Cerca nel blog

Visualizzazione post con etichetta Michele Montanari. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Michele Montanari. Mostra tutti i post

venerdì 15 settembre 2017

Mad Dogs - Ass Shakin' Dirty Rollers

#PER CHI AMA: Hard Rock
Dopo qualche tempo torniamo a parlare della GoDown Records, etichetta granitica nata quasi quindici anni fa e che ha sempre mantenuto un elevato livello nelle sue produzione stoner/garage/psychedelic rock. L'etichetta ci presenta oggi i Mad Dogs e il loro ultimo album ' Ass Shakin' Dirty Rollers' (il terzo) uscito quest'anno ad aprile. Il quartetto nasce a Macerata nel 2009 e dopo due lavori abbandonano la lingua italiana e si buttano a capofitto nel garage/blues rock con ancora parecchio da dire. Le tracce sono dodici, veloci ed intense come ci si aspetta dal genere, vedi "Make it Tonight" che strizza l'occhio ai vecchi Guns N' Roses grazie al ritornello facile e i gran riff e assoli di chitarra. Addentrandoci sempre più a fondo nel mondo di questi cani pazzi, si rimane sempre più colpiti dal groove dei brani, come in"It's not Over", un perfetto blues adrenalinico misto ad hard rock anni '70 che entra facilmente in circolo e convince senza tanti complimenti. Piacevoli, seppur semplici, gli interventi di tastiera/organo che completano il tutto, rendendo il sound rotondo e per certi versi raffinato. Il brano più scanzonato è sicuramente "Surf Ride", una ballata veloce e sentita più volte, ma che cattura sempre, soprattutto durante un live con un pubblico che ha voglia di divertirsi e non aspetta altro per potersi scatenare. Nel complesso la qualità audio dell'album è in linea con il genere, quindi niente di ricercato, tutto si basa sulla musica, quindi il resto è relativo. Ma dove c'è luce c'è anche oscurità, ed ecco quindi "Psychedelic Earthquake" che chiude questa release, una sorta di 'The Dark Side of the Moon' dove i fumi di oppio aleggiano pesanti intorno a noi. Nel frattempo la musica cresce a ritmo di un battito cardiaco ancestrale, tutto rotea sempre più veloce fino all'esplosione finale dove la sezione ritmica prende il sopravvento insieme all'hammond e all'immancabile assolo di chitarra. Un brano di per sè semplice, ma ben eseguito e con grande impatto emotivo. Che sia questo il sound giusto per la band maceratese? Forse si, ma lasciamo a loro decidere cosa fare da grandi. (Michele Montanari)

giovedì 31 agosto 2017

Macabra Moka - Tubo Catodico

#PER CHI AMA: Rock/Hardcore/Stoner
La Macabra Moka è una band di Cuneo nata nel 2010 che, dopo aver esordito con il primo full length 'Ammazzacaffè' nel 2014, lo scorso marzo ha pubblicato 'Tubo Catodico' tramite la sempre attiva cordata composta da DreaminGorilla Records / VOLLMER - Industries / Dischi Bervisti e tanti altri. Abbiamo ricevuto la versione per gli addetti ai lavori, quindi possiamo apprezzare solo la copertina che tramite un collage in stile fumetto, rappresenta il peggio della tv italiana (Zanicchi, Magalli, etc.) in versione horror, riallacciandosi quindi al titolo del cd. Il quartetto formato da batteria-basso-chitarra-voce suona un energico mix fatto di rock, hardcore e stoner cantato rigorosamente in italiano, a voler confermare che non ci devono essere barriere di alcun tipo tra la band e l'ascoltatore. "Radio fa" è la prima traccia contraddistinta da riff potenti come le parole che vengono sputate ed urlate nel ritornello carico di disagio e sofferenza, il tutto raccontato tramite la metafora delle trasmissioni radio. Subito si scorge la rabbia giovanile dei primi Ministri e Teatro degli Orrori che in tre minuti spaccati viene raccontata nella versione macabra del nostro gruppo. In "Tormentone d'Estate" i riff sono più alla QOTSA, un'ottima simbiosi strumentale che incalza e colpisce duro, il tutto alleggerito dal ritornello scanzonato che ci sbatte in faccia lo squallore della nostra vita mondana, fatta di apericena e selfie. Poi, riuscire a infilare Federica Panicucci nel testo non è proprio cosa da tutti. Si passa a "LeAquile del Metallo Morto", dove la sezione ritmica martella in modo ossessivo e le chitarre ci regalano suoni corposi che trasudano rock alla vecchia maniera, con tanto di assolo delirante a chiudere con annessa accelerazione finale. Tutta l'attitudine hardcore si concentra in "Ok, il Prezzo è Giusto" che ha l'effetto di un cric preso in pieno muso tanto, parole che tagliano quanto i riff suonati a velocità folle. Se i Bachi da Pietra hanno sfruttato l'entomologia per raccontare meglio la nostra società, la Macabra Moka l'ha fatto sfruttando la televisione italiana, portando il cinismo e l'autocritica a livelli paradossali. Un album coinvolgente, schietto come non ascoltavo da tempo ed oscuro al punto giusto. Da avere assolutamente perché sotto la finta patina di 'Tubo Catodico' si nascondono dei contenuti profondi che nell'ambito musicale ormai pochi hanno il coraggio di decantare. (Michele Montanari)

(DreaminGorilla Records/VOLLMER Industries/Dischi Bervisti/Tanto di Cappello Records/Scatti Vorticosi Records/Brigante Records & Productions - 2017)
Voto: 80

https://lamacabramoka.bandcamp.com/album/tubo-catodico

martedì 15 agosto 2017

Neo Noire - Element

#PER CHI AMA: Alternative/Grunge, Alice in Chains, Smashing Pumpkins
I Neo Noire (NN) sono un quartetto proveniente da Basilea, in Svizzera che qualche mese ha pubblicato 'Element', il loro album d'esordio. Dietro tutto ciò troviamo la Czar of Revelations Records e Raphael Bovey (GOJIRA) che hanno permesso l'uscita di questo lavoro in bilico tra l'alternative rock e il metal. La band stessa annovera tra le proprie influenze Smashing Pumpkins e Jane’s Addiction, ma diverse altre contaminazioni si percepiscono ascoltando le otto tracce del disco. "Save me" è una canzone che porta con sé il bagaglio grunge del quartetto, con l'atmosfera che richiama molto gli Alice in Chains e gli Stone Temple Pilots più oscuri e malinconici. Nei quasi sette minuti di esecuzione, l'esortazione a salvare il protagonista si poggia su riff potenti e penetranti che cercano una via di riscatto con le accelerazioni e il ritornello. Il break psichedelico ci mostra il lato lisergico della band e l'assolo di chitarra allunga il brano senza renderlo monotono e regalando una variazione sul tema. Cambiamo traccia e sound con "Shotgun Wedding", canzone più sostenuta con una sezione ritmica che pulsa, dove il basso è ben amalgamato nel mix sonoro e la batteria è registrata in modo eccellente. Una classica cavalcata hard rock/metal che si fa spazio con allunghi e stop&go per modulare al meglio il suo svolgimento, invece il ritornello è assai orecchiabile e raggiunge l'obiettivo di scavarsi una nicchia nel nostro cervello. Il vocalist/chitarrista convince su tutti i fronti, ha una timbrica grintosa e matura di chi persevera nel rock da sempre, nonostante stili e generi diversi si siano accavallati negli ultimi tempi, l'estrazione anni '90 è solida come il granito. A metà album troviamo "Element" e non si può che confermare l'influenza della band capitanata da Billy Corgan, quella del periodo 'Siamese Dream', per capirci. Questo si concretizza dal cambio di stile del cantato e dagli arrangiamenti più soffici ed eterei tipici delle ballate prodotte dalla band di Chicago. Un cambio che spiazza in principio, ma si amalgama abbastanza bene grazie ai giri di chitarra che si destreggiano bene in entrambi gli stili mantenendo una proprio identità. Un brano facile, che con il suo crescendo risulta piacevole e di più facile assorbimento, ottimo modo per accontentare anche ascoltatori dediti a melodie più soft. "Neo Noire" sposta l'ago della bilancia verso lo stile più graffiante e introspettivo dei NN, infatti il brano convince per la struttura alquanto semplice, ma con arrangiamenti studiati nel minimo dettaglio a confezionare una song che scorre fluida senza infamia. Un debut album solido, ben fatto e che porta tutto il bagaglio musicale di una band maturata in altri progetti e che si ritrova ancora ad amare il rock e volerlo suonare davanti ad un pubblico che condivide la loro stessa passione. Da prendere ed ascoltare senza controindicazioni. (Michele Montanari)

