 dicembre 2019

I Maiali - Cvlto

#PER CHI AMA: Noise/Post-Hardcore
Devo ammetterlo: il nome della band mi aveva fatto pensare ad uno di quei gruppi punk più interessati a scandalizzare che a confezionare un’opera in grado di stupire e rivolgersi ad un pubblico eterogeneo. Fortunatamente I Maiali, formazione romana attiva dal 2016, hanno infranto i miei pregiudizi con 'CVLTO', il loro debut album partorito quest’anno dopo un lungo travaglio, vuoi perché questa creatura luciferina è stata concepita là dove scorrono lo Stige e il Flegetonte, vuoi perché i ragazzi hanno preferito prendersi tutto il tempo necessario per lasciar maturare le loro idee. Se la seconda ipotesi è quella giusta, possiamo affermare che è valsa la pena aspettare.

Prodotto da Phil Liar (Monolith Recording Studio), masterizzato presso gli studi americani di Mistery House Sound e pubblicato per Overdub Recordings, 'CVLTO' si compone di dieci tracce roventi come i gironi infernali che evoca fin dall’introduttiva “Ave”, con la quale questo sulfureo concentrato di post-hardcore e noise-rock, inizia subito a scorrere nelle viscere dell’incauto ascoltatore come un filtro che abbia il potere di mettere a nudo i demoni nascosti in tutti noi. Gli ingredienti di questa pozione malefica? Versare copiosamente nel calderone le percussioni incazzate di Angelo Del Rosso, aggiungere le linee nevrotiche del basso di Matteo Grigioni e i taglienti riff della chitarra di Daniele Ticconi e non dimenticare la fondamentale formula magica recitata, urlata e bestemmiata da un mefistofelico Francesco Foschini.

Man mano che i brani si susseguono come una raffica di pugni nello stomaco, ci si rende conto che a colpire non è soltanto la furia sonora (qualità che fortunatamente non manca nel panorama noise e hardcore nostrano), quanto la personalità del quartetto nel destreggiarsi tra reminiscenze di quel rock graffiante e al tempo stesso accessibile che ha fatto le fortune di Marlene Kuntz e Il Teatro Degli Orrori, mantenendo i piedi sempre ben piantati nell’underground e gli occhi puntati verso gente come Nerorgasmo e Negazione. Il risultato è un sound compatto, moderno e dinamico, che si mantiene sempre accattivante, nonostante la rabbia selvaggia sprigionata in “Carne”, le atmosfere cupe di “Abbandono” e la schizofrenia di “Danza come Manson”.

“Adora il cvlto, adora il cvlto” grida ossessivamente il cantante nell’irresistibile title-track, perfetta sintesi dei contenuti di un disco zeppo di riferimenti a rituali poco ortodossi che garantiranno alla band le consuete accuse di oscure venerazioni. Ma qual è il culto oggetto di tanto fervore? E che c’entra il maiale, sbattuto in copertina nell’inquietante artwork del maestro Coito Negato?

Nulla in 'CVLTO' è stato scelto per caso o al solo scopo di scatenare le ire dei paladini di presunte radici nazionali: il rapporto morboso e al tempo stesso contradditorio tra l’uomo e la simpatica bestia, quotidianamente servita sulle nostre tavole malgrado sia il simbolo per eccellenza di impurità, sporcizia e istinti animaleschi, sembra una metafora di una triste consuetudine della nostra società, ossia l’ostentazione fanatica di valori e principi puntualmente rinnegati e sacrificati sull’altare delle nostre ambizioni e dei nostri bassi istinti. Ed è forse proprio questo l’unico culto che onoriamo fanaticamente: l’ipocrisia. (Shadowsofthesun)


(Overdub Recordings - 2019)

lunedì 25 novembre 2019

EUF - NBPR

#PER CHI AMA: Instrumental Noise/Post-Rock
Non mi è stato chiaro fin da subito quale fosse il nome della band e quale il titolo dell'album. NBPR e EUF, due acronimi che possono voler dire tutto e niente. Alla fine mi viene in aiuto il web e mi dice che gli EUF sono una band navigata della zona di Milano, dedida ad un post-rock strumentale, mentre 'NBPR' è il loro primo Lp (il cui acronimo sta per "Non Basta Più Rumore") dopo un trittico di EP rimasti a livello di underground. Il motivo di questa scarsa conoscenza del quintetto milanese può essere sicuramente legato ad un genere non certo malleabile come quello proposto dai nostri. Scrivevo post-rock strumentale nelle prime righe, ma facciamo subito chiarezza che non è nulla di celestiale, sognante o comunque di facile presa, quanto suonato dai cinque musicisti lombardi. Il disco infatti è davvero ostico e lo conferma immediatamente l'opener "I'm not WW" (ci risiamo con queste sigle, allora è un vizio?) che nel suo incedere più rumoristico che etereo, mi mette in difficoltà sin dai primi minuti, colpa di suoni freddi e dissonanti, quasi i nostri vogliano prendere le distanze da tutto quello che è invece morbido e affabile nel genere. Di sicuro, ascoltando la band, almeno in questa prima traccia, non c'è nulla che mi evochi la produzione dei Mogway, vista la maggiore scontrosità sonora da parte della compagine italica. Un miglioramento in tal senso, si può vivere nella seconda song, "I Know You Want This", ma francamente preparatevi ad un voltafaccia dai risvolti aspri ed incazzati, visto che dai suoni quasi celestiali (con tanto di voci di bambini in sottofondo) dei primi minuti, si passa nuovamente a chitarre spigolose, irrequiete e di difficile digestione. Ci si riprova con "Burn You! Slow Idiot, Again", un titolo che a costruzione sembra richiamare i Godspeed You! Black Emperor, ma che musicalmente mostra una stratificazione chitarristica abbastanza pesante. Si fa fatica ad ascoltare gli EUF, uno pensa che qui ci sia modo di rilassarsi, riposando le membra dopo una giornata faticosa, ma mi spiace deludervi, serve attenzione e forza per affrontare il disco. "No Escape for Surrenders" appare più abbordabile, complice verosimilmente l'uso in sottofondo di alcuni sample cinematografici che sembrano alleggerire (di poco in realtà) l'architettura musicale dei nostri, costantemente tenuti in tensione da ritmiche nervose ed inquiete. La musica nel suo crescendo musicale non offre poi il fianco a grandi aperture melodiche ma si conferma perennemente sospesa tra ridondanti e tortuose trame sonore e frangenti più minimalistici. Le spoken words si palesano nella voce di una ragazza anche nella conclusiva "A New Born", che continua in quel lavoro certosino di fughe strumentali di difficile assimilazione, dimostrando da un lato che si può suonare post-rock in modo originale, ricercato e talvolta sperimentale, dall'altro che, eccedere in questa direzione rischi di rendere un bel viaggio assai faticoso. (Francesco Scarci)