(Czar of Revelations - 2017)
Voto: 75

https://neonoire.bandcamp.com/album/element

martedì 27 giugno 2017

15 Freaks - Stuntman

#PER CHI AMA: Heavy/Hard Rock, Iron Maiden
Welcome back to Ethereal Sound Works, ovvero l'etichetta portoghese che mette il Pozzo dei Dannati in cima alle testate musicali a cui spedire gli album delle proprie band. Nel nutrito roster della casa discografica lusitana, oggi abbiamo i 15 Freaks, un quintetto fondato nel 2012 e che ha il quartier generale a Sintra, una delle città più belle del Portogallo poiché caratterizzata da lussuosi e stravaganti palazzi colorati costruiti su verdi colline, e atti ad ospitare la nobiltà. Capirete perché il fu Lord Byron la definì il giardino dell'Eden. Ma come sappiamo le anime tormentate degli artisti non trovano mai pace, che vivano nel sobborgo più triste di qualche austera città dell'est Europa o a ridosso di una spiaggia dalla sabbia abbagliante e acque cristalline. Questo dimostra come l'uomo cerchi in tutti i modi di raccontare la propria verità, scavare nel profondo dei sentimenti, gridando e mettendo in musica le ingiustizie a cui siamo sottoposti ogni giorno. Dopo un po' di elucubrazioni mentali torniamo alla band, nata più di quattro anni fa, ma che solo alla fine dell'anno scorso è riuscita a dare alla luce l'EP di debutto, questo 'Stuntman' appunto. Le tracce sono cinque e sono il prodotto di musicisti che hanno divorato la musica di Iron Maiden, Led Zeppelin, The Cult, Aerosmith e quant'altro, quindi quando ascolti tanto buon hard rock, che cosa può nascere durante le sessioni in sala prove? Lascio a voi l'ovvia risposta e passiamo in rassegna le canzoni: "Time Flies" è una song costruita su riff orecchiabili, ritmica trascinante e tutti gli orpelli del genere, come assoli e cantato potente. La title track cambia registro e mette una marcia in più alla band, che dopo un pieno di adrenalina ad alto numero di ottani, decolla e si lancia in picchiata. Le chitarre sono ben suonate, il suono convince e si amalgama bene con la tumultuosa sezione ritmica ed il basso pulsante. Un tuffo nel passato che ti fa venir voglia di prendere il gilet in pelle e rispolverare la vecchia Harley riposta in garage. Quasi cinque minuti di hard rock che si concludono con un finale in stile live con la classica gran rullata. "15 Freaks" è l'omonima traccia dal groove assai orecchiabile, con quel tanto di hair metal e glam che si intrufola nel cervello e si attacca al vostro tronco celebrale per restarvi a lungo. Ben fatti anche gli arrangiamenti che a fine ritornello danno un tono oscuro al sound, mostrando le altre sfaccettature del brano e della musica prodotta dalla band portoghese. "Crazy Randy" sembra uscita direttamente da un side project degli Iron Maiden, con una progressione strumentale ed un cantato che si avvicinano molto alla band di Steve Harris e soci. La canzone è anche la più lunga dell'EP e qui la band infonde tutto il proprio bagaglio artistico, dando fondo al repertorio di assoli e riff senza bisogno di alcun break per sostenere una traccia corposa e solida. I 15 Freaks non vincono sicuramente il premio come miglior band innovativa, ma dimostra tuttavia che l'attitudine ad un genere che tanto ha dato alla musica, regala sempre grandi emozioni. Speriamo solo che i nostri possano ricevere le soddisfazioni che si meritano. (Michele Montanari)

(Ethereal Sound Works - 2016)
Voto: 70

https://www.facebook.com/15Freaks/

lunedì 26 giugno 2017

Debeli Precjednik / Mašinko - Godina Majmuna / Majmun Godine

#PER CHI AMA: Post Punk/Hardcore
La Moonlee Records, già etichetta dei conosciuti Repetitor e di altre ottime band slovene/croate, collabora da tempo con i Debeli Precjednik/Fat Prezident (DP), band punk rock/hardcore, attiva dal lontano 1994. Da allora la band è sempre stata costantemente attiva, con circa nove tra album ed EP, rimanendo sempre fedele alle sue origini (il cantato è molto spesso in croato) ma che strizza l'occhio al punk della West Coast, quello alla Bad Religion per capirci. Il quintetto è la prova vivente che se suoni e credi in quello fai, la sacra fiamma del rock alimenterà la tua musa per sempre, o per lo meno per un bel pezzo. I DP sono a pieno titolo la miglior band dell'area balcanica, con alle spalle centinaia di concerti, e tornano dopo un paio di anni di pausa con questo split insieme ai Mašinko, altra band croata d'indubbio talento. Quest'ultimi nascono nel 2010 e la line-up è composta da sei elementi che prediligono il punk rock scanzonato ed ironico che ha lo scopo di entrare subito in testa e rimanerci a lungo. La copertina dello split è una bellissima rappresentazione grafica della nostra società, vista come un treno a vapore carico di scimmie che viaggia su binari pieni di rifiuti, il tutto capeggiato da un grasso capitalista in completo che ghigna soddisfatto. Il cd all'interno contiene dodici tracce, sei per band, quindi trattamento equo per le parti in questione anche se con una visibilità ben diversa. "Surrender Now" dei DP è la prima traccia che ci catapulta immediatamente sulle coste della California con un sound perfetto per il genere: la song è veloce come ci si aspetta e scivola giù facilmente come una birretta fresca in una giornata afosa. La struttura è la classica ripetizione strofa/ritornello con tanta energia e groove, mentre il cantante ha la timbrica che calza a pennello, squillante per quasi tutto il brano, ma verso la fine mostra quanto possa essere graffiante e potente. Il breve assolo di chitarra funge da bridge per cui si arriva presto alla fine ed è chiaro perché la band riscuota tanto successo ai concerti. Immaginatevi un live nelle verdi terre dell'est dove il pubblico balla e scalcia come fosse su una dorata spiaggia americana. Passiamo a "Zbogom Svi" e la band torna a cantare in croato, il che si presta benissimo al genere per sua cadenza e inflessione, mentre i musicisti aumentando ancora di più i bpm ed insieme a cori e riff di chitarra e basso, confezionano un altro brano assai godibile. Ma i DP non sono solo dei ragazzacci dallo sguardo beffardo e malizioso, infatti si sono anche messi in gioco con una brano profondo e introspettivo come "Subotom Kićo, Nedjeljom Slabinac (Crimson remix)" fatto di chitarra acustica, pianoforte e violini. Lontanamente può richiamare i lenti dei Green Day, ma il quintetto riesce nell'impresa e noi non possiamo che dire grazie. Dopo i brani dei DP tocca ai Mašinko che come detto, sono più grezzi e cacciaroni, infatti i sei brani grondano punk rock vecchia scuola, tanto che loro stessi dicono di dovere molto ai grandi Atheist Rap che hanno gettato il seme punk in Serbia già negli anni ottanta. "Srkijev San 21" apre le danze e lo fa con stile: il brano sembra registrato live con tanto di pubblico che acclama la band prima che i musicisti inizino con l'attacco. Le ritmiche sono già sentite come i riff, ma il tutto è ben arrangiato con suoni ruvidi al punto giusto; bravo peraltro il cantante che dimostra la sua esperienza e di dimena tra i velocissimi riff con disinvoltura. "041" riprende le fila e come un filo conduttore ci porta sempre più in profondità nel mondo dei Mašinko, veri animali da palco che vivono il punk rock come vuole la tradizione. Brani serrati, veloci e quasi sempre sotto i tre minuti di esecuzione. Arriviamo alla penultima traccia e ci imbattiamo in "Monumentalna" che probabilmente rappresenta l'opera magna della band. Dopo i suoi primi centottanta secondi cala di tono e permette al sestetto di lanciarsi poi in una nuova folle corsa con tanto di assolo di chitarra. Non finisce qui e con un breve break in stile folk, si ritorna al tema iniziale per portare il tutto a conclusione. 'Godina Majmuna / Majmun Godine' alla fine è uno split interessante che mette insieme due band simili, ma non troppo, ci regala così uno spaccato dei Balcani e della sua ricca scena punk rock/hardcore, lasciando lustrini e poser ad altre scene musicali sparse nel mondo. Qua si suona e si suda ancora come trent'anni fa, rispetto! (Michele Montanari)