(I Dischi del Minollo - 2019)
Voto: 69

https://eufband.bandcamp.com/

martedì 19 novembre 2019

Mur - Brutalism

#PER CHI AMA: Post-Hardcore/Post-Black
Periodo prolifico per la Les Acteurs de l’Ombre Productions, che in poco più di due mesi, ha rilasciato un considerevole numero di release (e il meglio sembra che debba ancora venire). Questi Mur, da poco nelle mie mani, sono in realtà un side-project di act francesi quali Today is the Day, Glorior Belli, Mass Hysteria, Comity e Four Question Marks. 'Brutalism' è il loro debut sulla lunga distanza, sebbene i primi vagiti dei nostri risalgano al 2014 con un EP autoprodotto. Il risultato mi sembra piuttosto buono visto che non sembra il classico lavoro del roster LADLO Prod. La band infatti ci aggredisce con il sound intenso e fresco di "Sound of a Dead Skin" che pare coniugare il post-hardcore con una più sotterranea vena black, espressa probabilmente solo a livello di screaming vocals e di una robusta cavalcata conclusiva al limite del post-black. Ma questa è solo una delle sfaccettature espresse dal sestetto francese in questo lavoro, viste le disturbanti contaminazioni elettroniche disseminate un po' ovunque e un sound comunque più radicato negli estremismi hardcore che black. Ovviamente, bisogna mettere in conto che l'ascolto del disco non sia la classica passeggiata domenicale, viste le influenze rivolte al versante punk/hardcore. È bene quindi prepararsi mentalmente alla "rozzaggine" sonora di "I Am the Forest" o al più imprevedibile approccio catalizzante di "Nenuphar", dove rock, doom, hardcore, black, grind, post ed electro-noise si fondono all'unisono in una miscela polverizzante di suoni. La quarta song dal titolo lunghissimo, che vi risparmio per cortesia, è in realtà il classico raccordo tra la terza e la quinta traccia intitolata "Third", singolo apripista di 'Brutalism'. Scelta più che mai azzeccata viste le stranezze iniziali, le devastanti aberrazioni musicali, le dirompenti vocals, le stranianti ritmiche che probabilmente identificano "Third" come brano più violento e riuscito del disco. Ma le sorprese non finiscono certo qui, c'era da aspettarselo, visto lo stralunato e folle incedere di "My Ionic Self", una proposta non proprio alla portata di tutti, anzi direi da proibire assolutamente ai più deboli di cuore. Mi sa che dovremmo farcene una ragione perchè l'impressione è che man mano si vada verso la conclusione del disco, le sperimentazioni si facciano ben più presenti: "Red Blessings Sea", pur essendo più controllata nella sua furia, ha un impianto ritmico un po' malato. L'incipit elettronico "I See Through Stones" sembra quasi evocare la sigla di 'Stranger Things', prima di evolvere in dirompenti schiamazzi noise industrial black. La cosa che più mi sorprende è che il caos profuso dai Mur alla fine suona sempre piacevole e dinamico e questo è un grosso punto a favore della compagine francese. Un altro pezzo assai interessante (e forse il mio preferito) è rappresentato da "You Make I Real", una traccia emotivamente instabile, dotata di ottimi arrangiamenti e atmosfere apocalittiche che ci introdurranno all'epilogo di "BWV721", l'ultimo atto ambient/noise di questo inatteso 'Brutalism', graditissima sorpresa di fine anno. (Francesco Scarci)

(LADLO Productions - 2019)
Voto: 76

https://ladlo.bandcamp.com/album/brutalism

sabato 26 ottobre 2019

Treehorn - Golden Lapse

#PER CHI AMA: Stoner/Noise Rock, Post-Hardcore, Melvins, Unsane, Big Black
Gli appassionati di storia come me (appassionato suona meglio di nerd) si saranno sicuramente imbattuti nel termine “epoca d’oro”, usato per identificare l’apice di una civiltà, di una nazione, di una corrente di pensiero o artistica. Si tratta di fasi determinate dal contemporaneo verificarsi di condizioni favorevoli e che possiamo ritrovare anche su scala più piccola, come ad esempio nelle nostre vite: a tutti è capitato di attraversare un periodo particolarmente propizio durante il quale si saranno presentate occasioni lavorative, realizzazioni personali e conquiste sentimentali. Certo, nulla dura in eterno, l’epoca d’oro è destinata ad esaurirsi e magari ci saremo poi ritrovati a raccoglierne le macerie: è una legge storica ed è probabilmente il motivo per cui dovremmo soffermarci a godere di quei brevi momenti in cui tutto fila liscio, momenti d’oro appunto. In 'Golden Lapse', i Treehorn non raccontano di epoche d’oro, anche perché basta dare un'occhiata alle notizie di cronaca o scorrerne i commenti sui social per capire che sarebbe fuori luogo: l’intervallo di tempo di cui parlano potrebbe essere quello trascorso tra il 2014 a oggi, passato lontano dai palchi e senza dare segni di vita. Cinque anni di assenza sono praticamente un eone e un gruppo viene considerato spacciato per molto meno, tuttavia questa pausa è servita a far germogliare le idee del trio di Cuneo (zona dove peraltro non sembra mancare il terreno fertile per del sano rock pesante, basti pensare a Ruggine, Cani Sciorrì e Dogs For Breakfast), portando lo stoner/grunge del precedente 'Hearth' ad un nuovo stadio di evoluzione, ossia questi dieci pezzi stortissimi e furibondi che non appartengono completamente né allo stoner, né al grunge, né al noise o all’hardcore: sono dei Treehorn e tanto basta, i quali hanno miscelato questo e quel genere secondo una personale ed esplosiva formula. La prima traccia “The Recall Drug” mette subito in chiaro le intenzioni della band: è un missile sparato a velocità ipersonica verso coordinate tutte sbagliate e di cui è impossibile determinare la rotta, ma che sicuramente si schianterà su ciò che incontra. Pezzi come “Virgo, Not Virgin” (un richiamo a “Taurus, not Bull” presente su 'Hearth'), “The Same Reverse” e “Damn Plan”, si sviluppano tra spericolate cavalcate del più classico stoner rock ed improvvise destrutturazioni noise, dove la chitarra si lancia in tormentosi riff sghembi, sorretta dalle percussioni massicce e da un basso cupo e fangoso; in 'Golden Lapse' però c’è anche spazio per composizioni meno intricate e non per questo scontate o meno adrenaliniche, come “Onlooker” and “Hell and His Brothers”. “A Shining Gift” sembra essere uscita dopo un tamponamento a catena tra Unsane, Melvins e Big Black, mentre "Modigliani", che si apre con un feroce giro di basso, si avvicina invece al più malato post-hardcore, manifestando punte di estrema sofferenza e anche malinconia. Dopo il breve intermezzo atmosferico di “Lapse”, scandito da rade note di chitarra, ecco la conclusiva e pachidermica “Coward Icons” che tira le somme di tutto il lavoro. Quale sia il motivo conduttore dell’album è difficile stabilirlo: un invito al “carpe diem” probabilmente, tuttavia “Lapse” si può tradurre anche con “sbandamento morale” e i titoli di molte canzoni, così come l’artwork luciferino, potrebbero giocare sull’ambiguità del termine. In questi cinque anni di “ghosting”, ai Treehorn è accaduto quello che molti avrebbero sperato succedesse ai Tool negli ultimi tredici: trovare i giusti stimoli, le giuste energie, la coesione di tutti gli elementi della band, l’ispirazione più pura e quel pizzico di “machissenefrega, noi suoniamo” che è terreno fecondo per l’opera di un musicista. 'Golden Lapse' è un lavoro spaccaossa che gode di freschezza, suoni potentissimi e un efficace songwriting, il tutto magistralmente enfatizzato da una produzione fantastica (registrazione a cura di Manuel Volpe e master di Enrico Baraldi, scusate se è poco): prendetevi un attimo di tempo per ascoltarlo e vi garantisco che sarà il vostro momento d’oro. (Shadowsofthesun)

(Escape From Today/Brigante Produzioni/Vollmer Industries/Taxi Driver Records/Canalese*Noise/Scatti Vorticosi Records - 2019)
Voto: 80

domenica 6 ottobre 2019

Rev Rev Rev - Kykeon

#PER CHI AMA: Shoegaze/Alternative
I Rev Rev Rev sono una di quelle band difficilmente etichettabili che passano dallo shoegaze all’industrial e alla dark wave, passando per vocalizzi eterei, spigolose dissonanze e molto molto rumore. Una prova convincente questo 'Kykeon', meditativo, denso e completo, all’ascolto godibile e mai scontato, con un’energia trascinante e delle atmosfere personali e accattivanti. “Waiting for Gödel” apre il disco con bordate di rumore guidate da una ritmica marziale e concisa; il rumore poi continua, non ci sono giri distinguibili ma solamente una coltre di suono droneggiante. Sembra di sentire il rumore di una fabbrica immensa dove si producono robot senzienti e assetati di conoscenza e di conquista, un esercito di latta che avanza lentamente ma inesorabilmente e che si insinua in ogni angolo del pianeta. Segue “Clutching the Blade” con i suoi scenari abrasivi e ruvidi, i suoi riff davvero bizzarri, quasi psicopatici, ancora più rumore ancora più lame che tagliano carne, terra e pietra. Degna di nota la parte dove la canzone lascia spazio al rumore, come se fosse in realtà il rumore la canzone e tutto il resto di contorno. Tuttavia nulla urta l’orecchio anzi, le frequenze penetrano insistentemente nel cervello annullando ogni altro pensiero. Anche in “3 Not 3” il pattern è lo stesso, solamente in questo pezzo la voce prende quasi un significato salvifico dal noise macabro ed inarrestabile, l’unica àncora di salvezza in un mare di ignoto ostile che tutto inghiotte. I Rev Rev Rev sono in grado, attraverso gli arrangiamenti finemente pensati e realizzati a regola d’arte, di far stare in piedi i pezzi in modo efficace ed originale; la commistione di dark wave, rumore e voci decadenti non è di certo cosa nuova, ma il modo in cui il quartetto di Modena lo propone è qualcosa di assolutamente personale e unico. A volte mi sembra addirittura di sentire qualche eco lontano dei Black Sabbath, saranno i riff demoniaci, la ripetitività delle parti, non saprei, ma qualcosa mi riporta alla mente anche lo stoner e generi di musica decisamente più estrema, ma come dicevamo, la band non può essere efficacemente relegata in un solo ambito musicale. Ascoltare tutto 'Kykeon' è un’esperienza mistica e totalmente immersiva, il flusso è continuo e denso e non molla mai, inoltre il potenziale pubblico è davvero ampio, mi sento di consigliare infatti questo disco a chiunque abbia voglia di sentire qualcosa di energetico, intenso, rumoroso ma allo stesso tempo leggero, ciclico e orecchiabile, al di là delle etichette di genere, al di là delle etichette in genere. (Matteo Baldi)