sabato 24 giugno 2017

Scream Of The Soul - Children of Yesterday

#PER CHI AMA: Hard Rock
Puntualmente la prolifera Ethereal Sound Works ci recapita materiale delle sue band e dall'ultimo stock estraiamo dalla busta il lavoro di debutto degli Scream Of The Soul (SOTS), band hard rock portoghese. La band in realtà è uscita con un EP parecchi anni fa, probabilmente molte cose sono cambiate da allora e considerano probabilmente questo album come l'inizio di un nuovo progetto. I brani contenuti nel jewel case, dalla grafica semplice e disegnata a mano, sono sette, in un perfetto mix di sonorità anni '70/80 con influenze moderne, soprattutto nei suoni di chitarra. Queste strizzano l'occhio a qualche decade più in là, introducendo fraseggi metal, prog e pure un po' grunge. Pur avendo un ruolo fondamentale come vuole il rock, anche basso e batteria non sono da meno, con ritmiche incalzanti senza tanti fronzoli che conquistano subito per il groove. La voce del frontman nonché chitarrista, ha la timbrica giusta, squillante e potente, ed in più viene usata sapientemente lasciando spazio agli strumenti quando è il momento dell'assolo o del classico stacco. D'obbligo l'uso della lingua inglese e anche qui niente da dire, pronuncia impeccabile. Ultimo, ma assolutamente non meno importante, è sua maestà l'hammond, l'organo che ha profondamente cambiato il rock e che in 'Children of Yesterday' ci trasporta negli anni che hanno segnato la storia del rock. Difficile dire se sia il vero originale oppure un'ottima emulazione digitale, sta di fatto che il risultato è pressoché perfetto e noi comuni mortali possiamo solo che apprezzarne il suono. "Oblivious Waters" apre le danze con tanta grinta e voglia di riscatto, veloce e grondante di groove in stile Judas Priest con un missaggio che predilige la voce, ma che permette di gustare tutti gli strumenti. Una traccia veloce e relativamente breve che si ferma ai blocchi con uno stacco di tastiere a dare pochi secondi di respiro per poi ripartire. Il batterista trova molto spazio con i suoi fill classici ed ottimamente eseguiti, con un sapiente uso dei fusti per dare profondità e potenza nei punti giusti, sempre in perfetta sintonia con il basso. Niente assoli per la chitarra in questa prima traccia, infatti tutto il groove viene dai riff che trainano la melodia e amalgamano alla perfezione la struttura del pezzo. Visto che abbiamo già decantato le lodi del mastro hammond, "Brothers in Heart" lo vede elemento portante di questa ballata con il suo tono vibrante, come il testo del brano. Il mixing lo lascia purtroppo in secondo piano per far spazio alle chitarre, ma alla fine il risultato è abbastanza bilanciato e regala forti emozioni. In questi sei minuti abbondanti i SOTS si destreggiano su diversi livelli di intensità, confermando la taratura degli artisti presenti nella line-up. Grande prova del vocalist che riesce nell'intento di completare l'opera dei suoi colleghi, ossia trasmettere all'ascoltatore ogni singola sfumatura di un brano così complesso a livello emotivo. Dopo il momento introspettivo, il quartetto riprende in mano le redini e si getta a capofitto in "Spectrum", un brano prettamente hard rock fatto di palm mute e assoli che appagano il cuore di tutti i nostalgici del genere. L'hammond qui lascia spazio a tappeti di tastiere che perdono smalto, avremmo voluto qualcosa di più personale e meno banale per dare un tocco particolare ad una composizione più che classica. Alla fine di un disco del genere non si può che rimanere soddisfatti, se si ascolta una band come i SOTS è perché si cerca potenza e melodia fuse in un album fatto con cuore e passione. Ottima la prova dei nostri amici portoghesi che hanno saputo essere fedeli a se stessi facendo quello che gli riesce meglio, ovvero scrivere e suonare ottimo rock. (Michele Montanari)

(Ethereal Sound Works - 2016)
Voto: 75

https://screamofthesoul.bandcamp.com/

mercoledì 7 giugno 2017

Nitritono - Panta Rei

#PER CHI AMA: Drone/Noise Rock, Valerian Swing, Zu
Dietro questo nome criptico si nasconde un giovane duo di Cuneo che dopo aver accordato la chitarra nella tonalità più bassa possibile, si è dato l'obiettivo di creare un sound oscuro e potente. Tra le band da cui prendono ispirazione ci sono ZU, Melvins, Fantomas che hanno permesso ai Nitritono di forgiare il loro noise/rock ruvido, introspettivo e vacillante. Quindi chitarra/voce/batteria uniti per dar sfogo al proprio io esistenziale, dove il contesto suburbano ci ipnotizza con il frastuono industriale e il veleno sociale scorre a fiumi sotto i nostri piedi. Nel 2013 hanno dato vita al primo EP e dopo parecchia gavetta, suonando con svariate band italiane e non, quest'anno si sono chiusi in studio con Enrico Baraldi (bassista degli Ornaments e sound engineering in ascesa) per registrare questo 'Panta Rei'. Otto brani potenti, carichi di tensione ed energia che navigano ai livelli più profondi dell'animo tormentato per poi esplodere con un incedere devastante e purificatore. "La Morte di Dio" apre con un incipit quasi in stile The Cure, dove la chitarra pulita e batteria vacillano lenti e malinconici, mentre si fa insistente l'arrivo delle distorsioni. Queste, pur rimanendo sulla stessa ritmica lenta e minimalista, sgomitano a colpi di plettro sfruttando le basse frequenze per sviscerare l'io profondo e far risalire a galla sensazioni ormai dimenticate. Poi il tutto si distende, elevandosi ad un livello onirico, senza materia né tempo, ma il sollievo dura poco perché le tenebre ci agguantano di nuovo e ci ricordano che tutto è duplice, non esiste il bene senza il male, la luce senza il buio. Il brano che condensa al meglio la produzione artistica dei Nitritono è "L'Atarassia del Giorno Dopo", dove il dualismo post rock/noise trova il suo culmine in distorsioni solide e profonde intervallate da arpeggi puliti accompagnati da pattern ritmici trascinanti. La lentezza al limite del doom e i suoni eterei contribuiscono a creare una risonanza cosmica, tale da far vibrare il nostro corpo all'unisono con l'anima per poi spezzare il legame e permetterci di trascendere. La parte finale aumenta di intensità e la tensione diventa talmente insostenibile che la mente fugge per trovare sollievo, rifugiandosi quindi tra le spire di "Zen-it", dodici minuti di terapia spirituale che iniziano con una lunga sezione drone/noise. La perfetta colonna sonora di un film horror in bianco e nero, senza i dialoghi che sarebbero superflui e allontanerebbero la nostra attenzioni dalle immagini e i suoni, che grazie alla chitarra deformata dagli effetti, sembrano un'entità che si trascina a fatica sotto un cielo plumbeo e pesante. L'oppressione, gli stacchi, la ripetitività giocano un ruolo determinante in questo 'Panta Rei', dove il suono è sempre impeccabile, viscerale e potente, con momenti caratterizzati da una calma palpabile che rende ancor più distruttive le esplosioni sonore che si susseguono. Sembra quasi di prendere i Valerian Swing dopo averli rallentati, pur mantenendo intatto il loro smalto. Da ascoltare tutto d'un fiato. Consigliato. (Michele Montanari)

lunedì 24 aprile 2017

Eyes Wide Shot - Back From Hell

#PER CHI AMA: Alternative Rock, Lostprophets, Papa Roach
Eyes Wide Shot, ovvero come una band francese (proveniente dalla regione della Lorena) riesce ad attingere dal grande maestro del cinema Kubrick. Dietro questo nome troviamo quattro musicisti che si sono incontrati nel 2012 e l'anno successivo hanno dato alla luce il loro primo EP che gli ha permesso di essere notati dal produttore dei Falling In Reverse. Capirete quindi come questo 'Back From Hell', vero debutto della band, possa avere una produzione da non sottovalutare, essendo stato registrato a Los Angeles e poi seguito dall'agenzia francese Dooweet Agency. Iniziando dal packaging, questo è un jewel case dalla grafica accattivante, un tripudio di schizzi di colore in una stanza, che vede il frontman Florent accasciato mentre rigurgita un fiume di liquido multicolore. Le quattro facciate dell'artwork mostrano gli altri elementi della band ricoperti a loro volta di colore, una trovata interessante che non permette di capire cosa si ascolterà in seguito. Le tracce inserite sono dieci per un totale di trentasette minuti e si articolano tra alternative rock/post-hardcore/emo che ci riportano alla mente band come i Lostprophets, Hoobastank e Papa Roach. Come detto, l'investimento è elevato e lo si capisce subito da "Waiting in Vain", prima traccia dell'album. I suoni sono perfettamente in linea con il genere, dal taglio moderno e accattivante, cosi come la composizione che rispecchia molto (pure troppo) la produzione delle band che hanno aperto i cancelli a questo brand. Le ritmiche sono incalzanti, precise e veloci, la grancassa buca il mix come un missile terra-aria mentre i riff di chitarra si avvicendano con stop&go a profusione e utilizzo del killswitch. Una nota di merito al cantante che si destreggia bene sfruttando la sua timbrica squillante e aggiungendo passaggi screamo che aumentano l'impatto sonoro del brano. "My Redemption" segue la stessa strada, con innesti elettronici sia ritmici che melodici che svecchiano il brano, caratterizzato poi da molteplici intrecci vocali, cambi di ritmo e giri armonici che renderanno felici anche quei metallari più ligi alla tradizione. La seconda metà della song cresce e porta l'ascoltatore verso la conclusione con un certo senso di soddisfazione. La title track inizia in sordina con la voce che si libera su una breve intro di drum machine per poi esplodere come di consueto, ma in chiave più rilassata, come fosse una sorta di ballata post moderna simil 40 Seconds to Mars. Un buon album quindi: i nostri amici francesi hanno saputo prendere il meglio del genere ed interpretarlo con perizia e impegno facendosi apprezzare per gli innesti elettronici e le doti dei singoli musicisti che di sicuro non potranno essere accusati di essersi rilassati sugli allori di una produzione ad alto budget. (Michele Montanari)

martedì 4 aprile 2017

Goodbye, Kings - Vento

#PER CHI AMA: Post Rock Strumentale, Vanessa Van Basten
Da quando Argonauta Records si è affacciata sul mondo della musica, parecchie band meritevoli di attenzione sono venute a galla ed i Goodbye, Kings (GK) sono sicuramente una tra queste. Originari di Milano, il sestetto ha esordito nel 2014 con l'autoproduzione 'Au Cabaret Vert', importante meta raggiunta tramite un primo EP e una demo, che lasciavano già intendere che non ci troviamo di fronte ad un progetto banale. I GK sono un piccolo esercito votato al post rock e non solo, pur dovendo confrontarsi con una scena italiana ed internazionale assai attive, riescono a distinguersi con uno stile raffinato e trascendentale che ricorda i Godspeed You! Black Emperor ed i King Crimson. "How Do Dandelions Die" è la prima traccia di 'Vento' e grazie ad uno sviluppo in crescendo con grosse reminiscenze prog, ammalia l'ascoltatore con suoni perfettamente bilanciati ed atmosfere eteree. Il lieve soffio del vento iniziale ci colloca al di fuori della nostra reale posizione, sopra una nuda scogliera a picco sull'oceano calmo del mattina, mentre il tocco leggero sulle corde di chitarra fanno riemergere ricordi lontani come un grande cetaceo che torna in superficie accompagnato dallo sbuffo liberatorio. Gli accordi distorti di chitarra sopraggiungono lentamente per dare man forte ad una struttura ripetitiva ed ipnotica. In "Shurhuq" si progredisce di livello, e l'opera diviene un ensemble minimalista dove il pianoforte diviene il protagonista della sua stasi, colma di tristezza ed in cerca di un pertugio di salvezza. La naturale continuazione sfocia in "The Tri-state Tornado", con basso e batteria che si fondono in un grande ed unico battito che accelera per lasciare poi spazio alle chitarre. Queste proseguono nella ripetizione ciclica del loro riff per poi calare, tornando al battito di apertura che scema nella chiusura del piano. Molto bello il duetto finale tra quest'ultimo e la chitarra pulita. La magnum opus è probabilmente "The Bird Whose Wings Made the Wind", una canzone di ben quindici minuti che riassume il concept dell'album. Ritornano le folate di vento, una timida chitarra si fa spazio tra la forza della natura e vince grazie alla sua caparbietà, come una goccia che scava nella dura roccia grazie allo scorrere del tempo. Tutto è semplice, emozionale fino al midollo, una lunga sonata che s'innalza progressivamente scavando nel nostro io primordiale. La seconda parte si arricchisce della sezione ritmica fatta dal basso che coesiste visceralmente con la grancassa adibita a cuore pulsante dell'intera struttura. L'incursione delle chitarre, distorte e volutamente distanti, aggiunge grinta in forma eterea ed effimera, una sorta di sogno iperrealistico che la mente dell'ascoltatore forgia a suo piacimento fino alla conclusione in fade out che affida la chiusura alle sferzate del vento. "12 Horses" è il brano più carico, l'incipit è potente e spazza via le precedenti introduzioni shoegaze per lasciar spazio al furore imbrigliato nell'animo dell'esercito battente bandiera meneghina. Il tono si abbassa, il piano duetta con melodie rovesciate dal delay delle chitarre, generando una ritmica complessa e impossibile da solfeggiare, ma poi il tutto si distende con brevi sprazzi lineari. Se 'Vento' è appunto un concept album incentrato su questo elemento naturale, il brano in questione è sicuramente la sua rappresentazione in termini di potenza ed energia. In generale l'album ricorda i passati Vanessa Van Basten, un duo genovese che ha lasciato un segno indelebile nell'undergound italiano, di cui i GK hanno saputo far tesoro degli insegnamenti. Un lavoro semplice, dal grande impatto sonoro ed emotivo, eseguito con passione ed estrema cura nell'uso dei suoni. Da vedere in concerto, sicuramente un'esperienza unica da assaporare sospesi tra sogno e realtà. (Michele Montanari)

(Argonauta Records - 2016)
Voto: 75

https://goodbyekings.bandcamp.com/

martedì 21 marzo 2017

Defy the Ocean - Elderflower

#PER CHI AMA: Alternative/Post Rock, Tool, Soen, Anathema
Due amici, l'amore per la musica e un progetto per unire la loro passione bruciante. Questi sono i Defy the Ocean, nati nella città eterna incubatrice di arte qual è Londra. La band inizia a produrre nel 2010 e dopo due anni lanciano il loro primo EP che riscuote pareri positivi dalle testate nazionali e non. Nel 2016 escono con questo secondo EP autoprodotto che a noi è arrivato in una bustina cartonata grezza al tatto con una una bella grafica. Questa rappresenta un teschio composto da fiori e foglie di sambuco (Elderflower appunto). I Defy the Ocean si definiscono alternative/post rock, a cui aggiungerei anche influenze prog che sfociano in un piacevole mix che deve molto ad Anathema, Karnivool e in parte a Tool e Soen. I due musicisti (chitarra/voce e batteria/voce) sono artefici di suadenti melodie finemente composte ed eseguite, con pregevoli arricchimenti che se ad un primo ascolto sembrano avere un ruolo secondario, ci si accorge poi che sono la struttura portante delle loro composizioni. Ne sono l'esempio brani come "Rest" e "Veil", due ballate lente, dove le voci navigano appaiate ai riff di chitarra che sono preponderantemente pulite o leggermente sporche in distorsione. Uno spleen in chiave moderna che con qualche lieve progressione ci conducono nel mondo dei Defy the Ocean, un paesaggio dove un timido sole lancia strisce di luce attraverso un giardino urbano. "Brine" si arricchisce di un pianoforte che nel mondo del rock dona sempre un look elegante e ricercato, ma che qui è necessario per lasciar respirare gli arpeggi di chitarra elettrica che dovranno sostenere tutto il brano. La ritmica lenta diventa una sorta di mantra che nella sua ostentata ripetizione, ipnotizza l'ascoltatore e nonostante la sezione strumentale esegua il tutto in modo impeccabile, il rischio di essere colti da un attacco di sonnolenza è alto, soprattutto se si prediligono generi più spinti. Per fortuna, in "Vessel" l'approccio cambia, le ritmiche sono leggermente più sostenute e, insieme ad intrecci di chitarra acustica e linee vocali, lo spessore del brano aumenta, con corrispondente soddisfazione di chi sta dall'altra parte delle casse audio o cuffie. Piacevoli le parti con velate influenze mediorientali dovute all'introduzione di un/a chitravina (strumento a corde che ricorda lontanamente il sitar) e l'aumento di enfasi dato dalle distorsioni. 'Elderflower' chiude con "Bones", sette minuti abbondanti che rimangono fedeli allo stile dei Defy the Ocean, i quali approfittano di un lungo stacco ambient a metà, per riprendere il tema iniziale del brano. La band inglese è sicuramente in grado di produrre buona musica che ammaglia l'ascoltatore grazie ad un attento studio dei suoni e degli arrangiamenti, quindi consigliato se cercate un cd da ascoltare in totale relax seduti sulla vostra poltrona preferita o durante un viaggio verso le terre del nord, senza fretta, come piace alla band. (Michele Montanari)