lunedì 5 agosto 2019

Deathcrush – Megazone

#PER CHI AMA: Noise/Crust/D-Beat/Digicore
Interessante debutto sulla lunga distanza (fuori per Apollon Records) di questa giovane band norvegese che riesce nell'intento di proporre qualcosa che sia fuori dalle righe e non inquadrato negli schemi. Quindi, l'accostamento di generi come il noise, il digitalcore, il crust punk, con il sound laccato ed oscuro degli anni d'oro dell'epoca Batcave, riesce a generare quel suono genuino, moderno, trasversale e ricco di pulsioni alternative che incuriosisce ed appassiona non poco ogni amante di novità soniche. La musicadei Deathcrush è prevalentemente una sorta di catarsi ritmica che ricorda una via di mezzo tra gli Amen e gli Atari Teenage Riot, lasciati in ammollo negli acidi del noise ribelle dei primi, seeminali, The Curve, con una voce femminile in quasi tutte le canzoni (in "Push,Push,Push" emerge anche la parte vocale maschile), che emula il proibito dei Garbage, il rock dei The Primitives e il controcorrente di Kim Gordon. Se poi ci versiamo sopra una buona dose di nero alla Alien Sex Fiend o Cabaret Voltaire, con quel gusto macabro, robotico e noir che, nonostante la forte voglia di spaccare, si trascina appresso un'orecchiabilità fenomenale, arriviamo alla giusta conclusione che questo 'Megazone' è un gran bel disco, adrenalinico e tagliente, sensuale, aggressivo, devastante come possono esserlo solamente i sussulti giovanili di anime sotto effetto di urgenza creativa. L'artwork, a mio avviso poi, è ben fatto ma non così interessante (dal taglio punk di primi anni '80) e meriterebbe di più, visto il valore della musica al suo interno e la capacità di risvegliare seriamente nell'ascoltatore, il concetto di piacere verso un suono il cui battito è da vera e credibile rockstar alternativa. Le tracce sono tutte sparate in faccia, di corta durata o al massimo superano di poco i quattro minuti, rendendo l'ascolto velocissimo, immediato e senza lasciar prigionieri. Desta un po' di sospetto la conclusiva traccia nove, "State of the Union" (uscita peraltro come singolo), con i suoi finti 24 minuti dichiarati: dopo i primi consueti quattro minuti inizia infatti un interminabile silenzio (modello traccia fantasma) fino ad un minuto dalla fine del disco dove riemerge uno spezzone di brano al rovescio, cosa riciclata che poteva andar bene al vecchio Marilyn Manson o ai Nofx d'annata. Ad ogni modo, l'album resta un grande disco (bello anche il video di "Dumb") per il trio di Oslo, dinamico, giovane e piacevolmente rumoroso nel suo aspetto acido e trasgressivo, scritto da giovani che cercano di non farsi sommergere dalla deformazione imposta dalla grande metropoli. Bello in tutte le sue tracce che potrebbero essere tutte delle potenziali hits, un disco da ascoltare in pompa magna e pieni di voglia di ribellione. Ottima prova al fulmicotone! (Bob Stoner)