sabato 4 marzo 2017

Stellar Temple - Domestic Monster

#PER CHI AMA: Post Grunge, Alice in Chains
La scena rock francese si è arricchita di una nuova band alla fine del 2013, quando Thomas e David, già militanti in altre formazioni, decidono che è il momento di dare scacco alla noia e rispolverare il vecchio rock anni '80-90 alla ZZ Top e Billy Idol, fondendo hard rock, stoner e un po' di blues in questi Stellar Temple. I due amici recuperano quindi altri due elementi e il quartetto è pronto per scrivere il primo album, 'Domestic Monster', uscito a Maggio dell'anno scorso per la New Deal Music. I brani sono dieci e mantengono la promessa di voler riproporre la musica di trent'anni fa vestita a festa col chiodo della domenica e catene annesse. Il digipack è ben fatto con cartoncino pesante che dà un senso di qualità, mentre nella grafica predomina il rosso e ci svela qual è l'animale domestico protagonista dell'album. "Overture" apre senza tanti convenevoli, come una bella testata sul naso al primo stronzo che ti taglia la strada, con il mood piacevolmente thrash metal con riff belli taglienti. Interessante la ritmica stoppata che insieme a basso e chitarre, sembrano imbrigliare una potenza inaudita che deve essere tenuta a bada per non travolgere tutto e tutti. "Fucking Miles Away" è la naturale evoluzione del brano precedente, dove finalmente la band si può sfogare in allunghi veloci e arrangiamenti potenti quanto melodici. Trova posto anche un brevissimo stacco di basso distorto che fa da starter in una gara di cani da corsa con la bava alla bocca per quanto sia incontenibile la voglia di correre. Il vocalist mette in chiaro di che pasta è fatto, gran timbrica, perfetta, anche nella pronuncia inglese, bravissimo a destreggiarsi in questo brano hard rock. A questo punto i Stellar Temple lasciano per un po' la loro parte da bravi ragazzacci e si addentrano in atmosfere morbose che ricordano il grunge oscuro dei Soundgarden anni '90. I beat si abbassano e le chitarre si affidano a giri armonici che ci scaraventano sulle rive del Mississipi mentre il sole soffocante ci fa colare il sudore sugli occhi. Nonostante il brano suoni un po' old school, la band francese si affida a suoni meno vintage per forgiare un sound potente e granitico. Anche "Rumors" ha lo stesso feeling, forse più simile agli Alice in Chains, pure troppo in certi momenti. Il cantante si lancia in fraseggi ruvidi e potenti mentre gli altri strumenti puntano su linee melodiche e ritmiche costanti. Immancabile l'assolo di chitarra finale che racchiude anni i di rock genuino senza tanti fronzoli, se non qualche sample elettronico nella coda che chiude il pezzo. Non posso non menzionare "Helly Days", altro brano ben fatto che si porta dietro contaminazioni orientali probabilmente proposte solo nella versione studio, ma apprezzabili ed equilibrate. Lo stop centrale è potente e propone un mix di suoni moderni e di altri tempi, dimostrando la voglia degli Stellar Temple di fare qualcosa di diverso e personale. Devo dire che aspettandomi uno dei soliti gruppi rock con grosse influenze stoner, mi sono sorpreso a scoprire una band assai brava e con vedute più ampie. Dopo anni di attività ci sono ancora musicisti che si mettono in gioco e sudano sangue per confezionare un album di spessore come questo 'Domestic Monster'. Complimenti e chapeau! (Michele Montanari)

(New Deal Music - 2016)
Voto: 85

sabato 11 febbraio 2017

PhaZer - Un(Locked)

#PER CHI AMA: Alternative Rock
I PhaZer sono un quartetto portoghese nato nel 2004 con all'attivo due EP e due album nonché una svariata lista di concerti. La vera svolta della band è avvenuta firmando con le etichette Raging Planet, Raising Legends ed Ethereal Sound Works che hanno permesso al quartetto di Lisbona di crescere esponenzialmente ed essere definiti più volte come la miglior rock band portoghese. La loro musica è infatti un concentrato di puro rock con reminiscenze alternative e metal che hanno portato ad ottenere ben quattordici brani per un totale di sessanta minuti di musica. Un lavoro quasi biblico di questi tempi. "Gone", la opener track, ci proietta immediatamente nell'universo musicale della band e lo fa con un bel calcio in culo, una botta di pura potenza neanche fosse una sniffata di metanfetamina blu. I suoni moderni, cosi come le chitarre belle compresse e la precisione di esecuzione strumentale, rendono il sound netto e tagliente, mentre il vocalist ci delizia con il suo cantato potente e dalle grosse influenze thrash metal che si adatta perfettamente all'evoluzione del brano. Questo è arrangiato egregiamente e dalla struttura classica, ma suonato con passione e convinzione, come la seguente "The Last Warrior" che aggiunge atmosfere cupe ed inietta una copiosa dose di rabbia incontrollabile per poi ammorbidirsi sul ritornello. La continua alternanza di fraseggi dalla diversa intensità, rendono la canzone dinamica e piacevole. Bello anche l'assolo verso la fine, giusto per dare respiro al vocalist che può riprendere con la solita enfasi. "Hold Me" si distacca invece dall'intera produzione, con un feeling power/prog rock anni '80/90, e in cui anche i suoni cambiano come il cantato. Praticamente un tuffo nel passato, che ci fa sospettare di una simil forma di bipolarismo insita nella band. Il repentino cambio di inversione si fa apprezzare, anche se per un attimo ho avuto il dubbio che fosse partito un altro cd nel lettore. Andando avanti nell'ascolto di 'Un(Locked)', si trovano altre sfaccettature nello stile dei PhaZer, come "Wake Up To Die" che riprende lo stile desertico delle cavalcate stoner. Riff e pattern cadenzati guidano la potente "muscle car" in stile classico americano con vocalizzi dal sentore più moderno. A circa metà del brano arriva lo stacchetto geniale, un jingle in stile circense che spezza il ritmo e regala la scusa per riprendere la corsa interrotta per poco. L'album chiude con "Locked Out", un pezzo introspettivo ed oscuro che dopo una breve intro arpeggiata e sottomessa, esplode in un tripudio strumentale cattivo e rabbioso che poi si addolcisce quasi a ballata, con una continua alternanza che mantiene alto il livello di attenzione. Non poteva mancare l'assolo finale con conseguente progressione a chiudere in bellezza. Sonorità contemporanee allacciano generi del passato per reinterpretare lo stile e scrivere qualcosa di apparentemente nuovo, già comunque sentito e digerito negli ultimi anni, ma i PhaZer sono bravi, si mettono in gioco e sperimentano con quello che è nelle loro corde. Non saranno sicuramente i paladini dell' avanguardia, ma è un album ben fatto, vario e che merita di essere ascoltato. (Michele Montanari)

(Raging Planet/Raising Legends/Ethereal Sound Works - 2016)
Voto: 70

martedì 17 gennaio 2017

GC Project - Face the Odds

#PER CHI AMA: Prog Rock
GC Project è il lavoro solista di Giacomo Calabria, eclettico batterista che calca la scena musicale italiana e non, da parecchi anni e che vanta collaborazioni con un gran numero di musicisti. Il suo amore per il prog metal lo ha portato a scrivere 'Face the Odds', full length che contiene undici brani autoprodotti con il supporto di innumerevoli artisti che si avvicendano ad aiutare il loro amico. "The Spring and the Storm pt. I" è la seconda traccia del cd e nei suoi cinque minuti racchiude il fulcro della musica di Giacomo. Un brano che trasuda prog misto a rock anni novanta, caratterizzato dalla sua sezione ritmica impeccabilmente pulita e trascinante. Le chitarre fanno il loro sporco lavoro, con riff potenti e con distorsioni adatte al genere. I brevi fraseggi di tastiera e l'assolo completano gli arrangiamenti ben fatti, insieme ad un cantato che si destreggia molto bene nei vari passaggi. "Southern Confort" ci catapulta in Asia grazie al suono del sitar e alla ritmica incentrata sui fusti della batteria che richiama lontani battiti tribali. La melodia ci culla per prepararci alla perentoria chitarra elettrica e ai suoi riff distesi. Nel frattempo i tocchi di hammond addolciscono il tutto e sostengono la vocalist (questa volta c'è una lei dietro al microfono) che ben si muove tra cantato e parlato. La pronuncia a volte risulta un po' troppo marcata, in compenso sale di tonalità con decisione, mentre basso e batteria si divertono ad intrecciarsi, il tutto poi a a finire in fade out. Il prog vecchio stile torna in "Water in the Desert", dove la sezione ritmica la fa da padrone, correndo e rallentando a piacere, permettendo a tutti gli strumenti di allungarsi in fraseggi sempre all'altezza. Molto azzeccato l'assolo di tastiere che sfuma naturalmente e lascia spazio a quello di chitarra, mentre nei vari break fuoriescono suoni elettronici di tutti i tipi. Un pezzo classico se vogliamo essere sinceri, ma eseguito ad opera d'arte. Tutto il meglio della PFM, Goblin ed affini è stato digerito e studiato con cura da musicisti con del gran pelo sullo stomaco. Chiudiamo con "18 Circles of Life", un vero inno alla vita, dove le atmosfere, a volte oscure dei precedenti brani, sono state messe completamente da parte per lasciare spazio a pura positività che trasuda dai riff e dagli arrangiamenti. Anche qui Giacomo mette in campo tutta la sua bravura con ritmiche complesse e mai scontate, veloci e che conducono alla fine del brano ancora quando stiamo canticchiando il ritornello. In 'Face the Odds' è stato fatto un buon mixaggio e soprattutto il mastering è minimo, pochissima la compressione che dà un gran senso di ariosità ai suoni che si liberano nelle frequenze permettendo di raccogliere tutte le sfumature. Di contro, alcuni punti sembrano su viaggiare su piani staccati; alla fine però ne è valsa la pena perché ci troviamo tra le mani un piccolo gioiellino che trascende il genere e dovrebbe comparire nelle collezioni di molti musicisti che aspirano a raggiungere livelli eccelsi. (Michele Montanari)

martedì 20 dicembre 2016

Rosario - And The Storm Surges

#PER CHI AMA: Sludge/Stoner
Siano lodati i Rosario che, dopo la bella prova di 'Vyscera', recensito sulle nostre pagine quasi due anni fa, tornano con un nuovo lavoro, 'And The Storm Surges'. La band padovana nel frattempo di strada ne ha fatto parecchia e, cosciente del proprio potenziale, ha dato una grossa spinta ai live in patria e oltre confine, curando parecchio il sound e la composizione dei brani. Questa volta quindi puntano sull'all-in con un risultato finale davvero ottimo, dopo aver compreso che la via del successo è quella di far tesoro delle influenze e dell'esperienza per ricercare un proprio stile. Si può dire che i nostri si siano scrollati di dosso il cliché basato sui volumi e il muro sonoro, lavorando su quel groove che rapisce l'ascoltatore e te lo fa tenere stretto come un seguace pronto a seguirti ovunque tu vada. Già forti di una sezione strumentale solida e creativa, la parte vocale li aiuta a spiccare tra le tante band che affollano l'ambiente stoner/doom/sludge e la cordata di etichette a supporto, spingerà al massimo questo nuovo album. La versione che abbiamo ricevuto è quella digisleeve, ma lo troverete anche su un godurioso doppio LP da 180 gr. con un fitto merchandising fatto di t-shirt, cappelli e quant'altro. L'artwork è spettacolare, curato dagli stessi Rosario che hanno optato per il classico bianco e nero dal tema lugubre e vintage. Ma passiamo ai brani, cuore pulsante di questo full length dove tutto inizia con "To Peak and Pine", una bordata stoner/sludge dall'impronta heavy metal/thrash che i nostri padovani si portano dietro come bagaglio musicale di chi suona da qualche anno. La sezione strumentale, nonostante sia trascinata dai possenti riff delle chitarre, esce in maniera piena e maestosa, ricordando i Mastodon per i suoni azzeccati e gli arrangiamenti. Subito si viene coinvolti dal cantato, una voce ruvida e potente che si destreggia con classe e riesce a rincarare la dose nei passaggi cruciali del brano. Un brano carico, trascinante e messo in apertura al disco per mettere subito in chiaro che i Rosario sono qui per picchiare duro puntando su brani ben fatti, come il successivo "Vessel of the Withering". L'introduzione è perfetta nella sua semplicità, gli arpeggi di chitarra al limite del ambient/post rock sono il cancello che ci permette di accedere al mare di oblio che i nostri faranno attraversare con il loro vascello fantasma. Le note dissonanti instillano ansia e desiderio di fuga che portano al ritornello, ma poi si innesca un cambio di ritmo dove batteria e basso la fanno da padrone, martellando a più non posso e giocando su stop & go che danno dinamicità al brano che supera abbondantemente i sei minuti. Le accelerazioni ricordano la scuola thrash death di Pantera e Sepultura, ove velocità e dinamica ci conducono fino alla fine provati ma con il sorriso sulle labbra. Arriva il turno di "Radiance" e la vostra sanità mentale verrà messa alla prova definitivamente con un'introduzione dal sapore quasi grunge e southern rock, ove le chitarre duettano con il cantato trasognante e onirico che ci porta nella fredda notte del deserto sotto un cielo stellato. Un momento intimo e spirituale che ad occhi chiusi innesca la risonanza delle vostre molecole che seguiranno il crescendo e la successiva esplosione distorta. Gli arrangiamenti permettono di apprezzare appieno l'evoluzione del brano che pulsa, si allunga e poi ritorna su suoi passi, coinvolgendo l'ascoltatore che rende grazie anche per suoni sempre all'altezza. Ma i Rosario sono anche dei vecchi thrasher che badano al sodo e alla botta, come in "Monolith", dove corrono veloci e senza freni, ma sempre con un taglio personale. Particolare e ben riuscita anche "Dawn of Men", un ritorno alle origini tra chitarre acustiche e vocalizzi, con la band che si spoglia dei suoni pesanti ed elettrici per alleggerirsi e tornare, anche se per poco, ad una musica primitiva che va ascoltata e non capita. L'album chiude con "And Then... Jupiter", altro pezzo complesso dalle sonorità a cavallo tra post metal e stoner/doom, a conferma che i Rosario hanno lavorato tanto e duramente per centrarsi interiormente e trovare la propria identità nel vasto panorama musicale di questo momento storico. Non ho dubbi, un album bello ed appagante, meritevole di un ascolto attento per essere apprezzato in toto, cosi come pure i live della band che regalano trip lisergici ad alto contenuto di watt. (Michele Montanari)

(Brigante Rec/Dio)) Drone/Electric Valley/In the Bottle Records/Taxi Driver
Red Sound Records - 2016)
Voto: 85

https://rosariomusic.bandcamp.com/

lunedì 5 dicembre 2016

Guns Love Stories - The Beauty of Irony

#PER CHI AMA: Alternative Rock/Post-Hardcore
Anche la Svizzera vuole aver voce nel panorama musicale mondiale ed i Guns Love Stories (GLS) lavorano duro dal 2011 per produrre un buon alternative rock/post-hardcore. 'The Beauty of Irony' è il secondo LP del quartetto di Lucerna che si presenta come un digisleeve semplice (c'è anche la versione in vinile), con una bella grafica con predominanza del color rosso. I brani contenuti sono nove per un totale di circa trenta minuti, quindi brani tendenzialmente brevi, che vanno dritti al dunque e puntano sull'impatto sonoro. "Predigested Hollywood" apre l'album con una bella scarica di rock palpitante di chitarre, basso, batteria e voce mescolati a dovere, sempre in bilico tra potenza e fraseggi quasi pop, giusto per accontentare un po' tutti. Il timbro vocale è adatto, fresco e giovane, e si presta bene a diventare rabbioso quando serve. La parte strumentale viaggia compatta puntando più sulla coralità che ai singoli elementi, creando una fusione ben fatta e credibile. "Backstabbing" ha un appeal inizialmente suadente e quasi sensuale, dotata di un crescendo che sfocia irrimediabilmente nella classica accelerazione, per poi tornare alla calma da cui è originata. Un pop rock dalle forti influenze d'oltreoceano che diventa più -core nell'allungo finale per rimanere fedeli alle radici della band. La flessibilità dei GLS tra melodie rabbiose e meno estreme è evidente in "The Birds Keep You Awake", brano che sfodera una chitarra acustica che ci porta dritti in spiaggia davanti ad un bel tramonto rosso fuoco durante lo spring break, una ballata tranquilla per spezzare l'alto livello di adrenalina di un brano come "Defense Mode", dove i veloci riff ruggiscono e i pattern di batteria sono fondamentali per il sound della band elvetica. Piacevoli i momenti introspettivi della traccia, con l'unica pecca rappresentata da un cantato a volte ripetitivo, anche se lo stile del vocalist è buono e ricalca altre band del genere. Buoni anche gli arrangiamenti che denotano un lavoro puntiglioso di composizione, cosi come pure la qualità di registrazione e mixing, con suoni sempre adatti. I GLS alla fine sono un ensemble interessante, che ha cercato di introdurre la propria personalità propositiva nella musica che scrive, la grossa difficoltà sarà semmai che i quattro ragazzi dovranno sgomitare non poco tra le tante band sul mercato, ma con una marcia in più, potranno giocarsi le carte giuste e arrivare lontano. (Michele Montanari)