(Apollon Records - 2019)
Voto: 74

https://deathcrush.bandcamp.com/album/megazone

lunedì 1 luglio 2019

Richard James Simpson – Deep Dream

#PER CHI AMA: Alternative/Indie Rock
L'ex chitarrista e cantante della band alternativa Teardrain, sto parlando di Richard James Simpson, ci delizia con un secondo album dallo stile per nulla catalogabile. Forte di un'esperienza alternativa di tutto rispetto, il musicista americano, si immerge in un'opera, 'Deep Dream', che propone brani dalle innumerevoli fonti di ispirazione, quindi, in maniera del tutto naturale, si parte da ben quattro brani di ambient/noise/elettronica, corti e dal taglio oscuro, per approdare al post punk di "Mary Shoots'em Fist", con le chitarre che ricordano degnamente i primi Christian Death. "Free" approccia qualcosa di vintage, un sound acido e molto rock anni '70, mentre la poliziesca "Half Brother, Half Clouds", rappresenta un altro esperimento sonoro dal sapore cinematografico. L' apertura verso il grunge più occulto e malato di "Job" va a sottolineare la versatilità dell'artista statunitense, che mi ricorda molto la camaleontica fantasia compositiva di John Frusciante. Il rumore la fa da padrone in "Psychedelic Mother", "The Giver" invece riprende i ritmi ferraioli di certa dance alternativa dei 90's mentre l'immobile "Pieces of You", è psichedelia profonda alla Psychic Tv in combutta con un Jim Morrison ritrovato. Tutte canzoni lampo, veloci, suonate d'istinto e velenose, buie e sporche. "Sugar Blue Inn" rispolvera la synth wave con una finta batteria d'annata, mescolandola con una chitarra tagliente, acidissima ma calda per una breve fuga mentale in compagnia di David Lynch. "Pimrose Bob" è una fottuta, violenta parentesi noise che uccide e che precede l' esperimento di The wall have ears, il tipico brano destabilizzante che starebbe bene come colonna sonora in un film horror quanto la psicotica penultima traccia "Human (Like I Versus Like Me)", che già il titolo la descrive a dovere. In conclusione ci troviamo "Cell" che è un rock allucinato, diretto e tossico, con aperture di chitarra lanciate e gonfie. Insomma 'Deep Dream' è un lavoro stralunato che ha tutte le caratteristiche per essere odiato o amato alla follia, un album che peraltro racchiude parecchi ospiti di fama internazionale che aumentano il valore del disco, tra cui Jill Emery (Mazzy Star, Hole), Don Bolles (The Germs), Dustin Boyer (John Cale), Paul Roessler (The Screamers, Twisted Roots), Mark Reback (Vast Asteroid), Ygarr Ygarrist (Zolar X) e Geza X (Geza X and the Mommymen, The Deadbeats), un'opera molto personale che mette sul piatto del giradischi un insieme di brani introversi e trasversali. A voi, ovviamente dopo un' infinità di ascolti ad alto volume ed in solitudine, la facoltà di giudicare Richard James Simpson, valutandolo come un vero genio, in stile Anton Newcombe, oppure un musicista perduto in un caos sonoro senza capo nè coda. (Bob Stoner)

domenica 23 giugno 2019

Zambra - Prima Punta

#PER CHI AMA: Post-hardcore/Post-metal, Breach
Soffocare e resistere. Soffocare nel cemento di periferie infinite, negli scarichi di auto incolonnate lungo dedali di superstrade, nelle folle di centri commerciali sempre più grandi e numerosi. E resistere a questo fiume in piena fatto di rifiuti, indifferenza e degrado che è la nostra società in corsa verso il baratro. 'Prima Punta', primo long playing degli Zambra, è tutto questo: un hardcore plumbeo e soffocante, brutalizzato da influenze metal e contaminato da escursioni post-rock e noise, tanto in grado di far soccombere l’ascoltatore sotto il peso del disagio esistenziale, quanto di suscitare un acuto desiderio di ribellarsi a questa deriva.

L’artwork del disco, raffigurante un’oscura boscaglia in contrasto con bianche montagne sullo sfondo (il cui profilo aguzzo non a caso richiama anche il logo della band di Sesto Fiorentino), potrebbe essere interpretato come un tentativo di esorcizzare le malsane atmosfere urbane che caratterizzano i brani, tuttavia l’andamento a zig-zag dei picchi ci fa pensare anche alla rappresentazione grafica di una tendenza dall’esito funesto.

Ed eccoci ai pezzi: i maestosi riff di “Metano”, una miscela tossica di post-hardcore e sludge,ci accolgono a cazzotti in faccia con quella che potrebbe essere la colonna sonora per una prognosi infausta urlata ad un paziente che non ne vuole sapere di ascoltare i consigli del medico. Comprendiamo che il carburante di 'Prima Punta' non siano i veleni che inquinano l’aria delle nostre città, quanto la rabbia e la frustrazione espresse dall’alternarsi di slanci hardcore dal sapore marcatamente anni novanta e deflagrazioni post-metal degne dei Neurosis di 'A Sun That Never Sets': queste sensazioni generano la scintilla che mette in moto la marcia implacabile di “FoscO” e trasudano dalle ritmiche laceranti di “Ambra”, mentre gli spasmi nervosi di “Rimaggio” evocano suggestioni post-apocalittiche.