mercoledì 16 novembre 2016

Demikhov - Experimental Transplantation of Vital Organs

#PER CHI AMA: Noise/Drone/Experimental
Demikhov Vladimir fu un chirurgo russo del '900, pioniere delle trapiantologia, infatti viene ricordato per i suoi innumerevoli esperimenti, tra cui il trapianto della testa di un pastore tedesco morto in un incidente prima di essere sottoposto alla stessa procedura per il cuore. Demikhov è anche il moniker di una band di Desenzano (Brescia), per l'esattezza un trio formato da basso/chitarra/batteria dediti a "musica brutta fatta di fuzz e martello" (come dichiarato dai nostri). Lunga la lista delle label che hanno prodotto/supportato la fatica del terzetto lombardo (le prolifere Dio Drone e Cave Canem D.I.Y. tra gli altri), contenuta in un bel digipak dalla grafica vintage. Il disco contiene otto brani che navigano nelle acque del noise/post hardcore/sludge non cantato, un mix di malessere sia a livello di suoni che di arrangiamenti. L'obiettivo del trio bresciano è di colpire, infastidire e lasciare il segno in questo panorama musicale che offre infiniti prodotti musicali per tutti i gusti. Nonostante il progetto sia strumentale, l'impatto sonoro sconvolge e attira l'ascoltatore negli oscuri meandri della mente, tra pazzia e genialità, dove spesso il confine è talmente sottile che è impossibile discernerlo. "Accumulating Failures Magnifies Your Heads’ Collection" ha un incipit vigoroso con una batteria scalciante e feedback di chitarra che ricordano il format dei Bachi da Pietra, una devastazione totale, che emerge proprio da una scelta oculata in fase di registrazione. Dimenticate quindi le finezze dell'era digitale, e fatevi violentare da quel sound grezzo e cattivo che vi riporterà indietro nel tempo di almeno una decade. Mentre basso e batteria continuano su questa linea pulsante, la chitarra lascia gli accordi e si impegna in riff arpeggiati dal suono etereo e lugubre. L'atmosfera diventa meno opprimente grazie al lungo break centrale al limite del drone, poi il crescendo ci prepara al terrore angosciante che esplode e ci conduce fino alla fine del brano ma con qualche neurone in meno. Quasi nove minuti di terapia a base di elettroshock. "My Mind Master Mystic Mademoiselle" inizia con fievoli rintocchi seguiti da un muro di distorsione in puro stile Sunn O))) che ci fa sprofondare nel grembo della lentezza per buona metà del brano. Ad un certo punto il batterista e il bassista vengono colti da un raptus per cui iniziano a martellare in maniera ossessiva, portandoci alla classica esplosione di noise e perdizione, una sorta di Hate & Merda senza voce. Un buon album questo 'Experimental Transplantation of Vital Organs', fatto di suoni giusti e da un concept ben studiato. La scelta della via strumentale funziona e i Demikhov si aggiungono all'ampio stuolo di band che perseguono il genere. A questo punto vincerà chi riuscirà a reinventarsi, staccandosi dagli schemi con soluzioni diverse, anche non convenzionali. Mi immagino già sperimentazioni con strumenti a fiato, archi, voci femminili, elettronica anni '80, sarà necessario solo trovare il coraggio di provare e non temere di uscire dal coro. (Michele Montanari)

(Dio Drone / Toten Schwan / Vollmer Industries / Brigante Records and Productions / Koe Records / Cave Canem D.I.Y. / I Dischi del Minollo - 2016)
Voto: 75

https://demikhov.bandcamp.com/

sabato 29 ottobre 2016

This Burning Day - Elemental

#PER CHI AMA: Metalcore/Djent, Tesseract
La scena rock/metal bulgara, questa sconosciuta: non riesco nemmeno a citare glorie passate e presenti del fiero paese dell'est Europa (chiedo venia per questo), quindi nella mia valutazione, mi sono basato più in generale sulla scena mondiale che ha influenzato la band di Sofia. I This Burning Day (TBD) nascono nell'inverno del 2011 nella capitale bulgara e hanno alle spalle la produzione di diverse tracce, ma solo dopo svariati live e festival, decidono di ritirarsi in studio per date alla luce il loro primo EP, 'Elemental'. I tempi lunghi di gestazione sono stati probabilmente investiti per affinare i suoni, gli arrangiamenti e riallineare gli obiettivi quando qualche elemento della band ha deciso di lasciare il progetto. I risultati sono sicuramente ottimi, a livello di sound i TBD raggiungono livelli professionali, non avendo nulla da invidiare a grandi nomi come Bring Me the Horizon, Tesseract e tutta la scena metalcore e djent da cui traggono ispirazione. Il quintetto è infatti cazzutissimo, con chitarre veloci e aggressive accompagnate da un basso che ricalca le linee melodiche, ma che insieme alla furente sezione ritmica, regalano brani incisivi e variegati. Il vocalist supera perfettamente la prova, districandosi tra un cantato melodico, growl e scream senza battere ciglio, aiutato da seconde voci che, messe nei punti giusti, aumentano l'impatto sonoro delle tracce. "A Former Life" è il concentrato di quanto appena detto, con i suoi quasi cinque minuti ben sviluppati con un'ottima contrapposizione tra sezioni ad alto contenuto di tensione ed oscurità che si risolvono in allunghi ariosi e distesi con ottima sinergia delle parti. Gli spunti elettronici aiutano nel complesso, anche se non sono determinanti, necessiterebbero di più spazio per esprimersi al meglio. Questo succede in "If You Feel the Same", in particolare verso la fine quando una timida tastiera tesse un semplice rintocco di note che, ricche di riverbero, evocano un suono astrale ed etereo. Gli assoli e i riff di chitarra sono come ci si aspetta, ma non diamo per scontato cotanta tecnica e varietà, anche se il livello generale degli ultimi anni è in netta crescita. Registrazione, mix e mastering sono da manuale, sarei curioso di ascoltare un live e vedere se tutto ciò è almeno in parte sostenibile fuori dall'ambiente ovattato e sicuro dello studio di registrazione. Dopo aver ascoltato i video della band sul tubo, sembra essere proprio cosi, e allora il quintetto può dirsi maturo anche in questa parte. Ben fatto il digipack e leggendo anche i testi, si nota la cura nel ricreare atmosfere oscure dove, tra ambientazioni urbane e opprimenti, lo spirito cerca una via di fuga e un modo per riscattare un'esistenza apparentemente circondata da sofferenza. Una band che dopo aver fatto i compiti per casa, ovvero aver studiato per bene la scena metalcore/djent attuale, ora è pronta a contribuire con la propria creatività. Speriamo sia così, sarebbe una gran bella sorpresa per il full length che arriverà, prima o poi. (Michele Montanari)

(Self - 2016)
Voto: 75

lunedì 24 ottobre 2016

Monkey3 - Astra Symmetry

#PER CHI AMA: Stoner/Prog Rock
I Monkey3 sono tornati e con molto piacere ho avuto modo di ascoltare il nuovo album da poco uscito, 'Astra Symmetry', gentilmente fornitomi direttamente dalla band. Per chi non li conoscesse, i Monkey3 sono una band svizzera nata nel 2001 che ha all'attivo quattro album, tra cui 'The 5th Sun' uscito nel 2013, osannato dalla critica internazionale come un masterpiece nel genere prog/stoner rock strumentale. La band infatti ha calcato i palchi dei più grandi festival sempre con ottimi riscontri da parte del pubblico. Le nostre scimmie tornano dopo tre anni di incubatrice sonora e sfornano un lavoro monumentale, un concept album incentrato sui quattro elementi fondamentali e le costellazioni che popolano il nostro cielo. La versione digitale pervenutami è infatti divisa in quattro cartelle (fuoco, aria, acqua e terra) per un totale di dodici brani che vanno dai quattro minuti scarsi agli otto abbondanti. Il quartetto, composto da batteria, basso, chitarra e tastiere, ha rivoluzionato il proprio sound, diventando più riflessivi nella composizione, concedendo largo spazio alla psichedelia stile Pink Floyd come ad esempio accade in "Arch". Un trip che parte da un'intro lunghissima, fatta di suoni drone a cui si aggiungeranno batteria e basso per costituire una colonna sonora eterea e liquida. Le chitarre entrano con calma, con feedback ed effetti space a rincarare la dose e quando la nostra mente è ormai sull'orlo dell'oblio senza fine, arriva l'esplosione ritmica con un assolo "gilmoriano" che vi farà scorrere un brivido lungo la schiena. "Seeds" esplora i confini del prog, ritornando ad un rifferama più vicino ai precedenti album, ma caratterizzato da una minor arroganza e da una certa ariosità, con uno studio maniacale dei suoni che rivestono un ruolo di pari importanza con quello delle linee di chitarra. La struttura infatti è articolata e segue un'evoluzione dinamica, sempre mantenendo un'impronta più introspettiva. Anche "Dead Planet's Eyes" segue questo filone, con archi che danno un tono epico, stavolta supportati da un cantato che si destreggia bene sulle note, dosando sapientemente dinamica e timbrica. Le ascese delle tastiere lasciano libertà alla chitarra che non deve occuparsi dei tappeti sonori e quindi tornano a srotolare i assoli classici del genere, decisamente ben fatti. Probabilmente il miglior brano se dovessimo sceglierne uno, ma preso da solo non ci fa apprezzare appieno le diverse sfaccettature che i Monkey3 hanno scolpito in questo 'Astra Symmetry'. "Crossroad" è inizialmente un brano più oscuro, viscerale, caratterizzato da chitarre più aggressive e da un cantato spirituale che ricorda gli OM. Poco dopo il mood cambia, come una raggio di luce che trafigge la spesse nubi e riporta la vita su un terreno sterile che aspetta solo una scintilla per ritornare rigoglioso. Con "Mirrors" la band affronta invece la psichedelia/prog degli anni '70, con chitarre leggere (anche acustiche) e un flauto sintetizzato che trasuda atmosfere folk da tutti i pori. Dopo circa settanta minuti di musica, possiamo dire che i Monkey3 sono cresciuti proiettandosi in avanti, lasciando (per il momento) indietro sonorità più aggressive, per regalare un album corposo, mistico e maturo, una intelligente evoluzione del loro sound e non un cambio di rotta. Evviva Darwin. (Michele Montanari)

(Napalm Records - 2016)
Voto: 80

https://www.facebook.com/monkey3band/

venerdì 7 ottobre 2016

Higher Than - Purgatory Airlines

#PER CHI AMA: Hard Rock
Gli Higher Than sono un quintetto parigino di recente formazione nato, come spesso accade, dalle ceneri di un'altra band che vedeva coinvolti alcuni dei musicisti in questione. 'Purgatory Airlines' è il loro album di debutto, tredici brani di puro hard rock che trasuda stile e suoni anni '80-90, arricchito da samples e qualche linea di synth sparsa qua e là. Sulla scia del titolo, la band ha incentrato grafica, testi e foto a tema aeronautico, quasi a voler sentirsi come gli Iron Maiden con il loro gioiello Ed Force One. Idea carina, con la giusta dose di teschi e angeli a completare l'appeal arcano e mortuario. Ma passiamo alla musica e buttiamoci a capofitto nell'ascolto di questo lavoro. Quando menzionavo Iron Maiden, la similitudine era abbastanza azzeccata, i brani ricordano icone come Judas Priest, Motley Crue e Skid Row. Ritmiche veloci, distorsioni compatte e vocalist dalla timbrica squillante completano il format, un prodotto fuori dal tempo considerando il trend musicale di questi tempi. "Broken Tales" è il perfetto riassunto di quanto appena detto, un brano veloce e carico, con un susseguirsi frenetico di riff, acuti e cori che ci fanno venir voglia di tirare fuori i vecchi gilet di jeans tappezzati di patch storiche. La perfetta colonna sonora di un vecchio film pieno di chopper e belle donzelle scosciate che ti attirano languidamente dondolandoti davanti agli occhi una bella bottiglia di Jack Daniel's. Un concentrato di testosterone che si mischia a qualche accrocco moderno, infatti i samples trovano si spazio, ma non riescono ad emergere e sembrano degli orpelli messi a forza su una struttura ben fatta. La title track cambia leggermente rotta, con distorsione più moderne, arrangiamenti meno vintage, ma sempre con un feeling che richiama l'hard rock dei tempi d'oro. La progressione musicale si sposta sullo stile dei Def Leppard con una sfumatura di malinconia, come se il viaggio verso il purgatorio non sia proprio in business class. La ballad che gli Higher Than includono in questo full length è "Near & Far", un'ottima prova con chitarra acustica ad ottimi livelli, quasi a voler bissare una hit come "More Than Words" degli Extreme. L'aggancio alla parte elettrica arriva comunque presto, con tanto di aggiunta di archi a pompare ancora di più il pezzo. Il resto dei brani si conferma ben equilibrato a testimoniare che la band padroneggia il sacro fuoco del rock e non ha paura di confrontarsi con le molte band che li hanno preceduti e le poche che continuano su questo filone. E hanno ragione, 'Purgatory Airlines' alla fine è un buon album che non ha grossi difetti se lo si assapora con la voglia di ascoltare un classico del genere. Vista la voglia di introdurre elementi moderni come synth e loop vari, se i nostri credono in questo approccio per svecchiare la loro musica, allora è meglio impegnarsi di più e tirar fuori soluzioni più convincenti. (Michele Montanari)

domenica 2 ottobre 2016

Psykokondriak - Gloomy Days

#PER CHI AMA: Rap Rock, Rage Against the Machine
In passato diverse band hanno saputo fondere rock ed hip pop con risultati interessanti e su quest'onda, i Psykokondriak o P3K, hanno pensato bene di lanciarsi nella loro avventura musicale, iniziata all'incirca nel 2012, quando produssero il loro primo EP 'Hopital PsyKotrip'. Questo 'Gloomy Days' è un album che contiene dieci tracce, avvolte dal classico cd sleeve cartonato dalla grafica dark-comics. Mi sono lasciato trasportare dalla musica del sestetto francese (originario di Lille) dove è evidente il loro amore spassionato per RATM, Run DMC e Beastie Boys. Una band nata per far ballare la gente nei club o ai festival, mentre i due vocalist si divertono con il loro free style (molto ben fatto), accompagnati dalla tradizionale line-up chitarra/basso/batteria e un Dj. Le vagonate di funky arrivano con "The Fine Art of Terror" con un'intro azzeccata e ballerina, mentre le doppia voce rincara la dose e lo scratch impazzito è un buon sostituto degli assoli alla Tony Morello. La struttura del pezzo è classica, ben dosata e piacevole da ascoltare con allunghi ed esplosioni al punto giusto per trascinare l'ascoltatore. L'intro all'album " Introducing the Body Boys" è in pieno Beastie Boys style al 100%, con quella musicalità tipicamente West coast degli anni 80/90. Settantacinque secondi al top, ben rappresentati da una qualità sonora di registrazione, missaggio e mastering degna di una band ben avviata a livello di carriera. Andando avanti con i pezzi, approdiamo a titoli come "Think it up" dal freestyle roboante e "Hot Day, Hotter Night", più rilassata all'inizio, ma pronta ad esplodere a suon di riff veloci e graffianti. Il suono della chitarra è perfetto per il genere dei P3K, potente il giusto, senza cadere in sonorità troppo pesanti che avrebbero estraniato il genere, giusta anche la sezione effetti che va dal wah-wah, flanger/phaser e quant'altro. L'aggiunta del Dj poi alla formazione permette alla band di essere d'impatto anche durante i loro live show, aspetto non da sottovalutare per un gruppo che vive per suonare davanti ad una folla scatenata. Come per i RATM, basso e batteria sono fondamentali per costruire la spina dorsale dei brani, soprattutto quando la chitarra lascia volentieri spazio alla sezione ritmica, capendo che a volte è meglio togliere che aggiungere. Finalmente qualcuno ha capito come sfruttare questa potente arma compositiva. Fantastica infine l'outro elettronico che chiude questo ottimo 'Gloomy Days', un disco ben fatto e di qualità che spicca tra le produzioni rap/rock e affini al momento disponibili sul mercato. Da tenere sott'occhio. (Michele Montanari)