Grinta e dinamiche incazzate dunque non mancano nell’album, ma è da sottolineare l’eclettismo degli Zambra nel non appiattirsi unicamente sulla pesantezza sonora e ricercare costantemente intrecci più elaborati, benché sempre al servizio di atmosfere decadenti ed introspettive: ne sono un esempio l’inquietante esperimento noise\ambient di “Yanusz”, l’ipnotica e rituale “Oca Bianca” e lo straziante inno di sofferenza e disillusione che è “Lottarox”. Chiude “Sun Chemical”, brano di oltre sei minuti che ci lascia una triste fotografia del nostro probabile futuro, fatto di tramonti nascosti dai fumi delle ciminiere, dal cemento di squallidi palazzi e dall’acciaio di gru puntate verso il nulla.

'Prima Punta' è un disco istintivo, genuino e che va dritto al sodo, proprio per questo vi entrerà nel cuore. È un grido disperato nella cacofonia di rumori urbani, lo sfogo per il fardello di insofferenza che tutti ci portiamo dentro e di cui vorremmo liberarci: prendiamo esempio dagli Zambra e forse qualcuno inizierà a chiedersi il perché di tutte queste urla e forse non sarà troppo tardi per invertire la rotta. (Shadowsofthesun)

(Black Candy Records/Coypu Records - 2018)
Voto: 86

https://zambra.bandcamp.com/album/prima-punta-lp-2018

lunedì 17 giugno 2019

Moodie Black - MB I I I . V M I C H O A

#PER CHI AMA: Noise/Rap
Avevamo lasciato Moodie Black poco tempo fa con la recensione del precedente 'MBIII', ed ecco che a sorpresa il duo americano, rilascia una nuova release di altri quattro brani, dal titolo che si lega ed evolve il suo predecessore. Anche in questo 'MB I I I . V M I C H O A' troviamo l'incedere lento e le sonorità industriali che minano i codici canonici dell'hip hop originale e più standardizzato, focalizzando ancora una volta lo strappo artistico verso una scena troppo abusata e priva di fantasia e sperimentazione. A mio avviso, anche stavolta la band di Los Angeles coglie nel segno, aprendo le frontiere con un suono violento e gelido, che non si risparmia, sdoganato dai dogmi del genere, distorto, affascinante ed introspettivo, senza una continuità ritmica, anzi, il taglio sonoro è frastagliato, fatto di fotogrammi diversificati e scomposti tra loro, minimali, industriali, noise oppure orchestrali, con aperture nelle composizioni che sembrano piccole colonne sonore fatte per un paesaggio post bellico, post guerra nucleare, apocalittico, accompagnate da uno spoken word duro e drammatico, anch'esso prevalentemente distorto come fosse una band harsh/EBM. In quest'ottica la canzone più rappresentativa è la conclusiva "32" (anche se il disco mantiene costante uno standard di qualità e produzione molto alto), che si presenta come una perla preziosa, oscura e radiosa allo stesso tempo, che rappresenta a dovere il percorso artistico intrapreso dai Moodie Black in questi ultimi tempi, con un ponte al minuto 1:43 che spacca la song in maniera brutale, drammatica ed inaspettata, con una sensibilità compositiva da vero fuoriclasse, come se la musica fosse virata in un grigio e cupo brano dell'ultimo Nick Cave, per poi rientrare in una coda esasperata dalle tinte minimal-rumoristiche, ossessive e soffocanti. La musica dei Moodie Black è un aut-aut, uno strappo contro il mondo da cui è stata generata, una musica che si ama o si odia, che non si associa facilmente e banalmente al contesto hip hop, perchè è frutto di un risultato artistico che vuole essere più alto e libero dai confini commerciali e stilistici. Quattro brani tutti da scoprire, pieni di immagini musicali diversificate tutte da apprezzare. Altra prova molto interessante e fantasiosa che associata al precedente 'MB III', forma un full length di tutto rispetto. Ascoltare per credere! (Bob Stoner)